martedì 25 settembre 2012
PICCOLI QUESITI
PICCOLI QUESITI di Coppa
Rispondo qui di sèguito ad alcuni piccoli quesiti pervenutimi via e-mail da un amico che si trincera sotto lo pseudonimo di Capafresca. Ecco i quesiti:
1)Sgummato/scummato ‘e sanco letteramente schiumato di sangue cioè con il sangue privato della schiuma, cioè percosso tanto duramente da provocare copiosa epistassi (emorragia dal naso) quasi che il sangue (a sèguito delle percosse avesse perso la sua schiuma o la sua gomma e risultasse cosí liquido da scorrere copiosamente. Sgummato/scummato è il part. pass. dell’infinito sgummà/scummà denominale di gomma che è dal lat. tardo gumma(m), per il class. cummi e poi gummi, dal gr. kómmi, di orig. egiziana;
2) La voce vulva è resa in napoletano con svariati termini;
eccoli qui elencati; Tra i piú usati sinonimi, rammento: fessa, fresella, purchiacca/pucchiacca,quatturana, carcioffola, ficusecca,mulignana, patana,pummarola, vòngola, còzzeca, scarola, ‘ntacca, bbuatta, cestúnia,senga, sesca, pesecchia/pesocchia, pettenessa, furnacella, tabbacchera, sciúscia etc. e qui di sèguito li illustrerò uno alla volta. Procediamo ordunque ordinatamente:
féssa= fessura, apertura con etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano;
fresella di per sé, letteralmente la fresella è un tipico biscotto (pane biscottato) usato in un po’ tutto il meridione, variamente condito con diversi ingredienti(in massima parte vegetali) per un gustoso asciolvere; la voce fresella è un deverbale del lat. frindere= spezzettare in quanto,esso biscotto/pan biscottato à bisogno, per esser consumato, d’esser frantumato in piú pezzi.Va da sé che il significato traslato di fresella usata per indicare la vulva non nasce dal fatto che quest’ultima sia edibile tal quale la fresella-biscotto, né dal fatto che come la fresella, la vulva debba esser frantumata; la via semantica è un’altra ed attiene alla forma; infatti la fresella-biscotto può avere la forma di una fettina rettangolare di pane cotto e poi biscottato, ma piú spesso la fresella-biscotto a Napoli o nelle Puglie à la forma di corona circolare ed il pane biscottato si sviluppa intorno ad un congruo buco centrale, cosa che – ad un dipresso accade per la vulva;
purchiacca o pucchiacca = letteralmente, fodero di fuoco, faretra infuocata e genericamente vulva, vagina;
premesso che la voce originaria fu purchiacca trasformato poi nel lessico popolare in pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc dirò che l’etimo non è tranquillissimo ed infatti io stesso penso di poterne proporre per lo meno un paio dei quali opterei comunque per il primo;
1 -la prima ipotesi è che la voce a margine potrebbe risultar derivata dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il suff. dispreg. acca,secondo un percorso morfologico che da koilos, attraverso un *koleaca porta a cljaca→chiaca e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→ puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc, tutto ciò in luogo di quanto proposto da altri quali l’Altamura, il D’Ascoli, e tutti coloro che vi attingono, che ipotizzano un latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→ pucchiacca (erba porcellana); l’idea non m’appare perseguibile in quanto, in effetti in pretto,corretto napoletano la voce usata per indicare l’ erba commestibile porcacchia,che giunge sulle tavole partenopee sempre in unione con un’altra erba/insalata detta arucola (rughetta), la voce dicevo è purchiacchiello (diminutivo masch. ricostruito del femm. purchiacca = porchiacca con tipica chiusura della ō→u; la porcacchia/porcellana è pianta erbacea commestibile, con fusto ramoso e piccoli fiori gialli della fam. Portulacacee; tale erba non si vede però, a mio avviso, neppure per traslato o estensione (come invece avviene – e lo vedremo súbito – con altri nomi mutuati dagli ortaggi e/o da prodotti ittici), cosa possa avere in comune con l’ organo femminile esterno della riproduzione;
2 - l’altra mia ipotesi circa l’etimo di pucchiacca fa riferimento ad una iniziale porcacchia, ma questa non è l’erba porcacchia /porcellana; nel caso da me ipotizzato occorre infatti partire da una radice porc ( del latino porca=maiale/scrofa; tale voce (sostituendo il classico sus, nel latino parlato fu usata per indicare esattamente oltre che la scrofa, anche la sua vulva ) radice addizionata del suffisso diminutivo- spregiativo (cfr. Rohlfs) acchia: da porcacchia→purcacchia e pucchiacca con il medesimo significato di porca=vulva della scrofa ed estensivamente vulva in genere;
- quatturana letteralmente quattro grani; il grano fu vilissima moneta in uso nel Napoletano (Regno delle Due Sicilie) sin dall’epoca degli Aragonesi ed Angioini (fine 13° sec.). Al proposito rammenterò, per incidens, che l'unità del Regno delle due Sicilie si era spezzata sin dalla ribellione dei Vespri Siciliani del 1282.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi e Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
Torniamo al grano che, dicevo,fu vilissima moneta corrispondente all’incirca al valore di 60 centesimi dell’attuale euro per cui 4 grani corrispondevano all’incirca a 2,40 euro, cioè a quasi 5000 delle vecchie lire. e questa somma, secondo una teoria, era quanto si facevano pagare, per ogni rapporto, le meretrici di infimo ordine che prestavano la loro opera lungo la cosiddetta ‘mbricciata ‘e san Francisco (imbrecciata (di cui dissi alibi) di san Francesco)malfamata strada ubicata a Napoli poco fuori le mura di porta Capuana, nei pressi dell’attuale Pretura ; secondo altra teoria, che reputo piú esatta, la somma di quattro grani fu quanto sotto Alfonso V d’Aragona, si pretese dalle meretrici a mo’ di tassa sulle singole prestazioni; ora sia che fosse una tassa, sia che si trattasse del prezzo da pagare alla meretrice, la voce quatturana (quattro grani)finí per indicare lo strumento di lavoro della prostituta, e con estensione volgare, l’organo riproduttivo esterno di ogni altra donna soprattutto di basso ceto;
- ‘ntacca = fessura, apertura, scanalatura, contrassegno con probabile etimo deverbale da ‘ntaccà=intaccare derivato dal germ. *taikka 'segno';
- bbuatta= letteralmente la parola a margine vale barattolo, contenitore cilindrico in banda stagnata usato per commercializzare generi alimentari dalla frutta sciroppata ai pomidoro, alle melanzane, ai peperoni, al caffè; il traslato semantico è di facile comprensione; l’etimo è dal francese boite;
- senga propriamente si tratta di una fessura, una screpolatura una contenuta lesione, tutte cose riscontrabili su oggetti in legno (porte, antine di mobili) o in muratura e per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta fenditura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; l’etimo di senga si fa concordemente risalire al lat. signum quale lettura metatetica poi femminilizzata; da signum→singum→singo e da questo il femminile metafonetico senga;
- sesca propriamente si tratta di una ferita,il piú delle volte da taglio, una contenuta lesione prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano, e come per la voce precedente, per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta apertura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; non di tranquilla lettura l’etimo di sesca che di per sé è la femminilizzazione metafonetica del maschile sisco= fischio che è un deverbale del latino fistulare→fisclare→fischiare→fischio.
Ora rammento che anche in lingua italiana, per furbesco traslato, con la voce fischio si intende il membro maschile,cosí anche in napoletano con la corrispondente voce di fischio e cioè sisco soprattutto nel linguaggio colloquiale, si intende il membro maschile; e dunque non meraviglia se per analogia con il femm. di sisco e cioè con sesca si è finito per indicare il corrispondente organo femminile e quest’ultimo semanticamente è stato avvicinato ad un piccolo taglio, una contenuta lesione prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano per la tipica forma della lesione (contenuta apertura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto, per cui la voce sesca indica sia la vulva che una ferita da taglio.
- pesecchia/pesocchia propriamente fessurina, piccola apertura
atteso che con le voci a margine si indicano alternativamente la vulva di bambine molto piccole o un po’ piú cresciute; l’etimo è da una voce onomatopeica ps→pes (dello zampillo) addizionata di suffissi ecchia (diminutivo) o occhia (accrescitivo).
- cestunia letteralmente è tartaruga che, nell’inteso comune partenopeo, è uno degli animali domestici piú longevi, che però mostrano tutti i segni del tempo trascorso sulla pelle raggrinzita e rugosa che copre capo, collo e zampe di questo piccolo rettile acquatico e/o terrestre, appartenente all'ordine dei Cheloni; esso rettile à corpo racchiuso in un robusto scudo corneo dal quale sporgono capo, zampe e coda; proprio dette rugosità e grinzosità della pelle, à fatto assegnare dai napoletani il nome di cestunia, alla raggrinzita e non piú rigogliosa vulva di una donna che passata ‘e cuttura e/o ‘e coveta cioè ormai anziana (quasi troppo cotta o raccolta tardi), sia ancóra illibata ed intonsa; l’etimo della voce cestunia si fa concordamente risalire ad un latino parlato testunia per il class. testudo; la voce napoletana à comportato la dissimilazione t-t→c-t;
E passiamo ora a tutte le voci mutuate dall’ambito orticolo o ittico; abbiamo:
- carcioffola = carciofo con riferimento all’organo stretto e serrato di una giovane donna tal quale il carciofo che se fresco e giovane à le brattee ben chiuse e serrate; ciò è tanto piú vero se si pensa che di una donna che non sia piú giovane e che per tanto si pensa abbia già avuto piú o meno numerosi rapporti coniugali, s’usa dire ironicamente che tene ‘a carcioffola sfrunnata=à il carciofo sfrondato id est:la vulva deflorata; l’etimo della voce carcioffola risulta derivato dall’arabo harsûf addizionato del suff. diminutivo lat. ola (femm. di olus); sfrunnata=sfrondata p. p. femm. dell’infinito sfrunnà= sfrondare che è un denominale di fronda con prostesi di una s distrattiva; normale nella voce napoletana l’assimilazione progressiva nd→nn;
- ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
usata in senso furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.
- patana,= patata; il noto tubero edule è preso semanticamente a riferimento poiché come esso vive nascosto e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento dallo sp. patata, sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana);
- pummarola = pomodoro il frutto rosso e carnoso della solanacea è preso a riferimento, cosí come l’altrove usato fica, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché, come questi ultimi à il suo interno rosso ; l’etimo di pummarola è, come per la voce della lingua nazionale pomodoro da pomo d’oro con il passaggio in sillaba d’avvio di ō ad u (cfr. notte→nuttata), raddoppiamento espressivo popolare della labiale m (cfr. comme←q(u)omo(do), alternanza osco mediterranea d/r, onde pomodoro→pummororo, dissimilazione r-r→r-l e cambio di genere per cui pummororo→pummarola;
- vongola,= noto mollusco bivalve gustosissimo il cui nome anche in italiano, ripete quello a margine, voce di origine napoletana trasmigrata come molte altre (guaglione, camorra, scugnizzo, sfogliatella e derivati e molti altri ) nel lessico nazione; la voce vongola, come la successiva còzzeca è presa a modello per indicar la vulva, in quanto il bivalve aperto ricorda quasi la forma dell’organo femminile, l’etimo di vongola (voce che indica oltre che il mollusco e la vulva,estensivamente anche una sciocchezza, una panzana che, del resto altrove è detta anche fesseria con evidente riferimento alla prima voce di questa elencazione) l’etimo dicevo di vongola è da un acc.vo lat. concula(m)/*goncula(m)→gongula(m) da cui vongula→vongola con normale passaggio di g→v (vedi gulío/vulío – golpe/volpe etc.);
- cozzeca,= cozza, mitilo bivalve che aperto, come la precedente vongola ricorda quasi la forma dell’organo femminile; in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista di bisso, ben si presta a rappresentare il fronzuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di cozzeca è, quasi certamente, da una forma ampliata di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca;
e veniamo ai riferimenti orticoli cominciando da
- scarola = scarola letteralmente scariola, varietà di indivia; anche, in alcune regioni, varietà di lattuga o cicoria; la scarola e segnatamente la specialità detta riccia per essere in cespo arricciato, ben si presta a significare il fronzuto ricciuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di scarola è dal lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca;
- mulignana letteralmente melanzana; siamo sempre nell’ambito orticolo ed essendo la mulignana = melanzana una pianta erbacea largamente coltivata per i frutti commestibili di forma oblunga o ovoidale, con buccia violacea lucente e polpa amarognola (fam. Solanacee), proprio per questa sua buccia liscia e lucente, viola scuro, quasi nera si presta a rappresentare icasticamente la scura e fronzuta, ma liscia vulva d’una giovane donna ; l’etimo della voce a margine è dall'ar. badingian, di orig. persiana, riaccostato, secondo alcuni al lat. mala(mela)+insana in quanto in origine si pensò che la melanzana fosse frutto che inducesse alla pazzia.
- pettenessa ultima(anni ‘950) voce entrata nel lessico popolare partenopeo per indicar la vulva, ed è voce traslata e giocosa; di per sé ‘a pettenessa indica un tipico pettine, in forma di conchiglia, d’osso o tartaruga, a denti lunghi e sottili, disadorno o ornato di piccoli orpelli spesso semipreziosi, grosso pettine usato dalle donne per sorreggere la crocchia dei capelli; atteso che in lingua napoletana, per indicare il pube ( in ispecie)femminile si à la voce pettenale (derivato da un acc.vo lat. pectinale(m) da pecten= pettine), come del resto in lingua nazionale si à, per indicare la medesima cosa, la voce pettignone (derivato da un acc.vo lat. volg. *pectinione(m), dim. del class. pecten -tinis 'pettine'con riferimento (sia per l’italiano che per il napoletano) alla lunghezza dei peli del pube che ricordano i denti dei pettini,sia la forma a mo’ di conchiglia di ambedue: del pube e del grosso pettine, ecco che in senso traslato la voce pettenessa= grosso pettine (dal class. lat. pecten con suff. femminilizzante essa secondo il criterio che una voce femminile è usata per indicar qualcosa di piú grande del corrispondente maschile (cfr. pennellessa piú grande di penniello, tammorra piú grande di tammurro, cucchiara piú grande di cucchiaro, tina piú grande di tino carretta piú grande di carretto, etc., ma per eccezione caccavo piú grande di caccavella e tiano piú grande di tiana,,)) ben si prestò ad indicar la vulva ubicata all’estremità del pube i cui peli richiamano l’idea del pettine.
- tabbacchèra s.vo f.le letteralmente tabacchiera,contenitore metallico, spesso finemente cesellato, provvisto di coperchio incernierato e chiusura a scatto; contenitore da asporto(solitamente celato in tasca) per tabacco da fiuto;
per traslato furbesco sesso femminile; il traslato semantico è dovuto probabilmente al fatto che come la tabacchiera, se tenuta ben chiusa, serve a conservare il tabacco da fiuto con tutto il suo aroma, cosí il sesso femminile se tenuto serrato serve a difendere e conservare la virtú femminile.
La voce etimologicamente è un derivato di tabacco (dallo spagnolo tabaco) + il suff. di pertinenza iera→era; normale nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva onde tabacchiera→tabbacchera. Relativamente al significato traslato furbesco rammento il détto: Redimmo e pazziammo, ma nun tuccammo ‘a tabbacchera che letteralmente vale: Ridiamo e giochiamo, ma non tocchiamo la tabacchiera e fa riferimento ai comportamenti che si auspica tengano tra di loro gli innamorati ai quali si consiglia di contenersi e cioè di ridere e giocare,evitando di oltrepassare taluni limiti che coinvolgerebbero pesantemente il sesso.
- furnacella soprattutto addizionato dell’aggettivo sfunnata furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno sfondato; va da sé che tale accoppiata è usata quale epiteto rivolto ad una donnaccola; nella fattispecie con la voce fornacella non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la vulva di colei cui è diretto l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una meretrice abbondantemente conosciuta in senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione a margine vale però per traslato : vulva atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco, l’altra di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano, come ò già riferito, tra le piú comuni voci per indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca che con etimo dal greco pýr +k(o)leacca>*cljacca sta per fodero di fuoco; tornando a furnacella dirò che l’etimologia è dall’acc. lat. volgare furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui in luogo dell’atteso furnacula(m) dim. di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata, rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà = sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s questa volta distrattiva; in coda alle tante voci con cui viene reso il sesso femminile, rammenterò che in taluni paesi dell’entroterra napoletano (cfr. Visciano) talora la vulva viene resa con la voce
sguessa/sguessera, ma non è in alcun modo chiaro quale sia il passaggio semantico che conduca a parlare della vulva come di una sguessa/sguessera; in effetti nelle parlate meridionali il mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898 – † Roma, 15 aprile 1967),), la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera; ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella che,talvolta, impegnando in un lavoro abnorme bocca e mandibola, può determinare gli apparenti sviamento e pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’ acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata in ue; infine da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia; epperò in nessun modo si riesce a spiegare o ad ipotizzare il perché del passaggio semantico da fame smodata o mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato a vulva femminile; posso solo sospettare un iniziale errato riferimento protrattosi nell’uso popolare.
Rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) la vulva viene indicata anche con il nome di brasciola ( che, vedi alibi, di per sé indica un grosso involto di carne imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla ed in quanto tale è un s.f. derivato dal tardo latino brasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.furbescamente, come ò détto, in talune province con tale voce viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile. A Napoli dove sono in uso, come ò indicato, numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.
Esaurita la spiegazione delle voci elencate a monte, veniamo finalmente a trattare la voce sciuscia.
- sciuscia Come ò già detto è voce generica che vale vulva, vagina, organo riproduttivo esterno della donna il tutto senza particolari specificazioni concernenti l’età o la destinazione d’uso, ed è voce colloquiale privata in uso tra contraenti (sposi, amanti, fidanzati etc.) dei due sessi di qualsiasi ceto sociale.
Per la verità dico súbito che solo tre vocabolarî della lingua napoletana ( l’antico D’Ambra,ed i piú vicini Altamura e D’Ascoli che vi attingono spudoratamente) dei numerosi in mio possesso e che ò potuto consultare, prendono in considerazione la voce a margine, e però a malgrado che tali vocabolaristi àbbiano il merito di considerare la voce, per ciò che riguarda l’etimo non ànno merito alcuno, in quanto copiandosi l’un l’altro optano,ma a mio avviso, maldestramente, per un inconferente generico idiotismo (.s. m. (ling.) locuzione, voce o costrutto caratteristici di una lingua o di un dialetto) fatto scaturire con un arzigogolo fastidioso ed inattendibile da far risalire a cíccia→ciàccia→sciàscia→sciúscia … che pasticcio!
Personalmente penso di poter proporre altri due etimi di cui il primo, pur essendo perseguibile quanto alla morfologia, convengo che zoppichi e non poco quanto alla semantica; a mio avviso si potrebbe morfologicamente pensare al solito latino ad un part. pass. femm. fluxa dell’infinito fluere atteso che il gruppo latino fl evolve sempre nel napoletano sci (vedi alibi flumen→sciummo, flos→sciore etc.) e ugualmente x=ss seguito da vocale diventa sci e dunque fluxa=flussa potrebbe aver dato morfologicamente sciuscia; ma, come ò io stesso notato, vi si oppone la semantica: una cosa scorsa, fluita poco o nulla à che spartir con una vulva… Occorre tenere altra via! È ciò che faccio e prendendo per buona un’idea dell’amico prof. Carlo Jandolo, la faccio mia e dico che partendo dalla considerazione che la voce sciuscia termina con il suff. latino/greco di appartenenza ia e che d’altro canto la voce classica latina sus indicò indifferentemente il maiale, la scrofa e la vulva, e tenendo presente che la sibilante s anche scempia seguíta da vocale evolve, come la precedente doppia ss in napoletano nel gruppo palatale sci, ecco che da un origianario sus addizionato del suffisso d’appartenenza ia si è potuto avere súsia→sciúscia e non susía→sciuscía ponendo bene attenzione che il suffisso latino ia comporta la ritrazione dell’accento tonico sulla sillaba radicale, mentre è il corrispondente ía greco che sposta l’accento sul suffisso come si ricava osservando la voce filosofia che in lat. è philosòphia(m), mentre in greco è philosophía; e posta l’ipotesi in questi termini, possiamo dire che anche la semantica (ramo della linguistica e, piú in generale, della teoria dei linguaggi (anche artificiali e simbolici), che studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti; nel caso delle lingue, studia il significato delle parole, delle frasi, dei singoli enunciati);
3)'mpizze 'mpizze,locuzione avv.le temporale che vale a tempo a tempo, lí per lí la locuzione è formata con la reiterazione d’un avverbio modale ‘mpizzo (sulla punta, ai margini)derivato da pizzo (punta, becco) voce di origine espressiva con protesi di un in→’n→’m davanti alle esplosive p o b;
4)verrizzo pl. verrizze
Con l’antica voce(peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú anziani, essendosi irrimediabilmente depauperato il lessico d’antan) verrizzo, che al plurale fa verrizze, nella parlata napoletana vengono indicati le bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a, ma pure verrezzuso/osa.
Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo fatto, starebbero ad indacare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come dal significato estensivo di verrizzo.
Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di dizionari, che accolgono il termine se la sbrigano con un’annotazione pilatesca: etimo incerto.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma la proposta paretimologia poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo latino velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva bizza (ma sia izza che bizza provengono dall’antico sassone hittja = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a vellizzo e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario atteso che – pur trattandosi di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non ipotizzabile di pertinenza del sesso femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile (suff. in a).
Infine, a margine di tutto ciò che ò detto su verrizzo,voglio rammentare che esiste un altro antico vocabolo partenopeo, fortunatamente ancóra usato con cui si indica il capriccio, la bizza, le testarde impuntature, il reiterato insistere in richieste sciocche e pretestuose, quasi esclusivamente da parte dei bambini; il vocabolo è ‘nziria che estensivamente indica anche il prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rommento ancòra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira e di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato De Falco nel suo Alfabeto napolitano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza dal latino insidiǽ a sua volta da un in + sideo = sto sopra, mi fermo su, che semanticamente ben mi pare possa rappresentare l’impuntatura che è tipica di chi si abbandona alla ‘nziria.
5)vase e frizze
lett. baci e sfregamenti,pizzicotti,punzecchiature per provocare; di per sé la voce frizze fu anticamente il pl. di frezza = freccia, ma poi si affermò nel tardo ottocento e primi del novecento quale traslato nei significati che ò indicato; etimologicamente fu voce deverbale di frezzare/frizzare = 1 dare la sensazione di lievissime e frequenti punture:’o spirito ‘ncopp’ê fferite frezza (l'alcol, sulle ferite, frizza) | detto di bevande, provocare una sensazione di solletico al palato; essere effervescente:’a sciampagna frezzeca (lo spumante frizza)
2 stridere, detto di ferro rovente immerso in acqua
3 (fig.) essere pungente, caustico.;
frezzare/frizzare è dal lat. volg. *frictiare, intens. di frigere 'friggere'
6)te ce avvizze lett. ti ci appassisci, ne resti vizzo, appassito, consunto; avvizze è voce verb. (2° ps. sg. ind. pr. dell’infinito avvezzí= appassire, sfiorire etimologicamente denominale di vizzo= appassito, sfiorito che à perduto la freschezza, la sodezza; seccato, flaccido ( dal lat. vietius, compar. neutro di viítus 'vizzo', deriv. di viíre 'legare';
7)cchiú t’appizze lett. piú ti accanisci piú vi ,tendi, vi poni attenzione e mente; cchiú= piú dal lat. plu(s) con tipico passaggio di pl→chi (cfr. platea→chiazza – plumbeu(m)→chiummo – pluere→chiovere etc.), appizze è voce verb. (2° ps. sg. ind. pr. dell’infinito appezzà= tendere, appuntire, accanire etimologicamente denominale di pizzo (punta, becco) voce di origine espressiva;
8)è gghiuto ô ffrisco lett. è andato al fresco cioè è stato depositato al monte dei pegni; l’espressione semanticamente è da collegarsi alla medesima usata in riferimento a chi finisce carcerato; come di chi finisce in prigione si dice che è andato al fresco, cosí di un oggetto dato in pegno resta carcerato fino a che non venga riscattato pagando i relativi interessi e la somma ricevuta in prestito depositando l’oggetto al monte di pietà(Il Monte di Pietà o Banco/Monte dei pegni fu una istituzione finanziaria senza scopo di lucro nata verso la fine del XV secolo in Italia (soprattutto meridionale) su iniziativa dei Francescani per erogare prestiti di limitata entità (i) in cambio di un pegno.
La funzione del Monte di Pietà o Banco/Monte dei pegni fu quella di finanziare persone in difficoltà fornendo loro la necessaria liquidità. A tal fine per il loro funzionamento i beneficiari fornivano in garanzia del prestito beni reali di valore ( monili ed oggetti di oro, o di argento, ma talora – nel caso di persone indigenti - anche biancheria che si vedevano restituito quando ripianavano il debito). 9)Bbelle ‘e jammere!
10)Mo t’ ‘e ccoglio e mmo t’ ‘e vengo! Letteralmente:Ora li raccolgo e súbito li vendo! Fu la voce degli ortolani girovaghi che vendevano frutta ed ortaggi di stagione e di cui magnificavano la freschezza asserendo di averli raccolti con le proprie mani nei campi di produzione e di venderli al minuto nel giorno stesso della raccolta.
11)‘O quadrillo e ‘a fijurella! Letteralmente: Il quadretto e la figurina! Fu la voce dei venditori girovaghi di oggetti di culto che nei mercati rionali o nelle festività di santi patroni offrivano quadretti, rosarii benedetti e non, medagliette o semplici figurine di santi.
12)Conciatielle! Letteralmente: Aggiustategami!Fu la voce degli operai girovaghi che per pochi soldi provvedevano illico et immediate alla riparazione di stoviglie in rame o piú spesso in coccio; per le stoviglie in rame al grido di Stagnateve ‘a ramma l’artiere provvedeva a ricoprire di stagno le pareti interne(quelle che sarebbero dovuto andare a contatto con i cibi cotti), mentre il conciatielle/conciatiane/conciambrelle fu colui che servendosi di mastici e/o fil di ferro provvedeva alla riparazione di padelle, tegami,pentole in coccio o anche di ombrelli: - conciatielle (chi aggiusta le padelle) da concia o acconcia voce verbale 3° p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; + tielle pl. di tiella (dal tardo lat. te(g)ella(m)→tjella(m))- - conciambrelle (chi aggiusta gli ombrelli) da concia o acconcia voce verbale 3° p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; + ‘mbrelle plurale adattato (normalmente dovrebbe esser ‘mbrielle) di ‘mbrello = ombrello da un basso latino umbrella maschilizzato.
- conciatiane (chi ripare le pentole) da un concia o acconcia vedi sopra + tiane plurale di tiana da un basso latino tejana femminile di un tejano che fu dal greco tégano collaterale di tàghenon= pentola, padella.
13)Tiene chistu campo ‘e fave!… Espressione furbesca di sapore lubrico e scurrile che letteralmente vale: “Ài questo campo di fave!” irriguardosamente riferito al vasto fondoschiena d’una prosperosa forosetta, fondoschiena ritenuto campo in cui siano seminate delle fave (e si sa che con la voce fava in senso furbesco si intende il membro maschile!); E con questo penso d’aver adeguatamente risposto alla richiesta pervenutami. Satis est.
Raffaele Bracale
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