giovedì 31 luglio 2014
LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL NAPOLETANO
LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL NAPOLETANO
Mi è stato chiesto da alcuni miei abituali lettori che passim usufruiscono delle cosucce che scrivo e di cui per questioni di riservatezza non posso indicare le generalità, mi è stato chiesto di spendere una parola chiarificatrice sul modo migliore di vergare gli infiniti del napoletano, se cioè sia piú corretto usare gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ad es.: magnà= mangiare) oppure una forma apocopata (es.: magna’) o addirittura (come fa uno sprovveduto compilatore di lessico partenopeo) una forma pletorica con accento e segno d’apocope (cfr. magnà’). Dico súbito che il modo piú corretto è quello di scrivere gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ess.: fà, dà,jí,parlà, cantà,saglí,ferní,cadé, tené etc.) e chiarisco qui di sèguito il perché1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.fa(re)→fà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata degli infiniti monosillabi (cfr. fa’, da’) presta il fianco,se considerati fuor del contesto ad esser confusa con la 2ª p.sg. dell’imperativo: da’= dai,fa’= fai. Rammento altresí che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico facendo le viste di dimenticare che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi, ripeto, in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà , per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, per l’infinito di dare l’ apocopato: da’ invece di dà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà, dà in luogo dei pur corretti sta’ e fa’, da’ che valgono stare, fare,dare tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ e da’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce degli imperativo (fai→fa’dai→da’), piuttosto che degli infiniti fare,dare cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. Rammento che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - una scorretta forma della 2ª pers. sing. dell’ind. pres.che è sparte e non sparti. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso ripeto che è opportuno – per una sorta di omogeneità - accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel lessico napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai, se non per rare licenze ed esigenze metriche poetiche, l’apocopato dí e chi lo usasse o avesse usato in prosa, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si fósse chiamato Di Giacomo! )
Et de hoc satis, augurandomi d’essere stato chiaro e d’aver adeguatamente risposto al quesito di alcuni dei miei ventiquattro lettori.
R.Bracale
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