giovedì 21 gennaio 2016
PRODOTTI NEGLI ORTI E NELLA CAMPAGNA DELLA CAMPANIA FELIX
PRODOTTI NEGLI ORTI E NELLA CAMPAGNA DELLA CAMPANIA FELIX
Questa volta, su invito dell’amica Lucilla mi soffermerò a parlare brevemente dell’argomento in epigrafe illustrandoli senza sistematicità, ma cosí come mi sovverranno in mente, dapprima con i lori nomi della lingua nazionale ed a seguire con quelli dell’idioma napoletano.
Principiamo:
castagna s.vo f.le [ dal lat. castanea, der. del gr. κάστανον «castagna, castagno»]. – Il frutto mangereccio del castagno: è un achenio, globoso-schiacciato, a pericarpo (buccia o scorza) coriaceo, di color marrone, lucido all’esterno, peloso di dentro, racchiuso, da solo o con una o due altre castagne, nella cupola (riccio), armata di densi e lunghi aculei; in napoletano il frutto in esame prende diversi nomi a seconda di come venga cotto; avremo perciò 1)allessa [dal lat. ad +elĭxa-m→ad(e)lixa-m→allixa-m→allessa «bollita»] quando il frutto venga lessato sbucciato e privo della scorza coriacea, ma non della prima pellicina;
2)veróla = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne arrostite) sia nella Campania che nel Lazio, che nelle Marche; etimologicamente, scartata l’idea proposta dal D’Ascoli ( dal latino viria con il diminutivo viriŏla→veróla)per incongruenza semantica atteso che la voce latina viriŏla indicò in quella lingua un braccialetto e fu voce poi attestata nell’italiano come viròla indicando nell’ordine: 1. elemento «maschio» di una giunzione, di un collegamento meccanico, costituito da un corpo filettato: se ne ànno esempî nell’innesto a vite delle lampade elettriche, nel bocchettone di scarico idraulico (nel quale, costruita in rame, collega le diramazioni di scarico di piombo con le colonne di scarico di ghisa), ecc. 2. negli orologi meccanici a bilanciere, è
l’anello tagliato che collega l’estremità interna della molla a spirale all’asse del bilanciere. 3. ciascuno dei pezzi cilindrici di un serbatoio che, saldati insieme, costituiscono la parete laterale del serbatoio stesso, tutte cose che nulla ànno a che spartir con la caldarrosta; e scartata altresí per problemi morfologici la proposta dal prof. Indolo (che fa appello ad un latino “badius” corrispondente al sabino “basus”, entrambi col significato di “castagna marrone”.
Iandolo ipotizza una forma diminutiva femminilizzata *badíola (sott.“castanea”), poi divenuta *badiòla nel latino popolare sulla scia di “filia →filíola → filiòla”, ma con iniziale vocale tonica chiusa com’è nei dittonghi
ascendenti del latino indigeno campano *badióla; e congettura non solo il normale passaggio “b → v” come attestano “bíbere → vèvere, barca →varca, butte(m) → vótta, basiu(m)→vaso” ecc., ma anche l’alternanza quasi solita “d /r” come comprovano “Madonna/ Maronna, il brodo → ’o bbroro, i pièdi →’e piére, ggrare←gradus = le scale ecc., e delinea una prima forma d’avvio *varióla, poi con cambio dell’accento fonico,
divenuto aperto: *variòla; reputo questi di Iandolo tuttiarzigogoli poco convincenti e son invece convinto (cosí come anche l’avv.to deFalco) che la voce sia un deverbale del francese brûler (bruciare, rostire) secondo il seguente percorso morfologico in cui leggere l’alternanza partenopea b/v, ed una epentesi vocalica della prima e: brûler→ vrûler→veruler→verola; da veróla+il suffisso di pertinenza aro←arius) è derivato poi il termine verularo (voce quasi esclusivamente campana)
s.vo m.le sg. = padellone bucherellato per arrostirvi le castagne 3)vallena/vallana castagna lessa bollita con la scorza dura, ballotta; la voce napoletana nella doppia morfologia è una femminilizzazione del m.le lat. balanu-m→balana-m→ballana-m→vallana/vallena con raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (L); questa voce or ora illustrata però ormai non è usata che dai napoletani d’antan e da quelli piú versati nel loro idioma; tutti gli altri oramai sciattamente usano il termine palluotte/palluottole inutile, sconcio adattamento dell’italiano ballotte.
cachisso s.vo neutro lo stesso che lignasanto, frutto dell’albero noto in italiano come kaki o cachi s. m. [voce di origine giapp.]. la voce napoletana è derivata dal pl. di kaki, kakis→cachisso con consueto raddoppiamento espressivo della consonante finale in parole derivate da termini stranieri e consueta paragoge di una semimuta finale (qui O) atteso che i napoletani non amano le parole che terminino per consonante (cfr. alibi tramme←tram, bisse←bis, barre←bar,gasse←gas, autobbusso←autobus etc. con l’ unica eccezione della negazione nun che tuttavia talora diventa none ).
La voce cachisso è usata anche furbescamente con significato negativo riferito a persona molle, flaccida e/o inadatta all’azione; in tal senso la voce cachisso è spessissimo accompagnata dall’aggettivo ‘nzuvarato/’nzuarato aggettivi sui quali è opportuno soffermarsi per dire che trattasi morfologicamente di due forme leggermente diverse di un unico part. passato del verbo ‘nzuvarà/’nzuarà = allappare, allegare i denti (riferito a della frutta( e su tutta appunto il cachi) che non avendo raggiunto la dovuta maturità, risulti alla masticazione aspro e legnoso tale appunto da allappare, allegare i denti; da notare che stranamente gli aggettivi in esame pur essendo un participio passato, si traducono come se si trattasse di un participio presente per cui ‘nzuvarato, ‘nzuarato si rendono non (come sarebbe corretto) con allappato, allegato ma con allappante, allegante i denti, mentre in senso traslato valgono che rende trascurabile cosa che semanticamente si spiega con il fatto che un frutto non maturo poco si presta ad esser gustato rendendosi cosí quasi inavvertibile, trascurabile da parte di chi evita di mangiarne.
E passiamo alla questione morfologica ed etimologica.
Comincerò col dire che due dei piú consultati calepini della parlata napoletana ( il D’Ascoli e l’ Altamura) stranamente (che si siano copiati pedissequamente l’un l’altro?...) accanto alle corrette voci in esame, elencano uno scorretto e – reputo - inesistente infinito ‘nzuvarí/‘nzuarí donde deriverebbero (che pretese!) nzuvarato/‘nzuarato laddove chi appena appena mastichi un po’ di idioma napoletano può cogliere l’incongruenza di voler ottenere un participio passato in ato da un verbo della terza coniugazione cioè in ire che al massimo avrebbe potuto generare nzuvarito, ‘nzuarito, non certamente nzuvarato, ‘nzuarato che son figli di un infinito della 1ª coniugazione e perciò di ‘nzuvarà/‘nzuarà e non di ‘nzuvarí/‘nzuarí!
Quanto all’etimologia una comune corrente di pensiero (cui peraltro aderí un tempo il D’Ascoli (parce sepulto!) ed oggi pure l’amico prof. Carlo Iandolo) parla di una derivazione dal lat. in (illativo) + suber = sughero, arzigogolando che un sughero addendato produca sui denti e tutta la bocca una sensazione spiacevole, tal quale quella che produce un frutto non maturo se addentato. Mi spiace per l’amico Iandolo, ma la strada semantica che propone mi pare impervia e perciò non percorribile (chi o perché mai dovrebbe addentare (per assaporarlo) un sughero?); reputo che sia piú corretto e semanticamente vicino al vero pensare per ‘nzuvarà/‘nzuarà, ad una derivazione dal lat.in (illativo) + una lettura metatetica di sorbum = sorbo il cui frutto sorba [dallat. *sŏrba-m] che in napoletano con medesimo etimo diventa sòvera] raccolta ancòra acerba è messa a maturare su di un letto di paglia e qualora questo frutto venga addentato prima della dovuta maturazione risulta (questo sí!) allappante ed allegante denti e bocca.
Un ultima precisazione; se mi si chiedesse quale delle due voci esaminate sia la piú corretta; direi che nel linguaggio popolare sono usatissime ambedue, epperò la prima: ‘nzuvarato la si ritrova maggiormente nello scritto e mi appare quella morfologicamente piú rispondente all’etimo (sia pure con la tipica alternanza partenopea b/v) , laddove la seconda: ‘nzuarato è dell’àmbito del parlato con sincope della v ritenuta pleonastica e retaggio forse di un’antica epentesi eufonica. In coda rammento che il frutto del cachi, in napoletano oltre che quello di cachisso prende il nome di ‘o lignasanto (al sg.) e di ‘e legnasante (al pl.) in quanto è frutto che matura in autunno inoltrato in prossimità della festa di Ognissanti e non perché l’albero del cachi sia sacro a gli dei come pensa qualcuno confondendo il cachi con il guajaco o albero di sant’Andrea che è il vero “albero santo”nella tradizione dell’america centrale.
ciliegia s.vo f.le [dal lat. *ceresia per *cerasia] (pl. –gie)
Il frutto del ciliegio, costituito da una drupa di 1-2 cm di diametro, di colore rosso, piú o meno cupo; le ciliegie sono adoperate per il consumo diretto, oppure si conservano o si usano per farne sciroppi, marmellate, liquori; dai semi si estrae un olio (olio di ciliegie) di colore giallo oro, di odore gradevole di mandorle amare;in napoletano la voce si rende con cerasa dritto per dritto dal lat.*cerasia→ceras(i)a→cerasa;
gelsa s.vo f.le [lat. (morus) cĕlsa «(moro) alto»]
il frutto di una pianta delle moracee appartenente al genere morus, di cui sono note soprattutto le due specie gelsa bianca (lat. scient. morus alba) e gelsa nera o gelsa moro (lat. scient. morus nigra), entrambe a foglie intere o lobate, con piccoli fiori monoici in amenti, ed infruttescenza carnosa, detta mora di gelso; il gelso bianco, coltivato nelle zone temperate di tutto il mondo per le foglie utilizzate nell’allevamento del baco da seta, à more di colore bianco sudicio o rossastro, alquanto dolci e mangerecce, e fornisce, dalla corteccia dei rami giovani, fibre (gelsolino) utilizzate per funi, carta e tessuti e, dal tronco, un legno duro, di colore giallastro, usato per serramenti, botti, ecc.; il gelso nero, coltivato per il frutto dolce-acidulo, mangereccio, dal quale si ricava anche uno sciroppo leggermente astringente (sciroppo di more), à frutti piú grossi e piú succosi del precedente, di colore nero lucido; in napoletano la mora di colòre bianco è detta ceuza/ceveza dritto per dritto dal solo lat. cĕlsa; normale in napoletano l’esito di el in eu come alibi al in au (cfr. auto←altu-m etc.); furbescamente nel napoletano parlato della città bassa la voce ceuza/ceveza al pl.
ceuze/ceveze indica le emorroidi;ugual cosa avviene con il s.vo pl. sòvere che già il re Ferdinando II di Borbone usava nel significato di emorroidi (cfr. la minaccia “Te faccio ascí ‘e ssovere ‘a culo!”= Ti percuoto tanto da farti espellere le emorroidi dalla loro sede naturale!)
albicocca s.vo f.le [dall’arabo al-barqūq, che è dal gr. πραικόκιον «albicocca»],
frutto di un alberetto della famiglia delle rosacee prunoidee (lat. scient. Prunus armeniaca), anche chiamato armellino, originario della Cina settentr. e coltivato nei paesi temperati e tropicali montani; è alto 6-7 m, con foglie ovate, fiori precoci, bianchi o rosei, frutto a drupa globosa od oblunga, vellutato, giallo aranciato, molto pregiato per il sapore ed il profumo: la maggiore quantità è consumata fresca; se ne fanno composte, marmellate, canditi; le albicocche secche si conservano per piú anni. L’olio contenuto nel seme à proprietà simili a quello di mandorle; viene usato come commestibile ed anche in profumeria, saponeria, ecc..
In napoletano il frutto, per il suo colore dorato prende il nome di cresommola[dal greco chrysómēlon=pomo aureo ]; ; per traslato giocoso in napoletano la voce cresòmmola indica anche o una sesquipedale fandonia, sciocchezza o anche una violenta percossa portata a mano serrata e diretta essenzialmente al volto; il passaggio semantico del traslato quale violenta percossa è da ricercarsi nel fatto che détta percossa può lasciare sul viso una tumefazione rapportabile per grandezza al polputo frutto dell’albicocco; meno intuibile il passaggio semantico del traslato quale sesquipedale fandonia, sciocchezza grande a meno che anche in questo caso non si mettano in rapporto la grandezza del frutto con la vastità della sciocchezza, ma lo reputo un arrampicarsi sugli specchi del ragionamento.
Al margine e completamento di questa voce rammento e mi soffermo ad illustrare brevissimamente le voci libbèrgio e la derivata libbèrgina
che son voci attestate pure come libèrgio e libèrgina (con forma scempia della labiale esplosiva b, quantunque le forme con la b geminata appaiono di piú esatto e forse corretto originario uso popolare, mentre le forme con la b scempia son d’uso marcatamente letterario e libresco e quindi a mio avviso, da non seguirsi. Le voci libbèrgio (con cui si indica l’abero fruttifero delle albicocche) e libbèrgina(il frutto dell’albero albicocco) son voci (come ò detto attestate pure come libèrgio e libèrgina ) con cui nella zone del salernitano e dell’ebolitano si indicano, dicevo, rispettivamente l’albero ed i frutti di quelle albicocche che nel napoletano sono le cresòmmole (e di cui il relativo albero è il cresuómmolo).
Potrà sembrare strano che Salerno, Eboli e loro circondarî, luoghi che son cosí prossimi al capoluogo campano (che vanta un idioma che à influenzato in lungo e largo le parlate centro- meridionali),potrà sembrare strano, dicevo, che adottino, nel loro parlato popolare voci tanto diverse da quelle napoletane per indicare il medesimo frutto (l’albicocca) ed il relativo albero che lo produce. Ma l’apparire strano della faccenda cade solo se si pensa che Salerno, Eboli e loro circondarî son sí vicini a Napoli, ma ugualmente son prossimi alla Calabria e spesso voci in uso nelle città calabresi (soprattutto quelle rivierasche) ànno passato il confine e son giunte in talune città campane.
In effetti le voci libbèrgio e la derivata libbèrgina
attestate pure come libèrgio e libèrgina son voci d’uso calabrese dove con etimo per adattamento morfologico dal mozarabico nonché spagnuolo alberchiga indicano il nocepersico ed il relativo frutto nocepersica.
Non è chiaro tuttavia il percorso semantico seguíto nel salernitano ed ebolitano per assegnare all’albicocca il nome usato in Calabria per indicare la nocepersica (quel frutto a pasta soda e succosa e a buccia gialla che a Napoli è detto percoca voce derivata da un acc.vo del lat. volgare *percoca(m)= frutto del tutto maturo alterazione di praecoqua(m)= frutto precoce, mentre quel frutto a pasta bianca e succosa, buccia rossa e vellutata che in italiano è pèsca in napoletano è perzeca con etimo dall’ acc.vo lat. persica(m)con evidente riferimento al fatto che il frutto fu originario della Persia (persica-m fu la medesima voce da cui, con evidenti capriole morfologiche l’italiano ricavò pèsca)
finocchio s.vo m.le [ dal lat. fenŭcŭlum, variante di fenicŭlum o foenicŭlum].
a. Erba delle ombrellifere (lat. scient. Foeniculum vulgare), bienne o perenne se spontanea, annua se coltivata, alta fino a 2 m, con foglie multifide, munite di ampia guaina basale, e ombrelle con molti fiori gialli; il frutto è un diachenio oblungo, grigiastro o gialliccio, percorso da 10 costoline piú chiare, evidenti, con il quale, così come con le radici, si preparano polveri, infusi, estratti e tinture a scopo eupeptico e, nella medicina popolare, galattagogo ed emmenagogo. Sottospecie e varietà: f. arancino (Foeniculum vulgare ssp. piperitum), perenne, spontaneo nelle zone mediterranee, con frutti di sapore acre e disgustoso; f. forte o selvatico (Foeniculum vulgare ssp. vulgare), perenne, spontaneo nel Mediterraneo e comune in tutta Italia, con frutti piuttosto piccoli di sapore sgradevole; f. dolce o di Roma (var. dulce), annuo o bienne, con frutti (semi di finocchio) lunghi fino a 10 mm, chiari, di sapore dolciastro, adoperati come condimento, e dai quali si estrae un olio etereo (essenza di finocchio) usato in profumeria, in liquoreria e in medicina; f. di Bologna o di Chioggia (var. azoricum), varietà coltivata, annua, caratteristica per i germogli bulbosi, che si consumano come ortaggio.
b. Il germoglio bulboso del finocchio usato come ortaggio: mangiare un f. crudo; sformato di finocchi. Si distinguono, nell’uso corrente, un f. maschio, rotondeggiante, tenero e poco filamentoso, che si mangia soprattutto crudo, in insalata o in pinzimonio, e un f. femmina, di dimensioni minori, piú schiacciato e allungato, meno aromatico, preferito per la cottura.
In napoletano la voce diventa fenucchio [ dal lat. fenŭcŭlum→fenuclu-m→fenucchio] ed oltre ad indicare l’ortaggio edulo è usato furbescamente per indicare il pederasta attivo quello che è anche détto ricchione distinguendolo dal femmeniello che è il pederasta passivo; talora,per traslato furbesco e giocoso e popolarmente, la voce fenucchio è uno dei tanti sinonimi napoletani usati per indicare il membro maschile; rammento che in questa accezione si fa riferimento semantico al finocchio dolce, quello dalla grossa testa carnosa e dal fusto ingrossato.
fico d'India s.vo m.le [dal lat. scient. Opuntia ficus-indica→ (Opuntia) ficus-indica→fico d’india Nome comune della pianta succulenta Opuntia ficus-indica e del suo frutto. La pianta è alta fino a 5 m, della famiglia Cactacee, à rami (cladodi) articolati, ellittici od obovati, appiattiti, carnosi, detti pale; questi sono di un verde un po’ glauco e cosparsi di ciuffi (glochidi) di piccoli aculei che si formano all’ascella delle foglie, minutissime e fugaci; dal centro di ogni glochidio sorgono spesso 1-2 spine robuste. I fiori si sviluppano di solito al margine superiore dei cladodi, ànno perigonio di molti pezzi, gli esterni sepaloidei, gli interni, gialli, petaloidei, stami numerosi e ovario infero uniloculare, con lo stilo che reca 6-8 stigmi. Il frutto è una bacca, con polpa mucillaginosa e molti semi ossei: è ovoide, troncato e ombelicato all’apice, all’esterno con ciuffi di aculei, come nei rami vegetativi. È originario probabilmente del Messico, dove già nell’epoca precolombiana era coltivato in parecchie varietà. Attualmente si coltiva nel Mediterraneo, Africa meridionale, California ecc., e in vari paesi si è spontaneizzato. Delle molte razze se ne ricordano con frutto a polpa gialla (la piú comune), a polpa bianca, a polpa rosso-violetta. I frutti si consumano freschi o anche secchi.In napoletano il frutto in esame prende il nome di ficurinia con medesima etimologia, ma evidente rotacizzazione d→r osco-mediterranea della prima D e dissimilazione totale della seconda. In sostituzione della voce ficurinia spesso nel parlato napoletano della città bassa è usata, forse impropriamente la voce nanassa (adattamento del termine ananas→(a)nanas→nanassa con consueto raddoppiamento espressivo della consonante finale in parole derivate da termini stranieri e consueta paragoge di una semimuta finale (qui a) atteso che come ò già détto e qui ripeto i napoletani non amano le parole che terminino per consonante; la voce nanassa è usata anche in senso furbesco riferito ad una giovane donna morbida e formosa e – come tale – intesa dolce e succosa.
fragola s.vo f.le [ dal lat. *fragŭla, dim. di fraga]. –
a. Pianta rizomatosa del genere fragaria che cresce in climi temperati, su terreni soffici e umidi: à foglie alterne trifogliate, con fiori bianchi di cinque petali riuniti in corimbo, e un falso frutto, detto anch’esso fragola; in Italia cresce spontanea la fragola comune (Fragaria vesca), con alcune varietà.
b. Il frutto della pianta, che in realtà è il ricettacolo, molto ingrossato, cuoriforme, generalmente rosso, a polpa succosa, edule, sul quale stanno i veri frutti, volgarmente ritenuti semi. In napoletano la fragola prende il nome di fravula con medesimo etimo dal lat. *fragŭla ma con sostituzione di V alla G come in gunnella→vunnella, gallo→vallo, gallina→vallina, concola/gongola→vongola.
mandarino s.vo m.le [ dal port. mandarim, alteraz. del malese mantri, a sua volta dal sanscr. mantrin] frutto simile all’arancia, ma piú piccolo e dal sapore piú dolce;l’albero che produce questo frutto (fam. Rutacee). – in napoletano la voce diventa mennarinulo/mennarinolo con medesimo etimo ma con assimilazione regressiva nd→nn ed addizione del suffisso ulo/olo suffisso che continua il lat. olus/ola e che unito ad aggettivi o sostantivi forma alterati con valore diminutivo o vezzeggiativo, oppure stabilisce una relazione, una provenienza e nel caso in esame fa riferimento al fatto che il frutto in esame risulta piú piccolo dell’arancia cui è simile.
carciofo s.vo m.le. Con il termine carciofo si identifica un tipico ortaggio coltivato in campo aperto, anzi per esser piú precisi si indica una particolare pianta erbacea anzi una pianta spinosa simile al cardo, da cui sarebbe derivata per mutazione, pianta di cui si mangiano i capolini e le grandi brattee carnose da cui essi sono avvolti (fam. Composite);
Fu pianta già nota a Romani e Greci, che la apprezzavano molto sia come alimento gustoso che come pianta medicinale; il carciofo tuttavia entrò permanentemente nella cucina italiana non prima del secolo XI per merito degli arabi che lo diffusero dapprima nelle cucine regionali del meridione d’Italia; successivamente tra il XII ed il XV secolo il carciofo si diffuse in tutta la penisola quantunque per gran tempo non fosse distinto dal cardo col quale spesso venne confuso; anche il nome di carciofo lo si deve agli arabi che chiamavano questa pianta kàrshuf donde l’italiano carciofo nome che soppiantò decisamente il termine Cinara cardunculo scolimo adattamento del lat. Cynara cardunculus scolymus nome scientifico usato dagli addetti ai lavori (coltivatori ed erboristi); dal sostantivo m.le carciofo i napoletani trassero una sorta di diminutivo femminile(cfr. il suff. ola f.le di olus) : carcioffola nome con cui in Campania è chiamato il carciofo che à - come ò detto- un'infiorescenza a capolino, per lo piú di colore verde tendente al grigio cenere; ci sono anche delle varietà tendenti al violetto. Le brattee, cioè le squame compatte che formano il capolino, possono avere spine oppure no. È proprio ciò che distingue i diversi tipi di carciofo.Essi variano altresí a seconda della dimensione tenuto presente che, mantenendo inalterato il gusto, ogni pianta produce un solo grosso fiore centrale e molti altri, piú piccoli, dai cosiddetti braccioli laterali.
Oggi le varietà spinose piú conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, quelli di Venezia e di Sardegna ed i violetti di Chioggia. Ulteriori varietà di carciofo spinoso sono il violaceo di Toscana, ed il carciofo spinoso campano che è verde-violaceo. Tra i non spinosi, invece, troviamo il cosiddetto romanesco, comunemente conosciuto come mammola (con derivazione dal Lat. mammula(m), dim. di mamma 'mammella'; propr. 'piccola mammella', poi anche 'bambina' e 'piccolo fiore', quello di Catania, di Palermo e della Campania dove prende il nome di mammarella diminutivo della pregressa mammola attraverso un doppio suffisso r+ella.
Il carciofo è un alimento dal sapore spiccato,molto gustoso, versatile in quanto si presta a molte preparazioni culinarie; à ottime proprietà salutari: i carciofi sono infatti considerati i protettori del fegato; in effetti grazie ad una particolare sostanza (la cinarina) contenuta nelle brattee , nello stelo e nell'infiorescenza, il carciofo svolge un'azione benefica sulla secrezione biliare, sulla funzionalità epatica, favorendo altresí la diuresi renale e regolarizzando le funzioni intestinali. I carciofi stimolano pure il flusso di bile; già studi del passato condotti sia su animali che su esseri umani, dimostrarono che i carciofi abbassano i livelli ematici di colesterolo e di trigliceridi, quantunque in realtà i principi attivi siano contenuti nelle brattee che solitamente non vengono mangiate, se non in parte. Sono molto ricchi di fibre e di minerali, mentre è relativamente basso il contenuto di sodio e di vitamine, se si eccettua la presenza di un po' di vitamina A e vitamina C. Possono essere mangiati da tutti ed a tutte le età perché alimento facilmente digeribile ed essendo molto ricco di fibra solubile aiuta ad eliminare il colesterolo in eccesso; il carciofo è infine altresí ricco di inulina, un polisaccaride che l'organismo metabolizza in modo diverso dagli altri zuccheri. In realtà l'inulina non viene utilizzata dall'organismo per la produzione di energia. Questo fatto rende i carciofi molto salutari per i diabetici, perché l'inulina migliora efficacemente il controllo dello zucchero ematico nei diabetici.
A margine rammento che con il termine carciofo con linguaggio furbesco si indica una persona sciocca, incapace; tuttavia sono sconosciute le ragioni di questo strano collegamento semantico tra un ottimo, gustoso alimento quale è il carciofo ed una persona sciocca o incapace.
Nota linguistica
Con ogni probabilità la voce napoletana femminile carcioffola fu la prima ad esser coniata con derivazione - come ò détto - dall’arabo kàrshuf addizionato di un suff. diminutivo ola←olus e fu usato per indicare quel carciofo in seguito détto mammarella diminutivo della romanesca mammola attraverso un doppio suffisso r+ella. Atteso la nota particolarità dell’idioma partenopeo che considera femminile una cosa o un oggetto piú grosso o ampio di un corrispondente oggetto o cosa maschile, piú piccolo (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) tavula (piú grande) e tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione soltanto caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo), attesa questa particolaritàdicevo, con ogni probabilità si coniò dapprima il termine carcioffola destinandolo al grosso carciofo mammola e si assegnò un corrispondente maschile carcioffolo (cosí come riportato in antichi testi (Vincenzo Cervio ed altri)) al piú contenuto carciofo spinoso; quando poi invalse l’uso di chiamare mammarella il grosso carciofo mammola privo di spine si finí per abolire il maschile carcioffolo conservando il femminile carcioffola assegnato al normale piccolo carciofo spinoso; e fu tale carcioffola che pervenne nell’italiano diventando carciofo ←carcioffo(la) privato altresí della espressiva geminata effe ritenuta troppo dialettale.
zucchina s.vo f.le (alla toscana anche s.vo m.le zucchino) [dim. di zucca]. – Nome con cui sono indicati i frutti immaturi,piú o meno piccoli, verdi e commestibili, delle varie specie di zucca; è uno degli ortaggi piú comuni: zucchine lesse, fritte, trifolate; zucchine ripiene; zucchine alla parmigiana.
In napoletano la voce è cucuzziello s.vo m.le diminutivo (cfr. il suff. iello) e maschilizzato del tardo lat. cucutia-m; per traslato giocoso e furbesco la voce cucuzziello indica una persona sciocca, stupida, inetta, scema, stolta, tonto con riferimento semantico al fatto che l’ortaggio di suo è poco sapido.
carota s.vo f.le [ dal lat. tardo carōta, dal gr. καρωτόν]. –
1. Erba annua o bienne delle ombrellifere (Daucus carota), alta fino a 2 m, con ombrelle a molti raggi, fiori per lo piú bianchi, comune in Italia nei coltivati e negli erbosi in parecchie varietà; la carota comune (ssp. sativus) è coltivata per la radice ingrossata (detta anch’essa carota), di colore per lo piú giallo arancio, dolce, commestibile (carote in umido, in insalata; contorno di carote). Dai semi si ottiene l’olio di c., impiegato per la fabbricazione di liquori stimolanti, nella preparazione di sostanze aromatiche e, limitatamente, in profumeria.
In napoletano la voce è pastenaca dritto per dritto dal lat. pastinaca-m .
Per traslato giocoso e furbesco anche questa voce indica uno sciocco, stupido, inetto, ignorante, stolto, tonto con riferimento semantico al fatto che l’ortaggio di suo è piuttosto dolciastro e poco sapido.
anguria s.vo f.le [[dal gr. tardo ἀγγούριον, pl. ἀγγούρια]. – Nome region., molto diffuso, del cocomero che è un’Erba annua delle cucurbitacee (Citrullus lanatus, sinon. Cucumis citrullus) con fusto ramoso, prostrato, con grandi cirri semplici, foglie a contorno cuoriforme, fiori monoici a corolla gialla; il frutto è una falsa bacca (poponide) globosa (con diametro fino a 40 cm e peso fino a oltre 20 kg) o ellissoidale, liscia, verde o con strisce chiare, con buccia relativamente sottile, polpa zuccherina rinfrescante, bianca nella parte piú esterna e rossa o giallastra nel resto, e semi numerosi di colori diversi. Originario dell’Africa, il cocomero è coltivato in tutto il mondo. In napoletano la voce è mellone dal lat. tardo melone-m con raddoppiamento espressivo della liquida alveolare laterale [L] e con essa voce addizionata dello specificativo d’acqua (mellone d’acqua)si indica quel cocomero dalla polpa rossa distinto dal popone o cantalupo che a Napoli è il mellone ‘e pane ed à la polpa bianca o gialla .
nespola s.vo f.le [lat. mespĭlum (che è dal gr. μέσπιλον), con passaggio di m- a n-, che si à anche in nappa dal lat. mappa, dovuto (come per nibbio) ad un fenomeno di dissimilazione, ma documentato anche in altri casi (per es. nicchio dal lat. mitŭlus) non spiegabili come dissimilazioni]. Il frutto, o piú precisamente il falso frutto, del nespolo comune, simile a una piccola mela, di color bruno, contenente cinque nòccioli piatti (i semi); si coglie in autunno, ancora acerbo, e viene fatto successivamente maturare finché la polpa diventa tenera e dolce. In napoletano, con medesimo etimo la voce diventa nespula con chiusura in u dell’originaria breve ĭ per la quale ci si sarebbwe attesa una dittongazione io; la voce nespula è attestata nel noto proverbio cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia s’ammaturano ‘e nnespule (col tempo e con la paglia si maturano le nespole), frase con cui si vuol significare che il tempo risana tutto e risolve le difficoltà,e o che viene ripetuta anche come invito ad avere pazienza, a evitare la fretta.
nucella = nocciola s.vo f.le [ dal lat. *nuceŏla, dim. di nux nŭcis «noce»]. Il frutto del nocciòlo, di forma globoso-bislunga o subrotonda, avvolto in parte da un involucro fogliaceo; il seme, detto anch’esso nocciola, si consuma fresco o secco e si usa largamente nell’industria dolciaria (anche sotto forma di farina, in unione alla polvere di cacao). In napoletano, con medesimo etimo la voce diventa nucella che addizionata dell’aggettivo americana è voce usata in napoletano per indicare l’arachide s.vo f.le [dal lat. scient. Arachis, nome di genere, che è dal gr. ἀρακίς -ίδος, propr. «cicerchia»]. – Erba annua delle leguminose papiglionacee (lat. scient. Arachis hypogaea), detta anche nocciòla americana, pistacchio di terra, cece di terra, originaria del Brasile, ma coltivata con numerose varietà in tutti i paesi caldi: à fusti eretti o prostrati, foglie composte di due paia di foglioline, fiori gialli; il frutto, sotterraneo, è un legume oblungo, indeiscente; particolarm. importanti i semi, ovoidei, in numero da 1 a 4 , che si consumano, previa tostatura, come frutta secca e si utilizzano come surrogato del cacao, per la preparazione del burro e, soprattutto, per l’estrazione dell’olio commestibile (olio di arachide), limpido, chiaro e di sapore gradevole.
arancia s.vo f.le [dal pers. nāranǵ, che è prob. dal sanscr. nāgaranja «gusto degli elefanti»]. – frutto dell’albero della famiglia rutacee (Citrus aurantium), alto fino a 12 m, con foglie ovate, fiori bianchi, frutto globoso del tipo bacca (propriam. chiamato esperidio) con buccia e polpa di colore caratteristico (aranciato). Si distinguono due varietà, arancia dolce ed arancia amara: il primo à frutto con polpa agrodolce, consumato quasi esclusivamente come frutto fresco, dalla cui buccia si estrae l’olio essenziale di arancia dolce In napoletano [con etimo dal nome del Portogallo, paese da cui (oltre che dalla Spagna) la pianta ed i suoi frutti si sono dapprima diffusi in Europa nel sec. 14°, provenendo dalla Cina] la voce diventa purtuallo/purtuvallo.
Della noceperzeca = nocepesca, della percoca = pesca gialla con pizzo, della sovera = sorba e della perzeca = pesca bianca ò già détto precedentemente per cui mi congedo con il consueto satis est e do appuntamento alla prossima volta.
R.Bracale Brak
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