martedì 21 gennaio 2020

PRODOTTI NEGLI ORTI E NELLA CAMPAGNA DELLA CAMPANIA FELIX




PRODOTTI NEGLI ORTI E NELLA CAMPAGNA DELLA CAMPANIA FELIX
Questa volta, su invito dell’amica Lucilla mi soffermerò a parlare brevemente dell’argomento in epigrafe illustrandoli senza sistematicità, ma cosí come mi sovverranno in mente,  dapprima con i lori nomi della lingua nazionale ed a seguire con quelli dell’idioma napoletano.
Principiamo:


 castagna s.vo f.le [ dal lat. castanea, der. del gr. κάστανον «castagna, castagno»]. –  Il frutto mangereccio del castagno: è un achenio, globoso-schiacciato, a pericarpo (buccia o scorza) coriaceo, di color marrone, lucido all’esterno, peloso di dentro, racchiuso, da solo o con una o due altre castagne, nella cupola (riccio), armata di densi e lunghi aculei;   in napoletano il frutto in esame prende diversi nomi a seconda di come venga cotto;  avremo perciò 1)allessa [dal lat. ad +elĭxa-m→ad(e)lixa-m→allixa-m→allessa «bollita»] quando il frutto venga lessato  sbucciato e privo della scorza coriacea, ma non della prima pellicina;
2)veróla = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne arrostite) sia nella Campania che nel Lazio,  che nelle Marche; etimologicamente, scartata l’idea proposta dal D’Ascoli ( dal latino viria con il diminutivo viriŏla→veróla)per incongruenza semantica atteso che la voce latina viriŏla indicò in quella lingua un braccialetto e fu voce poi attestata nell’italiano come viròla indicando nell’ordine: 1. elemento «maschio» di una giunzione, di un collegamento meccanico, costituito da un corpo filettato: se ne ànno esempî nell’innesto a vite delle lampade elettriche, nel bocchettone di scarico idraulico (nel quale, costruita in rame, collega le diramazioni di scarico di piombo con le colonne di scarico di ghisa), ecc. 2. negli orologi meccanici a bilanciere, è
l’anello tagliato che collega l’estremità interna della molla a spirale all’asse del bilanciere. 3. ciascuno dei pezzi cilindrici di un serbatoio che, saldati insieme, costituiscono la parete laterale del serbatoio stesso, tutte cose che nulla ànno a che spartir con la caldarrosta;  e scartata altresí per problemi morfologici  la proposta dal prof. Indolo (che fa appello ad un latino “badius” corrispondente al sabino “basus”, entrambi col significato di “castagna marrone”.
Iandolo ipotizza  una forma diminutiva femminilizzata *badíola (sott.“castanea”), poi divenuta *badiòla nel latino popolare sulla scia di “filia →filíola → filiòla”, ma con iniziale vocale tonica chiusa com’è nei dittonghi
ascendenti del latino indigeno campano *badióla; e congettura non solo il normale passaggio “b → v” come attestano “bíbere → vèvere, barca →varca, butte(m) → vótta, basiu(m)→vaso” ecc., ma anche l’alternanza quasi solita “d /r” come comprovano “Madonna/ Maronna, il brodo → ’o bbroro, i pièdi →’e piére,  ggraregradus = le scale ecc., e delinea una prima forma d’avvio *varióla, poi con cambio dell’accento fonico,
divenuto aperto: *variòla; reputo questi di Iandolo  tuttiarzigogoli poco convincenti e son invece convinto (cosí come anche l’avv.to deFalco)  che la voce sia un deverbale   del francese brûler (bruciare, rostire)  secondo il seguente percorso morfologico in cui leggere l’alternanza partenopea b/v, ed una epentesi vocalica della prima e: brûler→ vrûler→veruler→verola; da veróla+il suffisso di pertinenza aro←arius) è derivato  poi il termine  verularo (voce quasi esclusivamente campana)
 s.vo m.le sg. = padellone bucherellato per arrostirvi le castagne  3)vallena/vallana  castagna lessa bollita con la scorza dura, ballotta; la voce napoletana nella doppia morfologia è una femminilizzazione  del m.le lat. balanu-mbalana-mballana-mvallana/vallena   con raddoppiamento espressivo della  consonante laterale alveolare (L); questa voce or ora illustrata  però ormai non è usata che dai napoletani d’antan e da quelli piú versati nel loro idioma;  tutti gli altri oramai sciattamente usano il termine palluotte/palluottole  inutile, sconcio adattamento dell’italiano ballotte.
cachisso s.vo neutro  lo stesso che lignasanto, frutto dell’albero noto in italiano come  kaki o cachi s. m. [voce di origine giapp.]. la voce napoletana è  derivata dal pl. di kaki,  kakiscachisso con consueto raddoppiamento espressivo della consonante finale in parole derivate da termini stranieri e consueta paragoge di una semimuta finale (qui O) atteso che i napoletani non amano le parole che terminino per consonante (cfr.  alibi tramme←tram, bisse←bis, barre←bar,gasse←gas,  autobbusso←autobus etc. con l’ unica eccezione  della negazione nun che tuttavia talora diventa none ).
La voce cachisso è usata anche furbescamente con significato negativo riferito a persona molle, flaccida e/o inadatta all’azione; in tal senso la voce cachisso è  spessissimo accompagnata dall’aggettivo ‘nzuvarato/’nzuarato aggettivi sui quali è opportuno soffermarsi per dire che trattasi  morfologicamente  di due forme leggermente diverse di un unico part. passato del verbo ‘nzuvarà/’nzuarà = allappare, allegare i denti (riferito a della frutta( e su tutta appunto il cachi) che non avendo raggiunto la dovuta maturità, risulti alla masticazione aspro e legnoso tale appunto da allappare, allegare i denti; da notare che stranamente gli aggettivi  in esame pur essendo un participio passato, si traducono come se si trattasse di un participio presente per cui ‘nzuvarato, ‘nzuarato si rendono non (come sarebbe corretto)  con allappato, allegato ma  con allappante, allegante i denti, mentre in senso traslato valgono che rende trascurabile   cosa che semanticamente si spiega con il fatto che un frutto non maturo poco si presta ad esser gustato rendendosi cosí quasi inavvertibile, trascurabile da parte di chi evita di mangiarne.
E passiamo alla questione morfologica ed etimologica.
Comincerò col dire che due dei piú consultati calepini della parlata napoletana ( il D’Ascoli e l’ Altamura) stranamente (che si siano copiati pedissequamente l’un l’altro?...) accanto alle corrette  voci in esame, elencano uno scorretto e – reputo - inesistente infinito ‘nzuvarí/‘nzuarí  donde deriverebbero (che pretese!) nzuvarato/‘nzuarato laddove chi appena appena mastichi  un po’ di idioma napoletano può cogliere l’incongruenza di voler  ottenere un participio passato  in ato da un verbo della terza coniugazione cioè  in ire che al massimo avrebbe potuto generare nzuvarito, ‘nzuarito, non certamente nzuvarato, ‘nzuarato che son figli di un infinito della 1ª coniugazione e perciò di  ‘nzuvarà/‘nzuarà  e non di ‘nzuvarí/‘nzuarí!  
Quanto all’etimologia una comune corrente di pensiero  (cui peraltro aderí un tempo  il D’Ascoli (parce sepulto!) ed oggi pure l’amico prof. Carlo Iandolo) parla di una derivazione dal lat. in (illativo) + suber = sughero, arzigogolando che un sughero addendato produca sui denti e tutta la bocca una sensazione spiacevole, tal quale quella che produce un frutto non maturo se addentato. Mi spiace per l’amico Iandolo, ma la strada semantica che propone mi pare impervia e perciò non percorribile (chi o perché mai dovrebbe addentare (per assaporarlo) un sughero?); reputo che sia piú corretto e semanticamente vicino al vero pensare per ‘nzuvarà/‘nzuarà,  ad una derivazione dal lat.in (illativo) + una lettura metatetica di sorbum = sorbo il cui frutto sorba [dallat. *sŏrba-m] che  in napoletano con medesimo etimo diventa  sòvera] raccolta ancòra acerba è messa a maturare su di un letto di paglia e qualora questo frutto venga addentato prima della dovuta maturazione risulta (questo sí!) allappante ed allegante denti e bocca.
Un ultima precisazione;  se mi si chiedesse quale delle due voci esaminate sia la piú corretta; direi che nel linguaggio popolare sono usatissime ambedue, epperò la prima: ‘nzuvarato la si ritrova maggiormente nello scritto  e mi appare quella morfologicamente piú rispondente all’etimo (sia pure con la tipica alternanza partenopea b/v) , laddove la seconda: ‘nzuarato è dell’àmbito del parlato con sincope della v ritenuta pleonastica e retaggio forse di un’antica epentesi eufonica. In coda rammento che il frutto del cachi, in napoletano oltre che quello di cachisso prende il nome di ‘o lignasanto (al sg.) e di ‘e  legnasante (al pl.) in quanto è frutto che matura in autunno inoltrato in prossimità della festa di Ognissanti e non perché l’albero del cachi sia sacro a gli dei come pensa qualcuno confondendo il cachi con il guajaco o albero di sant’Andrea che è il vero “albero santo”nella tradizione dell’america centrale.
ciliegia s.vo f.le [dal lat. *ceresia per *cerasia] (pl. –gie)   
Il frutto del ciliegio, costituito da una drupa di 1-2 cm di diametro, di colore rosso, piú o meno cupo; le ciliegie sono adoperate per il consumo diretto, oppure si conservano o si usano per farne sciroppi, marmellate, liquori; dai semi si estrae un olio (olio di ciliegie) di colore giallo oro, di odore gradevole di mandorle amare;in napoletano la voce si rende con cerasa dritto per dritto dal lat.*cerasia→ceras(i)a→cerasa;
gelsa s.vo f.le [lat. (morus) cĕlsa «(moro) alto»]
il frutto di una pianta delle moracee appartenente al genere morus, di cui sono note soprattutto le due specie gelsa  bianca (lat. scient. morus alba) e gelsa nera o gelsa moro (lat. scient. morus nigra), entrambe a foglie intere o lobate, con piccoli fiori monoici in amenti, ed infruttescenza carnosa, detta mora di gelso; il gelso bianco, coltivato nelle zone temperate di tutto il mondo per le foglie utilizzate nell’allevamento del baco da seta, à more di colore bianco sudicio o rossastro, alquanto dolci e mangerecce, e fornisce, dalla corteccia dei rami giovani, fibre (gelsolino) utilizzate per funi, carta e tessuti e, dal tronco, un legno duro, di colore giallastro, usato per serramenti, botti, ecc.; il gelso nero, coltivato per il frutto dolce-acidulo, mangereccio, dal quale si ricava anche uno sciroppo leggermente astringente (sciroppo di more), à frutti piú grossi e piú succosi del precedente, di colore nero lucido; in napoletano la mora di colòre bianco è detta ceuza/ceveza dritto per dritto dal solo  lat.  cĕlsa; normale in napoletano l’esito di el in eu  come alibi al in au (cfr. auto←altu-m etc.); furbescamente nel  napoletano parlato della città bassa la voce ceuza/ceveza al pl.
ceuze/ceveze  indica le emorroidi;ugual cosa avviene con il s.vo pl. sòvere che già il re Ferdinando II di Borbone usava nel significato di emorroidi (cfr. la minaccia “Te faccio ascí ‘e ssovere ‘a culo!”= Ti percuoto tanto da farti espellere le emorroidi dalla loro sede naturale!)
albicocca s.vo f.le [dall’arabo al-barqūq, che è dal gr. πραικκιον «albicocca»],
frutto di un  alberetto della famiglia delle rosacee prunoidee (lat. scient. Prunus armeniaca), anche chiamato armellino, originario della Cina settentr. e coltivato nei paesi temperati e tropicali montani; è alto 6-7 m, con foglie ovate, fiori precoci, bianchi o rosei, frutto a drupa globosa od oblunga, vellutato, giallo aranciato, molto pregiato per il sapore ed il profumo: la maggiore quantità è consumata fresca; se ne fanno composte, marmellate, canditi; le albicocche secche si conservano per piú anni. L’olio contenuto nel seme à proprietà simili a quello di mandorle; viene usato come commestibile ed anche in profumeria, saponeria, ecc..
In napoletano il frutto, per il suo colore dorato  prende il nome di  cresommola[dal greco chrysómēlon=pomo aureo ]; ; per traslato giocoso in napoletano la voce cresòmmola indica anche o una sesquipedale fandonia, sciocchezza o anche una violenta percossa portata a mano serrata e diretta essenzialmente al volto; il passaggio semantico del traslato quale violenta percossa è da ricercarsi nel fatto che détta  percossa può lasciare sul viso una tumefazione rapportabile per grandezza al polputo frutto dell’albicocco; meno intuibile il passaggio semantico del traslato quale sesquipedale fandonia, sciocchezza grande a meno che anche in questo caso non si mettano in rapporto la grandezza del frutto con la vastità della sciocchezza, ma lo reputo un arrampicarsi sugli specchi del ragionamento.
Al margine e completamento di questa voce  rammento e mi soffermo ad illustrare brevissimamente le voci  libbèrgio  e la derivata libbèrgina
che son voci attestate pure come  libèrgio  e   libèrgina (con forma scempia della labiale esplosiva b, quantunque le forme con la b geminata appaiono di piú esatto e forse corretto originario  uso popolare, mentre le forme con la b scempia son d’uso marcatamente letterario e  libresco e quindi a mio avviso, da non seguirsi. Le voci  libbèrgio (con cui si indica l’abero fruttifero delle albicocche) e   libbèrgina(il frutto dell’albero albicocco) son  voci (come ò detto     attestate pure come  libèrgio  e   libèrgina ) con cui nella zone del salernitano e dell’ebolitano si indicano, dicevo, rispettivamente l’albero ed i frutti di  quelle albicocche che nel napoletano sono le  cresòmmole (e di cui il relativo albero è il  cresuómmolo).
Potrà sembrare strano che Salerno, Eboli e loro circondarî, luoghi che son  cosí prossimi al capoluogo campano (che vanta un idioma  che à influenzato in lungo e largo le parlate centro- meridionali),potrà sembrare strano, dicevo,  che adottino, nel loro parlato popolare voci tanto diverse da quelle napoletane per indicare il medesimo frutto (l’albicocca) ed il relativo albero che lo produce. Ma l’apparire strano della faccenda cade solo se si pensa che  Salerno, Eboli e loro circondarî son sí vicini a Napoli, ma ugualmente son prossimi alla Calabria e spesso voci in uso nelle città calabresi (soprattutto quelle rivierasche) ànno passato il confine e son giunte in talune città campane.
In effetti le voci libbèrgio  e la derivata libbèrgina
 attestate pure come  libèrgio  e   libèrgina  son voci d’uso calabrese  dove con etimo per adattamento morfologico dal mozarabico nonché spagnuolo alberchiga indicano il nocepersico  ed il relativo frutto nocepersica.
Non è chiaro tuttavia il percorso semantico seguíto nel salernitano ed ebolitano  per assegnare all’albicocca il nome usato in Calabria per indicare la nocepersica  (quel frutto a pasta soda e succosa e a buccia gialla che a Napoli è detto percoca   voce derivata da un acc.vo del lat. volgare *percoca(m)= frutto del tutto maturo  alterazione di praecoqua(m)= frutto precoce, mentre  quel frutto a pasta bianca e succosa, buccia rossa e vellutata che in italiano è pèsca  in napoletano è perzeca  con etimo dall’ acc.vo lat. persica(m)con evidente riferimento al fatto  che il frutto fu originario della Persia (persica-m fu la medesima voce da cui, con evidenti capriole morfologiche l’italiano ricavò pèsca)
finocchio s.vo m.le [ dal lat. fenŭcŭlum, variante di fenicŭlum o foenicŭlum].  
a. Erba delle ombrellifere (lat. scient. Foeniculum vulgare), bienne o perenne se spontanea, annua se coltivata, alta fino a 2 m, con foglie multifide, munite di ampia guaina basale, e ombrelle con molti fiori gialli; il frutto è un diachenio oblungo, grigiastro o gialliccio, percorso da 10 costoline piú chiare, evidenti, con il quale, così come con le radici, si preparano polveri, infusi, estratti e tinture a scopo eupeptico e, nella medicina popolare, galattagogo ed emmenagogo. Sottospecie e varietà: f. arancino (Foeniculum vulgare ssp. piperitum), perenne, spontaneo nelle zone mediterranee, con frutti di sapore acre e disgustoso; f. forte o selvatico (Foeniculum vulgare ssp. vulgare), perenne, spontaneo nel Mediterraneo e comune in tutta Italia, con frutti piuttosto piccoli di sapore sgradevole; f. dolce o di Roma (var. dulce), annuo o bienne, con frutti (semi di finocchio) lunghi fino a 10 mm, chiari, di sapore dolciastro, adoperati come condimento, e dai quali si estrae un olio etereo (essenza di finocchio) usato in profumeria, in liquoreria e in medicina; f. di Bologna o di Chioggia (var. azoricum), varietà coltivata, annua, caratteristica per i germogli bulbosi, che si consumano come ortaggio.
b. Il germoglio bulboso del finocchio usato come ortaggio: mangiare un f. crudo; sformato di finocchi. Si distinguono, nell’uso corrente, un f. maschio, rotondeggiante, tenero e poco filamentoso, che si mangia soprattutto crudo, in insalata o in pinzimonio, e un f. femmina, di dimensioni minori, piú schiacciato e allungato, meno aromatico, preferito per la cottura.
In napoletano la voce diventa fenucchio [ dal lat. fenŭcŭlumfenuclu-mfenucchio] ed oltre ad indicare l’ortaggio edulo è usato furbescamente per indicare il pederasta attivo quello che è anche détto  ricchione distinguendolo   dal femmeniello che è il pederasta passivo; talora,per traslato furbesco e giocoso e popolarmente, la voce fenucchio è uno dei tanti sinonimi napoletani usati per indicare il membro maschile; rammento che in questa  accezione si fa riferimento semantico  al finocchio dolce, quello dalla grossa testa carnosa e dal fusto ingrossato. 
fico d'India s.vo m.le [dal lat. scient. Opuntia ficus-indica→ (Opuntia) ficus-indica→fico d’india  Nome comune della pianta succulenta Opuntia ficus-indica e del suo frutto. La pianta è alta fino a 5 m, della famiglia Cactacee, à rami (cladodi) articolati, ellittici od obovati, appiattiti, carnosi, detti pale; questi sono di un verde un po’ glauco e cosparsi di ciuffi (glochidi) di piccoli aculei che si formano all’ascella delle foglie, minutissime e fugaci; dal centro di ogni glochidio sorgono spesso 1-2 spine robuste. I fiori si sviluppano di solito al margine superiore dei cladodi, ànno perigonio di molti pezzi, gli esterni sepaloidei, gli interni, gialli, petaloidei, stami numerosi e ovario infero uniloculare, con lo stilo che reca 6-8 stigmi. Il frutto è una bacca, con polpa mucillaginosa e molti semi ossei: è ovoide, troncato e ombelicato all’apice, all’esterno con ciuffi di aculei, come nei rami vegetativi. È originario probabilmente del Messico, dove già nell’epoca precolombiana era coltivato in parecchie varietà. Attualmente si coltiva nel Mediterraneo, Africa meridionale, California ecc., e in vari paesi si è spontaneizzato. Delle molte razze se ne ricordano con frutto a polpa gialla (la piú comune), a polpa bianca, a polpa rosso-violetta. I frutti si consumano freschi o anche secchi.In napoletano il frutto in esame prende il nome di ficurinia con medesima etimologia, ma  evidente rotacizzazione dr osco-mediterranea della prima D  e dissimilazione totale della seconda. In sostituzione della voce   ficurinia  spesso nel parlato  napoletano della città bassa  è usata, forse impropriamente la voce nanassa (adattamento del termine ananas(a)nanasnanassa con consueto raddoppiamento espressivo della consonante finale in parole derivate da termini stranieri e consueta paragoge di una semimuta finale (qui a) atteso che come ò già détto e qui ripeto  i napoletani non amano le parole che terminino per consonante; la voce nanassa è usata anche in senso furbesco riferito ad una giovane donna morbida e  formosa e – come tale – intesa dolce e succosa. 
fragola s.vo f.le [ dal lat. *fragŭla, dim. di fraga]. – 

a. Pianta rizomatosa del genere fragaria che cresce in climi temperati, su terreni soffici e umidi: à foglie alterne trifogliate, con fiori bianchi di cinque petali riuniti in corimbo, e un falso frutto, detto anch’esso fragola; in Italia cresce spontanea la fragola comune (Fragaria vesca), con alcune varietà.

b. Il frutto della pianta, che in realtà è il ricettacolo, molto ingrossato, cuoriforme, generalmente rosso, a polpa succosa, edule, sul quale stanno i veri frutti, volgarmente ritenuti semi. In napoletano la fragola prende il nome di fravula  con medesimo etimo dal lat. *fragŭla ma con sostituzione di V alla G come in gunnellavunnella, gallovallo, gallinavallina, concola/gongolavongola.      

mandarino s.vo m.le [ dal  port. mandarim, alteraz. del malese mantri, a sua volta dal sanscr. mantrin] frutto simile all’arancia, ma piú piccolo e dal sapore piú dolce;l’albero che produce questo frutto (fam. Rutacee).    in napoletano la voce diventa mennarinulo/mennarinolo con medesimo etimo ma con assimilazione regressiva nd→nn  ed addizione del  suffisso   ulo/olo suffisso che continua il lat. olus/ola  e che unito ad aggettivi o sostantivi forma alterati con valore diminutivo o vezzeggiativo, oppure stabilisce una relazione, una provenienza e nel caso in esame fa riferimento  al fatto che il frutto in esame risulta piú piccolo dell’arancia cui è simile.

carciofo s.vo m.le. Con il termine carciofo si identifica  un tipico ortaggio coltivato in campo aperto, anzi per esser piú precisi si indica una particolare  pianta erbacea anzi una pianta spinosa simile al cardo, da cui sarebbe derivata per mutazione, pianta  di cui si mangiano i capolini e le grandi brattee carnose da cui essi sono avvolti (fam. Composite);
  Fu pianta  già nota a Romani e Greci, che la  apprezzavano molto sia come alimento gustoso che come pianta medicinale;  il carciofo tuttavia   entrò permanentemente nella cucina italiana  non prima del    secolo XI per merito degli arabi che lo diffusero dapprima nelle cucine regionali del  meridione d’Italia; successivamente tra il XII ed il XV secolo il carciofo si diffuse in tutta la penisola   quantunque per gran tempo non fosse  distinto dal cardo col quale spesso venne confuso; anche il nome di carciofo lo si deve agli arabi che chiamavano questa pianta kàrshuf donde l’italiano carciofo   nome che soppiantò decisamente il termine Cinara cardunculo scolimo adattamento del lat. Cynara cardunculus scolymus  nome scientifico usato dagli addetti ai lavori (coltivatori ed erboristi);  dal sostantivo m.le  carciofo i napoletani   trassero una sorta di diminutivo femminile(cfr. il suff. ola f.le di olus)  : carcioffola nome con cui in Campania è chiamato il carciofo che  à  - come ò detto-  un'infiorescenza a capolino, per lo piú di colore verde tendente al grigio cenere; ci sono anche delle varietà tendenti al violetto. Le brattee, cioè le squame compatte che formano il capolino, possono avere spine oppure no. È proprio ciò  che distingue i diversi tipi di carciofo.Essi  variano altresí a seconda della dimensione tenuto presente  che, mantenendo inalterato il gusto,  ogni pianta produce un solo  grosso fiore centrale e molti  altri, piú piccoli, dai cosiddetti braccioli  laterali.
Oggi le varietà spinose piú conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, quelli di Venezia e di  Sardegna ed  i violetti di Chioggia. Ulteriori varietà di carciofo spinoso sono il violaceo di Toscana,  ed il carciofo spinoso  campano che è  verde-violaceo.  Tra i non spinosi, invece, troviamo il cosiddetto romanesco, comunemente conosciuto come mammola (con derivazione dal Lat. mammula(m), dim. di mamma 'mammella'; propr. 'piccola mammella', poi anche  'bambina' e 'piccolo fiore', quello di Catania, di Palermo e della  Campania dove prende il nome di mammarella  diminutivo della pregressa mammola attraverso un doppio suffisso r+ella.
 Il carciofo è  un alimento dal sapore spiccato,molto gustoso, versatile in quanto si presta a molte preparazioni culinarie; à ottime proprietà salutari:  i carciofi sono infatti  considerati i protettori del fegato; in effetti  grazie ad una particolare sostanza (la cinarina) contenuta nelle brattee , nello stelo e nell'infiorescenza, il carciofo svolge un'azione benefica sulla secrezione biliare, sulla funzionalità epatica, favorendo altresí la diuresi renale e regolarizzando  le funzioni intestinali. I carciofi  stimolano pure  il flusso di bile;  già studi del passato  condotti sia su animali che su esseri umani, dimostrarono  che i carciofi abbassano i livelli ematici di colesterolo e  di  trigliceridi, quantunque in realtà i principi attivi siano contenuti nelle brattee che solitamente non vengono mangiate, se non in parte. Sono molto ricchi di fibre e di minerali, mentre è relativamente basso il contenuto di sodio e di vitamine,  se si eccettua la presenza di   un po' di vitamina  A e vitamina  C.  Possono essere mangiati da tutti ed a tutte le età perché alimento  facilmente digeribile ed essendo  molto ricco  di fibra solubile aiuta ad eliminare il colesterolo in eccesso;  il carciofo è infine   altresí ricco  di  inulina, un polisaccaride che l'organismo metabolizza in modo diverso dagli altri zuccheri. In realtà l'inulina non viene utilizzata dall'organismo per la produzione di energia. Questo fatto rende i carciofi molto salutari per i diabetici, perché l'inulina migliora efficacemente il controllo dello zucchero ematico nei diabetici.
 A margine rammento che con il termine carciofo con linguaggio furbesco si indica una persona sciocca, incapace; tuttavia sono sconosciute le ragioni di questo strano collegamento semantico tra un ottimo, gustoso alimento quale è il carciofo ed una persona sciocca o incapace.
Nota linguistica
Con ogni probabilità la voce napoletana femminile carcioffola fu la prima ad esser  coniata con derivazione - come ò détto - dall’arabo kàrshuf  addizionato di un suff. diminutivo ola←olus e fu usato per indicare quel carciofo in seguito détto  mammarella diminutivo della romanesca  mammola attraverso un doppio suffisso r+ella. Atteso la nota particolarità dell’idioma partenopeo che considera femminile una cosa o un oggetto piú grosso o ampio di un corrispondente oggetto o cosa maschile, piú piccolo (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) tavula (piú grande) e tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione soltanto caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo), attesa questa particolaritàdicevo, con ogni probabilità si coniò dapprima il termine carcioffola destinandolo al grosso carciofo mammola e si assegnò un corrispondente maschile carcioffolo (cosí come riportato in antichi testi (Vincenzo  Cervio ed altri)) al piú contenuto carciofo spinoso; quando poi invalse l’uso di chiamare mammarella il grosso carciofo mammola privo di spine si finí per abolire il maschile carcioffolo conservando il femminile carcioffola assegnato al normale piccolo carciofo spinoso; e fu tale carcioffola che pervenne nell’italiano diventando carciofo ←carcioffo(la) privato altresí della espressiva geminata effe ritenuta troppo dialettale.  
 zucchina s.vo  f.le (alla toscana anche s.vo m.le  zucchino) [dim. di zucca]. – Nome con cui sono indicati i frutti immaturi,piú o meno piccoli,  verdi e commestibili, delle varie specie di zucca; è  uno degli ortaggi piú comuni: zucchine lesse, fritte, trifolate; zucchine ripiene; zucchine alla parmigiana.
 In napoletano la voce è cucuzziello s.vo m.le diminutivo (cfr. il suff. iello) e maschilizzato del  tardo lat.  cucutia-m; per traslato giocoso e furbesco la voce cucuzziello indica una persona sciocca, stupida, inetta, scema, stolta, tonto con riferimento semantico al fatto che l’ortaggio di suo è  poco sapido.
 carota s.vo  f.le [ dal lat. tardo carōta, dal gr. καρωτν]. –

1. Erba annua o bienne delle ombrellifere (Daucus carota), alta fino a 2 m, con ombrelle a molti raggi, fiori per lo piú bianchi, comune in Italia nei coltivati e negli erbosi in parecchie varietà; la carota comune (ssp. sativus) è coltivata per la radice ingrossata (detta anch’essa carota), di colore per lo piú giallo arancio, dolce, commestibile (carote in umido, in insalata; contorno di carote). Dai semi si ottiene l’olio di c., impiegato per la fabbricazione di liquori stimolanti, nella preparazione di sostanze aromatiche e, limitatamente, in profumeria.
In napoletano la voce è pastenaca dritto per dritto dal  lat. pastinaca-m .
Per traslato giocoso e furbesco  anche questa  voce  indica uno  sciocco, stupido, inetto, ignorante, stolto, tonto con riferimento semantico al fatto che l’ortaggio di suo è piuttosto dolciastro e poco sapido.
 anguria s.vo  f.le [[dal gr. tardo γγοριον, pl. γγορια]. – Nome region., molto diffuso, del cocomero che è un’Erba annua delle cucurbitacee (Citrullus lanatus, sinon. Cucumis citrullus) con  fusto ramoso, prostrato, con grandi cirri semplici, foglie a contorno cuoriforme, fiori monoici a corolla gialla; il frutto è una falsa bacca (poponide) globosa (con diametro fino a 40 cm e peso fino a oltre 20 kg) o ellissoidale, liscia, verde o con strisce chiare, con buccia relativamente sottile, polpa zuccherina rinfrescante, bianca nella parte piú esterna e rossa o giallastra nel resto, e semi numerosi di colori diversi. Originario dell’Africa, il cocomero è coltivato in tutto il mondo. In napoletano la voce è mellone dal lat. tardo melone-m con raddoppiamento espressivo della liquida alveolare laterale [L]  e con essa voce addizionata dello specificativo d’acqua (mellone d’acqua)si indica quel cocomero dalla polpa rossa distinto  dal popone o cantalupo  che a Napoli è il mellone ‘e pane ed à la polpa bianca o gialla .
 nespola s.vo  f.le [lat. mespĭlum (che è dal gr. μσπιλον), con passaggio di m- a n-, che si à anche in nappa dal lat. mappa, dovuto (come per nibbio) ad un fenomeno di dissimilazione, ma documentato anche in altri casi (per es. nicchio dal lat. mitŭlus) non spiegabili come dissimilazioni]. Il frutto, o piú precisamente il falso frutto, del nespolo comune, simile a una piccola mela, di color bruno, contenente cinque nòccioli piatti (i semi); si coglie in autunno, ancora acerbo, e viene fatto successivamente maturare finché la polpa diventa tenera e dolce. In napoletano, con medesimo etimo la voce diventa nespula con chiusura in u dell’originaria breve ĭ per la quale ci si sarebbwe attesa una dittongazione io; la voce nespula è attestata nel noto proverbio  cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia s’ammaturano ‘e nnespule (col tempo e con la paglia si maturano le nespole), frase  con cui si vuol significare che il tempo risana tutto e risolve le difficoltà,e o che viene ripetuta  anche come invito ad avere pazienza, a evitare la fretta.
nucella = nocciola s.vo f.le [ dal lat. *nuceŏla, dim. di nux nŭcis «noce»].  Il frutto del nocciòlo, di forma globoso-bislunga o subrotonda, avvolto in parte da un involucro fogliaceo; il seme, detto anch’esso nocciola, si consuma fresco o secco e si usa largamente nell’industria dolciaria (anche sotto forma di farina, in unione alla polvere di cacao). In napoletano, con medesimo etimo la voce diventa nucella che addizionata dell’aggettivo americana è voce usata in napoletano per indicare l’arachide s.vo f.le [dal lat. scient. Arachis, nome di genere, che è dal gr. ρακς -δος, propr. «cicerchia»]. – Erba annua delle leguminose papiglionacee (lat. scient. Arachis hypogaea), detta anche nocciòla americana, pistacchio di terra, cece di terra, originaria del Brasile, ma coltivata con numerose varietà in tutti i paesi caldi: à fusti eretti o prostrati, foglie composte di due paia di foglioline, fiori gialli; il frutto, sotterraneo, è un legume oblungo, indeiscente; particolarm. importanti i semi, ovoidei, in numero da 1 a 4 , che si consumano, previa tostatura, come frutta secca e si utilizzano come surrogato del cacao, per la preparazione del burro e, soprattutto, per l’estrazione dell’olio commestibile (olio di arachide), limpido, chiaro e di sapore gradevole.
 arancia s.vo f.le [dal pers. nāranǵ, che è prob. dal sanscr. nāgaranja «gusto degli elefanti»]. –  frutto dell’albero della famiglia rutacee (Citrus aurantium), alto fino a 12 m, con foglie ovate, fiori bianchi, frutto globoso del tipo bacca (propriam. chiamato esperidio) con buccia e polpa di colore caratteristico (aranciato). Si distinguono due varietà, arancia dolce ed arancia  amara: il primo à frutto con polpa agrodolce, consumato quasi esclusivamente come frutto fresco, dalla cui buccia si estrae l’olio essenziale di arancia  dolce In napoletano [con  etimo dal nome del Portogallo, paese da cui (oltre che dalla Spagna) la pianta ed i suoi frutti si sono dapprima diffusi in Europa nel sec. 14°, provenendo dalla Cina] la voce diventa purtuallo/purtuvallo.
Della noceperzeca = nocepesca, della percoca = pesca gialla con pizzo, della sovera = sorba e della perzeca = pesca bianca ò già détto precedentemente per cui mi congedo con il consueto satis est e do appuntamento alla prossima volta.
R.Bracale Brak


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