IL FANTASMA DI CASTEL CAPUANO
A Napoli, tra i napoletani di vecchio conio è ben rammentata la storia di Giuditta Guastamacchia, nota come “’o fantasema d’’e pagliette”, e qui riporto la sua storia a beneficio dei miei ventiquattro lettori: Giuditta Guastamacchia fu protagonista di un fatto di cronaca nera che sconvolse i napoletani al punto di tramutarsi in leggenda popolare. Si dice che la sua anima inquieta sia rimasta legata al luogo in cui fu emessa la condanna a morte e si tratta di Castel Capuano secondo castello più antico di Napoli, costruito nel 1154 dal re normanno Guglielmo il Malo. L’edificio nel XVI sec. fu trasformato in palazzo di giustizia e sede della Gran Corte della Vicaria, che nacque dalla fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte; fu istituita da Carlo II d'Angiò[ detto lo Zoppo (1254 † Napoli, 5 maggio 1309), figlio di Carlo I d'Angiò, prima re di Sicilia poi di Napoli, e di Beatrice di Provenza, ultimogenita del conte di Provenza, Raimondo Berengario IV, e di Beatrice di Savoia, fu re di Napoli dal 1285 alla morte, avvenuta nel 1309]e costituiva la prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili. Le stanze del castello che avevano ospitato reali del calibro di Federico II di Svevia [ cioè Federico Ruggero di Hohenstaufen (Jesi, 26 dicembre 1194 - † Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250), fu re di Sicilia (come Federico I, dal 1198 al 1250), duca di Svevia (come Federico VII, dal 1212 al 1216), Re dei Romani (dal 1212) e poi Imperatore del Sacro Romano Impero (come Federico II, eletto nel 1211, incoronato dapprima ad Aquisgrana nel 1215 e, successivamente, a Roma dal papa nel 1220) e re di Gerusalemme (dal 1225 per matrimonio, autoincoronatosi nella stessa Gerusalemme nel 1229)] diventarono così aule di tribunale, mentre i sotterranei furono adibiti a prigione e fu proprio a Castel Capuano che Giuditta trascorse le ultime ore della sua vita, prima di scontare la pena capitale ed essere esposta al pubblico ludibrio.
Converrà però fare un passo indietro e dire che della vita di Giuditta si conoscono solo i particolari più torbidi qui di sèguito riassunti: Rimasta vedova in giovane età, fu spedita nel convento di Sant’Antonio alla Vicaria, dove rimase fino al 1794. Giuditta iniziò nel convento una peccaminosa tresca amorosa con don Stefano d’Aniello, depravato cappellano sensibile più al richiamo dei sensi che alla parola di Dio.
La relazione peccaminosa proseguì oltre le mura del convento, assumendo tinte sempre più fosche. Le voci iniziarono a circolare e i sospetti ad aumentare sicché la torbida storia divenne di dominio pubblico ed i due dovettero inventarsi qualcosa per zittire le malelingue ed il prete ideò di far sposare un suo nipote sedicenne residente in Foggia con Giuditta creandosi una copertura ad hoc.
L’inganno andò avanti alcuni anni, finché il ragazzo scoprì l’adulterio. Sentendosi tradito due volte – come marito da Giuditta e come nipote dal prete – minacciò di denunciare tutto alle autorità. Fu allora che balenò nella crudele mente di Giuditta l’insana idea di liberarsi definitivamente del povero sedicenne sposo. Pianificò tutto nei minimi dettagli e coinvolse persino suo padre e altri tre uomini: don Stefano, un chirurgo ed un barbiere. Il malcapitato fu attirato in casa e in pochi minuti si consumò l’orrenda tragedia;Giuditta strangolò il marito con una corda mentre gli altri lo tenevano fermo. Poi, sotto la guida del chirurgo, il cadavere fu fatto a pezzi e bollito per arrestarne il sanguinamento. Come un macabro bottino, i complici raccolsero i resti smembrati, dividendosi il compito di disperderli in giro.
Però la giustizia colpí rapidamente i criminali: Il barbiere fu sorpreso da due guardie mentre tentava di disfarsi delle braccia della vittima. L’uomo fu arrestato e, dopo un lungo interrogatorio, confessò tutto, facendo i nomi di Giuditta e degli altri complici.
Il gruppo di assassini allora tentò la fuga, ma inutilmente; furono presi e condotti a Castel Capuano, dove si svolse un processo “sommario”. Vennero tutti condannati alla forca, tranne don Stefano cui toccò una sorte peggiore della morte: fu rinchiuso nella “fossa/cisterna di Marettimo[, frazione di Favignana, comune italiano del libero consorzio comunale di Trapani in Sicilia]”; La cisterna, detta la Fossa, venne successivamente adibita dagli Spagnoli a prigione per i reati più gravi. Tra i prigionieri vi fu rinchiuso nel 1798 il giovanissimo Guglielmo Pepe; nella cisterna scavata nella roccia gli ergastolani venivano letteralmente lasciati a morire e marcire.
Condannata a morte Giuditta Guastamacchia fu impiccata il 19 aprile 1800 in Largo delle Pigne (attuale Piazza Cavour) alle ore 20. Mani e testa le furono tagliate ed esposte in gabbie metalliche davanti alla sede della Vicaria, come prevedeva la legge dell’epoca, sotto lo sguardo della folla inferocita ma esultante.
La cronaca ben presto diventò leggenda e Giuditta si trasformò nel “fantasema d’’e pagliette” [fantasma degli avvocati] che s’aggira nell’ex tribunale ogni 19 aprile. C’è chi giura addirittura di aver sentito le sue grida rabbiose e chi invece l’avrebbe vista rovistare tra le carte dell’archivio, forse in cerca del fascicolo sul suo processo. In realtà oggi visitando il Museo di Anatomia di Napoli si può osservare il teschio della malcapitata , donato nel 1869 dagli studiosi di fisiognomica criminale. Satis est.
Brak
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