LISCEBBUSSO/LISCIABBUSSO
Questa volta, mi soffermo a parlare delle voci in epigrafe o meglio del sostantivo liscebbusso riportato anche con una piccola variante morfologica, voce che appartiene anche ai linguaggi siculi e calabresi ( dove è liscibussu/liscebusso);
Ora sia che si tratti di liscebbusso o lisciabbusso o anche liscibussu/liscebusso la parola vale sempre rabbuffo e poi ramanzina molto energica, strapazzata, paternale, rampogna, sgridata fino a giungere estensivamente anche solenne bastonatura.
Prima di addentrarmi su etimo e semantica della parola in epigrafe faccio notare che essendo attestata nel parlato di napoletani, calabresi e siciliani (ma non mi stupirei di ritrovarla anche sulla bocca di pugliesi e lucani) è fuor di dubbio che la voce sia nata nel meridione d’Italia, quantunque sul web mi è occorso di leggere testualmente di un giornalista e cioè tal Sergio Di Giorgi che non mi risulta essere un meridionale, ma non chiedetemi di piú : personalmente "lisciabusso" lo uso e lo sento usare in contesto italiano col significato di "aspro rimprovero, strigliata. Se dunque è degno di fede tale Di Giorgi, comincio a sospettare che la voce meridionale liscebusso/lisciabusso sia usata non solo nel meridione, ma anche altrove e non farà meraviglia se prima o poi finirà per essere accolta nella lingua nazionale come già sta accadendo per il verbo partenopeo rizelare/rizelarsi = adontarsi (vedi alibi) e come da lunga pezza è avvenuto per voci quali: guaglione,guappo, vongola,scarola, sfogliatella, camorra etc.tutte voci in origine del napoletano, poi trasmigrate nell’italiano.
Ciò détto entro in medias res circa l’etimo e la semantica della voce a margine.
È fuor di dubbio e me lo confermano quei pochi vocabolaristi napoletani (Altamura, D’Ascoli, Malato,de Falco) che prendono in considerazione la voce (quantunque nessuno di essi, con mia somma meraviglia, azzardi un’idea o un percorso semantico...) è fuor di dubbio dicevo che la voce sia mutuata dal linguaggio dei giocatori di tressette (antichissimo giuoco di carte nato nel Reame (1700 circa cfr. Chitarrella, prete napoletano che nel 1750 pubblicò la prima edizione di un suo trattato, scritto in latino e poi tradotto in napoletano, con le regole del mediatore, del tressette e dello scopone. ) e dal Reame diffusosi non solo in Italia ma anche in altre aree geografiche come in Croazia (dove si gioca nelle aree costiere e sulle isole con il nome croato di trešeta(palese adattamento di tressette, utilizzando carte triestine), in Slovenia e in altre nazioni dove la sua diffusione fu dovuta per lo piú o alla presenza di comunità di immigrati originarie dei paesi dove il gioco è praticato, o piú anticamente ad opera di marinai e/o pescatori napoletani o della provincia partenopea). Rammenterò, per quei pochi che non lo conoscessero e per poter illustrare l’origine della voce a margine,che nel predetto giuoco la carta con il maggior valore (1 punto) è l’asso, mentre tutte le figure e le carte ad esse equiparate (2 e 3) valgono solo 1/3 di punto cadauna e che l’asso pur di valore superiore, può esser catturato o dal 2 o dal 3; rammenterò altresí che a malgrado si dica che il giuoco del tressette ( che per incidens, à tale nome perché in origine per vincere la partita occorreva vincere tre mani totalizzando in ognuna sette punti: tre per sette = ventuno che sono i punti necessari per vincere la partita...giocata con le regole di base e senza sciocchi arzigogoli quali i punti di accussa che vengono assegnati, in aggiunta a quelli lucrati sul campo, a quei giocatori in possesso delle carte migliori. Questa faccenda di assegnare punteggi aggiuntivi a chi abbia già carte buone, anzi buonissime, se non migliori mi pare una delle cose piú stupide che si possa pensare o ideare; mi spiego: un giocatore per sua buona sorte ( e dico buona sorte in (luogo di mazzo o culo) per parlare eufemisticamente...) è già in possesso di carte che gli assicureranno numerose prese e forse quasi certamente la vittoria finale,invece di comminargli un punteggio di handicap, gli si assegna ad abundantiam un punteggio suppletivo. Non ci siamo! È una faccenda stupida che mi à fatto non amare il tressette e preferirgli lo scopone scientifico... Ma questo è un altro paio di maniche...; torniamo a bomba. ) Dicevo che a malgrado si dica che il giuoco del tressette sia stato ideato da muti, oggi nel corso della partita si parla e talvolta anche eccessivamente... In effetti in origine ai giocatori era consentito segnalare al proprio compagno ed ovviamente agli avversari, il possesso di alcune carte, solamente con dei segni ed ugualmente solo con dei segni si poteva chiedere al compagno di rispondere alla giocata con una determinata carta (ad es.: bussare una volta sul tavolo con le nocche delle dita equivale a dire: sono in possesso del tre del seme che sto per giocare: bussare due volte sul tavolo con le nocche delle dita equivale a dire: sono in possesso del due del seme che sto per giocare; strisciare o lisciare piú o meno ripetutamente una carta e súbito dopo bussare una volta equivale a dire: sono in possesso dell’asso del seme che sto per giocare; A seconda poi delle volte che si liscia/striscia la carta significa che l’asso è accompagnato e difeso da piú o meno numerose figure e/o cartine.) Dicevo che in origine ai giocatori era consentito segnalare al proprio compagno ed ovviamente agli avversari, il possesso di alcune carte solamente con dei segni ed ugualmente solo con dei segni si poteva chiedere al compagno una particolare richiesta di carta, poi ai gesti si accompagnò la voce per cui chi volesse dire: sono in possesso del tre del seme che sto per giocare, poteva accompagnare il gesto di picchiare una volta sul tavolo, annunciando pleonasticamente busso; chi volesse dire: sono in possesso del due del seme che sto per giocare, poteva accompagnare il gesto di picchiare due volte sul tavolo, annunciando pleonasticamente ribusso; e chi volesse dire: sono in possesso dell’asso del seme che sto per giocare poteva strisciare/lisciare piú o meno ripetutamente una carta e súbito dopo bussare una volta aggiungendo pleonasticamente liscio e busso.
Va da sé che chi sia in possesso dell’asso accompagnato solo da poche figure e/o cartine corra il rischio di vedere prima o poi cadere il proprio asso nella... bocca del 2 o del 3 che siano nelle mani dell’avversiaro e si trovi perciò in una situazione precaria, prodromica di una solenne sconfitta/perdita tale da poter essere considerata come una strapazzata, paternale, rampogna, sgridata o addirittura una sonora bastonatura.
E questa mi appare la miglior via da tenere per spiegare semanticamente il riferimento del sostantivo liscebbusso/lisciabbusso alla corrispondente voce del giuoco del tressette.
Linguisticamente poi il sost. liscio e bbusso donde liscebbusso/lisciabbusso risulta essere l’agglutinazione di due voci verbali:1) liscio (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito lisciare derivato dal lat. volg. *lisiare, prob. voce di orig. espressiva; 2) busso (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito bussare derivato dal lat. volg. pulsare,intensivo di pellere.
Aggiungo che il napoletano accanto al sostantivo liscebbusso/lisciabbusso à anche l’ aggettivo liscio e sbriscio→liscesbriscio che vale squattrinato, misero, povero, senza soldi aggettivo affatto diverso dal sostantivo a margine con il quale non à nulla in comune e con il quale non va assolutamente confuso, essendo le due voci molto diverse anche per ciò che concerne l’etimo; di liscebbusso/lisciabbusso ò già detto ed ò parlato di agglutinazione di due voci verbali, diverso è il caso liscio e sbriscio→liscesbriscio che come etimo risulta l’agglutinazione di due aggetti: 1) liscio che sta per liso= consunto, logoro (derivato dal lat. volg. (e)lisu(m), part. pass. di elide°re 'rompere' 2) sbriscio che sta per sbricio= meschino, ridotto male, malandato con derivazione dal lat. volg. *brisare 'rompere'; normale sia per liscio che per sbriscio il passaggio in napoletano di s seguita da vocale a sci+ vocale.
In chiusura e per fare un passo all’indietro con riferimento al tressette riporto qui di sèguito una mia poesiola inedita
A ‘nu jucatore ‘e tressette.
Mo t’aggiu overamente scanagliato
e sulo mo cernenno crusca ‘a sciore
m’hê fatta ‘na grattata addó me prore...
Fino a mez’ora fa îve smammato
d’essere jucatore patentato
capace ‘e tené ‘e ccarte a servitora
specie a tressette e guappo e prufessore
mettive tutte sotto, una vutata...
E grazie... a orazio... tutto s’è chiarito
quanno t’aggiu ‘mmitatato a ffà ‘o scupone
‘nu juoco serio overo e sapurito
addó nun conta ‘o mazzo e a bbon raggione
vence chi joca bbuono e asciutto asciutto
nun serve de tené ‘o culo rutto!
Nun è ‘o tressette addó vence ‘a partita
chi è pigliatore ‘e carte e avenno ‘mmano
mappate ‘e tre, longhe e napulitane
fa ‘o guappo sempe... Chesto ll’hê capito
e vuó fà sulo chistu juoco lloco
‘stu juoco ‘e femmenielle affurtunate
e te nieghe ô scupone, a chistu juoco
addó – si nun saje jucà – piglie mazziate
e p’essere chiammato prufessore
hê ‘a jucà bbuono pure avenno ‘mmano
mmunnezza ‘e carte e no... napulitane!
raffaele bracale
9/09/08
sabato 29 novembre 2008
CIUCCIO - asino
CIUCCIO - asino
Per la voce napoletana a margine: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
E mi fermo qui, augurandomi di non aver detto eccessive asinerie!
Raffaele Bracale
Per la voce napoletana a margine: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
E mi fermo qui, augurandomi di non aver detto eccessive asinerie!
Raffaele Bracale
SCUGNIZZO
SCUGNIZZO
Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e per estens., ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare; il verbo scugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo alla cui trattazione rimando, in particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè capaci di scugnare ed abili a farlo.
Raffaele Bracale
Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e per estens., ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare; il verbo scugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo alla cui trattazione rimando, in particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè capaci di scugnare ed abili a farlo.
Raffaele Bracale
‘NTRALLAZZO
‘NTRALLAZZO
La voce in epigrafe, voce ormai pervenuta nella lingua nazionale (sia pure non aferizzata, ma nella forma di intrallazzo) con particolare riferimento d’ambito socio-politico, è voce non eccessivamente antica (risale infatti agli anni tra il 1940 ed il 1950)ed è di origine centro- meridionale: Abruzzo, Campania, Silicia; attualmente significa: imbroglio, raggiro, intrigo, ma originariamente stette per: scambio illecito di beni o di favori e con le voci: ‘nderlacce (abruzzese), ‘ntrallazzu (siciliano) e appunto ‘ntrallazzo o anche ‘nterlazzo (napoletano) si identificò dapprima il mercato o borsa nera e solo per stensione
l’ imbroglio, il raggiro,l’intrigo dapprima quelli generici, poi segnatamente – complice il linguaggio mediatico – quelli d’ambito socio-politico.
Di non tranquilla lettura l’etimologia della voce a margine;
dai più si pensa ch’essa derivi dal sicil. 'ntrallazzu 'intreccio, intrigo', a sua volta deriv. del lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio', ma – pur non potendo negare un’ evidente somiglianza tra il siciliano 'ntrallazzu ed il napoletano ‘ntrallazzo penso che per il partenopeo, più che ad un prestito siciliano, si possa risalire ad un antico tramite catalano: entralasar o anche un antico francese: entralacer ; sia il verbo catalano che quello francese furono forgiati sul precennato lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio'e valsero: impaniare, intralciare, avviluppare donde il significato di azione che si manifesti in un imbroglio, raggiro,’intrigo; va da sé che il mercato/borsa nera configuri il medesimo imbroglio, raggiro,’intrigo.
A questo punto non ci resta che discutere se sia stato il napoletano o il siciliano a cedere alla lingua nazionale il vocabolo in esame; ma sarebbe questione di lana caprina nella quale è inutile e pericoloso addentrarsi ed io evito di entrarvi.
In coda ed a margine di quanto detto sulla voce ‘ntrallazzo, rammenterò che essa (sebbene ciò talvolta – per mano di taluni operatori dei media, poco preparati-, accada) non va confusa con la voce partenopea nciucio che à dato l’italiano inciucio e vale intrigo, sobillamento, pettegolezzo ed in ambito politico-giornalistico: accordo confabulatorio non lineare, frutto di basso compromesso.
La voce nciucio risulta essere, etimologicamente un deverbale di nciucià a sua volta derivata da un suono onomatopeico (ciuciù)riproducente il parlottìo tipico di chi confabuli.
Partendo da tale premessa ne risulta che la n d’avvio di nciucio e nciucià risulta essere non derivante da un in illativo, ma una semplice consonante prostetica eufonica (come ad. es. è il caso di nc’è per c’è) ; erra perciò chi scrive ‘nciucio o ’nciucià con un pletorico ed inutile segno d’aferesi (‘); è l’italiano che à derivato (seppure in modo cialtronescamente raffazzonato, avendo pensato la n d’avvio, un residuo di in( che è stato erroneamente ricostruito) ) inciucio dal napoletano nciucià, non il napoletano nciucio ad esser derivato dall’ inciucio italiano (nel qual caso sarebbe stato opportuno e l’aferesi e la scrittura ‘nciucio).
Raffaele Bracale
La voce in epigrafe, voce ormai pervenuta nella lingua nazionale (sia pure non aferizzata, ma nella forma di intrallazzo) con particolare riferimento d’ambito socio-politico, è voce non eccessivamente antica (risale infatti agli anni tra il 1940 ed il 1950)ed è di origine centro- meridionale: Abruzzo, Campania, Silicia; attualmente significa: imbroglio, raggiro, intrigo, ma originariamente stette per: scambio illecito di beni o di favori e con le voci: ‘nderlacce (abruzzese), ‘ntrallazzu (siciliano) e appunto ‘ntrallazzo o anche ‘nterlazzo (napoletano) si identificò dapprima il mercato o borsa nera e solo per stensione
l’ imbroglio, il raggiro,l’intrigo dapprima quelli generici, poi segnatamente – complice il linguaggio mediatico – quelli d’ambito socio-politico.
Di non tranquilla lettura l’etimologia della voce a margine;
dai più si pensa ch’essa derivi dal sicil. 'ntrallazzu 'intreccio, intrigo', a sua volta deriv. del lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio', ma – pur non potendo negare un’ evidente somiglianza tra il siciliano 'ntrallazzu ed il napoletano ‘ntrallazzo penso che per il partenopeo, più che ad un prestito siciliano, si possa risalire ad un antico tramite catalano: entralasar o anche un antico francese: entralacer ; sia il verbo catalano che quello francese furono forgiati sul precennato lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio'e valsero: impaniare, intralciare, avviluppare donde il significato di azione che si manifesti in un imbroglio, raggiro,’intrigo; va da sé che il mercato/borsa nera configuri il medesimo imbroglio, raggiro,’intrigo.
A questo punto non ci resta che discutere se sia stato il napoletano o il siciliano a cedere alla lingua nazionale il vocabolo in esame; ma sarebbe questione di lana caprina nella quale è inutile e pericoloso addentrarsi ed io evito di entrarvi.
In coda ed a margine di quanto detto sulla voce ‘ntrallazzo, rammenterò che essa (sebbene ciò talvolta – per mano di taluni operatori dei media, poco preparati-, accada) non va confusa con la voce partenopea nciucio che à dato l’italiano inciucio e vale intrigo, sobillamento, pettegolezzo ed in ambito politico-giornalistico: accordo confabulatorio non lineare, frutto di basso compromesso.
La voce nciucio risulta essere, etimologicamente un deverbale di nciucià a sua volta derivata da un suono onomatopeico (ciuciù)riproducente il parlottìo tipico di chi confabuli.
Partendo da tale premessa ne risulta che la n d’avvio di nciucio e nciucià risulta essere non derivante da un in illativo, ma una semplice consonante prostetica eufonica (come ad. es. è il caso di nc’è per c’è) ; erra perciò chi scrive ‘nciucio o ’nciucià con un pletorico ed inutile segno d’aferesi (‘); è l’italiano che à derivato (seppure in modo cialtronescamente raffazzonato, avendo pensato la n d’avvio, un residuo di in( che è stato erroneamente ricostruito) ) inciucio dal napoletano nciucià, non il napoletano nciucio ad esser derivato dall’ inciucio italiano (nel qual caso sarebbe stato opportuno e l’aferesi e la scrittura ‘nciucio).
Raffaele Bracale
ARZIGOGOLO e dintorni
ARZIGOGOLO e dintorni
Con la voce in epigrafe arzigogolo ( con etimo derivato da girigogolo allungamento di girigoro secondo un percorso morfologico comportante la trasposizione di lettere nel primo elemento e ciò è: argi→arzi per giri) la lingua ufficiale nazionale intende volta a volta un discorso o un ragionamento astruso e lambiccato, una fantasticheria, un cavillo, un espediente dialettico, una trovata spesso truffaldina, ma ingegnosa, un giro di parole ingegnoso e bizzarro, un raggiro fuorviante, un pretesto etc.
La lingua napoletana per tali necessità à parecchie voci ed ognuna piú circostanziata ed esattamente coniata per indicare con maggior precisione ognuna delle suaccennate occorrenze; tento qui di sèguito di elencare tali voci partenopee dandone, ove possibile, l’etimo ed il preciso campo d’applicazione; cominciamo:
allefrecaglia/arrefrecaglia che nel significato di giro di parole ingegnoso e bizzarro, sono ambedue ampliamento di lefrecaglia deverbale del basso latino *refragare = cavillare, sminuzzare etc.;
ciaranfa che nel significato di discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo trova il suo etimo nell’adattamento popolare della voce ciaraffa che di per sé (con provenienza dall’arabo giarif) indica una moneta sonante, ma di poco valore e semanticamente la cosa si spiega col fatto che come la moneta ciaraffa è sonante,sí ma in realtà di poco valore, cosí la ciaranfa quale discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo, produce solo rumore, ma non significante e quindi senza valore;
‘mbròglia è una fantasticheria intrisa di parole eccedenti, un pretesto lungamente... diluito di chiacchiere tendenti al raggiro ed è quanto all’etimo un deverbale di ‘mbruglià= imbrogliare che a sua volta è dal fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', deriv. di brou 'brodo' e semanticamente si spiega essendo – come ò detto – la ‘mbroglia null’altro che una sequela di parole eccedenti, un pretesto di chiacchiere diluite tali quale un brodo;
pagliettaría è precisamente il cavillo, l’ espediente dialettico, la trovata quasi sempre truffaldina, ma ingegnosa, azioni che di per sé son tutte riconducibili al modo di agire dei cosiddetti paglietta voce singolare maschile che indica un avvocatucolo,un leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è – come ò detto- voce singolare maschile (‘o paglietta) nei significati detti ed è voce che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è maschile e per chiaro traslato o sineddoche indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi cioè che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune una paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto, in foggia di tamburo, bordato di nastro di seta, ampia e piatta tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…né meriterebbe d’esser rammentato ) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso, come riportato, quale avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca,e poi definitivamente dismesso, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo etc. è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 o dei primi del ‘900 avrebbe potuto reperire una gorgiera inamidata e plissettata da indossare sulla toga...
da paglietta con aggiunta del suffisso di pertinenza ria si è giunto a pagliettaría voce che per sua fortuna è rimasta nell’àmbito della lingua napoletana e non è pervenuto in quello della lingua italiana dove è pur presente la voce paglietta nel significato di avvocatucolo etc.; ò detto per sua fortuna poi che se la voce pagliettaría fosse approdata nel dialetto di alighieri dante sarebbe stata certamente stravolta in pagliettería= azione o comportamento da paglietta subendo lo stesso trattamento della voce partenopea fessaría che pervenuta nell’italiano divenne fessería assumendo una inesatta e chiusa e non etimologica al posto della esatta aperta a forse nella sciocca convinzione che una vocale chiusa fosse piú consona di una aperta alla eleganza (?) della lingua nazionale;
raciàmmulo voce singolare maschile usata per indicare un giro di parole ingegnoso e bizzarro e fuorviante che miri a nascondere verità altrimenti palesi; etimologicamente è un derivato del tardo latino *racimulus, diminutivo per il class. racímus; =gracimolo,ciascun rametto di un grappolo d'uva; piccolo grappolo d'uva; semanticamente si spiega col fatto che come il gracimolo si nasconde tra i pampini e copre a sua volta gli acini del grappolo, cosí il raciàmmulo tenta di non far apparire, nascondendole con giri di parole, talune verità altrimenti palesi;
scazzella voce singolare maschile (a malgrado della desinenza in a) usata esattamente per indicare non l’azione cavillosa, pretestuosa, capziosa quando non litigiosa, ma per indicare colui che agisca e si esprima cavillosamente, pretestuosamente, capziosamente; in effetti la parola a margine (‘o scazzella) risulta essere etimologicamente una contrazione del termine scazzazella a sua volta formato dal verbo scazzà/scazzecà= schiacciare, scacciare, sommuovere (da una base di lat. reg. s(intensivo) + capticare frequentativo di captiare= cacciare) + il sost. zella =tigna, debito, magagna, imbroglio (da un lat. reg. psilla(m)); va da sé che chi schiaccia, smuove i residui della tigna lo fa in maniera attenta, cavillosa, pretestuosa alla medesima maniera di chi tenti di schiacciare, scacciare, sommuovere un debito o magagna;
- tràstula sostantivo femm. sing. usato per indicare un generico trucco e/o inganno; in realtà come deverbale di trastulià (che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi) la voce a margine solo estensivamente indica ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano trastulià donde la derivata tràstula sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva fu il trastulante passato in seguito a definir semplicemente l’imbroglione , ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
Giunti a questo punto rammenterò che tutte le voci che ò elencate furono usate negli scrittori partenopei (poeti, drammaturghi etc.) a far tempo dal 1400 con eccezione di quelle nate (ad. es. pagliettaría) in epoche successive. C’è una sola voce che non à trovato posto nei reperti letterarii, ma è rimasta a far tempo dal 1940 circa, nel parlato popolare ed ancora vi permane ben salda avendo soppiantato quasi tutte le voci elencate fin qui con le sole eccezioni di ‘mbroglia e tràstula; la voce è
paraustiello voce singolare maschile nata in origine in senso positivo per significare esempio, spiegazione ma che à finito per prendere il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, pretestuoso cavillo, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio, esempio, ma ad usum delphini, argomentazione tortuosa etc. Quanto all’etimologia ancòra c’è qualcuno che sulla scorta del primo significato di esempio, spiegazione propende per l’iberico para usted (per voi) quasi che con la parola paraustiello si volesse avvertire: tutto ciò che abbiamo detto è stato un esempio portato per voi. La cosa non convince soprattutto perché il paraustiello fin quasi dal suo apparire non fu usato solo nel senso positivo di esempio, spiegazione ma prese quasi súbito nell’uso del discorrere popolare (come ò detto) il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio,argomentazione tortuosa e dunque mi pare corretto pensare per l’etimo di paraustiello ad un adattamento del greco paràstasis che vale giustappunto ragionamento, metafora, argomentazione.
raffaele bracale
Con la voce in epigrafe arzigogolo ( con etimo derivato da girigogolo allungamento di girigoro secondo un percorso morfologico comportante la trasposizione di lettere nel primo elemento e ciò è: argi→arzi per giri) la lingua ufficiale nazionale intende volta a volta un discorso o un ragionamento astruso e lambiccato, una fantasticheria, un cavillo, un espediente dialettico, una trovata spesso truffaldina, ma ingegnosa, un giro di parole ingegnoso e bizzarro, un raggiro fuorviante, un pretesto etc.
La lingua napoletana per tali necessità à parecchie voci ed ognuna piú circostanziata ed esattamente coniata per indicare con maggior precisione ognuna delle suaccennate occorrenze; tento qui di sèguito di elencare tali voci partenopee dandone, ove possibile, l’etimo ed il preciso campo d’applicazione; cominciamo:
allefrecaglia/arrefrecaglia che nel significato di giro di parole ingegnoso e bizzarro, sono ambedue ampliamento di lefrecaglia deverbale del basso latino *refragare = cavillare, sminuzzare etc.;
ciaranfa che nel significato di discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo trova il suo etimo nell’adattamento popolare della voce ciaraffa che di per sé (con provenienza dall’arabo giarif) indica una moneta sonante, ma di poco valore e semanticamente la cosa si spiega col fatto che come la moneta ciaraffa è sonante,sí ma in realtà di poco valore, cosí la ciaranfa quale discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo, produce solo rumore, ma non significante e quindi senza valore;
‘mbròglia è una fantasticheria intrisa di parole eccedenti, un pretesto lungamente... diluito di chiacchiere tendenti al raggiro ed è quanto all’etimo un deverbale di ‘mbruglià= imbrogliare che a sua volta è dal fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', deriv. di brou 'brodo' e semanticamente si spiega essendo – come ò detto – la ‘mbroglia null’altro che una sequela di parole eccedenti, un pretesto di chiacchiere diluite tali quale un brodo;
pagliettaría è precisamente il cavillo, l’ espediente dialettico, la trovata quasi sempre truffaldina, ma ingegnosa, azioni che di per sé son tutte riconducibili al modo di agire dei cosiddetti paglietta voce singolare maschile che indica un avvocatucolo,un leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è – come ò detto- voce singolare maschile (‘o paglietta) nei significati detti ed è voce che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è maschile e per chiaro traslato o sineddoche indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi cioè che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune una paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto, in foggia di tamburo, bordato di nastro di seta, ampia e piatta tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…né meriterebbe d’esser rammentato ) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso, come riportato, quale avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca,e poi definitivamente dismesso, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo etc. è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 o dei primi del ‘900 avrebbe potuto reperire una gorgiera inamidata e plissettata da indossare sulla toga...
da paglietta con aggiunta del suffisso di pertinenza ria si è giunto a pagliettaría voce che per sua fortuna è rimasta nell’àmbito della lingua napoletana e non è pervenuto in quello della lingua italiana dove è pur presente la voce paglietta nel significato di avvocatucolo etc.; ò detto per sua fortuna poi che se la voce pagliettaría fosse approdata nel dialetto di alighieri dante sarebbe stata certamente stravolta in pagliettería= azione o comportamento da paglietta subendo lo stesso trattamento della voce partenopea fessaría che pervenuta nell’italiano divenne fessería assumendo una inesatta e chiusa e non etimologica al posto della esatta aperta a forse nella sciocca convinzione che una vocale chiusa fosse piú consona di una aperta alla eleganza (?) della lingua nazionale;
raciàmmulo voce singolare maschile usata per indicare un giro di parole ingegnoso e bizzarro e fuorviante che miri a nascondere verità altrimenti palesi; etimologicamente è un derivato del tardo latino *racimulus, diminutivo per il class. racímus; =gracimolo,ciascun rametto di un grappolo d'uva; piccolo grappolo d'uva; semanticamente si spiega col fatto che come il gracimolo si nasconde tra i pampini e copre a sua volta gli acini del grappolo, cosí il raciàmmulo tenta di non far apparire, nascondendole con giri di parole, talune verità altrimenti palesi;
scazzella voce singolare maschile (a malgrado della desinenza in a) usata esattamente per indicare non l’azione cavillosa, pretestuosa, capziosa quando non litigiosa, ma per indicare colui che agisca e si esprima cavillosamente, pretestuosamente, capziosamente; in effetti la parola a margine (‘o scazzella) risulta essere etimologicamente una contrazione del termine scazzazella a sua volta formato dal verbo scazzà/scazzecà= schiacciare, scacciare, sommuovere (da una base di lat. reg. s(intensivo) + capticare frequentativo di captiare= cacciare) + il sost. zella =tigna, debito, magagna, imbroglio (da un lat. reg. psilla(m)); va da sé che chi schiaccia, smuove i residui della tigna lo fa in maniera attenta, cavillosa, pretestuosa alla medesima maniera di chi tenti di schiacciare, scacciare, sommuovere un debito o magagna;
- tràstula sostantivo femm. sing. usato per indicare un generico trucco e/o inganno; in realtà come deverbale di trastulià (che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi) la voce a margine solo estensivamente indica ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano trastulià donde la derivata tràstula sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva fu il trastulante passato in seguito a definir semplicemente l’imbroglione , ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
Giunti a questo punto rammenterò che tutte le voci che ò elencate furono usate negli scrittori partenopei (poeti, drammaturghi etc.) a far tempo dal 1400 con eccezione di quelle nate (ad. es. pagliettaría) in epoche successive. C’è una sola voce che non à trovato posto nei reperti letterarii, ma è rimasta a far tempo dal 1940 circa, nel parlato popolare ed ancora vi permane ben salda avendo soppiantato quasi tutte le voci elencate fin qui con le sole eccezioni di ‘mbroglia e tràstula; la voce è
paraustiello voce singolare maschile nata in origine in senso positivo per significare esempio, spiegazione ma che à finito per prendere il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, pretestuoso cavillo, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio, esempio, ma ad usum delphini, argomentazione tortuosa etc. Quanto all’etimologia ancòra c’è qualcuno che sulla scorta del primo significato di esempio, spiegazione propende per l’iberico para usted (per voi) quasi che con la parola paraustiello si volesse avvertire: tutto ciò che abbiamo detto è stato un esempio portato per voi. La cosa non convince soprattutto perché il paraustiello fin quasi dal suo apparire non fu usato solo nel senso positivo di esempio, spiegazione ma prese quasi súbito nell’uso del discorrere popolare (come ò detto) il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio,argomentazione tortuosa e dunque mi pare corretto pensare per l’etimo di paraustiello ad un adattamento del greco paràstasis che vale giustappunto ragionamento, metafora, argomentazione.
raffaele bracale
venerdì 28 novembre 2008
CAPONATA, CAPPONATA, CAPUNATA etc.
CAPONATA, CAPPONATA, CAPUNATA etc.
Le voci in epigrafe ed altre che ibidem incontreremo indicano ad un dipresso in tutta Italia una zuppa o pietanza volta a volta calda o – piú spesso – fredda i cui ingredienti variano di regione in regione, ma in tutte partano da un comune sostrato rappresentato da pezzi di galletta, pane duro o biscottato opportunamente ammollati in acqua fredda, sui quali pezzi vengon sistemati, nella originaria versione fredda, i piú svariati ingredienti: olio, olive conce, acciughe sott’olio, capperi ed aceto e talvolta, in quella napoletana,oltre ai precedenti ingredienti, anche cipolle e pomidoro maturi.
Quasi solo in Sicilia la caponata è una zuppa calda di ortaggi fritti (melanzane, sedano) addizionati di capperi ed olive e ripassati in una salsa di pomidoro in agrodolce; tali ortaggi fritti vengon comunque serviti, sistemati su di un letto di pezzi di galletta, pane duro o biscottato (freselle) ammollati in acqua fredda.
Ciò detto precisiamo che i toscani chiamano la caponata fredda cappon magro; i liguri la dicon, dritto per dritto dallo spagnolo, caponada o capon de galera o anche cappone in quanto zuppa che veniva consumata sulle galee e furon proprio i marinai delle galee che furbescamente e per dileggio verso gli armatori diedero il nome di cappone (in assenza di quelli veri) a quella semplice zuppa fredda che risultava di pane tagliato quasi come tagliato è il pollo castrato che prende il nome di cappone dal lat. volg. *cappone(m), per il class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare';
in sardo la caponata è capponada, mentre in italiano la voce caponata è anche capponata.
In lingua napoletana, cosí come in siciliano abbiamo capunata, e tutte le voci regionali ànno un probabile etimo iberico: caponada e si può ritenere che la ricetta originaria di zuppa fredda, i marinai l’abbiano mutuato dagli omologhi spagnoli e portata in giro (eccezion fatta per la Sicilia (dove non è azzardato pensare che l’abbiano portata gli arabi)) per tutta la penisola.
La caponata napoletana prevede, come segno distintivo, accanto all’uso del pomodoro, quello delle freselle (deverbale del lat.frendere=spezzettare) che spezzettate ed ammollate in acqua fredda vengon sistemate nel piatto, irrorate d’olio d’oliva e.v. ed addizionate di pomidoro maturi grossolanamente spezzettati, cipolla rossa o dorata affettata, capperi ed olive nere, acciughe sott’olio, origano e sale.
A margine e completamento di quanto detto preciso che accanto all’etimo iberico caponada, per la voce capunata non è inesatto pensare ad un denominale di un lat. volgare caupona/ae= osteria in quanto la capunata fu un prodotto tipico di osteria; quanto alla morfologia, è normale il passaggio di au→a pretonica come augustus→agosto.E qui faccio punto non senza aver ricordato che, in qualsiasi stagione , una fresca, salutare, gustosa caponata è sempre benvenuta!
raffaele bracale
Le voci in epigrafe ed altre che ibidem incontreremo indicano ad un dipresso in tutta Italia una zuppa o pietanza volta a volta calda o – piú spesso – fredda i cui ingredienti variano di regione in regione, ma in tutte partano da un comune sostrato rappresentato da pezzi di galletta, pane duro o biscottato opportunamente ammollati in acqua fredda, sui quali pezzi vengon sistemati, nella originaria versione fredda, i piú svariati ingredienti: olio, olive conce, acciughe sott’olio, capperi ed aceto e talvolta, in quella napoletana,oltre ai precedenti ingredienti, anche cipolle e pomidoro maturi.
Quasi solo in Sicilia la caponata è una zuppa calda di ortaggi fritti (melanzane, sedano) addizionati di capperi ed olive e ripassati in una salsa di pomidoro in agrodolce; tali ortaggi fritti vengon comunque serviti, sistemati su di un letto di pezzi di galletta, pane duro o biscottato (freselle) ammollati in acqua fredda.
Ciò detto precisiamo che i toscani chiamano la caponata fredda cappon magro; i liguri la dicon, dritto per dritto dallo spagnolo, caponada o capon de galera o anche cappone in quanto zuppa che veniva consumata sulle galee e furon proprio i marinai delle galee che furbescamente e per dileggio verso gli armatori diedero il nome di cappone (in assenza di quelli veri) a quella semplice zuppa fredda che risultava di pane tagliato quasi come tagliato è il pollo castrato che prende il nome di cappone dal lat. volg. *cappone(m), per il class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare';
in sardo la caponata è capponada, mentre in italiano la voce caponata è anche capponata.
In lingua napoletana, cosí come in siciliano abbiamo capunata, e tutte le voci regionali ànno un probabile etimo iberico: caponada e si può ritenere che la ricetta originaria di zuppa fredda, i marinai l’abbiano mutuato dagli omologhi spagnoli e portata in giro (eccezion fatta per la Sicilia (dove non è azzardato pensare che l’abbiano portata gli arabi)) per tutta la penisola.
La caponata napoletana prevede, come segno distintivo, accanto all’uso del pomodoro, quello delle freselle (deverbale del lat.frendere=spezzettare) che spezzettate ed ammollate in acqua fredda vengon sistemate nel piatto, irrorate d’olio d’oliva e.v. ed addizionate di pomidoro maturi grossolanamente spezzettati, cipolla rossa o dorata affettata, capperi ed olive nere, acciughe sott’olio, origano e sale.
A margine e completamento di quanto detto preciso che accanto all’etimo iberico caponada, per la voce capunata non è inesatto pensare ad un denominale di un lat. volgare caupona/ae= osteria in quanto la capunata fu un prodotto tipico di osteria; quanto alla morfologia, è normale il passaggio di au→a pretonica come augustus→agosto.E qui faccio punto non senza aver ricordato che, in qualsiasi stagione , una fresca, salutare, gustosa caponata è sempre benvenuta!
raffaele bracale
FRESELLA
FRESELLA
Cominciamo con una citazione importante: Getta il tuo pane nell’acqua, perché dopo molto tempo lo ritroverai (L’Ecclesiaste, 11,1).
Queste parole, sebbene non si riferiscano espressamente alla fresella,ma al pane raffermo, calzano alla fresella come un guanto; infatti la fresella napoletana, e meridionale in genere, altro non è che una fetta di pane messa nuovamente nel forno (e dunque biscottata): ma basta spugnarla con un po’ d’acqua, ed ecco che, “dopo molto tempo”, quel pane lo si ritrova, pronto all’uso. La fresella è un cibo povero. Nel senso di “adatto ai poveri”, perché costa poco.
Ma è povera anche lei, priva com’è di tutto. Anche di grassi, il che la rende perfetta per le diete. Assai piú dei crackers, e dei grissini che son grassi anzi che no, essendo fatti con l’olio, o con altri grassi, nel maldestro tentativo di dar loro un po’ di sapore. Ma proprio qui sta la grandezza della fresella: lei non pretende nemmeno di avercelo, il sapore. La fresella si candida come umile compagna di viaggio, e in questo è impagabile. La sua asciuttezza le rende resistente al tempo e alla distanza: trattandosi di pane già secco in partenza, non può infatti diventare secca.
E soprattutto, non va a male.
Va piuttosto a mare: i marinai, costretti a lunghi mesi di navigazione senza toccare terra, se ne portavano appresso quantità ragguardevoli. Se la mangiavano sul mare, e col mare: spugnandola cioè in un po’ d’acqua salata. In modo da ammorbidirla e salarla al punto giusto.
Non che abbiano smesso di farlo: le classiche gallette, ultima risorsa alimentare in condizioni di emergenza, sono strette parenti della fresella. Forse per via della storia di esploratrice e di giramondo che à, la fresella sta bene con tutto. E con tutti. La morte sua? Amica dei marinai com’è, il suo elemento è l’acqua. Da quella di mare, già citata, all’acqua dei fagioli. E per restare nel liquido, il brodo di polpo, ed il sugo della trippa (zuppa ‘e carnacotta).
La fresella è l’ingrediente-base della caponata. Una caponata senza la fresella è come Roma senza il Colosseo, Milano senza il Duomo, Napoli senza il Vesuvio: un’assurdità. Per fare la vera caponata, insieme alla fresella devono esserci l’olio, il pomodoro e il sale (un pizzico). Almeno in origine: poi vi si aggiungeranno ad libitum le acciughe (per l’apporto proteico), uova sode e, talvolta, le olive verdi.
Caponata è nome antico, ma cosí antico che non si sa piú da dove sia arrivato. Certo è che gli antichi osti latini si chiamavano cauponares; e molto piú avanti, alla fine del 700, si lègge del cappone di galera alla siciliana, o cappone di magro. Tornando alla fresella, della sua presenza nel sud d’Italia ci sono testimonianze già a partire dal 1300. Di lei rimane l’eco nelle voci dei venditori ambulanti. A Napoli le freselle le vendeva il tarallaro, che batteva incessantemente le strade della città coi suoi mitici taralli ‘nzogna e ppepe contenuti entro una grande sporta, e tenuti in caldo con una coperta. Spesso il tarallaro si portava appresso anche un po’ di freselle (come si vede, ancora una volta in posizione subalterna, mai protagoniste).
Intorno al 1870 questo era il grido del tarallaro: “pe ve scarfà lu vernecale (lo stomaco) dinto a chesta piattella, cótene (cotiche) cu freselle ogneduno sta a magnà!”
Cibo per lo stomaco del popolo, la fresella è perciò presente nella lingua del popolo: il dialetto. E proprio in dialetto la citano due grandi della poesia napoletana, Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
A segnalare la familiarità dei napoletani con la fresella, a Napoli questo termine passò, nei secoli scorsi, ad indicare le percosse (‘e mazzate), e l’organo sessuale femminile (“Chella guagliona teneva sotto ‘na fresella….”) .
Nel passaggio dal vernacolo alla lingua; dal popolino alla cultura, la fresella sparisce. Nei dizionari italiani non compare affatto, se non in quelli gastronomici. Uno per tutti, il Piccinardi, che alla voce frisella (a mio avviso improvvido ed inutile adattamento dell’originaria fresella) o frisedda” recita: “Pane biscottato a forma di ciambella tipico della Puglia e della Campania. Viene fatto con farina bianca o integrale, acqua e lievito di birra. E dopo una prima cottura viene tagliato a metà e rimesso in forno a biscottare. Prima di essere consumato va ammorbidito in acqua fredda….”
Come per la caponata, sull’origine del termine fresella non vi sono certezze. Sgomberiamo per prima cosa il campo dalle false etimologie, che chissà perché sono di solito le piú accreditate: fresella non deriva da fresa. Semanticamente le due cose non ànno visibilmente niente in comune, senza contare che la fresa è nata molto dopo.
E nemmeno proviene da fresillo: in napoletano, nastrino. Anche se la forma oblunga di talune freselle potrebbe richiamare, alla lontana, un nastro.
Certe etimologie verrebbe voglia di accreditarle solo per rendere omaggio alla fantasia degli studiosi che le ànno partorite. È il caso di questa che segue : frisoles, che però in spagnolo vuol dire fagioli. Ed è appunto nella già ricordata acqua di fagioli che un tempo veniva spugnata la fresella. Peccato che, questa pratica fosse solo una delle tante, e certamente non la piú diffusa, tale da poter determinare il nome del biscotto intinto nell’acqua dei fagioli!
Fresella deriva invece, con buona probabilità, se non certezza, dal latino frendere, che vuol dire, spezzettare, macinare, pestare, stritolare. Plinio usava infatti questo verbo nell’accezione di ridurre in piccoli pezzi, e dalla medesima radice verbale proviene l’aggettivo friabile. Ed in effetti la croccante e ruvida fresella, per esser consumata dev’essere piú o meno ammorbidita nell’acqua o in altri liquidi, poi sminuzzata per essere assunta con soddisfazione, anche senza l’aggiunta di condimenti o altro.
raffaele bracale
Cominciamo con una citazione importante: Getta il tuo pane nell’acqua, perché dopo molto tempo lo ritroverai (L’Ecclesiaste, 11,1).
Queste parole, sebbene non si riferiscano espressamente alla fresella,ma al pane raffermo, calzano alla fresella come un guanto; infatti la fresella napoletana, e meridionale in genere, altro non è che una fetta di pane messa nuovamente nel forno (e dunque biscottata): ma basta spugnarla con un po’ d’acqua, ed ecco che, “dopo molto tempo”, quel pane lo si ritrova, pronto all’uso. La fresella è un cibo povero. Nel senso di “adatto ai poveri”, perché costa poco.
Ma è povera anche lei, priva com’è di tutto. Anche di grassi, il che la rende perfetta per le diete. Assai piú dei crackers, e dei grissini che son grassi anzi che no, essendo fatti con l’olio, o con altri grassi, nel maldestro tentativo di dar loro un po’ di sapore. Ma proprio qui sta la grandezza della fresella: lei non pretende nemmeno di avercelo, il sapore. La fresella si candida come umile compagna di viaggio, e in questo è impagabile. La sua asciuttezza le rende resistente al tempo e alla distanza: trattandosi di pane già secco in partenza, non può infatti diventare secca.
E soprattutto, non va a male.
Va piuttosto a mare: i marinai, costretti a lunghi mesi di navigazione senza toccare terra, se ne portavano appresso quantità ragguardevoli. Se la mangiavano sul mare, e col mare: spugnandola cioè in un po’ d’acqua salata. In modo da ammorbidirla e salarla al punto giusto.
Non che abbiano smesso di farlo: le classiche gallette, ultima risorsa alimentare in condizioni di emergenza, sono strette parenti della fresella. Forse per via della storia di esploratrice e di giramondo che à, la fresella sta bene con tutto. E con tutti. La morte sua? Amica dei marinai com’è, il suo elemento è l’acqua. Da quella di mare, già citata, all’acqua dei fagioli. E per restare nel liquido, il brodo di polpo, ed il sugo della trippa (zuppa ‘e carnacotta).
La fresella è l’ingrediente-base della caponata. Una caponata senza la fresella è come Roma senza il Colosseo, Milano senza il Duomo, Napoli senza il Vesuvio: un’assurdità. Per fare la vera caponata, insieme alla fresella devono esserci l’olio, il pomodoro e il sale (un pizzico). Almeno in origine: poi vi si aggiungeranno ad libitum le acciughe (per l’apporto proteico), uova sode e, talvolta, le olive verdi.
Caponata è nome antico, ma cosí antico che non si sa piú da dove sia arrivato. Certo è che gli antichi osti latini si chiamavano cauponares; e molto piú avanti, alla fine del 700, si lègge del cappone di galera alla siciliana, o cappone di magro. Tornando alla fresella, della sua presenza nel sud d’Italia ci sono testimonianze già a partire dal 1300. Di lei rimane l’eco nelle voci dei venditori ambulanti. A Napoli le freselle le vendeva il tarallaro, che batteva incessantemente le strade della città coi suoi mitici taralli ‘nzogna e ppepe contenuti entro una grande sporta, e tenuti in caldo con una coperta. Spesso il tarallaro si portava appresso anche un po’ di freselle (come si vede, ancora una volta in posizione subalterna, mai protagoniste).
Intorno al 1870 questo era il grido del tarallaro: “pe ve scarfà lu vernecale (lo stomaco) dinto a chesta piattella, cótene (cotiche) cu freselle ogneduno sta a magnà!”
Cibo per lo stomaco del popolo, la fresella è perciò presente nella lingua del popolo: il dialetto. E proprio in dialetto la citano due grandi della poesia napoletana, Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
A segnalare la familiarità dei napoletani con la fresella, a Napoli questo termine passò, nei secoli scorsi, ad indicare le percosse (‘e mazzate), e l’organo sessuale femminile (“Chella guagliona teneva sotto ‘na fresella….”) .
Nel passaggio dal vernacolo alla lingua; dal popolino alla cultura, la fresella sparisce. Nei dizionari italiani non compare affatto, se non in quelli gastronomici. Uno per tutti, il Piccinardi, che alla voce frisella (a mio avviso improvvido ed inutile adattamento dell’originaria fresella) o frisedda” recita: “Pane biscottato a forma di ciambella tipico della Puglia e della Campania. Viene fatto con farina bianca o integrale, acqua e lievito di birra. E dopo una prima cottura viene tagliato a metà e rimesso in forno a biscottare. Prima di essere consumato va ammorbidito in acqua fredda….”
Come per la caponata, sull’origine del termine fresella non vi sono certezze. Sgomberiamo per prima cosa il campo dalle false etimologie, che chissà perché sono di solito le piú accreditate: fresella non deriva da fresa. Semanticamente le due cose non ànno visibilmente niente in comune, senza contare che la fresa è nata molto dopo.
E nemmeno proviene da fresillo: in napoletano, nastrino. Anche se la forma oblunga di talune freselle potrebbe richiamare, alla lontana, un nastro.
Certe etimologie verrebbe voglia di accreditarle solo per rendere omaggio alla fantasia degli studiosi che le ànno partorite. È il caso di questa che segue : frisoles, che però in spagnolo vuol dire fagioli. Ed è appunto nella già ricordata acqua di fagioli che un tempo veniva spugnata la fresella. Peccato che, questa pratica fosse solo una delle tante, e certamente non la piú diffusa, tale da poter determinare il nome del biscotto intinto nell’acqua dei fagioli!
Fresella deriva invece, con buona probabilità, se non certezza, dal latino frendere, che vuol dire, spezzettare, macinare, pestare, stritolare. Plinio usava infatti questo verbo nell’accezione di ridurre in piccoli pezzi, e dalla medesima radice verbale proviene l’aggettivo friabile. Ed in effetti la croccante e ruvida fresella, per esser consumata dev’essere piú o meno ammorbidita nell’acqua o in altri liquidi, poi sminuzzata per essere assunta con soddisfazione, anche senza l’aggiunta di condimenti o altro.
raffaele bracale
CIUCCIO - ASINO
CIUCCIO - asino
Per la voce napoletana a margine: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
E mi fermo qui, augurandomi di non aver detto eccessive asinerie!
Raffaele Bracale
Per la voce napoletana a margine: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
E mi fermo qui, augurandomi di non aver detto eccessive asinerie!
Raffaele Bracale
SCARTILOFFIO/A
SCARTILOFFIO/A
Ci troviamo questa volta a parlare di due parole, l’una maschile, l’altra femminile, che fan parte del fiorito ed icastico linguaggio partenopeo, ambedue nell’originario significato di atto, manovra truffaldini tesi a raggiunger lo scopo di affibbiare, per solito a stranieri, carta straccia in luogo di buona carta mnoneta; estensivamente poi ogni atto o manovra truffaldini operati in danno di sprovveduti, disattenti, incolti, creduloni che facilmente si lasciano raggirare ed imbrogliare.
Storicamente le voci in epigrafe nacquero tra il finire del 1700 ed i principi del 1800 a Napoli, al tempo delle frequentazioni di viaggiatori stranieri che accorrevano a visitare le città centro meridionali e nacquero nell’ambito della camorra (setta di malviventi che uniti in consorteria tentano di procacciar con ogni mezzo lecito, ma più spesso illecito, guadagni e benefici ai propri membri; etimologicamente corruzione ed adattamento del termine spagnolo gamurra che, a sua volta è da chamarra = abito di foggia iberica preferito dalla peggior risma di lazzaroni partenopei) che, per il tramite di suoi adepti, gestiva a suo pro quell’antico fenomeno turistico; non è che il trascorrer del tempo abbia fatto cambiar molto le cose; attualmente a Napoli, ma ugualmente in altre città centro-meridionali le vittime preferite degli scartiloffisti che sono ovviamente coloro che praticano lo scartiloffio, sono pur sempre i turisti o i derelitti cafoni e/o pacchiani, cioè gli sprovveduti provinciali che giungono in città divenendo, a loro malgrado, sùbito preda di furbi lestofanti truffatori che li raggirano ed imbrogliano; e ciò avviene non perché i cittadini stanziali siano più furbi o svelti dei cafoni o dei pacchiani, ma solo perché i cittadini ben conoscono di che infidi panni vestono i truffatori che si aggirano per piazze, vicoli e stazioni della città ed accuratamente tentano di evitarli e tenersene lontani.
Torniamo alle parole in epigrafe e vediamone un po’ l’etimologia, per la ricerca della quale non bisogna mai dimenticare il significato originario di scartiloffio/a che è la truffa tesa ad appioppar carta straccia in luogo di buona cartamoneta; ordunque:
Scartiloffio/a addizione del sostantivo scartoffia più l’aggettivo loffio/a;
Scartoffia : voce gergale forse nordica, per indicare una carta da giuoco senza valore, una cartina;
Loffio/a: letteralmente frollo, cascante, molle e quindi scadente, inutile; etimologicamente da un ant. tedesco: slapf→slaf, ma non gli sarebbe estraneo il latino labi da cui il toscano labile =inconsistente.
Si comprende facilmente che una scartoffia che sia anche loffia rappresenti quanto di peggio possa capitare ad un povero turista o ad un provinciale che approdi o giunga nella nostra città o in cento altre città d’arte del centro-meridione; rammenterò – per chiudere in … allegria - l’incipit del film Guardie e ladri in cui lo scartiloffista Totò si dedicava ad una particolare forma di scartiloffio: l’appioppare ad un credulo turista americano una grossa patacca che è una ovviamente falsa moneta antica di grosse dimensioni il cui nome è dall’arabo bataqa attraverso lo spagnolo pataca.
Raffaele Bracale
Ci troviamo questa volta a parlare di due parole, l’una maschile, l’altra femminile, che fan parte del fiorito ed icastico linguaggio partenopeo, ambedue nell’originario significato di atto, manovra truffaldini tesi a raggiunger lo scopo di affibbiare, per solito a stranieri, carta straccia in luogo di buona carta mnoneta; estensivamente poi ogni atto o manovra truffaldini operati in danno di sprovveduti, disattenti, incolti, creduloni che facilmente si lasciano raggirare ed imbrogliare.
Storicamente le voci in epigrafe nacquero tra il finire del 1700 ed i principi del 1800 a Napoli, al tempo delle frequentazioni di viaggiatori stranieri che accorrevano a visitare le città centro meridionali e nacquero nell’ambito della camorra (setta di malviventi che uniti in consorteria tentano di procacciar con ogni mezzo lecito, ma più spesso illecito, guadagni e benefici ai propri membri; etimologicamente corruzione ed adattamento del termine spagnolo gamurra che, a sua volta è da chamarra = abito di foggia iberica preferito dalla peggior risma di lazzaroni partenopei) che, per il tramite di suoi adepti, gestiva a suo pro quell’antico fenomeno turistico; non è che il trascorrer del tempo abbia fatto cambiar molto le cose; attualmente a Napoli, ma ugualmente in altre città centro-meridionali le vittime preferite degli scartiloffisti che sono ovviamente coloro che praticano lo scartiloffio, sono pur sempre i turisti o i derelitti cafoni e/o pacchiani, cioè gli sprovveduti provinciali che giungono in città divenendo, a loro malgrado, sùbito preda di furbi lestofanti truffatori che li raggirano ed imbrogliano; e ciò avviene non perché i cittadini stanziali siano più furbi o svelti dei cafoni o dei pacchiani, ma solo perché i cittadini ben conoscono di che infidi panni vestono i truffatori che si aggirano per piazze, vicoli e stazioni della città ed accuratamente tentano di evitarli e tenersene lontani.
Torniamo alle parole in epigrafe e vediamone un po’ l’etimologia, per la ricerca della quale non bisogna mai dimenticare il significato originario di scartiloffio/a che è la truffa tesa ad appioppar carta straccia in luogo di buona cartamoneta; ordunque:
Scartiloffio/a addizione del sostantivo scartoffia più l’aggettivo loffio/a;
Scartoffia : voce gergale forse nordica, per indicare una carta da giuoco senza valore, una cartina;
Loffio/a: letteralmente frollo, cascante, molle e quindi scadente, inutile; etimologicamente da un ant. tedesco: slapf→slaf, ma non gli sarebbe estraneo il latino labi da cui il toscano labile =inconsistente.
Si comprende facilmente che una scartoffia che sia anche loffia rappresenti quanto di peggio possa capitare ad un povero turista o ad un provinciale che approdi o giunga nella nostra città o in cento altre città d’arte del centro-meridione; rammenterò – per chiudere in … allegria - l’incipit del film Guardie e ladri in cui lo scartiloffista Totò si dedicava ad una particolare forma di scartiloffio: l’appioppare ad un credulo turista americano una grossa patacca che è una ovviamente falsa moneta antica di grosse dimensioni il cui nome è dall’arabo bataqa attraverso lo spagnolo pataca.
Raffaele Bracale
Coppola ê denocchie!
Coppola ê denocchie!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire un saluto il piú deferente possibile (consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia) da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno, persino compilatori di vocabolari della lingua napoletana, (ed uno per tutti cito l’Altamura) erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensì la lègge - errando- come congiunzione E e finisce per stravolgere il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
coppola = berretto basso con visiera, usato spec. in Sicilia ed un po’ tutto il meridione; l’etimo risulta derivato dal tardo latino cuppola diminutivo (vedi suff. ola) di cuppa(m) per il classico cupa(m) che indicò oltre che la botte, il barile etc. anche qualsiasi oggetto che avesse forma concava o ondeggiante e persino la nuca, quella stessa su cui si porta ben calcato il berretto a margine;
denocchie =plurale di denucchio= ginocchio con etimo dal lat. volg. genuculu(m), variante del class. geniculu(m), con successiva dissimilazione genuclu(m), assimilazione progressiva cl→cc e variazione metaplasmatica partenopea di g→d donde genuccu(m)→denucchio.
Raffaele Bracale
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire un saluto il piú deferente possibile (consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia) da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno, persino compilatori di vocabolari della lingua napoletana, (ed uno per tutti cito l’Altamura) erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensì la lègge - errando- come congiunzione E e finisce per stravolgere il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
coppola = berretto basso con visiera, usato spec. in Sicilia ed un po’ tutto il meridione; l’etimo risulta derivato dal tardo latino cuppola diminutivo (vedi suff. ola) di cuppa(m) per il classico cupa(m) che indicò oltre che la botte, il barile etc. anche qualsiasi oggetto che avesse forma concava o ondeggiante e persino la nuca, quella stessa su cui si porta ben calcato il berretto a margine;
denocchie =plurale di denucchio= ginocchio con etimo dal lat. volg. genuculu(m), variante del class. geniculu(m), con successiva dissimilazione genuclu(m), assimilazione progressiva cl→cc e variazione metaplasmatica partenopea di g→d donde genuccu(m)→denucchio.
Raffaele Bracale
martedì 25 novembre 2008
FAGOTTELLI GUSTOSI
FAGOTTELLI GUSTOSI
Eccellente preparazione da servire calda o fredda come antipasto accompagnata da formaggi freschi(provature, mozzarelline) ed affettati misti.
ingredienti e dosi per 6 – 8 persone:
due confezioni di pasta sfoglia,
4 uova,
½ etto di pecorino (laticauda!) grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
sale fino e pepe nero q.s.,
4 etti di prosciutto crudo (possibilmente di Pietraroja) o speck tagliati a cubetti di 1 cm. di spigolo,
1 bicchierino di cognac o brandy,
4 melanzane violette napoletane,
4 zucchine piccole e sode,
2 peperoni quadrilobati , di cui 1 giallo ed 1 rosso, grossi e carnosi,
4 pomidoro maturi sbollentati e pelati,
2 grosse cipolle dorate vecchie,
5 spicchi d'aglio,
1 bicchiere e mezzo di olio d'oliva e.v.p.s. a f.,
1 etto di capperi lavati e dissalati,
procedimento
Pulite le verdure (melanzane e zucchine, senza sbucciarle, vanno tagliate in piccoli cubi mentre i peperoni vanno lavati, asciugati e tagliati in falde grosse come un pollice eliminando torsoli, semi nonché le costoline bianche interne) e lavatele accuratamente. Poi versate metà dell'olio in un tegame, possibilmente di terracotta, unitevi la metà delle cipolle affettate sottilmente e fatele appassire a fuoco dolce. Aggiungetevi le melanzane e le zucchine in piccoli pezzi lavati ma non asciugati,e fatele stufare (15 minuti), al termine dei 15 minuti aggiungete i peperoni tagliati a falde e soffriggete il tutto ancóra per 5 minuti, mescolando con un cucchiaio di legno.
Quindi unitevi i pomidoro tagliati a pezzi, l'aglio schiacciato (che poi eleminerete), i capperi dissalati e lavati. Salate, insaporite con del pepe macinato al momento, incoperchiate e lasciate cuocere a fuoco molto basso per almeno un’ora, mescolando di tanto in tanto, aggiungendo se necessario una mezza ramaiolata d’acqua bollente; scoperchiare e fare asciugare le verdure che – quando saranno cotte – devono risultare piuttosto asciutte, ma non secche.Aggiungete il trito di prezzemolo e rimestate. Versate in un altro tegame l’olio residuo con un cucchiaio di cipolla tritata, fatela colorire e poi rosolatevi (5 minuti) i cubetti di prosciutto o speck bagnandoli con il cognac. Unite verdure e prosciutto e tenete in caldo.
Aprite le uova in una terrina, unite un pizzico di sale, due di pepe, un poco del trito di prezzemolo e sbattete il tutto a spuma.
Ricavate dalla pasta a sfoglia 10 – 12 quadrati di circa 15 cm. di lato; adagiate i quadrati sul tagliere e ponete su ciascuno due cucchiaiate del composto verdure-prosciutto, versate al centro del composto una cucchiaiata di uova sbattute; chiudete a fagottello i quadrati, piegando e convergendo al centro di ogni fagottello i relativi lembi di pasta; legate a pacchetto con spago da cucina e sistemate i fagottelli, dopo d’averli spennellati con l’uovo residuo, su di una placca da forno leggermente unta; mandate in forno a 180° per circa 20 minuti . Servite caldi o freddi come antipasto o rompidigiuno. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
Eccellente preparazione da servire calda o fredda come antipasto accompagnata da formaggi freschi(provature, mozzarelline) ed affettati misti.
ingredienti e dosi per 6 – 8 persone:
due confezioni di pasta sfoglia,
4 uova,
½ etto di pecorino (laticauda!) grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
sale fino e pepe nero q.s.,
4 etti di prosciutto crudo (possibilmente di Pietraroja) o speck tagliati a cubetti di 1 cm. di spigolo,
1 bicchierino di cognac o brandy,
4 melanzane violette napoletane,
4 zucchine piccole e sode,
2 peperoni quadrilobati , di cui 1 giallo ed 1 rosso, grossi e carnosi,
4 pomidoro maturi sbollentati e pelati,
2 grosse cipolle dorate vecchie,
5 spicchi d'aglio,
1 bicchiere e mezzo di olio d'oliva e.v.p.s. a f.,
1 etto di capperi lavati e dissalati,
procedimento
Pulite le verdure (melanzane e zucchine, senza sbucciarle, vanno tagliate in piccoli cubi mentre i peperoni vanno lavati, asciugati e tagliati in falde grosse come un pollice eliminando torsoli, semi nonché le costoline bianche interne) e lavatele accuratamente. Poi versate metà dell'olio in un tegame, possibilmente di terracotta, unitevi la metà delle cipolle affettate sottilmente e fatele appassire a fuoco dolce. Aggiungetevi le melanzane e le zucchine in piccoli pezzi lavati ma non asciugati,e fatele stufare (15 minuti), al termine dei 15 minuti aggiungete i peperoni tagliati a falde e soffriggete il tutto ancóra per 5 minuti, mescolando con un cucchiaio di legno.
Quindi unitevi i pomidoro tagliati a pezzi, l'aglio schiacciato (che poi eleminerete), i capperi dissalati e lavati. Salate, insaporite con del pepe macinato al momento, incoperchiate e lasciate cuocere a fuoco molto basso per almeno un’ora, mescolando di tanto in tanto, aggiungendo se necessario una mezza ramaiolata d’acqua bollente; scoperchiare e fare asciugare le verdure che – quando saranno cotte – devono risultare piuttosto asciutte, ma non secche.Aggiungete il trito di prezzemolo e rimestate. Versate in un altro tegame l’olio residuo con un cucchiaio di cipolla tritata, fatela colorire e poi rosolatevi (5 minuti) i cubetti di prosciutto o speck bagnandoli con il cognac. Unite verdure e prosciutto e tenete in caldo.
Aprite le uova in una terrina, unite un pizzico di sale, due di pepe, un poco del trito di prezzemolo e sbattete il tutto a spuma.
Ricavate dalla pasta a sfoglia 10 – 12 quadrati di circa 15 cm. di lato; adagiate i quadrati sul tagliere e ponete su ciascuno due cucchiaiate del composto verdure-prosciutto, versate al centro del composto una cucchiaiata di uova sbattute; chiudete a fagottello i quadrati, piegando e convergendo al centro di ogni fagottello i relativi lembi di pasta; legate a pacchetto con spago da cucina e sistemate i fagottelli, dopo d’averli spennellati con l’uovo residuo, su di una placca da forno leggermente unta; mandate in forno a 180° per circa 20 minuti . Servite caldi o freddi come antipasto o rompidigiuno. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
FAGOTTELLI DI TRIPPA
FAGOTTELLI DI TRIPPA
Dosi per 6 persone
• 600 g di trippa di vitello già raschiata, pulita e bollita
• 200 g di formaggio pecorino (possibilmente laticauda!) piccante tagliati a dadini
sedano tritato 1 costa,
• 2 spicchi di aglio tritati con un gran ciuffo di prezzemolo
• 500 g di polpa passata (o fresca o in bottiglia) di pomidoro tipo Roma o San Marzano, sbollentati, pelati e passati con un passaverdure a buchi fitti
• 1 cipolla dorata
• Alcune foglie di basilico
• 1 bicchiere d’ Olio d'oliva extra-vergine p.s.
• Sale fino e pepe nero q. s.
Preparazione
Tagliate la trippa in quadrati di 10 cm circa di lato.
In mezzo a ogni quadrato sistemate un paio di cubetti di pecorino piccante e un pizzico di prezzemolo e aglio tritati insieme ad un pizzico di pepe nero.
Chiudete i quadrati di trippa a triangolo e fissatene i bordi con uno stecchino.
Scaldate in un’ampia padella tutto l'olio,e fatevi appassire una cipolla tagliata finemente,il sedano tritato ed unite poi la polpa di pomodoro e qualche foglia di basilico; fate cuocere per 10 - 12 minuti, quindi unite i fagottini e spolverate con poco sale e pepe.
Continuate la cottura per altri 15 minuti e servite caldi di fornello questi fagottelli come seconda portata povera, ma gustosa.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
Dosi per 6 persone
• 600 g di trippa di vitello già raschiata, pulita e bollita
• 200 g di formaggio pecorino (possibilmente laticauda!) piccante tagliati a dadini
sedano tritato 1 costa,
• 2 spicchi di aglio tritati con un gran ciuffo di prezzemolo
• 500 g di polpa passata (o fresca o in bottiglia) di pomidoro tipo Roma o San Marzano, sbollentati, pelati e passati con un passaverdure a buchi fitti
• 1 cipolla dorata
• Alcune foglie di basilico
• 1 bicchiere d’ Olio d'oliva extra-vergine p.s.
• Sale fino e pepe nero q. s.
Preparazione
Tagliate la trippa in quadrati di 10 cm circa di lato.
In mezzo a ogni quadrato sistemate un paio di cubetti di pecorino piccante e un pizzico di prezzemolo e aglio tritati insieme ad un pizzico di pepe nero.
Chiudete i quadrati di trippa a triangolo e fissatene i bordi con uno stecchino.
Scaldate in un’ampia padella tutto l'olio,e fatevi appassire una cipolla tagliata finemente,il sedano tritato ed unite poi la polpa di pomodoro e qualche foglia di basilico; fate cuocere per 10 - 12 minuti, quindi unite i fagottini e spolverate con poco sale e pepe.
Continuate la cottura per altri 15 minuti e servite caldi di fornello questi fagottelli come seconda portata povera, ma gustosa.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
FAGOTTELLI DI MELANZANE
FAGOTTELLI DI MELANZANE
Eccovi una ricetta da prepare e servire o come stuzzicante antipasto (buono in ogni stagione!) o come gustosissima seconda portata!
ingredienti per 6 persone
1,5 kg. di melanzane lunghe violette napoletane,
8 - 10 filetti d'acciuga sott’olio,
200 gr. di tonno sott'olio di oliva,
500 gr. di patate vecchie,
un ciuffo di prezzemolo,
1 spicchio d’aglio mondato tritato finissimo,
sale doppio un pugno,
sale fino e pepe decorticato q.s.,
abbondante olio per friggere,
alcuni stecchini di legno.
Preparazione
1)mettete a lessare in molta acqua salata (circa 35’ dal primo bollore) le patate,con la buccia.
2)lavate,asciugate le melanzane,privatele del calice e senza
sbucciarle,tagliatele a fette lunghe cosí da poterle poi arrotolare, spesse ½ cm.
3) a mano a mano che le affettate, ponetele a strati in uno scolapasta e salate ogni strato leggermente;quando avrete finito,copritele con un piatto e poggiatevi sopra un peso di circa 2kg ,in modo che le melanzane rilascino l’amaro liquido di vegetazione; lasciatele sotto pressione per circa 30’, o per il tempo che vi occorrerà per lessare le patate.
4)sbucciate ancóra calde le patate lessate,passatele al setaccio o ad una schiacciapatate,mescolate con il tonno sbriciolato e sgocciolato accuratamente,le acciughe tritate , il trito d’aglio, salate parsimoniosamente e pepate ad libitum.
5)tritate infine finissimamente il ciuffo di prezzemolo ed aggiungetelo al composto di tonno e patate,mischiate molto bene e coprite,lasciando ad insaporire per circa 20’.
6)mettete in una padella di ferro nero olio abbondante per friggere, evitando d’usare olio di oliva extravergine, sciacquate sotto un getto d’acqua fredda le fette di melanzane,strizzatele,asciugatele e friggetele,ponendole
su di un foglio assorbente,per togliere l' eccesso d’unto.
7)prendete ad una alla volta le fette fritte di melanzane,farcitele con un cucchiaio di composto di tonno e patate,arrotolatele su se stesse a fagottello ed infilatevi
due stecchini per chiuderle.
Mandate in tavola caldi di fornello questi gustosi fagottelli e godetevi l’applauso dei commensali!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Eccovi una ricetta da prepare e servire o come stuzzicante antipasto (buono in ogni stagione!) o come gustosissima seconda portata!
ingredienti per 6 persone
1,5 kg. di melanzane lunghe violette napoletane,
8 - 10 filetti d'acciuga sott’olio,
200 gr. di tonno sott'olio di oliva,
500 gr. di patate vecchie,
un ciuffo di prezzemolo,
1 spicchio d’aglio mondato tritato finissimo,
sale doppio un pugno,
sale fino e pepe decorticato q.s.,
abbondante olio per friggere,
alcuni stecchini di legno.
Preparazione
1)mettete a lessare in molta acqua salata (circa 35’ dal primo bollore) le patate,con la buccia.
2)lavate,asciugate le melanzane,privatele del calice e senza
sbucciarle,tagliatele a fette lunghe cosí da poterle poi arrotolare, spesse ½ cm.
3) a mano a mano che le affettate, ponetele a strati in uno scolapasta e salate ogni strato leggermente;quando avrete finito,copritele con un piatto e poggiatevi sopra un peso di circa 2kg ,in modo che le melanzane rilascino l’amaro liquido di vegetazione; lasciatele sotto pressione per circa 30’, o per il tempo che vi occorrerà per lessare le patate.
4)sbucciate ancóra calde le patate lessate,passatele al setaccio o ad una schiacciapatate,mescolate con il tonno sbriciolato e sgocciolato accuratamente,le acciughe tritate , il trito d’aglio, salate parsimoniosamente e pepate ad libitum.
5)tritate infine finissimamente il ciuffo di prezzemolo ed aggiungetelo al composto di tonno e patate,mischiate molto bene e coprite,lasciando ad insaporire per circa 20’.
6)mettete in una padella di ferro nero olio abbondante per friggere, evitando d’usare olio di oliva extravergine, sciacquate sotto un getto d’acqua fredda le fette di melanzane,strizzatele,asciugatele e friggetele,ponendole
su di un foglio assorbente,per togliere l' eccesso d’unto.
7)prendete ad una alla volta le fette fritte di melanzane,farcitele con un cucchiaio di composto di tonno e patate,arrotolatele su se stesse a fagottello ed infilatevi
due stecchini per chiuderle.
Mandate in tavola caldi di fornello questi gustosi fagottelli e godetevi l’applauso dei commensali!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
CROSTINI NAPOLETANI
CROSTINI NAPOLETANI
Sottili fettine di pane casareccio 8 -12
Mozzarella tagliata a fettine sottili 150 gr.
8 alici salate dissalate e diliscate o pari peso di acciughe sott’olio;
pomodori rossi e maturi sbollentati pelati e privati dei semi tagliati a dadini 4
origano 1 cucchiaio
sale fino e pepe decorticato q.s.
olio d'oliva e.v.p.s. 1 bicchiere.
Adagiate le fettine di pane in una teglia ben unta e versatevi sopra un filo d'olio, aggiungete poi su ogni fetta una fettina di mozzarella, due filetti di acciuga, un cucchiaio di pomidoro tagliati a pezzetti, origano, sale e pepe, irrorate il tutto con l'olio vergine di oliva e infornate per dieci minuti in forno caldissimo. Servite caldi di forno questi gustosi crostini napoletani, come stuzzicante antipasto.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
Sottili fettine di pane casareccio 8 -12
Mozzarella tagliata a fettine sottili 150 gr.
8 alici salate dissalate e diliscate o pari peso di acciughe sott’olio;
pomodori rossi e maturi sbollentati pelati e privati dei semi tagliati a dadini 4
origano 1 cucchiaio
sale fino e pepe decorticato q.s.
olio d'oliva e.v.p.s. 1 bicchiere.
Adagiate le fettine di pane in una teglia ben unta e versatevi sopra un filo d'olio, aggiungete poi su ogni fetta una fettina di mozzarella, due filetti di acciuga, un cucchiaio di pomidoro tagliati a pezzetti, origano, sale e pepe, irrorate il tutto con l'olio vergine di oliva e infornate per dieci minuti in forno caldissimo. Servite caldi di forno questi gustosi crostini napoletani, come stuzzicante antipasto.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
CROSTINI DI FEGATELLI
CROSTINI DI FEGATELLI
Dosi per sei persone
12 fettine sottili di pane casareccio abbrustolite in forno caldissimo (200°) o su fiamma alta;
8 -10 fegatelli di maiale per ca 5 etti avvolti nel relativo omento (rete) assieme (per ogni fegatello) ad una foglia d’alloro fresco
1 cipolla dorata affettata sottilmente;
1 bicchiere di vino rosso, corposo ed asciutto;
8 filetti di acciughe dissalate e spinate o pari peso di filetti d’acciuga sott’olio;
½ bicchiere di olio d’oliva e. v.;
1 cucchiaio di capperi dissalati e lavati;
sale fino e pepe nero q.s.
Procedimento
In una grande padella possibilmente di ferro nero o antiaderente, ponete l’olio e, aggiunta tutta la cipolla affettata sottilmente, lasciatela stufare (senza bruciare); aggiungete i fegatelli avvolti nel loro omento, bagnateli con una tazza da tè d’acqua bollente e lasciateli cuocere a fiamma vivace; una volta che siano cotti e rosolati, eliminate le foglie di alloro, trinciate grossolanamente i fegatelli in piccoli pezzi e passateli nel mixer con lame da umido o in un passaverdure dai buchi fitti, bagnandoli con il bicchiere di vino; tenete da parte la crema ottenuta e nel frattempo nella medesima padella in poco olio stemperate le acciughe con i capperi ed unitele a caldo alla crema di fegatelli aggiustando di sale e pepe; fate riprender calore al composto, indi – prima che si raffreddi – spalmatelo sui crostini che servirete caldi come stuzzicante antipasto. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
Dosi per sei persone
12 fettine sottili di pane casareccio abbrustolite in forno caldissimo (200°) o su fiamma alta;
8 -10 fegatelli di maiale per ca 5 etti avvolti nel relativo omento (rete) assieme (per ogni fegatello) ad una foglia d’alloro fresco
1 cipolla dorata affettata sottilmente;
1 bicchiere di vino rosso, corposo ed asciutto;
8 filetti di acciughe dissalate e spinate o pari peso di filetti d’acciuga sott’olio;
½ bicchiere di olio d’oliva e. v.;
1 cucchiaio di capperi dissalati e lavati;
sale fino e pepe nero q.s.
Procedimento
In una grande padella possibilmente di ferro nero o antiaderente, ponete l’olio e, aggiunta tutta la cipolla affettata sottilmente, lasciatela stufare (senza bruciare); aggiungete i fegatelli avvolti nel loro omento, bagnateli con una tazza da tè d’acqua bollente e lasciateli cuocere a fiamma vivace; una volta che siano cotti e rosolati, eliminate le foglie di alloro, trinciate grossolanamente i fegatelli in piccoli pezzi e passateli nel mixer con lame da umido o in un passaverdure dai buchi fitti, bagnandoli con il bicchiere di vino; tenete da parte la crema ottenuta e nel frattempo nella medesima padella in poco olio stemperate le acciughe con i capperi ed unitele a caldo alla crema di fegatelli aggiustando di sale e pepe; fate riprender calore al composto, indi – prima che si raffreddi – spalmatelo sui crostini che servirete caldi come stuzzicante antipasto. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
SCHIZZECHIÀ - CHIOVELLECÀ
SCHIZZECHIÀ - CHIOVELLECÀ
Questa volta intendo soffermarmi sui verbi in epigrafe, verbi antichissimi presenti se non in un po’ tutti gli scrittori sei-settecenteschi, certamente già negli antichi calepini del napoletano come in quello notissimo del Pietro Paolo Volpe (1869) che li riporta ambedue sebbene per il primo egli scelga la forma schizzechejare/schizzechejà e ne azzarda addirittura una resa in italiano traducendo piover minuto – piovigginare etc.
Dirò súbito che dei due verbi in epigrafe quello ancóra vivo, vegeto ed usatissimo (come verbo altamente espressivo) nel parlato partenopeo, è soltanto il primo (usato – ovviamente! – trattandosi di un verbo che riguarda un fenomeno atmosferico, solo in terza persona (impersonalmente cioè), nelle forme schizzechéa schizzechiava à schizzechjato.(ricordo che in pretto e corretto napoletano l’ausiliare dei verbi indicanti fenomeni atmosferici è esclusivamente il verbo avere ( à chiuoppeto ( è piovuto) – à sciuccato (è nevicato) e non è chiuoppeto – è sciuccato )contrariamente all’italiano che usa indifferentemente il verbo essere o avere ) Il verbo chiovellecà non è piú in uso da troppo tempo ed è rimasto confinato negli scritti di Cortese, di Basile e nei dizionarî del d’Ambra, del Volpe e dei Filopatridi dove è riportato con un fantasioso piovizzicare.
Ma facciamo un passettino indietro; ò detto che il P.P.Volpe azzardò una traduzione rendendo i napoletani schizzechejare/schizzechejà nonché chiovellecà con piover minuto – piovigginare – ed addirittura con un inesistente italiano piovillicare (spudorato adattamento del napoletano chiovellecà) etc. In realtà nessun verbo dell’italiano può compiutamente rendere il significato soprattutto di schizzechià che è un evidente denominale di schizzeco (diminutivo di schizzo (cfr. il suff. eco da icus) lemma onomatopeico che significa sí stilla, goccia, ma pure e forse piú briciola, minutissima parte d’un qualcosa); se ne ricava che (forse) l’unica espressione italiana che possa rendere con una buona approssimazione lo schizzechéa napoletano potrebbe essere non pioviggina, né piove minuto, ma stilla goccia a goccia che comunque non renderebbe compiutamente l’idea (contenuta in schizzechéa ) di una radissima, sottile, intermittente caduta di poche, pochissime gocce d’acqua.
Quanto al verbo chiovellecà ricordato che è abbondantemente desueto ed è presente ormai solo negli scritti di antichi scrittori partenopei e nei calepini di compilatori ovviamente d’antan, ma fortunatamente pure in taluni dizionarî di attenti, precisi studiosi contemporanei) dirò però che pure tali studiosi si vedono costretti, per spiegarne il significato, a ricorrere, in mancanza d’altro, a solito impreciso piovigginare e quanto all’etimo pare che non vi siano certezze assolute, sebbene quasi tutti si siano messi sulla medesima strada piú morfologica che semantica; D’Ascoli ipotizzò un non chiarito frequentativo di chiovere (che per incidens è dal latino pluere con il consueto passaggio di pl a chi ed epentesi di una v eufonica),la medesima cosa ad un dipresso la fa pure l’amico prof. C. Iandolo che però chiarisce la ricostruzione morfologica del verbo parlando di chiovere con un doppio infisso diminutivo ed iterativo secondo il percorso chiovere+ell+ic-are. Personalmente seguendo un diverso percorso semantico mi sento di poter proporre l’idea di vedere in chiovellecà un incrocio tra il solito chiovere ed il verbo lat. vellicare inteso però non nel senso di pizzicare, ma in quello di titillare atteso che lo stillare quieto e goccia a goccia che è proprio del chiovellecà in fondo si traduce in una pioggerella che titilla, vellica quasi chi ne è colpito.
Affermata con convinzione, ancora una volta, la superiorità espressiva del napoletano a petto dell’italiano, mi fermo qui e do l’appuntamento alle prossime voci. Per ora satis est.
raffaele bracale
Questa volta intendo soffermarmi sui verbi in epigrafe, verbi antichissimi presenti se non in un po’ tutti gli scrittori sei-settecenteschi, certamente già negli antichi calepini del napoletano come in quello notissimo del Pietro Paolo Volpe (1869) che li riporta ambedue sebbene per il primo egli scelga la forma schizzechejare/schizzechejà e ne azzarda addirittura una resa in italiano traducendo piover minuto – piovigginare etc.
Dirò súbito che dei due verbi in epigrafe quello ancóra vivo, vegeto ed usatissimo (come verbo altamente espressivo) nel parlato partenopeo, è soltanto il primo (usato – ovviamente! – trattandosi di un verbo che riguarda un fenomeno atmosferico, solo in terza persona (impersonalmente cioè), nelle forme schizzechéa schizzechiava à schizzechjato.(ricordo che in pretto e corretto napoletano l’ausiliare dei verbi indicanti fenomeni atmosferici è esclusivamente il verbo avere ( à chiuoppeto ( è piovuto) – à sciuccato (è nevicato) e non è chiuoppeto – è sciuccato )contrariamente all’italiano che usa indifferentemente il verbo essere o avere ) Il verbo chiovellecà non è piú in uso da troppo tempo ed è rimasto confinato negli scritti di Cortese, di Basile e nei dizionarî del d’Ambra, del Volpe e dei Filopatridi dove è riportato con un fantasioso piovizzicare.
Ma facciamo un passettino indietro; ò detto che il P.P.Volpe azzardò una traduzione rendendo i napoletani schizzechejare/schizzechejà nonché chiovellecà con piover minuto – piovigginare – ed addirittura con un inesistente italiano piovillicare (spudorato adattamento del napoletano chiovellecà) etc. In realtà nessun verbo dell’italiano può compiutamente rendere il significato soprattutto di schizzechià che è un evidente denominale di schizzeco (diminutivo di schizzo (cfr. il suff. eco da icus) lemma onomatopeico che significa sí stilla, goccia, ma pure e forse piú briciola, minutissima parte d’un qualcosa); se ne ricava che (forse) l’unica espressione italiana che possa rendere con una buona approssimazione lo schizzechéa napoletano potrebbe essere non pioviggina, né piove minuto, ma stilla goccia a goccia che comunque non renderebbe compiutamente l’idea (contenuta in schizzechéa ) di una radissima, sottile, intermittente caduta di poche, pochissime gocce d’acqua.
Quanto al verbo chiovellecà ricordato che è abbondantemente desueto ed è presente ormai solo negli scritti di antichi scrittori partenopei e nei calepini di compilatori ovviamente d’antan, ma fortunatamente pure in taluni dizionarî di attenti, precisi studiosi contemporanei) dirò però che pure tali studiosi si vedono costretti, per spiegarne il significato, a ricorrere, in mancanza d’altro, a solito impreciso piovigginare e quanto all’etimo pare che non vi siano certezze assolute, sebbene quasi tutti si siano messi sulla medesima strada piú morfologica che semantica; D’Ascoli ipotizzò un non chiarito frequentativo di chiovere (che per incidens è dal latino pluere con il consueto passaggio di pl a chi ed epentesi di una v eufonica),la medesima cosa ad un dipresso la fa pure l’amico prof. C. Iandolo che però chiarisce la ricostruzione morfologica del verbo parlando di chiovere con un doppio infisso diminutivo ed iterativo secondo il percorso chiovere+ell+ic-are. Personalmente seguendo un diverso percorso semantico mi sento di poter proporre l’idea di vedere in chiovellecà un incrocio tra il solito chiovere ed il verbo lat. vellicare inteso però non nel senso di pizzicare, ma in quello di titillare atteso che lo stillare quieto e goccia a goccia che è proprio del chiovellecà in fondo si traduce in una pioggerella che titilla, vellica quasi chi ne è colpito.
Affermata con convinzione, ancora una volta, la superiorità espressiva del napoletano a petto dell’italiano, mi fermo qui e do l’appuntamento alle prossime voci. Per ora satis est.
raffaele bracale
NOTERELLE GRAMMATICALI
NOTERELLE GRAMMATICALI
Sollecitato dall’amico Dario C. ad esprimere un mio parere intorno ad una questioncella affatto marginale, cioè sul modo piú corretto di scrivere gli articoli inderminativi del napoletano ‘nu/’no – ‘na dico che
‘nu/’no = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘nu/‘no davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una (cfr. ad es.: pòrtane ‘na cannela= portami una candela quale che sia –ma pòrtame una cannela = portami una sola candela) ; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m); l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure, come ò detto, il corrispondente del maschile e neutro no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile; a mio avviso infatti non è ragione concreta e corretta quella, accampata da qualcuno, che mancando nel napoletano scritto la forma intera degli articoli indeterminativi uno/unu- una ed esistendo pressoché solo quella aferizzata no/nu – na sarebbe inutile fornire questi ultimi del segno d’aferesi. Nel napoletano scritto c’è del resto una parola che potrebbe ingenerare confusione con l’art. indeterminativo ‘nu/’no : sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva, Serio) furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere, a mio avviso nel napoletano scritti gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! E dunque ‘nu – ‘no – ‘na e mai nu – no – na. I grandi autori vanno seguíti quando fanno bene, non quando sbagliano! Si può tentare di capire le ragioni del loro errare, ma mai porsi nella scia di chi sbaglia, fosse pure un grande autore!
Raffaele Bracale
Sollecitato dall’amico Dario C. ad esprimere un mio parere intorno ad una questioncella affatto marginale, cioè sul modo piú corretto di scrivere gli articoli inderminativi del napoletano ‘nu/’no – ‘na dico che
‘nu/’no = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘nu/‘no davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una (cfr. ad es.: pòrtane ‘na cannela= portami una candela quale che sia –ma pòrtame una cannela = portami una sola candela) ; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m); l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure, come ò detto, il corrispondente del maschile e neutro no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile; a mio avviso infatti non è ragione concreta e corretta quella, accampata da qualcuno, che mancando nel napoletano scritto la forma intera degli articoli indeterminativi uno/unu- una ed esistendo pressoché solo quella aferizzata no/nu – na sarebbe inutile fornire questi ultimi del segno d’aferesi. Nel napoletano scritto c’è del resto una parola che potrebbe ingenerare confusione con l’art. indeterminativo ‘nu/’no : sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva, Serio) furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere, a mio avviso nel napoletano scritti gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! E dunque ‘nu – ‘no – ‘na e mai nu – no – na. I grandi autori vanno seguíti quando fanno bene, non quando sbagliano! Si può tentare di capire le ragioni del loro errare, ma mai porsi nella scia di chi sbaglia, fosse pure un grande autore!
Raffaele Bracale
BRICCONE – BIRBANTE - CANAGLIA – FURFANTE & dintorni
BRICCONE – BIRBANTE - CANAGLIA – FURFANTE & dintorni
Anche questa volta su quesito dell’amico C.R. (al solito, motivi di privatezza mi impongono di non riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi occuperò delle voci italiane in epigrafe, di altri eventuali sinonimi, voci collegate e delle corrispondenti voci del napoletano.
Cominciamo con
briccone s. m. [f. -a] 1 persona scaltra, malvagia, senza scrupoli
2 (scherz.) persona simpaticamente astuta, riferito soprattutto a ragazzi; birbante. DIM. bricconcello;
quanto all’etimo, molti si trincerano dietro il solito pilatesco etimo incerto mentre una sostanziosa scuola di pensiero pensa – epperò non so con quanta esattezza, atteso un’evidente differenza semantica di cui dirò – pensa dicevo ad un antico francese bric = stolto; tale idea non mi convince punto poi che trovo che semanticamente siano addirittura agli antipodi la persona scaltra, astuta, malvalgia indicata con la voce briccone e lo stolto dell’ antico francese bric e mi fa meraviglia che una considerazione tanto ovvia non sia stata fatta da nessuno dei numerosi linguisti che accolgono l’idea che briccone provenga dall’antico francese bric; molto piú perseguibile m’appare l’idea che briccone abbia una relazione di filiazione o fraternità con l’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; un’altra scuola di pensiero pensa per briccone ad un accrescitivo (cfr. il suff. one) di bricco antica voce etimologicamente pare ricostruito su di un termine settentrionale bricca=luogo scosceso, dirupo; bricco valse nel linguaggio regionale furfante ma a mio avviso è molto forzato il collegamento semantico tra il furfante di bricco ed il dirupo di bricca; a questo punto penso proprio che delle tre proposte la migliore via etimologica di briccone sia quella dell’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; procediamo oltre ed abbiamo
birbante s. m. e f. - 1. persona scaltra e malvagia che conduce vita poco onesta 2. (scherz.) Ragazzo furbo e impertinente. persona scaltra e malvagia. 3 (ant.) truffatore; quanto all’etimo la voce a margine risulta il part. presente di un non attestato *birbare che a sua volta pare marcato su di una lettura metatetica del sost. fr. bribe 'tozzo di pane dato per elemosina', quindi birbare varrebbe in primis accattonare, elemosinare e di conseguenza il birbante verrebbe, in primis, ad essere un accattone, un vagabondo, e solo per ampiamento semantico: un briccone,uno scaltro, un malvagio. Andiamo oltre:
canaglia s. f. 1 individuo malvagio, ribaldo | (scherz.) persona astuta, birbante 2 (lett.) gente spregevole, marmaglia;quanto all’etimo la voce a margine risulta senza tentennamenti essere un derivato del francese canaille= furfante.
furfante s. m e f. persona disonesta; farabutto, malfattore.
Quanto all’etimo la voce a margine risulta essere il part.pres. di un *furfare/forfare= agire fuori dalla legge, verbi tratti dal lat. med. foras-facere/foris-facere = agire al di fuori del lecito e/o consentito.
Giunti a questo punto, prima di proseguire soffermiamoci su alcuni termini fin qui incontrati:
individuo s. m. 1 organismo vivente considerato distintamente da ogni altro della specie o del genere a cui appartiene; 2 la persona considerata nella sua singolarità: l'interesse dell'individuo non deve esser posto al di sopra di quello della comunità
3 persona che non si conosce o di cui non si vuol dire il nome (spec. spreg.): c'è un individuo che ti cerca; un individuo sospetto, pericoloso; un losco individuo
come agg. (lett.) 1 indiviso o indivisibile 2 individuale, particolare. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. individuu(m), comp. di in- e dividuus 'separato, separabile';
scaltro agg.
1 che agisce, parla e si comporta con accortezza, con avvedutezza; per estens., astuto, furbo
2 che è espressione di scaltrezza: comportamento scaltro. Quanto all’etimo è voce deverbale derivata dal verbo scaltrire= diventare avveduto, attento o piú guardingo; acquistare abilità, perizia, sicurezza, spec. nella propria attività o professione; il verbo scaltrire/rsi è derivato dal b. lat. s +calterire per cauterire= 'bruciare', deriv. di cauterium 'cauterio', perché il restare scottato induce a una condotta piú guardinga;
malvagioagg. [pl. f. -ge] 1 cattivo, perfido, malefico: un uomo, un carattere malvagio; azioni, parole malvage
2 (fam.) pessimo: un tempo malvagio; quel film non è malvagio, è abbastanza bello
3 (lett.) pesante, difficile 4 (ant.) falso; come s. m. [f. -a] persona perfida, crudele | il Malvagio, per antonomasia, il diavolo. Quanto all’etimo è voce derivata dal provenz. malvatz, che è dal lat. volg. *malifatiu(m) 'che à cattiva sorte', comp. di malum 'cattivo' e fatum 'destino';
truffatore s. m. chi imbroglia con una truffa; chi sottrarre qualcosa con truffa; chi per abitudine agisce truffaldinamente cioè commettendo il reato di ricavare illecito profitto a danno di altri avendoli indotti in errore con artifici e raggiri. Quanto all’etimo è voce derivata dal verbo truffare a sua volta denominale di truffa che è dal provenz. ant. trufa,tratto per metatesi dal lat. tardo tufera, propr. 'tartufo', poi 'inganno';
astuto agg. 1 dotato di astuzia: essere piú astuto di una volpe; che astuto!
2 che denota astuzia; detto, fatto con astuzia: risposta astuta. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. astutu(m);
ribaldo s. m. 1 nel medioevo, soldato di bassa condizione o servo che seguiva gli eserciti, dedicandosi soprattutto a saccheggi
2 (estens.) chi vive di attività disoneste, di truffe, rapine ecc.; briccone, furfante, mascalzone. Quanto all’etimo è voce derivata dal fr. ant. ribaud, provenz. ribaut, deriv. del medio alto ted. hriba 'prostituta';
perfido agg. 1 che non tiene fede alla parola data, sleale
2 che agisce con intenzioni malvagie; che è incline a provocare, traendone soddisfazione, il male e il danno di altre persone: quell'uomo è di animo perfido; un perfido traditore | che denota subdola malvagità: un'azione perfida
3 (iperb. , scherz.) cattivo, pessimo (detto di cibo, bevanda, tempo atmosferico e sim.); numerosi i sinonimi dell’agg. a margine; tra i piú usati rammento: falso, traditore, infido sleale, insincero, malfido, malvagio, crudele, efferato, (iperb.) pessimo, terribile. Rammento che talvolta viene usato impropriamente come sinonimo di perfido, infido, malfido etc. anche l’agg.vo malfidato che invece è colui che è solito diffidare, colui che è sempre sospettoso
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. perfidu(m), comp. di pe°r 'al di là, oltre' e fi¯dus 'fedele, leale'; propr. 'che viene meno alla fede data';
maleficoagg. [pl. m. -ci] 1 che reca danno: clima malefico; una persona malefica
2 di maleficio; che è frutto di maleficio: arti malefiche; influsso malefico
come sostantivo m. (ant.) stregone.
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. maleficu(m), comp. di male 'male' ed un tema di facere;
farabutto s. m. [f. -a] persona senza scrupoli, capace di qualsiasi slealtà; mascalzone.
Quanto all’etimo è parola pervenuta nella lingua nazionale ricavata dal napoletano frabbutto derivato dal ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere
mascalzone s. m. [f. -a] persona capace di azioni spregevoli o disoneste (anche scherz.): comportarsi da mascalzone; non fare il mascalzone! Persona d'animo volgare, priva di scrupoli o di scarso senso morale.
Riferito ai bambini è molto usato il vezz. mascalzoncello. Quanto all’etimo per alcuni la voce è alterazione di maniscalco "garzone di stalla", per incrocio con scalzo,ma a mio avviso meglio chi vi legge un’addizione dello spagn. mas (dal lat. magis= piú) e di scalzone accrescitivo di scalzo cioè piú che scalzo= persona male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone;
Marmaglia o maramaglia, s. f. 1 insieme di gente spregevole; 2 (scherz.) gruppo chiassoso di bambini o ragazzi. Quanto all’etimo la voce risulta derivata dal fr. marmaille, deriv. di marmot 'bambino, marmocchio'.
Esaurite cosí le voci dell’italiano, passiamo a quelle del napoletano dove troviamo:
- bazzariota s.m. voce antica e desueta che in origine indicò un rivenditore girovago, un treccone cioè un venditore al minuto di generi alimentari (spec. verdure,legumi, uova, pollame ecc.); rivendugliolo cioè chi rivende al minuto, per lo piú cibo o merci di poco conto, in baracche o con carrettini, | (spreg.) venditore disonesto; poi per ampliamento semantico indicò il perdigiorno, il briccone, il giovinastro sfaccendato (detto alibi icasticamente stracquachiazze e cioè propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che forma la voce stracquachiazze unito con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma nel caso di stracquachiazze estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno o dal bazzariota di turno;
quanto all’etimo bazzariota deriva dall’arabo bazàr=mercato attraverso un greco mod. bazariotes o pazariotes= mercante, negoziante;
frabbutto ed al f.le frabbotta di questo sostantivo con cui si indica la persona capace di azioni spregevoli o disoneste, il cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza, ò già detto antea sotto la voce dell’italiano farabutto, voce che fu marcata su questa napoletana a margine; quanto all’etimo frabbutto come ò già detto deriva ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere;
piezzo ‘e catapiezzo letteralmente pezzo di granpezzo; locuzione usata nel parlato popolare e per altro assente negli scritti,con le eccezioni di Basile e Sarnelli, e quelle di antichi dizionarii: D’Ambra,Andreoli etc. ) come un sostantivo maschile nel significato di ribaldo, briccone, birbonaccio; la voce piezzo= pezzo (adattamento al maschile del lat. volg. *pettia(m), di origine celtica di per sé non à valenze negative anzi riferito a persona lo si usa per sottolinearne la robustezza fisica, l'avvenenza: ‘nu piezzo d'ommo; che bellu piezzo ‘e guagliona |’nu piezzo grosso, (fig.) persona importante, influente; il significato negativo viene assunto se piezzo è usato in espressioni di insulto quali vi’ che piezzo ‘e ciuccio!, piezzo ‘e bbaccalà! o ancóra nell’espressione qui a margine piezzo ‘e catapiezzo espressione dove catapiezzo è usato quale iterativo, peggiorativo della voce piezzo attraverso il prefisso rafforzativo katà; rammento a questo punto una particolarità e cioè che vòlta al femminile l’espressione a margine non suona (come invece ci si attenderebbe) pezza ‘e catapezza, (dove catapezza verrebbe ad essere l’iterativo, peggiorativo della voce pezza), ma suona piezzo ‘e catapuzza espressione nella quale il masch. piezzo è usato con una licenza grammaticale, in funzione femminile e l’attesa voce catapezza viene trasformata in catapuzza con un evidente bisticcio tra due diversi termini: catapezza e catapuzza dei quali catapuzza con palese derivazione da lat. tardo cataputia che è da un gr. *katapytía, da pytía 'coagulo') indica un’ erba delle Euforbiacee con proprietà emetiche e purganti; a conclusione di tutto ciò, ricordo che comunque piezzo ‘e catapiezzo e piezzo ‘e catapuzza non vengono usati in senso palesemente dispregiativo o offensivo, ma sempre in funzione scherzosa ed eufemistica.
Scauzone a.e s.m. persona priva di calze e scarpe, male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone e per estensione persona capace di azioni spregevoli o disoneste, cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza; la voce risulta essere un accrescitivo (cfr. il suff. one) in funzione dispregiativa di scauzo =scalzo che è contrazione di scalz(at)o; scauzo è dal lat. excalcèatu(m) p. p. del lat. excalceare, comp. di ex- 'via da' e calceare 'mettere le calzature', deriv. di calceus 'scarpa'; normale nel napoletano il passaggio del lat al ad au (cfr. altus→auto→avuto→aveto= alto alter→auto→ato= altro).
sfaccimmo s. m. dalla doppia valenza; in senso negativo: farabutto, mascalzone; in senso positivo: furbo, intraprendente, determinato (specie di una persona giovane.). È parola formata dal sost.: faccia con l’avvio di una s detrattiva ed il suffisso dispregiativo immo nell’ovvia idea di significar: persona priva di faccia (senza vergogna). Attenzione!In napoletano esiste anche la voce sfaccimma che però non è il femminile della parola precedente ed à ben altro significato ed etimologia,indicando il prodotto dell’eiaculazione maschile; anche etimologicamente la voce sfaccimma à derivazione del tutto diversa dal pregresso sfaccimmo; sfaccimma infatti prende l’avvio da una voce di tipo onomatopeico sfacc che indica la violenza dell’emissione, addizionato del solito suffisso imma qui però con funzione intensiva, non dispregiativa.
Rammenterò per amor di completezza che quando si volesse usare il termine precedente: sfaccimmo riferito ad una donna, non si userà sfaccimma che come visto indica un’altra cosa, ma una sorta di diminutivo, vezzeggiativo: sfaccemmusella che indica alternativamente o la mascalzoncella o la furbetta intraprendente.
spogliampise a e s.m.e f. letteralmente colui/colei che spoglia, depreda gli impiccati e estensivamente persona capace di azioni ripropevoli se non disoneste, persona malvagia, priva di scrupoli, crudele, feroce, spietata, scellerata, empia, perversa, sadica, maligna proclive ad essere efferata, disumana, brutale; quanto all’etimo è voce formata dall’agglutinazione della voce verbale spoglia (3° p.sg. ind. pres. dell’infinito spuglià = spogliare (dal lat. spōliare, deriv. di spoli°um con normale chiusura della lunga tonica ō in u) addizionata del sostantivo ‘mpise plurale di ‘mpiso= impiccato; ‘mpiso è il p.p. di ‘mpennere= impiccare, sospendere (dal lat. in + pendere).
E qui penso di poter far punto, convinto, se non di avere esaurito l’argomento, di averne détto a sufficienza contentando l’amico C.R. e chi altro dovesse leggermi.
raffaele bracale
Anche questa volta su quesito dell’amico C.R. (al solito, motivi di privatezza mi impongono di non riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi occuperò delle voci italiane in epigrafe, di altri eventuali sinonimi, voci collegate e delle corrispondenti voci del napoletano.
Cominciamo con
briccone s. m. [f. -a] 1 persona scaltra, malvagia, senza scrupoli
2 (scherz.) persona simpaticamente astuta, riferito soprattutto a ragazzi; birbante. DIM. bricconcello;
quanto all’etimo, molti si trincerano dietro il solito pilatesco etimo incerto mentre una sostanziosa scuola di pensiero pensa – epperò non so con quanta esattezza, atteso un’evidente differenza semantica di cui dirò – pensa dicevo ad un antico francese bric = stolto; tale idea non mi convince punto poi che trovo che semanticamente siano addirittura agli antipodi la persona scaltra, astuta, malvalgia indicata con la voce briccone e lo stolto dell’ antico francese bric e mi fa meraviglia che una considerazione tanto ovvia non sia stata fatta da nessuno dei numerosi linguisti che accolgono l’idea che briccone provenga dall’antico francese bric; molto piú perseguibile m’appare l’idea che briccone abbia una relazione di filiazione o fraternità con l’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; un’altra scuola di pensiero pensa per briccone ad un accrescitivo (cfr. il suff. one) di bricco antica voce etimologicamente pare ricostruito su di un termine settentrionale bricca=luogo scosceso, dirupo; bricco valse nel linguaggio regionale furfante ma a mio avviso è molto forzato il collegamento semantico tra il furfante di bricco ed il dirupo di bricca; a questo punto penso proprio che delle tre proposte la migliore via etimologica di briccone sia quella dell’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; procediamo oltre ed abbiamo
birbante s. m. e f. - 1. persona scaltra e malvagia che conduce vita poco onesta 2. (scherz.) Ragazzo furbo e impertinente. persona scaltra e malvagia. 3 (ant.) truffatore; quanto all’etimo la voce a margine risulta il part. presente di un non attestato *birbare che a sua volta pare marcato su di una lettura metatetica del sost. fr. bribe 'tozzo di pane dato per elemosina', quindi birbare varrebbe in primis accattonare, elemosinare e di conseguenza il birbante verrebbe, in primis, ad essere un accattone, un vagabondo, e solo per ampiamento semantico: un briccone,uno scaltro, un malvagio. Andiamo oltre:
canaglia s. f. 1 individuo malvagio, ribaldo | (scherz.) persona astuta, birbante 2 (lett.) gente spregevole, marmaglia;quanto all’etimo la voce a margine risulta senza tentennamenti essere un derivato del francese canaille= furfante.
furfante s. m e f. persona disonesta; farabutto, malfattore.
Quanto all’etimo la voce a margine risulta essere il part.pres. di un *furfare/forfare= agire fuori dalla legge, verbi tratti dal lat. med. foras-facere/foris-facere = agire al di fuori del lecito e/o consentito.
Giunti a questo punto, prima di proseguire soffermiamoci su alcuni termini fin qui incontrati:
individuo s. m. 1 organismo vivente considerato distintamente da ogni altro della specie o del genere a cui appartiene; 2 la persona considerata nella sua singolarità: l'interesse dell'individuo non deve esser posto al di sopra di quello della comunità
3 persona che non si conosce o di cui non si vuol dire il nome (spec. spreg.): c'è un individuo che ti cerca; un individuo sospetto, pericoloso; un losco individuo
come agg. (lett.) 1 indiviso o indivisibile 2 individuale, particolare. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. individuu(m), comp. di in- e dividuus 'separato, separabile';
scaltro agg.
1 che agisce, parla e si comporta con accortezza, con avvedutezza; per estens., astuto, furbo
2 che è espressione di scaltrezza: comportamento scaltro. Quanto all’etimo è voce deverbale derivata dal verbo scaltrire= diventare avveduto, attento o piú guardingo; acquistare abilità, perizia, sicurezza, spec. nella propria attività o professione; il verbo scaltrire/rsi è derivato dal b. lat. s +calterire per cauterire= 'bruciare', deriv. di cauterium 'cauterio', perché il restare scottato induce a una condotta piú guardinga;
malvagioagg. [pl. f. -ge] 1 cattivo, perfido, malefico: un uomo, un carattere malvagio; azioni, parole malvage
2 (fam.) pessimo: un tempo malvagio; quel film non è malvagio, è abbastanza bello
3 (lett.) pesante, difficile 4 (ant.) falso; come s. m. [f. -a] persona perfida, crudele | il Malvagio, per antonomasia, il diavolo. Quanto all’etimo è voce derivata dal provenz. malvatz, che è dal lat. volg. *malifatiu(m) 'che à cattiva sorte', comp. di malum 'cattivo' e fatum 'destino';
truffatore s. m. chi imbroglia con una truffa; chi sottrarre qualcosa con truffa; chi per abitudine agisce truffaldinamente cioè commettendo il reato di ricavare illecito profitto a danno di altri avendoli indotti in errore con artifici e raggiri. Quanto all’etimo è voce derivata dal verbo truffare a sua volta denominale di truffa che è dal provenz. ant. trufa,tratto per metatesi dal lat. tardo tufera, propr. 'tartufo', poi 'inganno';
astuto agg. 1 dotato di astuzia: essere piú astuto di una volpe; che astuto!
2 che denota astuzia; detto, fatto con astuzia: risposta astuta. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. astutu(m);
ribaldo s. m. 1 nel medioevo, soldato di bassa condizione o servo che seguiva gli eserciti, dedicandosi soprattutto a saccheggi
2 (estens.) chi vive di attività disoneste, di truffe, rapine ecc.; briccone, furfante, mascalzone. Quanto all’etimo è voce derivata dal fr. ant. ribaud, provenz. ribaut, deriv. del medio alto ted. hriba 'prostituta';
perfido agg. 1 che non tiene fede alla parola data, sleale
2 che agisce con intenzioni malvagie; che è incline a provocare, traendone soddisfazione, il male e il danno di altre persone: quell'uomo è di animo perfido; un perfido traditore | che denota subdola malvagità: un'azione perfida
3 (iperb. , scherz.) cattivo, pessimo (detto di cibo, bevanda, tempo atmosferico e sim.); numerosi i sinonimi dell’agg. a margine; tra i piú usati rammento: falso, traditore, infido sleale, insincero, malfido, malvagio, crudele, efferato, (iperb.) pessimo, terribile. Rammento che talvolta viene usato impropriamente come sinonimo di perfido, infido, malfido etc. anche l’agg.vo malfidato che invece è colui che è solito diffidare, colui che è sempre sospettoso
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. perfidu(m), comp. di pe°r 'al di là, oltre' e fi¯dus 'fedele, leale'; propr. 'che viene meno alla fede data';
maleficoagg. [pl. m. -ci] 1 che reca danno: clima malefico; una persona malefica
2 di maleficio; che è frutto di maleficio: arti malefiche; influsso malefico
come sostantivo m. (ant.) stregone.
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. maleficu(m), comp. di male 'male' ed un tema di facere;
farabutto s. m. [f. -a] persona senza scrupoli, capace di qualsiasi slealtà; mascalzone.
Quanto all’etimo è parola pervenuta nella lingua nazionale ricavata dal napoletano frabbutto derivato dal ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere
mascalzone s. m. [f. -a] persona capace di azioni spregevoli o disoneste (anche scherz.): comportarsi da mascalzone; non fare il mascalzone! Persona d'animo volgare, priva di scrupoli o di scarso senso morale.
Riferito ai bambini è molto usato il vezz. mascalzoncello. Quanto all’etimo per alcuni la voce è alterazione di maniscalco "garzone di stalla", per incrocio con scalzo,ma a mio avviso meglio chi vi legge un’addizione dello spagn. mas (dal lat. magis= piú) e di scalzone accrescitivo di scalzo cioè piú che scalzo= persona male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone;
Marmaglia o maramaglia, s. f. 1 insieme di gente spregevole; 2 (scherz.) gruppo chiassoso di bambini o ragazzi. Quanto all’etimo la voce risulta derivata dal fr. marmaille, deriv. di marmot 'bambino, marmocchio'.
Esaurite cosí le voci dell’italiano, passiamo a quelle del napoletano dove troviamo:
- bazzariota s.m. voce antica e desueta che in origine indicò un rivenditore girovago, un treccone cioè un venditore al minuto di generi alimentari (spec. verdure,legumi, uova, pollame ecc.); rivendugliolo cioè chi rivende al minuto, per lo piú cibo o merci di poco conto, in baracche o con carrettini, | (spreg.) venditore disonesto; poi per ampliamento semantico indicò il perdigiorno, il briccone, il giovinastro sfaccendato (detto alibi icasticamente stracquachiazze e cioè propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che forma la voce stracquachiazze unito con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma nel caso di stracquachiazze estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno o dal bazzariota di turno;
quanto all’etimo bazzariota deriva dall’arabo bazàr=mercato attraverso un greco mod. bazariotes o pazariotes= mercante, negoziante;
frabbutto ed al f.le frabbotta di questo sostantivo con cui si indica la persona capace di azioni spregevoli o disoneste, il cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza, ò già detto antea sotto la voce dell’italiano farabutto, voce che fu marcata su questa napoletana a margine; quanto all’etimo frabbutto come ò già detto deriva ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere;
piezzo ‘e catapiezzo letteralmente pezzo di granpezzo; locuzione usata nel parlato popolare e per altro assente negli scritti,con le eccezioni di Basile e Sarnelli, e quelle di antichi dizionarii: D’Ambra,Andreoli etc. ) come un sostantivo maschile nel significato di ribaldo, briccone, birbonaccio; la voce piezzo= pezzo (adattamento al maschile del lat. volg. *pettia(m), di origine celtica di per sé non à valenze negative anzi riferito a persona lo si usa per sottolinearne la robustezza fisica, l'avvenenza: ‘nu piezzo d'ommo; che bellu piezzo ‘e guagliona |’nu piezzo grosso, (fig.) persona importante, influente; il significato negativo viene assunto se piezzo è usato in espressioni di insulto quali vi’ che piezzo ‘e ciuccio!, piezzo ‘e bbaccalà! o ancóra nell’espressione qui a margine piezzo ‘e catapiezzo espressione dove catapiezzo è usato quale iterativo, peggiorativo della voce piezzo attraverso il prefisso rafforzativo katà; rammento a questo punto una particolarità e cioè che vòlta al femminile l’espressione a margine non suona (come invece ci si attenderebbe) pezza ‘e catapezza, (dove catapezza verrebbe ad essere l’iterativo, peggiorativo della voce pezza), ma suona piezzo ‘e catapuzza espressione nella quale il masch. piezzo è usato con una licenza grammaticale, in funzione femminile e l’attesa voce catapezza viene trasformata in catapuzza con un evidente bisticcio tra due diversi termini: catapezza e catapuzza dei quali catapuzza con palese derivazione da lat. tardo cataputia che è da un gr. *katapytía, da pytía 'coagulo') indica un’ erba delle Euforbiacee con proprietà emetiche e purganti; a conclusione di tutto ciò, ricordo che comunque piezzo ‘e catapiezzo e piezzo ‘e catapuzza non vengono usati in senso palesemente dispregiativo o offensivo, ma sempre in funzione scherzosa ed eufemistica.
Scauzone a.e s.m. persona priva di calze e scarpe, male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone e per estensione persona capace di azioni spregevoli o disoneste, cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza; la voce risulta essere un accrescitivo (cfr. il suff. one) in funzione dispregiativa di scauzo =scalzo che è contrazione di scalz(at)o; scauzo è dal lat. excalcèatu(m) p. p. del lat. excalceare, comp. di ex- 'via da' e calceare 'mettere le calzature', deriv. di calceus 'scarpa'; normale nel napoletano il passaggio del lat al ad au (cfr. altus→auto→avuto→aveto= alto alter→auto→ato= altro).
sfaccimmo s. m. dalla doppia valenza; in senso negativo: farabutto, mascalzone; in senso positivo: furbo, intraprendente, determinato (specie di una persona giovane.). È parola formata dal sost.: faccia con l’avvio di una s detrattiva ed il suffisso dispregiativo immo nell’ovvia idea di significar: persona priva di faccia (senza vergogna). Attenzione!In napoletano esiste anche la voce sfaccimma che però non è il femminile della parola precedente ed à ben altro significato ed etimologia,indicando il prodotto dell’eiaculazione maschile; anche etimologicamente la voce sfaccimma à derivazione del tutto diversa dal pregresso sfaccimmo; sfaccimma infatti prende l’avvio da una voce di tipo onomatopeico sfacc che indica la violenza dell’emissione, addizionato del solito suffisso imma qui però con funzione intensiva, non dispregiativa.
Rammenterò per amor di completezza che quando si volesse usare il termine precedente: sfaccimmo riferito ad una donna, non si userà sfaccimma che come visto indica un’altra cosa, ma una sorta di diminutivo, vezzeggiativo: sfaccemmusella che indica alternativamente o la mascalzoncella o la furbetta intraprendente.
spogliampise a e s.m.e f. letteralmente colui/colei che spoglia, depreda gli impiccati e estensivamente persona capace di azioni ripropevoli se non disoneste, persona malvagia, priva di scrupoli, crudele, feroce, spietata, scellerata, empia, perversa, sadica, maligna proclive ad essere efferata, disumana, brutale; quanto all’etimo è voce formata dall’agglutinazione della voce verbale spoglia (3° p.sg. ind. pres. dell’infinito spuglià = spogliare (dal lat. spōliare, deriv. di spoli°um con normale chiusura della lunga tonica ō in u) addizionata del sostantivo ‘mpise plurale di ‘mpiso= impiccato; ‘mpiso è il p.p. di ‘mpennere= impiccare, sospendere (dal lat. in + pendere).
E qui penso di poter far punto, convinto, se non di avere esaurito l’argomento, di averne détto a sufficienza contentando l’amico C.R. e chi altro dovesse leggermi.
raffaele bracale
ESSERE ‘NU SIGNORE/’NA SIGNORA
ESSERE ‘NU SIGNORE/’NA SIGNORA
L’espressione in epigrafe che in napoletano si ritrova o nell’affermazione esclamativa “Sî ‘nu signore!” o piú spesso in quella (di sapore iberico) che usa il voi in luogo del tu “Site ‘nu signore !” usa la parola signore come appellativo di riguardo e di cortesia per sottolineare le positive qualità di persona democratica, ma che sia raffinata nei modi e nei gusti, di persona di cultura, beneducata, disposta ad aiutare il prossimo o a partecipare agli altri in maniera gratuita e pronta il proprio sapere.
Rammento che la voce signore in talune espressioni partenopee viene apocopato in si’ (cfr. ‘o si’ prevete = il signor prete, che alcuni erroneamente rendono con un incongruo zi’ prevete che dovrebbe tradursi zio prete in quanto si’ è apocope di si – gnore, mentre zi’ è apocope di zio/a e deriva da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ));etimologicamente signore deriva dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre il sié ( cfr. ‘a sié badessa = la signora badessa) è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→ sie-gneuse. Rammento che la voce femminile napoletana sié, pur essendo un’apocope dev’essere scritta con la e accentata per indicarne l’esatta pronuncia che non si indicherebbe se si scrivesse come pure fa qualche sprovveduto sie’ sulla falsariga del si’ maschile.
Raffaele Bracale
L’espressione in epigrafe che in napoletano si ritrova o nell’affermazione esclamativa “Sî ‘nu signore!” o piú spesso in quella (di sapore iberico) che usa il voi in luogo del tu “Site ‘nu signore !” usa la parola signore come appellativo di riguardo e di cortesia per sottolineare le positive qualità di persona democratica, ma che sia raffinata nei modi e nei gusti, di persona di cultura, beneducata, disposta ad aiutare il prossimo o a partecipare agli altri in maniera gratuita e pronta il proprio sapere.
Rammento che la voce signore in talune espressioni partenopee viene apocopato in si’ (cfr. ‘o si’ prevete = il signor prete, che alcuni erroneamente rendono con un incongruo zi’ prevete che dovrebbe tradursi zio prete in quanto si’ è apocope di si – gnore, mentre zi’ è apocope di zio/a e deriva da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ));etimologicamente signore deriva dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre il sié ( cfr. ‘a sié badessa = la signora badessa) è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→ sie-gneuse. Rammento che la voce femminile napoletana sié, pur essendo un’apocope dev’essere scritta con la e accentata per indicarne l’esatta pronuncia che non si indicherebbe se si scrivesse come pure fa qualche sprovveduto sie’ sulla falsariga del si’ maschile.
Raffaele Bracale
Cozzeche dint’ â connola –
Cozzeche dint’ â connola –
Cozze nella culla
Nota: cozzeche è il plur. di cozzeca= cozza, mollusco marino commestibile, comune nei mari temperati e anche coltivabile, con conchiglia bivalve a forma di cuneo, nera all'esterno e madreperlacea all'interno; la voce cozzeca che è anche nell’italiano accanto a cozza, è variante merid. di coccia 'guscio di molluschi';
connola= culla piccolo letto per neonati, un tempo per lo piú a dondolo; la voce connola è dal tardo latino cunula(m), dim. di cuna 'culla';
la ricetta fu molto gradita al re Ferdinando I Borbone che la faceva preparare con i mitili da lui stesso pescati e che non era riuscito a vendere, come era solito fare con tutto l’altro da lui pescato nel mare sotto la collina di Posillipo.
INGREDIENTI E DOSI per 6 persone
2 kg di cozze;
12 grossi pomidoro semimaturi tipo Sorrento o tipo costoluti;
1 etto di capperi dissalati, lavati, asciugati e tritati finemente con un gran ciuffo prezzemolo e due spicchi d’aglio;
1 cucchiaio d’origano secco;
3 cucchiai di pangrattato o mollica di pane casereccio bruscata al forno e titata finemente;
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e. v.
sale fino e pepe nero q. s.
PREPARAZIONE
Lavare e spazzolare decisamente le cozze eliminando bisso ed incrostazioni; sistemarle in un ampio tegame incoperchiato e, senza aggiungere acqua o altro liquido ed a fuoco vivace farle aprire aggiungendo alla fine poco pepe; prelevare dalle valve i frutti sistemandoli in una terrina coperti con il liquido che le cozze, aprendosi avranno prodotto; tale liquido dovrà essere filtrato con un colino di garza per trattenere eventuali impurità.
Lavare, asciugare i pomidoro che vanno tagliati orizzontalmente verso l’alto per modo che eliminato il… cappello, si possano adeguatamente svuotare di polpa e semi; porli capovolti su di un canevaccio per far scorrer via un po’ del liquido di vegetazione; dopo alcuni minuti sistemarli uno accanto all’altro in una capace pirofila nella quale verrà versato tutto il liquido d’apertura delle cozze, tenendo i pomidoro con la bocca in alto; salarli, aggiungere un po’ d’origano e porre in ogni pomodoro un adeguato numero di frutti di mare,cospargendovi sopra il trito di capperi, prezzemolo ed aglio; irrorare il tutto con l’olio ed a completamento cospargere con il pangrattato o il trito di mollica bruscata , ponendo al forno caldo (180°) per circa 25’ fino a che non si formi una crosticina dorata.
Servire caldo di forno.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Cozze nella culla
Nota: cozzeche è il plur. di cozzeca= cozza, mollusco marino commestibile, comune nei mari temperati e anche coltivabile, con conchiglia bivalve a forma di cuneo, nera all'esterno e madreperlacea all'interno; la voce cozzeca che è anche nell’italiano accanto a cozza, è variante merid. di coccia 'guscio di molluschi';
connola= culla piccolo letto per neonati, un tempo per lo piú a dondolo; la voce connola è dal tardo latino cunula(m), dim. di cuna 'culla';
la ricetta fu molto gradita al re Ferdinando I Borbone che la faceva preparare con i mitili da lui stesso pescati e che non era riuscito a vendere, come era solito fare con tutto l’altro da lui pescato nel mare sotto la collina di Posillipo.
INGREDIENTI E DOSI per 6 persone
2 kg di cozze;
12 grossi pomidoro semimaturi tipo Sorrento o tipo costoluti;
1 etto di capperi dissalati, lavati, asciugati e tritati finemente con un gran ciuffo prezzemolo e due spicchi d’aglio;
1 cucchiaio d’origano secco;
3 cucchiai di pangrattato o mollica di pane casereccio bruscata al forno e titata finemente;
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e. v.
sale fino e pepe nero q. s.
PREPARAZIONE
Lavare e spazzolare decisamente le cozze eliminando bisso ed incrostazioni; sistemarle in un ampio tegame incoperchiato e, senza aggiungere acqua o altro liquido ed a fuoco vivace farle aprire aggiungendo alla fine poco pepe; prelevare dalle valve i frutti sistemandoli in una terrina coperti con il liquido che le cozze, aprendosi avranno prodotto; tale liquido dovrà essere filtrato con un colino di garza per trattenere eventuali impurità.
Lavare, asciugare i pomidoro che vanno tagliati orizzontalmente verso l’alto per modo che eliminato il… cappello, si possano adeguatamente svuotare di polpa e semi; porli capovolti su di un canevaccio per far scorrer via un po’ del liquido di vegetazione; dopo alcuni minuti sistemarli uno accanto all’altro in una capace pirofila nella quale verrà versato tutto il liquido d’apertura delle cozze, tenendo i pomidoro con la bocca in alto; salarli, aggiungere un po’ d’origano e porre in ogni pomodoro un adeguato numero di frutti di mare,cospargendovi sopra il trito di capperi, prezzemolo ed aglio; irrorare il tutto con l’olio ed a completamento cospargere con il pangrattato o il trito di mollica bruscata , ponendo al forno caldo (180°) per circa 25’ fino a che non si formi una crosticina dorata.
Servire caldo di forno.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
COZZECHE FRITTE
COZZECHE FRITTE
COZZE FRITTE
Nota: cozzeche è il plur. di cozzeca= cozza, mollusco marino commestibile, comune nei mari temperati e anche coltivabile, con conchiglia bivalve a forma di cuneo, nera all'esterno e madreperlacea all'interno; la voce cozzeca che è anche nell’italiano accanto a cozza, è la variante merid. di coccia 'guscio di molluschi'
Questa ricetta è mutuata da quelle della cucina di Puglia, regione che essendo appartenuta al Reame delle Due Sicilie à spesso fornito Napoli di ottimi suggerimenti gastronomici.
ingredienti e dosi per 6 persone
2 kg. di cozze,
½ bicchiere di vino bianco,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 etto di farina,
3 uova,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
abbondante olio per friggere (semi varî o arachidi o mais o girasole),
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
lavare e pulire a fondo le cozze eleminando incrostazioni e bisso e sistemarle in un tegame con l’aglio ed il vino, incoperchiare ed a fuoco vivo farle aprire ; prelevare i frutti, eleminando le valve, rollarli delicatamente nella farina ed intingerli nelle uova sbattute addizionate del trito di prezzemolo e friggerle in olio bollente e profondo; prelevarli con una schiumarola, adagiarli su carta assorbente da cucina, salare e pepare ad libitum e servire come gustoso antipasto. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
COZZE FRITTE
Nota: cozzeche è il plur. di cozzeca= cozza, mollusco marino commestibile, comune nei mari temperati e anche coltivabile, con conchiglia bivalve a forma di cuneo, nera all'esterno e madreperlacea all'interno; la voce cozzeca che è anche nell’italiano accanto a cozza, è la variante merid. di coccia 'guscio di molluschi'
Questa ricetta è mutuata da quelle della cucina di Puglia, regione che essendo appartenuta al Reame delle Due Sicilie à spesso fornito Napoli di ottimi suggerimenti gastronomici.
ingredienti e dosi per 6 persone
2 kg. di cozze,
½ bicchiere di vino bianco,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 etto di farina,
3 uova,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
abbondante olio per friggere (semi varî o arachidi o mais o girasole),
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
lavare e pulire a fondo le cozze eleminando incrostazioni e bisso e sistemarle in un tegame con l’aglio ed il vino, incoperchiare ed a fuoco vivo farle aprire ; prelevare i frutti, eleminando le valve, rollarli delicatamente nella farina ed intingerli nelle uova sbattute addizionate del trito di prezzemolo e friggerle in olio bollente e profondo; prelevarli con una schiumarola, adagiarli su carta assorbente da cucina, salare e pepare ad libitum e servire come gustoso antipasto. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
CIANFOTTA* casareccia napoletana
CIANFOTTA* casareccia napoletana
Ingredienti e dosi per 6 – 8 persone
4 melanzane violette napoletane,
4 zucchine piccole e sode,
2 peperoni quadrilobati , di cui 1 giallo ed 1 rosso, grossi e carnosi,
4 pomidoro maturi sbollentati e pelati,
2 grosse cipolle dorate vecchie,
5 spicchi d'aglio,
1 bicchiere di olio extravergine d'oliva,
1 etto di capperi lavati e dissalati,
1 ciuffo di basilico fresco,
sale doppio alle erbette e pepe bianco q.s.
procedimento
Pulite le verdure ( le melanzane e le zucchine, senza sbucciarle,vanno sezionate in piccoli cubi, mentre i peperoni vanno tagliati in ampie falde eliminando torsoli, semi nonché le costoline bianche interne) e lavatele accuratamente. Poi versate metà dell'olio in un tegame, possibilmente di terracotta, unitevi le cipolle affettate sottilmente e fatele appassire a fuoco dolce. Tagliate le melanzane e le zucchine in piccoli pezzi, versate in una padella i cubetti di zucchine e melanzane e fateli saltare a fiamma allegra con l'olio rimanente.
Trasferite le melanzane e le zucchine nel tegame delle cipolle, aggiungete i peperoni tagliati a falde e soffriggete il tutto per 5 minuti, mescolando con un cucchiaio di legno.
Quindi unitevi i pomidoro tagliati a pezzi, l'aglio schiacciato, i capperi dissalati e lavati ed alune foglie di basilico spezzettate. Salate, insaporite con del pepe macinato al momento, incoperchiate e lasciate cuocere a fuoco molto basso per almeno un’ora, mescolando di tanto in tanto, aggiungendo se necessario una mezza ramaiolata d’acqua bollente; scoperchiare e fare asciugare la cianfotta che – quando sarà cotta – deve risultare piuttostoasciutta, ma non secca.
*detta anche: stufatino di verdure; delizioso contorno tipico della semplice, ma gustosissima cucina partenopea.
NOTA
La voce cianfotta s.f. è un termine collaterale di ciambròtta – ciambotta – ciammotta tutte voci presenti in aree centro-meridionali per indicare una vivanda-miscuglio di varii ingredienti vegetali: cipolle, peperoni, melanzane etc. La voce è derivata da un antico francese dialettale chabrot= miscuglio.
Mangia Napule, bbona salute!
raffaele bracale
Ingredienti e dosi per 6 – 8 persone
4 melanzane violette napoletane,
4 zucchine piccole e sode,
2 peperoni quadrilobati , di cui 1 giallo ed 1 rosso, grossi e carnosi,
4 pomidoro maturi sbollentati e pelati,
2 grosse cipolle dorate vecchie,
5 spicchi d'aglio,
1 bicchiere di olio extravergine d'oliva,
1 etto di capperi lavati e dissalati,
1 ciuffo di basilico fresco,
sale doppio alle erbette e pepe bianco q.s.
procedimento
Pulite le verdure ( le melanzane e le zucchine, senza sbucciarle,vanno sezionate in piccoli cubi, mentre i peperoni vanno tagliati in ampie falde eliminando torsoli, semi nonché le costoline bianche interne) e lavatele accuratamente. Poi versate metà dell'olio in un tegame, possibilmente di terracotta, unitevi le cipolle affettate sottilmente e fatele appassire a fuoco dolce. Tagliate le melanzane e le zucchine in piccoli pezzi, versate in una padella i cubetti di zucchine e melanzane e fateli saltare a fiamma allegra con l'olio rimanente.
Trasferite le melanzane e le zucchine nel tegame delle cipolle, aggiungete i peperoni tagliati a falde e soffriggete il tutto per 5 minuti, mescolando con un cucchiaio di legno.
Quindi unitevi i pomidoro tagliati a pezzi, l'aglio schiacciato, i capperi dissalati e lavati ed alune foglie di basilico spezzettate. Salate, insaporite con del pepe macinato al momento, incoperchiate e lasciate cuocere a fuoco molto basso per almeno un’ora, mescolando di tanto in tanto, aggiungendo se necessario una mezza ramaiolata d’acqua bollente; scoperchiare e fare asciugare la cianfotta che – quando sarà cotta – deve risultare piuttostoasciutta, ma non secca.
*detta anche: stufatino di verdure; delizioso contorno tipico della semplice, ma gustosissima cucina partenopea.
NOTA
La voce cianfotta s.f. è un termine collaterale di ciambròtta – ciambotta – ciammotta tutte voci presenti in aree centro-meridionali per indicare una vivanda-miscuglio di varii ingredienti vegetali: cipolle, peperoni, melanzane etc. La voce è derivata da un antico francese dialettale chabrot= miscuglio.
Mangia Napule, bbona salute!
raffaele bracale
CAZUNCIELLE D’’O PURCIELLO
CAZUNCIELLE D’’O PURCIELLO
dosi per 6 persone:
per la pasta:
6 etti di farina
12 uova freschissime
due cucchiai d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
un pizzico abbondante di sale fino.
per il ripieno:
6 -8 rocchi di salsiccia di grana finissima, al finocchietto,
1 bicchiere di vino bianco secco,
4 etti di ricotta di pecora,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 cucchiaio di sugna,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
½ etto di pecorino grattugiato,
pepe nero q.s.
, per il condimento:
500 gr di pomidoro freschi, lavati, sbollentati, pelati e ridotti in grossi pezzi, o pari peso di pomidoro pelati in iscatola,
Aglio mondato e tritato q.s.,
2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.
½ etto di pecorino grattugiato,
pepe nero q.s.,
cannella in polvere – mezzo cucchiaino da caffè,
abbondante olio per friggere (semi varii, arachidi, mais, girasole)
procedimento
Si comincia spellando e sbriciolando le salsicce e ponendole a rosolare lentamente(occorrerà un’ora di cottura) in un tegame con olio e sugna, bagnandole dapprima con il vino, da fare evaporare e poi con una ciotola d’acqua bollente;
si appronta súbito dopo il condimento versando un bicchiere d’ olio in un tegame e facendovi rosolare un battutino di aglio; aggiungere poi il concentrato ed i pezzi di pomidoro precedentemente scottati e pelati, fare cuocere fino a raggiungere il bollore; tenere in caldo. Approntare allora l’impasto, ponendo sulla spianatoia la farina a fontana, aprendovi dentro undici uova, un pizzico di sale e due cucchiai d’olio; impastare fino ad ottenere una palla di pasta elastica e consistente da far riposare a temperatura ambiente per circa mezz’ora in una terrina cosparsa di farina asciutta e coperta con un canevaccio affinché la pasta non secchi. Passata la mezz’ora dividere l’impasto in varî pezzi da cui ottenere con l’ausilio del matterello e tirandole sulla spianatoia cosparsa di farina asciutta, otto sfoglie dello spessore di circa ½ cm. e della dimensione di 30 x 20 cm.; nel frattempo stemperare in una terrina la ricotta di pecora con il cognac o brandy , aggiungere le salsicce rosolate assieme al fondo di cottura, il pecorino grattugiato ed il pepe ed amalgamare il tutto; a questo punto distendere sulla spianatoia quattro sfoglie ed aiutandosi con un cucchiaio a punta depositare su ogni sfoglia, a distanza regolare, otto mucchietti di ripieno; sbattere l’ultimo uovo e servendosi di un pennellino bagnarne il perimetro dei mucchietti; distendere su ogni sfoglia un’altra sfoglia e pressare con l’indice sul perimetro dei singoli mucchietti per modo che l’uovo ivi distribuito facendo da collante, sigilli il ripieno ed unisca la sfoglia inferiore con la superiore; sempre seguendo il perimetro dei mucchietti ottenere da ogni accoppiata di sfoglie con l’ausilio di un coltello affilatissimo o una rotellina dentata, otto calconzelli in modo di avere alla fine trentadue calzoncelli che vanno súbito fritti in olio bollente e profondo fino a che siano ben dorati; una volta fritti, prelevarli con una schiumarola, sgrondandoli accuratamente e metterli in una pirofila da forno, irrorandoli con tutto il sugo di pomodoro, cospargendoli con il pecorino, un poco di pepe nero e la cannella in polvere.Evitare di rimestare, per non fare aprire i calzoncelli e passare la pirofila in forno preriscaldato a 180° fino a gratinatura dorata.
Servire caldissimi in ragione di quattro calzoncelli a porzione.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
dosi per 6 persone:
per la pasta:
6 etti di farina
12 uova freschissime
due cucchiai d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
un pizzico abbondante di sale fino.
per il ripieno:
6 -8 rocchi di salsiccia di grana finissima, al finocchietto,
1 bicchiere di vino bianco secco,
4 etti di ricotta di pecora,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 cucchiaio di sugna,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
½ etto di pecorino grattugiato,
pepe nero q.s.
, per il condimento:
500 gr di pomidoro freschi, lavati, sbollentati, pelati e ridotti in grossi pezzi, o pari peso di pomidoro pelati in iscatola,
Aglio mondato e tritato q.s.,
2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.
½ etto di pecorino grattugiato,
pepe nero q.s.,
cannella in polvere – mezzo cucchiaino da caffè,
abbondante olio per friggere (semi varii, arachidi, mais, girasole)
procedimento
Si comincia spellando e sbriciolando le salsicce e ponendole a rosolare lentamente(occorrerà un’ora di cottura) in un tegame con olio e sugna, bagnandole dapprima con il vino, da fare evaporare e poi con una ciotola d’acqua bollente;
si appronta súbito dopo il condimento versando un bicchiere d’ olio in un tegame e facendovi rosolare un battutino di aglio; aggiungere poi il concentrato ed i pezzi di pomidoro precedentemente scottati e pelati, fare cuocere fino a raggiungere il bollore; tenere in caldo. Approntare allora l’impasto, ponendo sulla spianatoia la farina a fontana, aprendovi dentro undici uova, un pizzico di sale e due cucchiai d’olio; impastare fino ad ottenere una palla di pasta elastica e consistente da far riposare a temperatura ambiente per circa mezz’ora in una terrina cosparsa di farina asciutta e coperta con un canevaccio affinché la pasta non secchi. Passata la mezz’ora dividere l’impasto in varî pezzi da cui ottenere con l’ausilio del matterello e tirandole sulla spianatoia cosparsa di farina asciutta, otto sfoglie dello spessore di circa ½ cm. e della dimensione di 30 x 20 cm.; nel frattempo stemperare in una terrina la ricotta di pecora con il cognac o brandy , aggiungere le salsicce rosolate assieme al fondo di cottura, il pecorino grattugiato ed il pepe ed amalgamare il tutto; a questo punto distendere sulla spianatoia quattro sfoglie ed aiutandosi con un cucchiaio a punta depositare su ogni sfoglia, a distanza regolare, otto mucchietti di ripieno; sbattere l’ultimo uovo e servendosi di un pennellino bagnarne il perimetro dei mucchietti; distendere su ogni sfoglia un’altra sfoglia e pressare con l’indice sul perimetro dei singoli mucchietti per modo che l’uovo ivi distribuito facendo da collante, sigilli il ripieno ed unisca la sfoglia inferiore con la superiore; sempre seguendo il perimetro dei mucchietti ottenere da ogni accoppiata di sfoglie con l’ausilio di un coltello affilatissimo o una rotellina dentata, otto calconzelli in modo di avere alla fine trentadue calzoncelli che vanno súbito fritti in olio bollente e profondo fino a che siano ben dorati; una volta fritti, prelevarli con una schiumarola, sgrondandoli accuratamente e metterli in una pirofila da forno, irrorandoli con tutto il sugo di pomodoro, cospargendoli con il pecorino, un poco di pepe nero e la cannella in polvere.Evitare di rimestare, per non fare aprire i calzoncelli e passare la pirofila in forno preriscaldato a 180° fino a gratinatura dorata.
Servire caldissimi in ragione di quattro calzoncelli a porzione.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
CAPUNATELLA CU ‘O PURPO
CAPUNATELLA CU ‘O PURPO
Dosi per 5 o 6 persone
1 grosso polpo di circa 900 grammi,
2 abbondanti coste di sedano bianco,
4 etti di fave fresche,
3 etti di piccoli pomidoro ciliegia,
2 spicchi d’aglio mondati tritati finemente assieme ad
1 ciuffo di prezzemolo,
sale grosso q.s.
pepe bianco q.s.
6 freselle di grano duro,
1 tazzina d’aceto bianco,
1 tazza di mayonnaise,
1 bicchiere d’ olio d’oliva e.v.p.s.
Procedimento
Spezzettare le freselle e porle in un’insalatiera bagnandole d’acqua fredda e tenerle fino a che non si ammorbidiscono (circa 1 ora); frattanto lavare e pulire bene il polpo, arrovesciando la testa e togliendo via occhi e becco; batterlo con decisione su di una superficie di marmo e porlo a lessare, a fuoco basso in una pentola con molta acqua fredda salata; a cottura ultimata prelevare il polpo e tagliarlo súbito in tocchetti di circa 3 cm. cadauno; tenerlo da parte cosí tagliato e nella medesima acqua dove à bollito il polpo lessare velocemente le fave fresche sgusciate ed i gambi di sedano tagliati in pezzi di circa 1,5 cm.
a cottura ultimata prelevare le verdurine con una schiumarola forata e porle in acqua con ghiaccio, affinché si raffreddino senza perdere il loro colore vivo; prelevare i pezzi di freselle oramai ammollati e porli sul fondo di un’ altra insalatiera aggiungendovi via via i pezzi di polpo, i pomidoro lavati e tagliati in quattro o piú parti e le verdurine raffreddate;irrorare con l’olio e la tazzina d’aceto aggiustare di sale grosso e pepe, rimestare completando con l’aglio, il prezzemolo tritato e ciuffi di mayonnaise; far transitare in frigo per circa 30’ e poi servire.
Gustosissimo antipasto o rompidigiuno.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
Dosi per 5 o 6 persone
1 grosso polpo di circa 900 grammi,
2 abbondanti coste di sedano bianco,
4 etti di fave fresche,
3 etti di piccoli pomidoro ciliegia,
2 spicchi d’aglio mondati tritati finemente assieme ad
1 ciuffo di prezzemolo,
sale grosso q.s.
pepe bianco q.s.
6 freselle di grano duro,
1 tazzina d’aceto bianco,
1 tazza di mayonnaise,
1 bicchiere d’ olio d’oliva e.v.p.s.
Procedimento
Spezzettare le freselle e porle in un’insalatiera bagnandole d’acqua fredda e tenerle fino a che non si ammorbidiscono (circa 1 ora); frattanto lavare e pulire bene il polpo, arrovesciando la testa e togliendo via occhi e becco; batterlo con decisione su di una superficie di marmo e porlo a lessare, a fuoco basso in una pentola con molta acqua fredda salata; a cottura ultimata prelevare il polpo e tagliarlo súbito in tocchetti di circa 3 cm. cadauno; tenerlo da parte cosí tagliato e nella medesima acqua dove à bollito il polpo lessare velocemente le fave fresche sgusciate ed i gambi di sedano tagliati in pezzi di circa 1,5 cm.
a cottura ultimata prelevare le verdurine con una schiumarola forata e porle in acqua con ghiaccio, affinché si raffreddino senza perdere il loro colore vivo; prelevare i pezzi di freselle oramai ammollati e porli sul fondo di un’ altra insalatiera aggiungendovi via via i pezzi di polpo, i pomidoro lavati e tagliati in quattro o piú parti e le verdurine raffreddate;irrorare con l’olio e la tazzina d’aceto aggiustare di sale grosso e pepe, rimestare completando con l’aglio, il prezzemolo tritato e ciuffi di mayonnaise; far transitare in frigo per circa 30’ e poi servire.
Gustosissimo antipasto o rompidigiuno.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale
CACIOCAVALLO FRITTO
CACIOCAVALLO FRITTO
Eccovi un’ottima maniera per servire, come antipasto caldo o rompidigiuno lo squisito caciocavallo podolico piccante, formaggio tipico delle regioni meridionali prodotto esclusivamente con il latte delle vacche podoliche, alla maniera tradizionale e solo in certi periodi dell’anno: fine estate – principio autunno.La razza bovina podolica , un tempo dominante su tutto il territorio italiano, sopravvive ormai solo in alcune aree del Meridione: dorsali appenniniche della Campania, Sila, Puglia e Sicilia interna.
Ingredienti e dosi per 6 persone
• 1200 g di formaggio caciocavallo podolico piccante,
• 2 spicchi di aglio mondato e schiacciato,
• 1 tazzina di Aceto di vino bianco,
• 1 pizzico di origano,
• ½ bicchiere di olio per friggere
• 2 etti di gherigli di noci tritati,
• Sale fino e Pepe bianco q.s.
• 6 – 8 etti fette di pane casareccio bruscate al forno (220°)
• Preparazione
Tagliate il formaggio a fette spesse 1 cm; in una padella di ferro nero fate scaldare, a fuoco vivace, il mezzo bicchiere di olio con gli spicchi d'aglio che toglierete non appena diventeranno rosa.
Mettete in rapida successione tutte le fette di caciocavallo e lasciatele rosolare da entrambi i lati 1 minuto per lato; scolatele bene dall'eccesso d'olio e deponetele sopra un foglio di carta assorbente.; trasferitele in un’altra padella di ferro nero fatta riscaldare senza alcun condimento e bagnatele con l’ aceto, profumatele con un pizzico d'origano,pochissimo sale e molto pepe e servitele caldissime, cosparse di gherigli di noci tritati, sopra fette di pane abbrustolito. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Eccovi un’ottima maniera per servire, come antipasto caldo o rompidigiuno lo squisito caciocavallo podolico piccante, formaggio tipico delle regioni meridionali prodotto esclusivamente con il latte delle vacche podoliche, alla maniera tradizionale e solo in certi periodi dell’anno: fine estate – principio autunno.La razza bovina podolica , un tempo dominante su tutto il territorio italiano, sopravvive ormai solo in alcune aree del Meridione: dorsali appenniniche della Campania, Sila, Puglia e Sicilia interna.
Ingredienti e dosi per 6 persone
• 1200 g di formaggio caciocavallo podolico piccante,
• 2 spicchi di aglio mondato e schiacciato,
• 1 tazzina di Aceto di vino bianco,
• 1 pizzico di origano,
• ½ bicchiere di olio per friggere
• 2 etti di gherigli di noci tritati,
• Sale fino e Pepe bianco q.s.
• 6 – 8 etti fette di pane casareccio bruscate al forno (220°)
• Preparazione
Tagliate il formaggio a fette spesse 1 cm; in una padella di ferro nero fate scaldare, a fuoco vivace, il mezzo bicchiere di olio con gli spicchi d'aglio che toglierete non appena diventeranno rosa.
Mettete in rapida successione tutte le fette di caciocavallo e lasciatele rosolare da entrambi i lati 1 minuto per lato; scolatele bene dall'eccesso d'olio e deponetele sopra un foglio di carta assorbente.; trasferitele in un’altra padella di ferro nero fatta riscaldare senza alcun condimento e bagnatele con l’ aceto, profumatele con un pizzico d'origano,pochissimo sale e molto pepe e servitele caldissime, cosparse di gherigli di noci tritati, sopra fette di pane abbrustolito. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
BOCCONCINI DI MELANZANE
BOCCONCINI DI MELANZANE
Ingredienti e dosi per 6 persone
1200 G Melanzane violette napoletane grigliate
- 100 G Uvetta Sultanina
- 100 G Formaggio Provolone Dolce Grattugiato
- 4 Tuorli D'uovo
– Pangrattato 4 cucchiai
- Farina 4 cucchiai
- 1 Pizzico Origano
- Noce Moscata q.s.
- Olio Di Semi q.s.
- Sale fino e Pepe decorticato q.s.
- Per La Pastella:
- 300 G Farina
- 3 Uova
- 1 Albume D'uovo
– 2 Cucchiai di Olio D'oliva e.v.
Preparazione
Mettete in ammollo l'uvetta in acqua tiepida. Tagliate via la buccia alle melanzane, tritatele finemente o passatele in un tritaverdure a buchi grossi e mettetele in una terrina con l'uvetta strizzata e asciugata, i 4 tuorli, il provolone, l'origano, una grattugiata di noce moscata, sale fino e pepe. Quindi aggiungete tanto pangrattato quanto basta per ottenere un composto consistente, ma morbido.
Diluite la farina con il cucchiaio di olio e poi con mezzo bicchiere d'acqua. Incorporate 3 uova intere sbattute e l'albume montato a neve. Salate poco e lasciate riposare. Intanto con il composto di melanzana formate tante palline grosse come una noce, infarinatele e passatele a mano a mano nella pastella. Friggete i bocconcini pochi alla volta in abbondante olio di semi caldo, per circa 5 minuti. Sgocciolateli quando sono dorati, passateli su carta assorbente da cucina, salate ancóra se occorre. Serviteli caldi come antipasto o come contorno gustoso.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone
1200 G Melanzane violette napoletane grigliate
- 100 G Uvetta Sultanina
- 100 G Formaggio Provolone Dolce Grattugiato
- 4 Tuorli D'uovo
– Pangrattato 4 cucchiai
- Farina 4 cucchiai
- 1 Pizzico Origano
- Noce Moscata q.s.
- Olio Di Semi q.s.
- Sale fino e Pepe decorticato q.s.
- Per La Pastella:
- 300 G Farina
- 3 Uova
- 1 Albume D'uovo
– 2 Cucchiai di Olio D'oliva e.v.
Preparazione
Mettete in ammollo l'uvetta in acqua tiepida. Tagliate via la buccia alle melanzane, tritatele finemente o passatele in un tritaverdure a buchi grossi e mettetele in una terrina con l'uvetta strizzata e asciugata, i 4 tuorli, il provolone, l'origano, una grattugiata di noce moscata, sale fino e pepe. Quindi aggiungete tanto pangrattato quanto basta per ottenere un composto consistente, ma morbido.
Diluite la farina con il cucchiaio di olio e poi con mezzo bicchiere d'acqua. Incorporate 3 uova intere sbattute e l'albume montato a neve. Salate poco e lasciate riposare. Intanto con il composto di melanzana formate tante palline grosse come una noce, infarinatele e passatele a mano a mano nella pastella. Friggete i bocconcini pochi alla volta in abbondante olio di semi caldo, per circa 5 minuti. Sgocciolateli quando sono dorati, passateli su carta assorbente da cucina, salate ancóra se occorre. Serviteli caldi come antipasto o come contorno gustoso.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
UOVA IN TRIPPA ALLA ROMANA
UOVA IN TRIPPA ALLA ROMANA
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
- 6 uova
- 1 mestolo di sugo da passata di pomidoro con cipolla,
- 8 cucchiai di pecorino grattugiato
- 4 cucchiai di olio di oliva
- qualche foglia di menta
- sale fino e pepe nero q.s.
1. In una ciotola, sbattete le uova, incorporate metà del pecorino, sale e pepe. Scaldate un tegame possibilmente rettangolare, aggiungete l'olio e appena sarà caldo,versatevi 1/4 del preparato di uova; abbassate la fiamma e cuocete la frittata 5 min. per lato.
2. Cuocete anche le altre 3 frittate, tagliatele tutte a striscioline e stendetele sul fondo di una pirofila. Scaldate il sugo di pomodoro, spolverizzate le uova con il pecorino residuo, condite con il sugo e con qualche foglia spezzettata di menta.
3. Stratificate alternando gli ingredienti fino ad esaurimento.
Infornate e gratinate per 10 min. a 200°.
INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
- 6 uova
- 1 mestolo di sugo da passata di pomidoro con cipolla,
- 8 cucchiai di pecorino grattugiato
- 4 cucchiai di olio di oliva
- qualche foglia di menta
- sale fino e pepe nero q.s.
1. In una ciotola, sbattete le uova, incorporate metà del pecorino, sale e pepe. Scaldate un tegame possibilmente rettangolare, aggiungete l'olio e appena sarà caldo,versatevi 1/4 del preparato di uova; abbassate la fiamma e cuocete la frittata 5 min. per lato.
2. Cuocete anche le altre 3 frittate, tagliatele tutte a striscioline e stendetele sul fondo di una pirofila. Scaldate il sugo di pomodoro, spolverizzate le uova con il pecorino residuo, condite con il sugo e con qualche foglia spezzettata di menta.
3. Stratificate alternando gli ingredienti fino ad esaurimento.
Infornate e gratinate per 10 min. a 200°.
PÂTÉ GOLOSO
PÂTÉ GOLOSO
(Pasticcio) goloso*
dosi per sei persone
1 kg. di patate vecchie a pasta gialla
2 confezioni in vetro di ottimo tonno sott’olio da 250 gr.cadauna,
4 acciughe spinate e lavate o pari peso di acciughe sott’olio,
1 tazza e mezza di mayonnaise,
il succo d’un limone non trattato,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
1 etto di olive nere di gaeta denocciolate (una va tenuta da parte intera)
1 etto di olive bianche di spagna denocciolate
½ etto di piccoli capperi di pantelleria dissalati e sciacquati
150 gr. di salame tipo napoli affettato a coltello (fette di cm. 0,5 di spessore.
sale grosso un pugno
sale fino e pepe bianco q.s.
Procedimento
Ponete nel mixer tutto il tonno sgrondato e spezzettato, assieme alle acciughe, alle olive nere ed a quelle bianche, i capperi un pizzico di pepe bianco, una tazza di mayonnaise diluita con il succo del limone, mezzo bicchiere d’olio e fate andare il mixer fino ad ottenere una crema soffice e vellutata.
Tenetela da parte.
Frattanto ponete in acqua fredda salata con un pugno di sale grosso, le patate, alzate i fuochi e portate a bollore l’acqua e lessatevi le patate per circa 15’-20’ dal bollore dell’acqua; saggiate la cottura infilzando le patate (che non devono opporre resistenza) con i rebbi di una forchetta prelevatele ed ancora calde pelatele, indi rigorosamente spezzettatele grossolanamente a mano e ponenetele in uno schiacciapatate o in un passaverdure a buchi grossi; schiacciatele o passatele, salandole parsimoniosamente quando siano ancora calde e ponenetele in un’ampia insalatiera; condite con l’olio residuo,rimestate ed aggiungete la crema di tonno ed impastate il tutto a mani bagnate, amalgamando benissimo il composto; preparate un vassoio da portata (possibilmente in acciaio) abbastanza capiente e sistematevi l’impasto a cui darete la forma d’un grosso pesce; sistemate l’oliva nera, tenuta da parte, al centro della testa per simulare l’occhio e partendo dalla parte inferiore della testa fino a raggiungere l’inizio della coda, sistemate, infilandole parallelamente a quincunce, tutte le fettine di salame (per simulare le scaglie del pesce); a questo punto circondate il pesce con riccioli della mayonnaise residua e mandate in frigo per circa 2 ore.
*Gustosissimo piatto unico ricco di carboidrati, proteine e grassi.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
(Pasticcio) goloso*
dosi per sei persone
1 kg. di patate vecchie a pasta gialla
2 confezioni in vetro di ottimo tonno sott’olio da 250 gr.cadauna,
4 acciughe spinate e lavate o pari peso di acciughe sott’olio,
1 tazza e mezza di mayonnaise,
il succo d’un limone non trattato,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
1 etto di olive nere di gaeta denocciolate (una va tenuta da parte intera)
1 etto di olive bianche di spagna denocciolate
½ etto di piccoli capperi di pantelleria dissalati e sciacquati
150 gr. di salame tipo napoli affettato a coltello (fette di cm. 0,5 di spessore.
sale grosso un pugno
sale fino e pepe bianco q.s.
Procedimento
Ponete nel mixer tutto il tonno sgrondato e spezzettato, assieme alle acciughe, alle olive nere ed a quelle bianche, i capperi un pizzico di pepe bianco, una tazza di mayonnaise diluita con il succo del limone, mezzo bicchiere d’olio e fate andare il mixer fino ad ottenere una crema soffice e vellutata.
Tenetela da parte.
Frattanto ponete in acqua fredda salata con un pugno di sale grosso, le patate, alzate i fuochi e portate a bollore l’acqua e lessatevi le patate per circa 15’-20’ dal bollore dell’acqua; saggiate la cottura infilzando le patate (che non devono opporre resistenza) con i rebbi di una forchetta prelevatele ed ancora calde pelatele, indi rigorosamente spezzettatele grossolanamente a mano e ponenetele in uno schiacciapatate o in un passaverdure a buchi grossi; schiacciatele o passatele, salandole parsimoniosamente quando siano ancora calde e ponenetele in un’ampia insalatiera; condite con l’olio residuo,rimestate ed aggiungete la crema di tonno ed impastate il tutto a mani bagnate, amalgamando benissimo il composto; preparate un vassoio da portata (possibilmente in acciaio) abbastanza capiente e sistematevi l’impasto a cui darete la forma d’un grosso pesce; sistemate l’oliva nera, tenuta da parte, al centro della testa per simulare l’occhio e partendo dalla parte inferiore della testa fino a raggiungere l’inizio della coda, sistemate, infilandole parallelamente a quincunce, tutte le fettine di salame (per simulare le scaglie del pesce); a questo punto circondate il pesce con riccioli della mayonnaise residua e mandate in frigo per circa 2 ore.
*Gustosissimo piatto unico ricco di carboidrati, proteine e grassi.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
NOTERELLE GRAMMATICALI
NOTERELLE GRAMMATICALI
Sollecitato dall’amico Dario C. ad esprimere un mio parere intorno ad una questioncella affatto marginale sul modo piú corretto di scrivere gli articoli inderminativi del napoletano ‘nu/’no – ‘na dico che
‘nu/’no = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘nu/‘no davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una (cfr. ad es.: pòrtane ‘na cannela= portami una candela quale che sia –ma pòrtame una cannela = portami una sola candela) ; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m); l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure, come ò detto, il corrispondente del maschile e neutro no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile; a mio avviso infatti non è ragione concreta e corretta quella, accampata da qualcuno, che mancando nel napoletano scritto la forma intera degli articoli indeterminativi uno/unu- una ed esistendo pressoché solo quella aferizzata no/nu – na sarebbe inutile fornire questi ultimi del segno d’aferesi. Nel napoletano scritto c’è del resto una parola che potrebbe ingenerare confusione con l’art. indeterminativo ‘nu/’no : sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva, Serio) furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere, a mio avviso nel napoletano scritti gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! E dunque ‘nu – ‘no – ‘na e mai nu – no – na. I grandi autori vanno seguíti quando fanno bene, non quando sbagliano! Si può tentare di capire le ragioni del loro errare, ma mai porsi nella scia di chi sbaglia, fosse pure un grande autore!
Raffaele Bracale
Sollecitato dall’amico Dario C. ad esprimere un mio parere intorno ad una questioncella affatto marginale sul modo piú corretto di scrivere gli articoli inderminativi del napoletano ‘nu/’no – ‘na dico che
‘nu/’no = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘nu/‘no davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una (cfr. ad es.: pòrtane ‘na cannela= portami una candela quale che sia –ma pòrtame una cannela = portami una sola candela) ; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m); l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure, come ò detto, il corrispondente del maschile e neutro no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile; a mio avviso infatti non è ragione concreta e corretta quella, accampata da qualcuno, che mancando nel napoletano scritto la forma intera degli articoli indeterminativi uno/unu- una ed esistendo pressoché solo quella aferizzata no/nu – na sarebbe inutile fornire questi ultimi del segno d’aferesi. Nel napoletano scritto c’è del resto una parola che potrebbe ingenerare confusione con l’art. indeterminativo ‘nu/’no : sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva, Serio) furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere, a mio avviso nel napoletano scritti gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! E dunque ‘nu – ‘no – ‘na e mai nu – no – na. I grandi autori vanno seguíti quando fanno bene, non quando sbagliano! Si può tentare di capire le ragioni del loro errare, ma mai porsi nella scia di chi sbaglia, fosse pure un grande autore!
Raffaele Bracale
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