1.COMME
CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad
litteram: Se ci atteniamo al suono della
zucca, Pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le
cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un
curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con
il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano,
nottetempo sottraeva parte delle
elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí
che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe,
né è dato sapere se scoprí mai il ladruncolo.
2. COMME
PAGAZZIO, ACCUSSÍ PITTAZZIO
Ad
litteram: Come sarò pagato, cosí
dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un
lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo,
tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile
latino fu riportata da F.A.S. GRUE: Francesco Antonio Saverio (1686-†1746),
figlio di Carlantonio, che preferí la pittura di figure, famosissimo artista appartenente alla famiglia
Grue, famiglia di ceramisti
di Castelli (Teramo). Il caposcuola fu Carlantonio (1655-†1723), figlio di Francesco Antonio,
che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie
sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola
napoletana contemporanea. Francesco Antonio Saverio fu noto per i suoi vasi di maiolica, e come détto
riportò la frase in epigrafe su di un’antica albarella détta di san Brunone.
3. CAPURÀ
È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad
litteram: caporale, è morto l’elefante!
Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute
mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la
frase in epigrafe a Napoli si vuol
significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione
viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi,
continui a darsi delle arie o si attenda
onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700,
allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un
elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia
per il compito ricevuto al quale annetté
grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che
andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco
però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel
museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir
meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva
le viste di dimenticarsi di non essere piú
il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito
gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti
coloro che senza motivo si mostrino
boriosi e supponenti.
4. CÀNTERO
SPETENATO - CESSO A VVIENTO.
Ad
litteram: Pitale spatinato - cesso a
vento. Coppia di icastiche contumelie
che a mo’ di offesa vengon rivolte
a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir
paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la
sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo
troneggiavano lungo le strade per
dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi
fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola
delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio
contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza
preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo
pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú
adatta) che oggi conosciamo, ma era un
alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno
di una lucente patina, vaso dall’ampia e
comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la
prensione; sulla larga bocca ci si
poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto
anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani,
all’indomani del 1860, icasticamente si’ peppe
con chiaro riferimento al gen. Garibaldi,
troneggiava in tutte le case ,ma
anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali
erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per
metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione
fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è
invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva
porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa
che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo
a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
càntero =
grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che
è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero o càntaro alto e vasto
cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a
contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò
ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro
(che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e
significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di
misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto
napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio
sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel
culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti
napoletani sprovveduti e poco informati
confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu
càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che
un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con
un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
5. CORE
CUNTENTO Â LOGGIA.
Ad
litteram: Cuor contento alla Loggia.
Cosí a Napoli si suole appellare chi si dimostri sempre allegro, spensierato, buontempone al segno d’apparire di non aver mai pensieri di sorta che possano
preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe,
il medesimo che temporibus illis si
meritò lo scrittore nolano Michele Somma
che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo
scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della
Loggia de’ Genovesi dove la colonia
degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
6. COPPOLA
Ê DENOCCHIE!
Ad
litteram: coppola alle ginocchia È
questo il modo piú cogente per suggerire il saluto piú deferente possibile,
consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle
ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da
rispettare.
Preciso
qui che taluno erroneamente non lègge l’
ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge -
errando- come congiunzione E e
stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo
scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un
cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il
napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi
ad oggetti di culto.
7.
CURNUTO E MAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo
di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il
povero ovino assurto a modello ed
emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica e cruda, piú
estesamente si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e
murette scannato id est: (è
veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la
medesima sorte cioè del marito tradito
che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a
agg.vo
m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo (volg.)
persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv.
di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito,
bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile in
quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa
serie di percosse; quanto
all’etimo è un derivato de l lat. mattea = bastonr, randello;
sciorta s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che
sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto)
etimologicamente dal lat. sorte(m) con
il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo,
simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque;
voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
murette = morí; voce
verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato = sgozzato,
ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito
scannà denominale di canna= gola
(dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto
e mazziato fu adoperata per
addolcire quasi la più cruda curnuto
e scannato.
8. COMME
‘A VIDE ACCUSSÍ ‘A SCRIVE
Ad
litteram: come la vedi cosí l’annoti. Id est:(Della persona o
cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si
presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva
annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era
palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava
andare oltre ciò che apparisse ad un primo esame.
9. CHI
‘NFRUCE, NUN LUCE
Ad
litteram: Chi accumula stipando(beni e/o
danaro)non rifulge . Id est: L’avaro, a malgrado possieda molte ricchezze
messe via raccogliendone in quantità, non risulta risplendente, smagliante,
lucente, rilucente davanti al prossimo in quanto non riesce a godere appieno
dei beni accumulati atteso che non ne usa o mette in mostra nel timore che
l’esposizione induca i malintenzionati a sottrarglieli.
‘nfruce
=
accumula, stipa voce verbale 3ª p. sg.
ind. pr. dell’infinito ‘nfrúcere =ammassare, stivare, assembrare [lettura
metatetica ed aferizzata con ritrazione d’accento(tipica del lat. parlato e
volgare) e cambio di coniugazione del
lat. infulcíre→(i)nflúcire→’nflúcere→’nfrúcere].
luce = riluce,risplende voce verbale 3ª p. sg. ind. pr.
dell’infinito lúcere che è dal lat.
lucère con ritrazione d’accento(tipica del lat. parlato e volgare)
R.Bracale
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