1-FÀ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCOGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida
locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di
chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid (
sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia
di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta
provenienza.
fà scennere = far discendere voci
verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re l’infinito troncato fa è scritto fà preferito all’apocopato fa’
per evitare una possibile
confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello
stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú derivato dal latino (de)scendere,
comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana
si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
cosa= cosa, termine generico usato per indicare
qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi
parla o di chi scrive e che riceve... sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione
che produsse *cosa(m) ed il verbo *cosare usato in luogo di
causare;
coglie= testicoli sostantivo femm. plur. del sing. coglia
che dal neutro latino coleum (pl.
colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e
koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e
segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della
borsa che li conteneva
2 -FÀ TRE FFICHE NOVE RÒTELE
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il
comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera e si ammanta di meriti che non possiede, né
può possedere.
Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere
che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie
corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890
grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è
impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8
kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora
oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al
Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla
misura araba rate/ ratl,trasformazione
a sua volta della parola greca litra, che originariamente
indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne
poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in
Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e
come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico
rotolo napoletano.
tre agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a due unità
piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da
III: l’etimo è dal latino tre(s);
fiche sost. femm. plurale di fica che è il
frutto del fico, frutto che invece in italiano è maschile: fico, come la pianta da cui deriva;
l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua
della voce nordica figa) anche vulva, vagina con riferimento alla boccuccia, fenditura
rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal maschile latino ficus reso femminile; ficus è da collegarsi al greco phýo= produco a sua volta dall’ebraico phag il
tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già
presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che la vulva;
nove agg. num. card.
numero naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba
è rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m);
ròtele sost. masch. plurale metafonetico di ruotolo= rotolo di cui ò già
detto.
3 - FÀ FETECCHIA:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati
nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia,
scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che,
giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col
termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene
indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in
generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon
fine.
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno
risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo
prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri
significati c’è una sorta di non
olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce
esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia è un acc. lat. volgare feticula(m) per il
class. foeticula(m).
4 – FETTIARE O FITTIARE
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo
verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto
da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello
scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani
napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa:
quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in
maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona
guardata; in particolare i giovanotti
che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza
insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non
dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un
cugino, un fidato amico che convinceva
con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il
verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza
di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano
un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una
pasticceria o trattoria.
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un
po’ tutti una certa disponibilità
economica e diventate, le ragazze,
prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con
l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la
rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in
napoletano conserva anche il vocabolo fettíglie con il significato di noie, molestie e
consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si
possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i
due verbi la molestia si traduce solo
nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime
azioni, un infastidire di lontano.
5- CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE O NUN S’APPURA
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La
fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le
propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in
giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo
e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole
calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè
verificato;
chello = quello, ciò che pron. dimostrativo neutro che indica cosa
lontana da chi parla e da chi ascolta, o cosa non presente della quale si sta
parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco
quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg.
*(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat.
volg. *(ec)cu(m) illa(m),
sape = sa voce verbale (3° pers. sing. ind.
presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza,
apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il
class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio',
appura=, viene
a conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing.
ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a
conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne
l'esattezza; mettere in chiaro (e
nel linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar=
depurare→verificare.
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6 -'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô
PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente:
il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari
destinata sempre all'insuccesso quella se combattuta apertamente da un piccolo contro un grande.
pesce = pesce, animale vertebrato acquatico di varia
grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne
per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo,
usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto
al soggetto debole o di scarsa valenza
economica- sociale (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m);
gruosso= grosso, che/chi à dimensioni notevoli (per volume, capacità,
spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso,
potente, importante agg. qual.
masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o
di sillaba intesa breve nel
masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o prevede la geminazione della gutturale
d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la
dittongazione non avviene ;
magna = mangia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)
dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con
etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;
a margine faccio notare
come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto
dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua
italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo)
in quanto la parlata napoletana,
sulla scorta di un antico latino volgare parlato esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non
cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò
visto tuo padre), aggiu chiammato
ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu
pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere) una a segnacaso che unita all’articolo di
pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô
= a+ ‘o(al, allo),â(=
a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle);
piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec.
per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa
valenza socio-economica; l’etimo
della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il
medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso
un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo
–femm. renèlla) che indica pochezza, parvità:
es.: cusariéllo – cusarèlla
(cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello,
piccerenèlla(piccino/a);
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7 - 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione
vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della
realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi
chiunque faccia del bene ad un altro,
in realtà mira certamente al proprio
tornaconto che da tale azione apparentemente benefica gliene deriverà o potrà derivare prima o
poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si
lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí del bene; infatti in realtà e fuor di vane illusioni, il
fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio
tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli
insaccati ed affini che dalla
macellazione del maiale si posson ricavare)
puorco sost. masch. = maiale,
porco , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di
porco , figuratamente persona che fa o dice cose oscene; con
funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche come
rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con
tipica dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione
che manca nel femm.: si à infatti puorco masch. ma porca femm.
‘ngrassa =ingrassa voce
verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare,
impinguire, allevare all’ingrasso con etimo denominale da un
lat.tardo in (illativo)
+ grassu(m), da crassus 'grasso', per
incrocio con grossus 'grosso';
sacicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia
plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne
di maiale; ; etimologicamente derivante da un
tardo lat. salsicia,
neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia
'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare;
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8 –TE PIENZE CA VACO
METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE?
Letteralmente: Pensi forse che io
vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta sarcasticamente nei confronti specialmente
dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie,
per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose
richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di
notte; la medesima espressione interrogativa la si usa anche
nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La
locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a
significar loro che chi parla non si
può certamente equiparare a quei masnadieri d’antan che nottetempo erano soliti tendere lungo
le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e
carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di
rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano
essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale
far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati e/o figlioli incontentabili.
te pienze = pensi tu? voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.)
dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre etc.con etimo dal tardo lat. pensare, intensivo di pendere
'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale
in napoletano il passaggio di ns→nz;
vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di
mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing.
ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire;
le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno come tema vac= vad sono derivate dal lat volgare vadere 'andare'come quelle
italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere=
mettere, porre, situare etc.
con etimo dallat. mittere'mandare'
e 'porre, mettere';
funa= fune, corda, cavo sost. femm. dal lat. volg. *funa(m) per il
class. fune(m);
‘e notte= di notte loc.
avv. temporale dove ‘e= di
sta per durante e notte è il sostantivo femminile indicante la parte del giorno solare, dal
tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal
lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt.
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9 - PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo
augurio che vale : Possa tu
morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis,
transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e diretti al Camposanto, per cui augurare a
qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un
corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il
protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
puozze= possa tu voce
verbale (2° pers. sing. congiunt.
pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal
lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su
po°tens -e°ntis;
passà= passare, transitare voce verbale infinito passare/passà con etimo dal lat. volg. *passare,
deriv. di passus 'passo';
loggia = loggia di per sé edificio o parte di edificio
aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma
anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui come luogo di riunione di persone che
esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla
medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso –
appartenenti ad una stessa città di
provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della
città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano i loro traffici e commerci autoamministrandosi;attualmente la Loggia
di Genova, ubicata un tempo a
Napoli tra il c.d. Rettifilo e quello che poi sarebbe diventato il Borgo
degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel
detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un
tempo vi fu la Loggia ‘e Genova;
loggia sost. femm. talvolta a Napoli,
impropriamente sinonimo di terrazzo (la loggia napoletana come elemento architettonico in
realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato, quasi mai
con calpestio piastrellato ed è circondata su tre lati da un parapetto in
muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e
piastrellato può essere anche
coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in
ferro non un parapetto in muratura) loggia etimologicamente è dal fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m),
e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco';
Genova è
la città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della
quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed
ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di
mercanti si stabilirono automministrandosi ed aprendo botteghe per i loro traffici e
commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un
ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in
fitto dal vicereame napoletano;
10 – CHI NUN TENE DENARE, T’’E ‘MPRESTA, CHI
NUN TENE FIGLIE T’’E ‘MPESTA E CCHI NUN TENE MARITO NN’ ‘O CACCIA.
Letteralmente: Chi non à denari, te
li impresta, chi non à figli, te li appesta e chi non à marito, lo scaccia.
Icastica locuzione che, sulle
prime,almeno nella prima e terza delle sue proposizioni, parrebbe
incomprensibile,ma ad un attento esame è pregna di significato nella
scetticità della sua filosofia esistenziale per la quale nessuno è disposto
a concedertiun prestito in denaro, se non colui che ne è privo, solo una
donna che non conosca quanto sia
importante e vantaggiosamente profittevole l’avere un consorte, può
liberarsene, scacciandolo e, nella convinzione che chi non abbia figli
proprî non possa essere buon maestro di quelli d’altri,chi è privo di figli non puó
che corrompere, guastare, depravare,
pervertire quegli altrui.
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11 - CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla
Loggia. Cosí il popolo partenopeo suole apostrofare ogni persona che faccia
le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi propensa com’è , anche
ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con
la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine
dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò
detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli
alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi svolgevano i loro
commerci, autoamministrandosi; il
medesimo appellativo se lo meritò
uno scrittore nolano tale Michele
Somma che pubblicò agli inizi
del 1800 una raccolta amena e faceta
di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli
Orefici, nei pressi appunto della
Loggia de’ Genovesi dove stazionava la colonia degli abitanti di Genova,
residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivono
osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle
e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori)
il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno
non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta
ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú
e si dovette contentare d’affiancarlo,
diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa
strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi
non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile
in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e
non è riuscita neppure ad affiancare
il famosissimo pesto alla genovese. Ora qui di sèguito, segnalo la tradizionale
ricetta della napoletana genovese.
Dosi per 6 persone
2 Kg cipolle dorate
1 Kg di Spezzato di manzo adulto
(preferibilmente ricavato dalla
pancia o dalla corazza)
o in
alternativa 1 kg. di fette
di locena (soggolo) di manzo da cui
ricavare involti (brasciole) imbottiti di uva passita,
pinoli,cubetti di pecorino, prezzemolo tritato, sale, pepe nero e legati con spago da cucina
una carota
una costa di sedano
due bicchieri vino bianco secco
un bicchiere e mezzo di olio
extravergine di oliva
Un pomodoro pelato
(facoltativo)
sale fino e pepe nero macinato q.s.
600 gr. di rigatoni
1 etto di pecorino
possibilmente laticauda grattugiato
Procedimento
Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne
sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la
carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro
spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le
cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido; solo quando la cipolle saranno abbastanza
asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco
bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.
Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere
l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50
minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!)
facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se
il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di
acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
Con questo sugo condite i rigatoni
lessati al dente e mandateli in tavola
spolverizzati di formaggio
grattugiato e di abbondante pepe
nero.
La carne la servirete come pietanza accompagnata da un’insalata verde o patate fritte.
Mangia
Napoli, bbona salute!!!! e ringraziatemi.
12. PUOZZE SCULÀ!
Letteralmente: Possa scolare!Icastica malevola invettiva/maledizione napoletana rivolta
verso un/a inveterato/a nemico/a, o un/a fastidioso/a interlocutore/trice
cui si augura addirittura di decedere per esser posto/a poi, secondo
un’antica usanza,ad accomodarsi (da cadavere) su approntate vaschette di
pietra(détte:cantarelle) dove la salma cedesse, per gravità, attraverso un sistema di canaletti le
proprie secrezioni umorali,fino a che
una volta essiccata,non fósse pronta per l’inumazione o l’imbalsamazione.
Rammento a precisazione che la locuzione, cosí come riportata
in epigrafe, fu la corruzione/contaminazione della piú immediata e popolare
locuzione usata originariamente
nella città bassa, dove suonò: VA’
SCOLA! Si coglie infatti d’acchito che il puozze [ che, come détto antea, vale: possa tu è voce verbale (2ª pers. sg. congiunt. pres. con valore
ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto
al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;] è di marcatamente
libresco ed è frutto del filtro di chi è aduso a studiare, laddove
l’espressione originaria popolare,piú bella è quella coniugata all’imperativo VA’ SCOLA! Risultando di immediata fruibilità ed immediatezza
espressiva.
13.
TE SCHIFO PE MMANO ‘E LEGGE
Ad litteram: Ti ò a schifo, detesto,disprezzo per mano (id
est: attraverso) la legge. Espressione di fastidio che si può cogliere
sulle labbra di chi voglia lasciare intendere a qualcuno verso cui provi
repulsione, disprezzo, abominio, biasimo, disdegno, disgusto, disistima che
o tali sentimenti sono così tanto
grandi da esser disposto ad
esser chiamato in giudizio per giustificarsi di eventuali offese arrecate
allo schifato, oppure e meglio che
il dispregio,la noncuranza,lo
spregio,lo sprezzo provati nei suoi confronti gli siano dovuti in quanto, addirittura! stabiliti
per legge.
Raffaele
Bracale
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