sabato 14 febbraio 2015
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1.L’AVARO
Nell’idioma napoletano la parola avaro ( che, in italiano, non deriva come si ritiene erroneamente da taluno, dal lat. avarus anticamente pensato come contrazione dei termini avidus aeris e cioè:bramoso di danaro, ma, a mio avviso, molto piú semplicemente dal verbo avere o havere nel senso di desiderare ardentemente,bramare intensamente) è resa con moltissime parole che qui di sèguito tento di illustrare in ordine alfabetico, indicando eventuali sottili differenze, nonché, per ognuna, la piú accreditata etimologia.
Cominciamo:
-allesenato/nuto avarissimo, smunto, emaciato; parola forgiata sul verbo allesinare/allesinire: esser provvisto di lesina e cioè della subbia dei ciabattini; tali avarissime persone, pur di risparmiare, usavano accomodarsi da sé le scarpe usando appunto la lesina di cui erano provvisti; da tale occorrenza derivò anche il toscano lesinare;
- arràiso di per sé capo, aduso al comando e pertanto incline a tener tutto sotto chiave, per esercitare un esteso controllo e dunque per estensione avaro; etimologicamente dal portoghese arrais = capo;
- cacasicco: ad litteram: chi evacua poco; qui il termine sicco, di per sé secco, sta appunto per poco; il cacasicco è quel sordido avaraccio che,iperbolicamente è accreditato di lesinare persino sulle quantità del materiale evacuato per non cedere nulla di ciò che à;
l’etimologia è ovvia e non mette conto dirne;
- cutecone ad litteram: coticone e cioè sordido, taccagno, untuoso spilorcio; e per ampiamento semantico anche zotico, villano, servile, dimesso, viscido, mellifluo, ipocrita.; parola accrescitivo di cotica dal b.latino cutica(m)=cotenna suina;semanticamente il collegamento tra la cotenna e l’essere sordido, taccagno etc. è da cogliersi nel fatto dell’untuosità sia della cotenna suina che del comportamento di chi è spilorcio, dimesso, servile etc.
- pedecchiuso ad litteram: pidocchioso; come per il toscano:gretto, avaro,sordido taccagno; etimologicamente forgiato sul lat.pediculus
in quanto il pidocchio è insetto non alato, che striscia alla ricerca di cibo rappresentato dalle squame epiteliali; tal è il modo di fare dell’avaro aduso ad un comportamento quasi elimosinatorio pur di non cedere del proprio;
- pirchio ad litteram: che tiene al suo, avaro, spilorcio; parola, per taluni, probabilmente forgiata per corruzione sul toscano tirchio a sua volta dal greco thèriakós= ferino, che protegge il suo; per altri, ed io con loro, è parola ricostruita al maschile sul femm. perchia dal lat. percula; altri infine, parallelamente al siciliano pìllicu lo riallacciano allo spagnolo pelon nel senso di spelato, povero e quindi avaro;sono indeciso, ma mi convince abbastanza l’idea che perchia abbia dato per metafonesi pirchio;
- rosecachiuove ad litteram: rosicchiachiodi, come di chi che, (cosí avaro), non volendo spender del suo per nutrirsi, si adatti a rosicchiare i chiodi alla ricerca di una inesistente polpa! Parola formata addizionando roseca, voce verbale di rusecà dal verbo lat. rosicare forma frequentativa di rodere, con il sostantivo chiuove plurale di chiuovo che è dal lat. clavum =chiodo;
- rusechino ad litteram: rosicchiatore, spilorcio, strozzino; anche questa parola è evidentemente forgiata sul verbo rusecà;
- scarzugno ad litteram : scarso, manchevole (evidentemente della volontà di ceder del proprio), ma anche: che si contenta di pochissimo; parola coniata sull’agg. scarzo part. pass. d’un basso latino excarpsum = carente, mancante, collaterale del più classico excerptum;
- scuorzo – scurzone ad litteram: per ambedue: taccagno, di dura buccia ,quasi come il cutecone summenzionato;ambedue forgiate sul sostantivo scorza a sua volta dal latino: cortex/corticis con protesi di una consueta S intensiva; rammento tuttavia che con il termine scuorzo in origine si intese un congruo strato di sporcizia presente sulla cute del collo o degli arti inferiori di persone disavvezze all’igiene personale; il collegamento semantico tra questo strato di sporco e l’essere taccagno sordido, taccagno, untuoso spilorcio è da cogliersi nella medesima untuosità che appaia sporcizia e taccagnería,sordidezza etc.
- secaturnese ad litteram: sega tornese, lo spilorcio inveterato al segno di non voler spendere tutt’intero neppure un tornese, moneta che già di per sé non valeva tanto: appena 6 cavalli!, e preferisce quasi frantumarlo per spenderlo a piccoli pezzi, oppure l’avaro aduso a limare le monete auree o argentee per ricavarne un sia pure esiguo tornaconto; parola formata con l’addizione di seca voce del verbo secà = segare dal lat. secare e del sostantivo turnese (tornese) quest’ultima dal lat. turonensem (di Tours, in quanto i primi tornesi furono battuti in quella città francese;
- seneca ad litteram: seneca, id est: vecchio spilorcio, tal quale nell’immaginario collettivo si ritiene fósse il filosofo Seneca , dal cui nome è derivato il sostantivo;
- spèzeca - spèzzeca ad litteram: lo spizzicatore, colui che è cosí tanto lesinatore da prendere e dare a piccolissime dosi, quasi sbocconcellando; si tratta di un unico vocabolo presentato con doppia grafia con una o due zeta; la versione con le due zete è la piú corretta, mentre quella con una zeta nacque per quello strano fenomeno detto: ipercorrettismo in forza del quale si mutano accenti e/o parole per l’erroneo timore di stare usando una parola di forma o accento scorretto;è noto ad es. che i napoletani meno colti sogliono pronunciare il noto Cavour, Càvur in luogo del corretto Cavùr, avvertito come dialettale;i termini a margine sono un deverbale di pezzecà= pizzicare con tipica protesi della S intensiva;
stiteco e cioè stitico, quasi della medesima portata del precedente cacasicco
chiaramente l’avaro abituato a tutto stivare e non trar fuori; etimologicamente dal lat. stypticus da stypo= astringo e conservo;
- tirato
ad litteram: rattratto e cioè l’avaro, il taccagno che abbia quasi un braccio rattratto tanto da non poter dare;etimologicamente è il part. pass. del b. lat.:tirare collaterale del classico trahere.
A mo’ di completezza aggiungo la locuzione: stritto ‘e pietto ad litteram: insufficiente di torace; l’avaro è cosí sordidamente parsimonioso da risultare, nell’immaginario collettivo partenopeo, persino fisicamente piccolo e rattratto.
In coda ed a completamento di tutto quanto détto esamino le voci dell’italiano e le corrispondenti del napoletano che identificano l’ esagerato attaccamento al denaro che si manifesta come ritegno eccessivo nello spendere, la spilorceria, nonché l’eccessiva avidità di denaro o di guadagno, la cupidigia che in italiano vengon rese con
avarizia s.vo f.le astratto (che è dal lat. avaritia(m));
spilorceria s.vo f.le astratto (denominale di un ant. pilorcio, nome dato dai pellicciai al riutilizzo dei ritagli di pelle derivanti dagli scarti della lavorazione; per cui azione degna di chi riutilizzasse gli scarti)
taccagneria s.vo f.le astratto (che è denominale dello spagnolo tacaño =che è tenace nel possesso del suo; per cui taccagneria è l’azione tipica di chi è tenace nel possesso del suo);
pitoccheria s.vo f.le astratto (denominale dal gr. ptochós 'mendico')identificandosi con pitoccheria l’azione di chi vive miseramente, quasi da mendico per avarizia;
le voci qui esaminate vengon rese in napoletano con le seguenti:
peducchiaría s.vo f.le astratto corrispondente all’italiano avarizia pur se in primis la voce a margine vale: tifo petecchiale; semanticamente il collegamento alla voce peducchio (dal lat. volg. pedíc(u)lu(m))di cuipeducchiaría è denominale si spiega con il fatto che il pidocchio oltre ad essere indice di sporcizia è indice di avarizia e taccagneria con riferimento a chi sia tanto tenacemente attaccato al proprio da esserlo anche della sporcizia,e/o degli insetti proprii;
pirchiaría s.vo f.le astratto corrispondente all’italiano spilorcería (voce da ricondursi quale denominale all’agg.vo pirchio (cfr. antea)) , spezzecaría s.vo f.le astratto corrispondente all’italiano pitocchería pur se in primis la voce a margine vale: azione dello spizzicare mangiare appena un po' o a piccoli bocconi; assaggiare qua e là, spilluzzicare; per estensione la voce à finito per indicare l’azione di chi viva miseramente e si comporti quasi da mendico non concedendosi neppure un pasto intero, ma contendasi di spilluzzicare; spezzecaría etimologicamente è un denominale di spezzeca (cfr. antea).
E qui mi fermo, chiedendo scusa se mi fosse sfuggito un qualche altro interessante vocabolo ed augurandomi che queste paginette interessino qualcuno dei miei ventiquattro lettori.
2.AVIMMO FATTO TRENTA, FACIMMO TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo.
3. 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Così, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco 16, all’insegna : Taverna del trenta e trentuno che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
4. AVIMMO PERDUTO 'APARATURA I 'E CCENTRELLE.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature (etimologicamente deverbale del basso latino ad+parare= apparecchiare, addobbare); accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere i drappi ed i chiodini o bullette (in napoletano centrelle parola etimologicamente forgiata sul greco kéntron= chiodo)usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tutti gli sforzi operati per raggiungere alcunché.
5.DALLE E DDALLE 'O CUCUZZIELLO ADDEVENTA TALLO.
Letteralmente: dagli e dagli la zucchina diventa tallo.Id est: ad insistere sempre sulla medesima questione si finisce male, come a cogliere zucchini continuamente non ne restano che le foglie. Il tallo (dal lat. tàllu(m), dal gr. tàllós 'germoglio', deriv. di thállein 'fiorire')è la foglia commestibile delle cucurbitacee, ma pure essendo edibile è sempre meno pregiata o gustosa della zucchina che già di suo non è molto saporita.
6. QUANN'È PE VIZZIO, NUN È PECCATO!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto,errore si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per dolo, ma per mero difetto o errore.
7. PASSASSE LL'ANGELO E DICESSE: AMMENNE!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con il congiuntivo ottativo la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à con il suo assenso prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
8. VA TRUVANNO: 'MBRUOGLIO, AIUTAME.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
9. PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembra Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.Il nome Pasquale usato nell’espressione è mutuato da un tal Pasquale Barilotto personaggio del teatro pulcinellesco di A. Petito, personaggio comicamente perseguitato continuamente da malasorte ed affanni, spesso solo paventati ma in realtà inesistenti.
10. PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
11.MEGLIO A SSAN FRANCISCO CA 'NCOPP' Ô MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporrti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco,nei pressi di porta Capuana a Napoli, in quello che era stato il convento francescano dei cosiddetti monaci di sant’Anna e sino a non molto tempo fa ospitavano gli uffici della pretura, erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
12. FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: far di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
13.ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
14. ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
15. 'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LLE DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Beerta alla nipote: aprí la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
16. 'E PPAZZIE D''E CANE FERNESCENO A CCAZZE 'NCULO.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche.
17. AMICIZIA STRETTA, SE SPEZZA CU 'NA MAZZA.
Letteralmente: un'amicizia stretta si spezza (solo) con un bastone; id est: bisogna ricorrere alla violenza per sciogliere un'amicizia di vecchia data, ben rinsaldata; occorrono gravi ed importanti ragioni per troncare un’autentica amicizia, che non viene meno per futili motivi.
18. TANNO SE CHIAMMA GRANO, QUANNO STA 'INT' Â VOTTA.
Letteralmente: allora si chiama grano, quando sarà nella botte. Id est: per potersi vantare di taluni risultati, occorre prima conseguirli; non ci si deve vestire della pelle dell'orso prima d'aver ammazzato il suddetto animale. La locuzione in epigrafe ripete le parole che un tal contadino disse al figliuolo che si vantava di un gran raccolto prima della mietitura.
19.TRE CCALLE E MMESCAMMÉCE.
Letteralmente: tre cavalli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che, con pochissima spesa, ama intromettersi nelle faccende altrui, per dire la sua. Il tre ccalle era una moneta di infimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo rampante, poi simbolo della città di Napoli, da cui per contrazione ca(va)llo prese il nome di callo, ed al plurale calle La locuzione significa: con poca spesa ci si interessa delle faccende altrui.
20. CHI SE FA MASTO, CADE DINT' Ô MASTRILLO.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per farte la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
masto = maestro, mastro (dal lat. magistru(m)→ma(gi)st(r)u(m)→masto, deriv. di magis 'di piú, molto'
mastrillo = trappola per topi ( dal lat. mustriculu(m).
21. TUTTO A GGIESÚ E NIENTE A MMARIA.
Letteralmente: tutto a Gesú e niente a Maria; ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú e a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente.
22. CHI GUVERNA 'A RROBBA 'E LL'ATE NUN SE COCCA SENZA ‘O MMAGNATO.
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri!
23. PARÉ LL'OMMO 'NCOPP'Â SALERA
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel Tom Pouce, pagliaccio inglese d’un circo venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
24. FÀ COMME A SANTA CHIARA CA DOPP' ARRUBBATA CE METTETERO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti in danno della antica chiesa partenopea.
25. 'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. E' il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
26. NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à nè l'autorità, nè la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
27. MENARSE DINT' Ê VRACHE...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache (imbracature) proprio perché imbracano la bestia.
28. CHI POCO TÈNE, CARO TÈNE.
Letteralmente: Chi à poco, lo tiene da conto. Id est: il povero non può essere generoso
29. LASSA CA VA A FFUNNO 'O BASTIMENTO, ABBASTA CA MÒRENO 'E ZZOCCOLE.
Letteralmente: lascia che affondi la nave, purchè muoiano i ratti. Con questa locuzione si suole commentare l'azione spericolata di chi è disposto anche al peggio pur di raggiungere un suo precipuo, improcrastinabile scopo; proverbio nato nell'ambito marinaresco tenendo presente le lotte che combattevano i marinai con i ratti che infestavano le navi.
30. NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti che per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma...
Vatecare s.m. pl. di vatecaro= vetturale, carrettiere che trasporta merci, che guida bestie da soma; quanto all’etimo è un denominale dell’agg.vo lat. viaticus=relativo al viaggio
31. SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
32. MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: (Solo) le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
33. FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante, da galeotto, dal quale non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze.
34.SPARÀ A VRENNA.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
Vrenna s.f. = crusca, residuo della macinazione dei cereali costituito dagli involucri dei semi; è usato soprattutto come alimento per il bestiame | (pop.) lentiggini. La voce napoletana vrenna è da un lat. med. brinna, mentre la voce italiana crusca è dal germanico *kruska.
35. 'E SCIABBULE STANNO APPESE I 'E FODERE CUMBATTONO.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
36. 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DÊ MOSCHE.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca, bestia notoriamente inadatta al lavoro, escluso quello di lasciarsi mungere, bestia accidiosa che assalita dalle mosche per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lascia che le mosche le pizzichino il fondo schiena! E che la vacca sia bestia inadatta al lavoro è confermato nel detto che segue.
37. ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
38. TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che son soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefíci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
39. NUN CRESCERE FIGLIE ‘E LL’ATE, NUN DICERE ‘E FATTE TUĵE A MMUGLIERETA E NUN FARTE CUMPARE ‘E SBIRRO.
Letteralmente:Non allevare figli altrui, non raccontar a tua moglie i tuoi fatti, nè renderti compare/amico di uno sbirro.
Tre norme comportamentali ineludibili se si vogliono evitare problemi o fastidi esistenziali; la realtà della vita dimostra infatti che nel primo caso
chi crescesse i figli non suoi, ma d’altri andrebbe incontro all’ingraditudine di costoro atteso che nessuno accetta, senza recriminazioni, il tipo di educazione impartita da altri ed al contrario è sempre pronto ad eccepire qualcosa, a lagnarsene lamentandosene; nel secondo caso chi raccontasse alla moglie i propri fatti, per certo correrrebbe il rischio di litigare o altercare con la coniuge atteso che per solito, le mogli non son mai del medesimo avviso dello sposo in ordine al modo di comportarsi o al tipo di affari da portare a compimento e vedrebbe i propri fatti propalati e spifferati ai quattro venti con il pericoli di vederli sfumare.Nel terzo caso chi si fósse azzardato a diventare compare/amico di uno sbirro per certo correrrebbe il rischio di vedersi additato dai consueti compagni o sodali come una spia o come un traditore atteso che non potrebbe evitare di comunicare al compare/amico sbirro quanto conoscesse o venisse a sapere intorno al comportamento o alle intenzioni comportamentali dei consueti compagni o sodali.
40. A MMANÉSE – A MMANNÉSE etc.
Questa volta mi intratterrò a parlare delle due locuzioni avverbiali in epigrafe che rendono le italiane a portata di mano, sottomano, a disposizione immediata. Per la verità si tratta di due forme, ampiamente attestate dapprima nella forma a mmannése e poi quasi esclusivamente nella forma a mmanése forma nella quale perdura nel parlato popolare partenopeo. Si tratta, dicevo, di due forme leggermente diverse d’un’ unica locuzione che in origine – come chiarirò – fu a mmannése e solo in prosieguo di tempo sotto la patente influenza della voce mana divenne manése con la nasale scempia mantenendo invariato il significato di a portata di mano, sottomano, a disposizione immediata.
Cominciamo súbito col chiarire che nell’ idioma napoletano la voce mannése non à nulla a che dividere con l’omografa ed omofona della lingua italiana; in italiano mannése è un aggettivo che viene riferito agli abitanti dell’isola di Man e connota in particolare una lingua che è appunto la lingua mannese o manx (chiamata anche Gaelg) che è una lingua goidelica parlata sull'Isola di Man,che è un’isola conosciuta anche come Mann o Manx (Isle of Man in inglese, Ellan Vannin o Mannin in mannese) ed è situata nel Mar d'Irlanda; sul piano politico, essa non fa parte del Regno Unito né dell'Unione Europea, ma è una dipendenza della Corona britannica. La lingua che vi si parla è risalente al V secolo ed è derivante dall'antico irlandese; infatti non di rado viene chiamata gaelico mannese.
Tutt’altra cosa è il mannése della parlata napoletana dove è un sostantivo, non aggettivo masch. e vale carpentiere,falegname ma piú ancóra carradore,fabbricante di carri e carretti, artigiano che fabbrica o ripara carri e barocci; carraio con derivazione da un acc.vo lat. manuense(m) che diede il lat. volg. *manuese donde *mann(u)ese; per il raddoppiamento della nasale cfr. alibi crebui→ crebbi, venui→venni, stetui→stetti etc.
Affrontiamo il problema semantico e diciamo che tra la fine del 1700 ed i primi del 1800 in Napoli furono moltissimi gli artigiani che si dedicarono al mestiere di carradore, di fabbricante di carri e carretti,di riparatore di carri e barocci ed aprirono bottega in talune strade della città lasciandovi poi addirittura il nome: cfr. Carmeniello ai Mannesi, Crocelle ai Mannesi etc. Il fatto importante (per quel che ci occupa) fu che per quanto ampie o spaziose fossero le botteghe (e non lo erano!...) esse erano comunque insufficienti a contenere carri e/o carretti in lavorazione o riparazione con tutti i necessarî corollarî di ruote, pianali, sponde e stanghe ed un po’ tutti i carradori finirono per lavorare in istrada invadendo i marciapiedi antistanti le loro bottegucce ed ovviamente, per risparmiarsi la fatica di recarsi continuamente in bottega a procurarsi gli strumenti di lavoro (‘e fierre d’’a fatica), presero l’abitudine di tenerli tutti a portata di mano; da questo fatto nacque l’espressione tené a mmannése (id est: avere a portata di mano, alla maniera del mannése). In prosieguo di tempo e quasi certamente ad opera d’un qualche letterato fattosi influenzare dalla voce mana (mano)l’espressione popolare a mmannése divenne a mmanése con la nasale scempia mantenendo invariato il significato di a portata di mano, sottomano, a disposizione immediata. Ed ancóra oggi nel parlato partenopeo s’usa dire a mmanése ed inopinatamente l’espressione a mmannése cosí ricca di storia ed onesto lavoro artigianale è stata confinata in taluni lessici d’antan.
Dispiace il dirlo, ma talvolta qualche letterato fa danno alla lingua!
Raffaele Bracale
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