giovedì 3 gennaio 2013
DICETTE
DICETTE
Sotto il titolo in epigrafe illustro qui di sèguito una contenutissima silloge di quelle sentenze, considerazioni, consigli che per essere stati dedotti dall'esperienza, ed aver trovato riscontro nella vita quotidiana prendono il nome di proverbî (dal latino: pro(batum)+verbum(parola provata)). Essi costituiscono l'impalcatura fondamentale su cui poggia la cosiddetta filosofia partenopea.
Per ciò che attiene alla forma, alcuni sono espressi in semplice e chiaro modo nel breve enunciato di una frase; altre volte ed è il caso dei cosí detti wellerismi, la frase è posta sulle labbra di un personaggio, il piú delle volte storicamente inesistente e talvolta chiaramente pretestuoso, atteso che il suo nome rima con la parola che conclude la frase messa sulla di lui bocca.
Preciso, per chi non lo sapesse, che il termine wellerismo deriva dal nome di un pretensioso personaggio del romanzo: Il circolo Pichwik del britannico Charles Dickens((Portsmouth, 7 febbraio 1812 – †Gadshill, 9 giugno 1870); tale personaggio, Sam Weller era solito avvalorare o tentare di avvalorare le proprie affermazioni e ciò che in genere diceva , attribuendo il tutto a personaggi famosi ed influenti, ma anche - talvolta - a persone chiaramente immaginarie.
Nella loro esposizionei wellerismi, per solito, iniziano con un dicette o diceva etc.facendo seguire al nome di un personaggio la sentenza a lui attribuita.
1- Dicette Renza Renza:
Addó c'è gusto nun c'è perdenza,
Disse Renza Renza: Dove c'è il piacere, non c'è perdita di danaro o di tempo. Id est: Se una cosa è stata fatta con il proprio piacere, non conta nulla il fatto che, per farla, si siano impiegati tempo e/o danaro.Piú estensivamente: il gusto sopperisce a tutto!
Il proverbio, in forma di wellerismo , riferisce l'assunto ad un non meglio identificato/a Renza Renza, personaggio certamente mai esistito e creato dalla fantasia popolare solo per rimare con il sostantivo perdenza (perdita).Preciso dunque che il nome Renza che, come ò detto, è stato creato dalla fantasia popolare per rimare con il sostantivo perdenza (perdita), non deve esser confuso con il sost. femm. renza pure presente nel lessico partenopeo dove vale inclinazione, pendenza, aderenza con etimo latino da un neutro plur. del part. pres. *haerentia=cose che aderiscono inteso femm. sg. con aferesi (hae) e ti→z.
gusto s. m.
a)senso che permette di percepire e distinguere i sapori; à sede nelle papille gustative, situate soprattutto sul dorso della lingua:
b) proprietà delle diverse sostanze di dare sensazioni gustative; c)sapore;
d) (estens.) godimento procurato da cibi e bevande:
e) (fig.) (ed è questo il caso che ci occupa): piacere, sentimento di intima soddisfazione
l’etimo è dritto per dritto dal latino gustu(m):;
perdenza s. f. = perdita, spec. economica (fig.) danno morale.
l’etimo è da un part. plur. neutro latino perdentia(derivato di perdere) sostantivato ed inteso femminile.
2 - Dicette 'a sié Chichierchia:
'A prudenzia nun è maje superchia!
Disse la signora Chichierchia: la prudenza non è mai eccessiva
Id est: è buona norma usare sempre molta prudenza.
Con il termine chichierchia , normalmente,nell’idioma napoletano (con etimo da un acc.vo latino cicercula(m)→cicercla→cicerchia (dim.vo di cicer) si identifica la cicerchia, povero, ma gustoso legume cosí povero da essere usato spesso quale mangime del bestiame; qui se ne è fatto, per rimare con la parola superchia, un nome proprio e lo si è assegnato ad una fantomatica signora sulla cui bocca è posto il wellerismo.
prudenzia = prudenza Dal lat. prudentia(m), deriv. di prudens -entis 'prudente'; del latino la voce napoletana conserva piú acconciamente rispetto alla corrispondente voce italiana, la i etimologica della sillaba finale;
superchia agg. femm. metafonetico del masch. supierchio = eccessivo, eccedente con etimo dal lat. *supĕrculum→supĕrclum→supierchio; rammenterò che il masch. supierchio diventa neutro nella forma ‘o ssupierchio usato per indicare tutto ciò che eccede o sopravanza.
sié = signora forma apocopata, (ma accentata per indicare l’esatta pronuncia) di una ricostruita voce francese femminilizzata e metatetica da seigneur→ sei-gneuse→sie(gneuse).
3 - Dicette ‘a Morte: Si tu ‘nCatania vaje, i’ ‘nCatania vengo
Disse la Morte: Se tu ti trasferisci a Catania, io vengo a Catania
Id est: È impossibile sfuggire al proprio destino, soprattutto a quello finale.
Nell’immaginario collettivo la città di Catania, situata nella Sicila, al di là cioè dell’ultimo faro del Reame, fu ritenuta terra lontana e difficile da raggiungere non certamente però per la Morte capace di inseguire chiunque dovunque pur di far lavorare la sua
falce!
morte s.fem. = morte dal lat. morte(m);
vaje= vai voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito jí= andare che è dal lat.class. ire; epperò per le voci dell’indicativo: vaco/vaje/va cioè per quelle con radice vad ci si deve riferire al tardo latino vadere= andare;
vengo = vengo voce verbale (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vení= venire dal lat.class.vení(re).
4-Dicette ‘a vecchia:
Si nun te ponno arrubbà ‘a carne ‘a copp’ ô ffuoco, t’’a fanno abbruscià!
Disse la vecchia: Se non possono rubarti la carne dal fuoco, te la faranno bruciare!
Id est:Gli invidiosi, non riuscendo a sottrarti ciò che ài, possono talvolta rovinartene il godimento.
Tale medesimo concetto è espresso anche altrove (cfr. ultra n° 22).
Il wellerismo qui riportato è posto sulla bocca di una ignota, generica vecchia accreditata, proprio per la sua avanzata età, d’essere saggia e di esprimere perciò concetti e moniti sensati, equilibrati, assennati, accorti, avveduti, giudiziosi,ponderati degni di fede e di esser seguíti.
vecchia sost. ed agg.vo femm. donna di età avanzata che percorre l’ultimo periodo della propria vita. l’etimo è una femminilizzazione del tardo latino veclu(m), per il class. vetulu(m), dim. di vetus 'vecchio';
ponno = possono voce verbale (3° p.pl. ind. pres.) dell’infinito puté = potere con etimo dal lat. volg. *potíre (accanto al class. posse), formato su potens –entis;
arrubbà= rubare voce verbale infinito denominale da robba ( derivato dal francone *rauba= armatura, vestimento con tipico raddoppiamento popolare della esplosiva labiale b→bb ) rafforzato dalla preposizione protetica ad→arr.
abbruscià = bruciare voce verbale infinito con etimo da un tardo lat. *ad-brusjare.
5 - Dicette ‘a golpe:
Quanno galline e quanno scarrafune
Disse la volpe: talvolta (mangerò) galline, talvolta scarafaggi.
Id est: non sempre si può ottenere il meglio, spesso occorre accontentarsi (e non solo circoscrittamente al cibo!) di ciò che càpita o di vili succedanei!
golpe= volpe s.m. mammifero carnivoro, predatore, comune in Italia nelle zone boscose, con corpo snello, muso aguzzo, orecchie grandi e diritte, gambe piuttosto corte, lunga coda folta, pelliccia, accreditato di scaltrezza e rapidità di azione; la voce volpe à un etimo dal lat. vulpe(m), mentre la voce napoletana a margine golpe (con il medesimo etimo di volpe) ripete ad un dipresso l’antica omografa voce toscana golpe = volpe (cfr. Machiavelli: Bisogna... essere golpe e conoscere lacci, lione e sbigottire lupi Tuttavia la voce napoletana non è ricalcata sulla toscana ed è del tutto originale atteso che spesso in napoletano si à l’alternanza g/v vedi ad es.: vulío→gulío/golío - vuliuso→guliuso – vunnella/gunnella etc. o all’inverso vallina←gallina – vallenaro←gallenaro;
quanno avv. di tempo= quando, allorché, talora, talvolta, nel momento in cui con etimo dal lat. quando con tipica assimilazione progressiva nd→nn:
valline = galline plur. di gallina sost. femm. femmina del gallo, piú piccola del maschio, con piumaggio meno vivacemente colorato, coda piú breve, cresta piccola o mancante, speroni e bargigli assenti; l’etimo della voce a margine (si tenga presente l’alternanza summenzionata g/v ) è dal lat. *gallina(m), deriv. di gallus 'gallo' e per quest’ultimo si è ipotizzato il diminutivo di un originario *gannus (onde gannulus→gan’lus→gallus) dalla radice del verbo canere in quanto il gallo è animale che canta ;
scarrafune sost. masch. plur. metafonetico di scarrafone= scarafaggio; l’etimo di scarrafone è da un acc.vo lat. scarabaeu(m)+ un suff. accr. e/o pegg. one, mentre il passaggio di b a f risente di un influsso rustico osco-mediterraneo (vedi enfrece=reciprocamente da invice(m)→inbice(m), runfà= russare da *rombare, scrofola=madrevite da *scrobula(m)).
6 - Dicette chillo:
Nun è ‘a merce ca nun ce aggústa , ma è ‘a muneta ca nun ce abbasta
Disse un tale: non è la merce che non ci piace, è il danaro che è insufficiente
Id est: il vero problema non è il gusto, ma la penuria di mezzi. E la cosa è tanto vera e vale per tutti che il wellerismo è messo sulla bocca non di un personaggio noto e/o ben codificato, ma su quella di un non meglio identificato messere, un quivis de populo che ben può rappresentare nel suo anonimato il popolo partenopeo da sempre afflitto da problemi di indigenza perniciosa.
chillo agg. e pron. dimostrativo masch.; al femm. è chella mentre al neutro è chellu e valgon come aggettivi: quello, ciò che è lontano da chi parla e chi sente, la persona o cosa nominata precedentemente e nota a chi ascolta etc. mentre come pronome valgono: quel tale generico ed anonimo, o una persona o cosa lontana da chi parla e da chi ascolta, o persona o cosa non presente della quale si stia parlando; l’etimo di chillo/chellu è dal lat. (ec)cu(m) illu(m) mentre chella è da (ec)cu(m) illa(m);
merce sost. fem. = merce, qualunque bene economico mobile destinato alla vendita; l’etimo è dal lat. merce(m) da ricollegarsi o al verbo lat. merere=acquistare, guadagnare, aver parte oppure a quello greco meiro/mai= assegnare in parte, spartire,partecipare;
aggusta =piace, soddisfa il gusto voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito aggustà= gustare, provare piacere sentendo il sapore; assaporare; l’etimo: forma rafforzata del lat. gustare attraverso la prostesi di ad→ag; (ad+gustare→adgustare→aggustare);
muneta s.f. = moneta e piú genericamente soldi, sostanze con etimo dal lat. moníta(m), propr. attributo della dea Giunone, nel cui tempio era situata la zecca romana;
abbasta = basta, è sufficiente voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito abbastà=bastare,esser sufficiente l’etimo è probabilmente un rafforzativo (ad +) del lat. volg. *bastare 'servire da sostegno', che è da *bastum 'bastone' oppure dal gr. bastázein 'portare unpeso,sopportare';da ad+bastare→abbastare.
7 - Dicette chillo: ‘E cunte a lluongo addiventano sierpe
Disse un tale i conti protratti nel tempo diventano (pericolosi ) come serpenti
Id est:sono da evitare debiti a lunga scadenza.Ed il wellerismo è messo sulla bocca non di un personaggio noto e/o ben codificato, ma, trattandosi di un fatto ben noto ed acclarato, su quella di un non meglio identificato messere, un quivis de populo che ben può rappresentare nel suo anonimato il popolo partenopeo con il suo bagalio d’esperienza pratica.
chillo = quel tale vedi antea sub 6;
cunte = s.m. plurale di cunto = conto, racconto ma qui la voce a margine indica espressamente i conti, i calcoli, le note di spesa a credito o a debito ed anche i fogli di carta su cui vengono annotati e segnatamente le somme dovute s.m. con etimo dal tardo lat. comptu(m);
a lluongo loc. avv.le = a lungo, protratto nel tempo loc. avv.le formata dalla prep. a e dall’agg.vo neutro luongo= lungo, alto, e come qui esteso nel tempo con etimo dal lat. longu(m) con normale dittongazione o→uo tipica del maschile e del neutro, mentre al femm. si conserva la vocale o etimologica e si à longa;
addeventano= diventano, si trasformano in voce verbale (3° pers. plr. ind. presente) dell’infinito addeventà= diventare, trasformarsi, venire ad essere quanto all’etimo è una consueta forma rafforzata partenopea (ad + deventare) dal lat. volg. *deventare, a sua volta forma intens. del lat. devenire;
sierpe plurale metafonetico (vedi dittongazione) del sing. serpe= serpe, serpente e segnatamente (contrariamente al serpe della lingua nazionale dove indica il rettile non grande e non velenoso) quello velenoso il piú infido e pericoloso; la voce a margine nel wellerismo che ci occupa non indica chiaramente dei rettili, ma è usata in senso traslato giacché i debiti protratti nel tempo possono rivelarsi nocivi e pericolosi, se non addirittura deleterei tal quali degli infidi serpenti velenosi ; quanto all’etimologia la voce napoletana serpe (di cui, come ò detto, sierpe è il plurale metafonetico) è dal lat. serpe(ns) una delle poche voci partenopee (cfr. fieto, frate, pate, ommo, prevete) tratte da un nominativo e non da un acc.vo.
8 - Dicette sant’ Antuono:
Pozza murí ‘e truono chi nun le piace ‘o bbuono
Disse sant’Antonio: possa decedere di bastonatura colui a cui non piaccia tutto ciò che è buono…
Con altra forma posteriore che per un malinteso senso di pietà e rispetto evita di nominar la persona d’un santo:
8 bis Dicette mast’ Antuono:
Pozza murí ‘e truono chi nun le piace ‘o bbuono
Disse mastro Antonio: possa decedere di bastonatura colui a cui non piaccia tutto ciò che è buono.
Nell’inteso comune tutto ciò (in qualsiasi campo) che sia buono non può non aversi a gradimento, e chi non lo gradisse, meriterebbe d’esser bastonato fino a morirne!
In particolare talora il wellerismo è inteso, anche se riduttivamente, nel senso di: possa morire bastonato quello a cui non piaccia la buona tavola.
In una visione epicurea dell’esistenza, i napoletani (da sempre afflitti e preoccupati dall’esiguità del sostentamento) reputano la buona tavola cosí importante e da tenere in considerazione, tanto da considerarla in un proverbio, e la intendono oltre che ricca di sapori, soprattutto abbondante
Faccio notare che il wellerismo se posto sulla bocca di sant’Antonio abate, à una sua valenza e comprensibilità atteso che nell’iconografia popolare il santo anacoreta è sempre accompagnato da un porco (che è un saporito, buono alimento che non sfigurerebbe su di una buona tavola);posto invece sulla bocca di un non meglio identificato mastro Antonio il wellerismo perde un poco della sua valenza e comprensibilità non riuscendosi a capire a quale buono il mastro Antonio si riferisca o intenda riferirsi.
Sant’Antuono
è Sant'Antonio Abate chiamato anche Sant'Antonio il Grande, Sant'Antonio d'Egitto, Sant'Antonio del Fuoco, Sant'Antonio del Deserto o Sant'Antonio l'Anacoreta (251?-356); fu eremita egiziano, considerato l'iniziatore del Monachesimo cristiano e il primo degli Abati in quanto a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale abbà, si consacrano al servizio di Dio. La sua vita ci è stata tramandata dal suo amico e discepolo Sant'Atanasio (a Napoli: sant’Attanasio). È ricordato nel Calendario dei santi il 17 gennaio, ma la Chiesa Copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde nel loro calendario al 22 del mese di Tobi. Questo santo è noto e ricordato a Napoli con il nome di Sant’Antuono;con il nome invece di sant’Antonio è noto e ricordato a Napoli il santo predicatore Sant'Antonio di Padova, al secolo Fernando Bulhão (Lisbona, 15 agosto 1195 -† Padova, 13 giugno 1231) che fu un frate francescano, santo e dottore della Chiesa cattolica , che gli tributa da secoli una fortissima devozione.
truono= bastonatura, percossa e tuono; s. m. che nella fattispecie che ci occupa à i primi due significati: è possibile infatti il morire di percosse, meno attendibile che si possa morire di tuono (di paura provocata dal tuono); l’etimo di truono è da un incrocio con metatesi di tuono (deverbale di tonàre) con tonitrus (tuono);
‘o bbuono = il buono sost. neutro (ciò che è buono, tutte le cose buone e segnatamente il buon desinare) derivato dall’agg.vo buono di amplissimo significato positivo, con etimo dal lat. bonu(m) con tipica dittongazione uo←ǒ nel maschile e nel neutro della sillaba d’avvio, mentre il femminile bbona conserva la semplice o qui intesa ō etimologica.
9- Dicette san Crispino a la cummara: chi pratteca se ‘mpara
La pratica val piú della grammatica…Ecco un proverbio che (sotto forma di wellerismo posto addirittura sulla bocca di san Crispino, santo notissimo e veneratissimo dal popolo partenopeo che lo tenne in gran considerazione ritenendolo autenticamente popolano atteso che da vivo il santo esercitò assieme al fratello Crispiniano un mestiere molto plebeo come quello di ciabattino e non ebbe bisogno di addottorarsi sui banchi di scuola, bastandogli probabilmente gli insegnamenti di bottega) tiene dietro al senso pratico del popolo napoletano aduso ad apprendere dalla vita attraverso continue frequentazioni appropriate con maestri esperti anche se improvvisati piuttosto che sui banchi di scuola.
San Crispino
(† ca 285) Santo molto venerato nella devozione popolare napoletana, ma non solo.
San Crispino e suo fratello Crispiniano ( erano di nobili origini romane, ma – convertitisi al cristianesimo – si trasferirono in Francia a diffondervi il Vangelo, adattandosi,per sopravvivere a lavorar di notte facendo i calzolai, ed in Francia, durante la persecuzione di Diocleziano, trovarono il martirio e furono passati a fil di spada) sono ritenuti santi protettori dei calzolai e solo estensivamente dei ciabattini;rammenterò qui una curiosità e cioè che una tradizione veneta,contrariamente a quella partenopea, non menziona San Crispiniano e lega la figura di Crispino non alle calzature, ma al vino ed ai bevitori di vino, (ottobre – la festa dei due santi cade il 25 ottobre - è il periodo in cui si fa l’operazione della svinatura) ed inoltre ne storpia il nome in Graspin (affine a graspo = grappolo) facendolo diventare il patrono degli ubriachi.
cummara letteralmente comare, donna che tiene a battesimo o a cresima un bambino, (fam.) amica, vicina di casa; per estens., donna curiosa, pettegola; (anticamente. o dial.) appellativo generico con cui ci si rivolge a una donna che si conosce ;(region.) donna che aiuta una sposa durante le nozze o una gestante durante il parto.
sost. femm. con etimo dal tardo lat. comma(t)re(m), comp. di cum 'con' e mater -tris 'madre';
pratteca= pratica, à frequentazioni con… voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito prattecà/are=praticare,essere in dimestichezza con… quanto all’etimo è un verbo denominale di pràtteca= pratica che è dall’acc.vo lat. practicu(m) forgiato sul greco praktikós ( da práksis = azione, fatto); la doppia consonante (tt) deriva dall’assimilazione regressiva (ct→tt) favorita dal tipo sdrucciolo del lemma.
‘mpara = impara voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito ‘mparà= imparare, apprendere con etimo dal lat. volg. *imparare, comp. di in →(') e parare 'procurare'; propr. 'procurarsi cognizioni'; talvolta in napoletano basso e talvolta borghese il verbo ‘mparà è usato impropriamente nel significato di insegnare ma non saprei trovare il motivo di questo scivolone semantico.
10- Dicette ‘o cafone: ‘Na vota sola me puó fà fesso
Disse il villano: Una sola volta potrai imbrogliarmi
Poi mi farò furbo e non ci riuscirai piú.
Nell’inteso napoletano il cafone è il villico, il provinciale montanaro proveniente per solito da provincia non napoletana, ma pur sempre regionale (‘o cafone ‘e fora) ed è tacciato d’essere sciocco, credulone, poco furbo tale da poter essere facilmente imbrogliato e gabbato dallo scaltro cittadino che si autoriteneva piú intelligente dei provinciali in genere ed in particolare del cafone ritenuto quanto a furbizia e/o intelligenza poco dotato alla medesima stregua d’un altro tipo di provinciale il c.d. pacchiano ( che, a differenza del cafone, è proveniente dalla provincia napoletana.)
Cafone Come riportato da tutti i dizionarii della lingua napoletana con il termine cafone si intende il villano, lo zotico,il contadino.E di ciò nulla quaestio: si è d’accordo un po’ tutti. Il problema sorge quando si comincia a congetturare intorno all’etimologia della parola..Ci sono numorose opinioni : in primis quella che, partendo da scritti di Cicerone(Filippiche ed altri), la riallaccia ad un nome personale di origine osca: CAFO riferito con tono spregiativo ad un uomo incolto e villano; altra opinione è quella che riallaccia il termine cafone al verbo osco(la cui esistenza, peraltro, non è provata) Kafare= zappare.Segnalo infine la proposta del prof. Carlo Jandolo, proposta che mi pare migliore delle altre, che collega la parola cafone al greco: skaphèus, collaterale di skapaneus= contadino, zappatore.
Escludo altresí, in quanto da ritenersi leggenda metropolitana, l’idea che cafone possa derivare dal fatto che gli abitanti dell’entroterra o della piú remota provincia onnicomprensivamente detti cafune, giungendo in città vi camminassero legati gli un gli altri con una fune per evitare di sperdersi.
Ciò annotato passo ad indicare la mia diversa opinione che si fonde sul fatto che storicamente, nel tardo ‘800 e principi del ‘900 eran definiti, nel parlar comune,cafoni non solo gli zappatori, i villani e consimili, ma estensivamente un po’ tutti gli abitanti o i nativi dei paesini dell’entroterra campano, paesini arroccati sui monti ,-come quelli del sannio- beneventano, del casertano o dell’ alta Irpinia - difficili da raggiungere e chi li raggiungeva con carretti o altro aveva bisogno di aiuto per ascendere fino al paese propriamente detto. A tale bisogna provvedevano nerboruti paesani che scendevano incontro ai visitatori , ed erano armati di robuste funi con le quali aiutavano nell’ascensione le persone bisognose d’aiuto.Tali paesani erano indicati con la locuzione “chille cu ‘a fune o chille c’’a fune “ id est: quelli con la fune. Da c’’a fune a cafune il passo è breve e d è ipotizzabile che con esso termine si indicassero tutti gli abitanti dell’entroterra o della più remota provincia. CAFUNE è comunque un plurale. Il singolare CAFONE penso si sia formato successivamente tenendo presente i consueti fenomeni metafonetici della lingua napoletana alla stregua di GUAGLIONE che al plurale fa GUAGLIUNE.
Confesso tuttavia che la mia idea configura piú che un’etimologia con crismi scentifici,un’ipotesi paretimologica, e quantunque possa apparire piú percorribile di pur tante dotte ipotesi libresche, la metto da parte per aderire all’ipotesi fatta dall’amico prof. Carlo Jandolo, ipotesi decisamente migliore di tante altre, puranco di quella dell’altro amico avv.to Renato de Falco che parlò di un (ca)cafone(s) = balbuziente che semanticamente poco o nulla mi pare abbia a che spartire con il villano, lo zotico,il contadino; il cacafone di Renato De Falco, semanticamente, a mio avviso potrebbe al massimo attagliarsi al tartaglia/one se per tale figura il napoletano non avesse già la voce cacaglio derivato forse dallo spagnolo encallar = inceppare con la parola, se non dal greco kaka-lailo= parlo male.
pacchiano = la voce a margine fu molto usata negli anni tra il ’40 ed il ’50 dello scorso secolo e fu usata per indicare i contadini, i provinciali ed estensivamente gli zoticoni ed i rozzi provinciali della provincia napoletana, provenienti appunto dai paesi (nei quali si rifugiarono parecchi napoletani per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale) della campagna partenopea (da non confondere dunque con i cafoni per solito provenienti da altre province campane e segnatamente provinciali di montagna). Ancora piú estensivamente con il termine pacchiano si identificò il villano, il rozzo provinciale fisicamente ben pasciuto, e con il corrispettivo pacchiana la contadinotta di generose forme, quella contadina, detta affettuosamente ‘a pacchianella ‘e ll’ova, che ogni giorno era solita rifornire le case dei cittadini sfollati id est:fuggiti dalla città, di generi alimentari freschi (uova, formaggi,insaccati, latte, burro nonché verdure ed altri prodotti dell’orto).
Chiarito ad un dipresso il concetto di pacchiano/a, passiamo a parlare brevemente della sua etimologia.
Sgombriamo súbito il campo da quella che – a mio avviso – è solo una graziosa, ma pretestuosa, se non presuntuosa paretimologia e cioè che con la parola pacchiana e poi il corrispondente maschile pacchiano si indicasse (contrariamente al cafone che è montanaro) la contadina, la villana e poi il contadino, il villano che giungessero in città p’’a chiana attraverso cioè la pianeggiante campagna.
È altresí da escludere una pretesa derivazione onomatopeica da un ipotizzato, ma non spiegato pacc.
Cosa mai produrrebbe nel pacchiano il suddetto suono?
Un’altra tentazione è che il termine pacchiano/a possa collegarsi al sostantivo italiano pacchia =gran mangiata e per estensione: vita beata e tranquilla, gioiosa ed allegra (dal latino: patulum →pat’lum→pac’lum→pacchio e pacchia = cibo,pasto), a sua volta deverbale di pacchiare: vivere beatamente, satollandosi di cibo e/o altro, senza quasi fatica; a me non pare però che, per quanto ben nutriti e satolli, i contadini durino una vita che sia solo una pacchia; ugualmente penso sia da scartare l’ipotesi che pacchiano/a possan derivare da un tardo latino regionale pachylus←pachilós =grassoccio dal greco pachýs con il suffisso di pertinenza ano come per imitazione di villano dal lat. villa + aneus; infatti il napoletano, forgiato su pachylus←pachilós←pachýs à già pacchione che è l’uomo grosso, grasso e tarchiato che quando sia anche d’indole bonaria diventa pachialone; con la medesima voce pachialone ci si riferisce poi ad un ragazzo piuttosto in carne, peraltro senza riferimenti alla sua indole caratteriale.
Qualcuno, probabilmente assolutamente non addetto ai lavori, ma dotato di una qualche sfrenata fantasia, addirittura à ipotizzato che pacchiano/a possa essere una derivazione della parola parrocchiano da non intendersi (come nel napoletano parrucchiano che è il titolare di una parrocchia), ma come ciascuno dei fedeli che appartengono ad una parrocchia ed à affermato che un tempo in effetti il popolino dipendeva in tutto e per tutto dalle parrocchie o dai parroci e quindi coloro che gravitavano attorno alla chiesa dovevano avere il requisito di parrocchiano; dovevano essere bisognosi e malmessi e soprattutto non potevano essere ben vestiti. Infatti (continua il fantasioso qualcuno) i non nobili abitavano lontano dalle grandi dimore o castelli tra le cui mura vi erano chiese personalizzate o ad esclusivo utilizzo del signorotto.
Quando poi nella società cominciarono a delinearsi marcatamente le varie categorie di arti e mestieri con la classificazione dei vari lavori e la distribuzione di un certo reddito, ecco che il pacchiano, sempre piú emarginato, doveva gravitare solamente attorno alla parrocchia.
Ci troviamo – come ognuno intende – davanti ad un’ ipotesi fantasiosa che manca sia di aderenza alla realtà che di qualsiasi sostrato etimologicamente scientifico e/o persuasivo atteso che l’ipotesi menzionata dimentica completamente che tra pacchiano e parrocchiano c'è solo una simpatica consonanza od assonanza e che ben difficilmente da parrocchiano sia potuto derivare pacchiano; i significati dei due vocaboli, sia che si intenda parrocchiano come titolare d’una parrocchia, sia lo si intenda come fedele d’una parrocchia sono notoriamente e palesamente diversi; d’altro canto è noto che parrocchiano/parrucchiano son un derivato di di parrocchia che è dal greco paroikía(presso casa)+ il suffisso di pertinenza aneus =ano; a me non pare proprio che il pacchiano stazioni presso casa! No, a mio avviso la voce parrocchiano (nel senso di titolare di una parrocchia o in quello di fedele d’una parrocchia ) non à potuto generare pacchiano/a!
fà fesso= fare fesso, ingannare , imbrogliare, turlupinare
locuzione verbale nata dall’addizione dell’infinito fà= fare (dal lat. fa(ce)re ) con l’aggettivo fesso= voce popolare,accolta anche nella lingua nazionale nel significato di : sciocco, balordo ( se detto spec. di persona, mentre detto di cosa vale: insignificante, di poco valore); quanto all’etimo piú che dalla voce napol. fessa 'vulva', che è dal part. pass. di fendere, si può ipotizzare un acc.vo lat. fessu(m) = stanco, spossato part. pass. di fatisci=venir meno,stancarsi etc.
11 - Dicette ‘o ciuccio ô cavallo: Cumpagnó t’aspetto ‘nfacci’ â sagliuta.
Disse l’asino al cavallo (che nel piano, faceva il gradasso): Compagno ti attendo (cioè: voglio vedere cosa saprai fare) al momento della salita.
I gradassi ed i supponenti prima o poi perdono la loro sicumera soprattutto nei momenti difficili o gravosi e ciò è tanto vero e di dominio comune da non sfuggire neppure ad un asino.
ciuccio= ciuco, asino e per traslato persona ignorante; etimologicamente la voce a margine parrebbe essere di origine espressiva, ma la cosa non mi convince né propendo per l’ipotesi di chi vede in ciuccio un adattamento di tipo popolare di un originario giucco da un lat. ex-sucus= senza sugo, sciocco; si può è esser tentati dall’idea che ciuccio derivi dal latino cicur= mansuefatto domestico o da cillus modellato sul greco kíllos; ma decisamente migliore è l’idea di chi vi vede una radice araba schiacarà=ragliare radice che molto piú chiaramente à dato il siculo sciecco;
12 - Dicette ‘o ciuccio: Si arrivo a me ne ascí ‘a miezo a chesti bbòtte, nun ghiesco cchiú a cacà ‘e notte
Disse l’asino: se riesco a salvarmi da queste percosse non uscirò piú a defecare di notte
Un asino che aveva abbandonata nottetempo la stalla e faceva i suoi bisogni presso il muro di cinta di una casa fu violentemente bastonato dal proprietario della casa e si ripromise di non impelagarsi per l’avvenire in analoghe situazioni.Estensivamente: chi riesce a trasi fuori da un impaccio, si ripromette di non incorrervi piú nel timore di non poterne venir fuori una seconda volta.
ascí = uscire, venir fuori,talora anche evitare voce verbale infinito dal lat. *abexire→a(be)xire→axire→assire→ascire;
‘a miezo= da mezzo, di mezzo loc. prepositiva formata da ‘a (da/di)+ miezo= mezzo agg.vo dal lat. mediu(m);
chesti agg.vo e pron. dimostrativo femm. plur. di chesta; il masch. è chisto; il neutro chestu; chesto/a/u = questo/a indica persona o cosa vicina, nel tempo o nello spazio, a chi parla con etimo dal lat. volg. *(ec)cu(m) istu(m)- ista(m), propr. 'ecco questo''ecco questa';
bbòtte s.f. plur. di bbòtta= colpo, percossa, urto violento con etimo deverbale del fr. ant. boter, che è dal francone *botan=colpire, percuotere, urtare;
cchiú avv.di tempo o modo= piú dal lat. plus, compar. neutro di multus 'molto; tipico nel napoletano il passaggio di pl a chi ( cfr.
chiovere da pluere – chiaja da plaga – chiummo da plumbeum etc.).
13 - Dicette ‘o monaco ‘e sant’Anna :
‘A copp’ê panne nun pô fà danno
Disse il monaco di sant’Anna: sopra i panni non puó far danno
È inopportuno ed inefficace e quindi non pericoloso far del sesso da vestiti. Wellerismo posto sulla bocca di un non meglio identificato e forse inesistente monaco di sant’Anna: quantunque a Napoli ancóra esiste una Chiesa di sant’Anna a Porta Capuana, chiesa nata nel XVI secolo presso Porta Capuana (zona popolare e popolosa)come piccola cappella dei Frati dell’attiguo Convento di San Francesco di Paola, passato poi in seguito a sede di carceri mandamentali ed oggi sede della Pretura. La struttura religiosa della Chiesa di sant’Anna pare abbia raggiunto l'impianto e la conformazione definitiva solo nel 1751 su progetto
dell' Astarita.
La pianta del tempio è mistilinea (molto bello e scenografico lo scalone che conduce all'altare maggiore). Notevole la tavola cinquecentesca posta all'interno della cupola, che raffigura La Sacra Famiglia con Sant'Anna.
Non vi sono altre informazioni circa l'interno del tempio e del piccolo convento cui la chiesa fu annessa, come cappella, ma si può tranquillamente ipotizzare che essendo ubicati (chiesa e convento) in zona molto popolare (vi si svolgeva ed ancora si svolge un rigoglioso mercato ortofrutticolo rionale) qualcuno dei fraticelli(monaci cercanti) del convento avesse qualche estemporanea frequentazione femminile con massaie e/o fantesche che si recassero abitudinalmente nel mercatino e con queste donne, i monaci tentassero di soddisfare i loro istinti umani illico et immediate,al riparo di qualche androne di palazzo, senza liberarsi dei panni, anzi adducendo ciò a motivo persuasivo nei confronti di qualche recalcitrante o riottosa donna cui si lasciava intendere che il coito portato a compimento da vestiti non potesse procurar danno (gravidanze indesiderate). In senso estensivo il wellerismo sta ad indicare, stranamente, che ogni cosa fatta in maniera rapida e superficiale, non comporta guai o evenienze negative, sebbene i risultati non possano essere dei migliori atteso il modo raffazzonato con cui una cosa si sia fatta!
‘a copp’ê locuzione prepositiva = al di sopra dei/delle formata da ‘a (da)+ coppa= sopra piú spesso ‘ncoppa derivato da un acc.vo tardo lat. cuppa(m) + ê (a+’e)=ai/alle come altrove ô (a + ‘o)= al, allo – â (a+’a)= alla;
panne s.m. plur. di panno= qualsiasi tessuto di lana follato, in cui non si distingue l'intreccio delle fibre per l'infeltrimento superficiale | (estens.) qualsiasi tessuto pesante; in napoletano con la voce plurale a margine si intendono i vestiti, gli abiti confezionati; l’etimo di panno è dal lat. pannu(m);
danno s.m.= danno, nocumento, pena, affanno, guaio con etimo dal lat. damnu(m);
14 - Dicette ‘o mulo ô patrone: Chist’è ‘o passo e pòrtame addó vuó
Disse il mulo al padrone: Questo è il mio passo e conducimi dove vuoi
Nei limiti delle mie capacità e/o possibilità, disponi di me a tuo piacimento: mi fido di te, anche se mi dovessi condurre sul ciglio d’un burrone (come accadeva ai muli adibiti al trasporto dell’artiglieria pesante su per le pietraie del Carso,o piú probabilmente – trattandosi di un proverbio napoletano – ai muli nati dall’incrocio di asini e cavalle delle rinomate razze Neapolitano e Persano; tali muli napoletani furono montati dagli irregolari degli eserciti di briganti e/o sanfedisti e tennero brillantemente testa alle cavalcature(muli sardi) delle truppe piemontesi, cavalcature che non avvezze alle asperità montane campane, calabro - lucane etc. spesso disarcionavano i loro cavalieri quando non precipitavano, perendo, con loro nei profondi dirupi delle montagne, mentre muli e cavalli, montati dai napoletani, ben addestrati e padroni dell’orografia si comportavano brillantemente. ).
Anche questo wellerismo à l’aria di una favola: le parole sono poste sulla bocca di un animale, nella fattispecie un mulo = mulo,animale intelligente, testardo, ma paziente attesa la sua origine di quadrupede domestico infecondo, nato dall'incrocio dell'asino (donde la pazienza) con la cavalla (intelligenza e caparbietà); robusto e resistentissimo; l’etimo della voce mulo è dal lat. mulu(m) per *mu(c)lu(m) sul greco mýchlos: probabilmente voce dell’ Amasya giacché quest’animale proveniva dal Ponto.
Rammenterò che come la lingua nazionale à mulo per indicare l’incrocio tra asino e cavalla e la voce bardotto per indicare l’incrocio tra asina e cavallo, allo stessa stregua il napoletano conserva mulo per indicare l’incrocio tra asino e cavalla, mentre per indicare l’incrocio tra asina e cavallo usa la voce canzirro il cui etimo è dal greco kanthélios, forse incrociato con il turco qatir e l’arabo hinzir;
patrone s.m. = padrone, chi à la proprietà di
qualcosa con etimo dritto per dritto(cfr. la dent. t,l’italiano à la attenuata d) dal lat. patronu(m) 'patrono', uniformato ai nomi in –one
passo s.m.= passo, ciascuno dei movimenti alterni che si compiono camminando; nelle bestie ovviamente il movimento alternato delle zampe l’etimo della voce a margine è dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'stendere, aprire'.
addó avv. di luogo = dove, là dove con etimo da ad(=presso, verso) + do(ve)←de ubi da non confondere né con add’’o preferibilmente da scriveres a dd’’o che è da ad + ‘o ed è una preposizione art. e vale dal; e neppure con addu che vale da ed è una preposizione proclitica + nomi propri, pronomi personali-complementi, agg.vi dimostrativi o nomi comuni di tipo familiare ess.:addu Pascale, addu Giuanne etc, addu te, addu chilli llà, addu chisti cca, addu fratemo, addu pateto etc. (da Pasquale, da Giovanni, da te, da quelli, da questi, da mio fratello, da tuo padre etc.).
vuó = vuoi voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vulé= volere con etimo da un lat. volg. *volere per il class. velle; normale che una o atona nel passaggio al napoletano diventi u. Faccio notare che la voce verbale a margine, quantunque non sia un monosillabo che ingeneri confusione con altro omofono va scritto vuó e non vuo’ come purtroppo càpita di trovare anche in scrittori partenopei piú che noti; e tale grafia vuó e non vuo’ è un’esigenza derivante dal fatto di mettere il lettore nella condizione sia di posizionare correttamente l’accento tonico , sia di chiudere acconciamente la o finale; si scrivesse vuo’ si potrebbe incorrere nell’errore di leggere vúo’ o peggio ancòra vuò; la scelta di scrivere vuó e non vuo’ pone fine ad ògni incertezza.
15 - Dicette ‘nu paglietta: A ttuorto o a raggione, ‘a cca à dda ascí zuppa e pesone.
Disse l’avvocatucolo: si abbia torto o ragione di qui devono sortire zuppa e pigione
Cosí si afferma di chi pur di ricavarne qualche beneficio è disposto ad operare alla cieca o con spudoratezza senza conoscere a priori le possibilità di successo del proprio agire e senza porsi remore circa il buon diritto delle proprie azioni.
Ci troviamo dinnanzi ad un wellerismo che enuncia un principio pragmaticamente edonistico, quando non palesemente immorale: non ci si dovrebbe attendere o pretendere vantaggi da una condotta illegale se non truffaldina… E non sorprende, anzi si ben comprende il fatto che il wellerismo sia posto sulla bocca di un paglietta: leguleio improvvisato e spesso truffaldino. Rammenterò la massima di vita citata alibi: All’avvucato s’à dda dicere ‘a verità; sap’isso po’ comme ll’ à dda ‘mbruglià! (All’avvocato occorre dire la verità: sa lui come imbrogliarla (mistificarla)!
paglietta= avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è voce maschile nei significati detti che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 potesse andare a recuperare, per indossarla sulla toga, una gorgiera plissettata ed inamidata, né si vede d’altra parte, perché si dovesse dire paglietta quella gorgiera plissettata ed inamidata che non era fatta di paglia, ma di sontuosa seta!
tuorto s.m.= torto, ciò che è contrario al diritto, al giusto, al vero: con etimo dal lat. tardo tortu(m), neutro sost. di tortus = piegato, deviato p.p. del Lat. volg. *torquere, per il class. torquíre
raggione s.f. = ragione, capacità del pensiero di stabilire rapporti e connessioni logiche tra le idee, che è a fondamento del conoscere e dell'agire (spesso in contrapposizione a sentimento), argomento che vuole provare o difendere qualcosa; diritto, buon diritto con etimo dal lat. ratione(m), propr. 'conto', deriv. di ratus, part. pass. agg. di ríri 'contare, calcolare', poi 'credere, stimare;'da ratione(m) deriva anche ragione della lingua nazionale e la doppia g del napoletano è un tipico raddoppiamento espressivo popolare presente ugualmente in tutti i lemmi in gione→ggione – zione→zzione;
‘a cca letteralmente cca è avv. di luogo = qui, qua, in questo posto, ma – come in questo caso – nella loc. avv.le ‘a cca oltre a valere di qua (compl. moto da luogo), sta per da ciò (compl. di causa).
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in lingua napoletana (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo càpita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !
zuppa s.f. letteralmente zuppa, nome generico di vari tipi di minestre in brodo composte di ingredienti diversi, talora accompagnate da crostini di pane, (fig.) mescolanza disordinata di cose eterogenee; confusione, pasticcio ma qui vale segnatamente e genericamente: nutrimento, sostentamento l’etimo a mio avviso è dall’ant. franc. sope poi soupe piú che dal pur proposto got. *suppa 'fetta di pane inzuppata';
pesone = fitto, pigione etimologicamente dall’acc. latino pensione(m) con sincope della n e semplificazione del dittongo io→o, accusativo derivato dal verbo pendere= pesare, pagare;
16 – Dicette ‘o pappice vicino â noce: Damme ‘o tiempo, ca te spertoso!
Disse il tonchio alla noce: Dammi tempo e ti perforerò!
Id est: anche chi sia piccolo e poco prestante, avendo tempo e perdurando nella fattiva applicazione può pervenire a risultati insospettabili, al segno che persino un piccolissimo insetto qual è il tonchio in quest’ennesimo proverbio favolistico (parla un animale!) può prendersi il destro di minacciare addirittura una noce , frutto dalla scorza dura e resistente; cosí come il tonchio può permettersi con l’applicazione duratura, il lusso di perforare una noce, chiunque altro pur se piccolo e non prestante può ugualmente pervenire a risultati concreti con il tempo e l’impegno!
pappice= tonchio, insetto puntiforme, nome comune delle larve di diversi coleotteri che infestano i semi delle leguminose e di molti cereali, oltre che di taluni semi oleosi (noci, nocciole, mandorle); l’etimo di pappice è forse da un acc.vo lat. volg. *pappice(m)= (che mangia).
vicino a loc.prepositiva che vale allo, alla, nei pressi di e simili, la locuzione è formata dall’unione dell’agg.vo vicino (dal lat vicinu(m), deriv. di vicus 'villaggio'; propr. 'che appartiene allo stesso villaggio') + la prep. a
noce= s.f. noce . il frutto del noce, composto di una parte esterna verde (mallo), di un guscio bivalve e di una parte interna commestibile (gheriglio):l’etimo è dal lat. nuce(m);
spertoso = perforo voce verbale (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito spertusà= bucare, perforare con etimo da un lat. volg. *pertusjare con protesi di una s intensiva ed sj→s
17- Dicette Presutto: ‘Na vota pe d’uno spetta a tutte!
Disse Prosciutto: Una volta per uno tocca a tutti!
È nell’ordine naturale delle cose che prima o poi a ciascuno spettino le medesime occorrenze,o quanto meno è ciò che ognuno si augura. Questa volta il wellerismo che apre la mente alla speranza o ad un’attesa positiva è posto sulla bocca di un inesistente Presutto (prosciutto) ma non soltanto per rimare agevolmente con il successivo tutte (tutti), ma per richiamare attraverso la voce presutto (tipico alimento gustoso, ma costoso e quindi non facimente accessibile a tutti) la positività del wellerismo enunciato; (da un alimento positivamente importante ci si attende un consiglio o norma positivamente importante.
Al proposito dell’agevolezza della rima in lingua napoletana rammenterò qui che essendo tutte le vocali finali delle parole partenopee (tranne quelle accentate perché di parole tronche) di timbro evanescente presutto ben può rimare con tutte, laddove la lingua nazionale per rimare con prosciutto esige una parola che abbia tutte le sillabe che seguono quella tonica, uguali a quella della parola con cui rimare; nella fattispecie prosciutto potrebbe rimare con asciutto , ma non con tutte come invece càpita con il napoletano presutto che può rimare sia con asciutto che con tutto, tutta, tutte etc
presutto s.m.= prosciutto, coscia di maiale salata e parzialmente prosciugata perché si conservi a lungo per traslato, ma non in questo caso, persona balorda, noiosa, dal carattere greve e fastidioso l’etimo della voce napoletana è da un lat. volg. *pro-suctu(m)=prosciugato modellato come ex-suctu(m) = asciutto;
pe d’uno o peduno forma pronominale sciolta o agglutinata = per uno, per ciascuno ;
spetta= tocca, spetta voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito spettà= toccare, spettare in sorta, esser di pertinenza con etimo dal lat. spectare 'guardare, essere rivolto a', frequentativo di specere 'esaminare.
tutte agg.vo e pron. indefinito plur. masch. e femm. di tutto/a
con etimo dal lat. volg. *tuctu(m), per il class. totu(m) 'intero, tutto'.
18 - Dicette Pulicenella:Pe mmare nun ce stanno taverne e tanno vaco pe mmare quanno nce fanno ‘nu ponte ‘e sacicce e n’ato ‘e supressate.
Disse Pulcinella: Per mare non vi sono taverne ed io allora andrò per mare quando vi avranno costruito un ponte di salsicce ed un altro di soppressate.
Il pauroso o prudente Pulcinella consigliava di tenersi lontano dal pericoloso mare e di frequentarlo solo in caso di assurda fame nella ipotesi impossibile di trovarvi di che satollarsi di carne piuttosto che di pesce.
Bisogna esser prudenti nel frequentare l’infido mare, come occorre usare prudenza in tutte quelle situazioni nelle quali non si è sicuri di ciò a cui si vada incontro, né siano previsti immediati, tangibili beneficî.
Pulecenella = Pulcinella la maschera per antonomasia della tradizione popolare partenopea che accreditato d’essere eccezionalmente furbo e di ampie vedute pur rappresentando l’uomo piú semplice, quello piú debole, quello che nella scala sociale occupa l’ultimo posto; dotato, come ò detto, per compensazione, di una furbizia eccezionale, capace perciò di risolvere i piú disparati problemi e dunque facultato ad esprimere giudizi, pareri, moniti e consigli. Chiamato a rappresentare l’anima del popolo, i suoi istinti primitivi, appare quasi sempre in contraddizione, tanto da non avere dei tratti fissi: è talvolta (ma raramente!) ricco o il piú delle volte povero, è prepotente o codardo, e talvolta presenta l’uno e l’altro tratto contemporaneamente. La verità sta nel fatto che a questa maschera il popolo à riservato la funzione di riassumere e di esprimere tutta la sua realtà quale che sia: brutta o bella, meschina o eroica.
La maschera di Pulcinella à una storia che viene di lontano; già non c’è uniformità di vedute sull’origine del nome Pulcinella; secondo alcuni esso si vuole che debba discendere da Pulcinello cioè piccolo pulcino per via del suo naso adunco e per la voce chioccia che in origine usarono gli attori che lo impersonavano; c’è chi invece propende per Puccio d'Aniello un villano di Acerra del '600 che dopo aver preso in giro una compagnia di commedianti girovaghi si uní a loro come buffone e pare s’inventasse quel mascheramento del volto, mezzo bianco e mezzo nero, palandrana bianca e candido cappello a pan di zucchero; una scuola di pensiero propende per un tal Silvio Fiorillo attore girovago nato all'incirca nel 1560 (Viviani V.), che pare fosse il primo a portare ufficialmente in scena la figura di Pulcinella, anche se l'alternava con la casacca e la spada del capitano Matamoro spagnolo. Fiorillo viene anche ricordato come il primo commediografo pulcinellesco, essendoci giunta una sua commedia intitolata: " La Lucilla costante, con le ridicole disfide e prodezze di Pulcinella " In realtà dove e da chi sia nato Pulcinella non é dato di sapere e molti eminenti studiosi e letterati come Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo e Anton Giulio Bragaglia si sono impegnati in queste ricerche, senza mai poterlo stabilire con certezza; a mio avviso, pur accogliendo in parte qualcosa d’ogni singola ipotesi, penso che non sia tuttavia lontano dalla verità chi, (almeno per ciò che riguarda i caratteri generali), collega Pulcinella al Maccus della commedia atellana latina.
La maschera di Pulcinella à una sua variante francese in Polichinelle ( un fanfarone gradasso con doppia gobba e un vestito giallo-rossiccio detto crocòta) ed una variante inglese con Punch maschera dall' umore malinconico e brutale, molto diverso dal Pulcinella napoletano brioso e faceto; i medesimi caratteri della maschera napoletana si riscontrano invece nel russo Petruska, nel don Cristobal spagnolo e nel tedesco Kaspar, segno che la maschera napoletana fu esportata in lungo e largo.
Esiste un momento centrale ed illuminante, nella storia dei rapporti fra Pulcinella e Napoli, fra Pulcinella ed il teatro ed, in particolare, fra Pulcinella e l'attore : esso coincide con la fine del '600 e l'inizio del '700, allorché la storia dello spettacolo a Napoli si fa suggestiva misura della storia stessa della città e della sua vita culturale. Vi fiorisce un teatro di prosa dialettale, espressione di una straordinaria attenzione alla lingua ed al costume; vi nasce una ricca e fertile generazione di teatranti: teorici, drammaturghi e commediografi, librettisti, musicisti, attori e cantanti, impresari; vi si rinnovano le strutture cittadine di spettacolo: si apre il San Carlo e, all'estremo opposto del consumo sociale del teatro, il non meno nobile San Carlino; si afferma la commedia in musica, detta opera buffa, capace di espandersi ed affermarsi per l'intera Europa con caratteri che ànno fatto pensare addirittura ad una scuola musicale napoletana ; sopratutto, il teatro rinasce, dopo esaltanti esperienze della commedia dell'arte praticata trionfalmente in Europa per tutto il '600 ed in questa prima metà del '700. La maschera à rappresentato e rappresenta tuttora la plebe napoletana da sempre oppressa dai vari potenti che si sono succeduti, affamata e volgare, smargiassa, codarda e dissacrante.
Molti attori ànno impersonato sulla scena il personaggio di Pulcinella ma il piú famoso di tutti è stato Antonio Petito (1822 -†1876) trionfatore sul palcoscenico del San Carlino; questo Petito nonostante fosse quasi analfabeta, à lasciato numerose commedie di grande successo che avevano come protagonista lo stesso Pulcinella. Dopo di lui, per tanti aspetti, storici, culturali e tecnici inizia la decadenza, nonostante sulle scene fossero attivi altri grandi interpreti (come Salvatore De Muto(1876 † 1970) ad esempio e Gianni Crosio (di cui ò potuto reperire solo le seguenti poche notizie biografiche;Crosio Gianni
l'ultimo grande Pulcinella
Napoli 2 febbraio 1916 –ivi † 8 ottobre 1981
Nel 1950, era direttore artistico della sezione teatrale del
Circolo aziendale del Gas, poco dopo la morte di Raffaele
Viviani allestí L'imbroglione onesto. Fu l'avvio di una
brillante carriera, in verità già cominciata nel 1942 con
qualche apparizione con la maschera famosa.
Alla Piedigrotta Bideri 1954 le canzoni furono inquadrate
in una rivista, Canzuncella zompa e vola, di cui Crosio fu
protagonista con Carlo Taranto. Alla Piedigrotta 1955 la sua
voce registrata con orchestra a plettro cantava:
'O Vesuvio s'à miso
'a curona 'e ‘nu rre
berebebbetebbe berebebbetebbe.
Al Giornale, quotidiano liberale, la trovata non piacque.
Recitò con incisività nelle commedie Addio, mia bella
Napoli e O Giovannino o la morte.di Ernesto Murolo. Lavorò con RobertoDe Simone in Festa di Piedigrotta. Fece anche cinema (ad esempio L'oro di Napoli) e film per la tv come Pulcinella
di Lelio Golletti. Fece molta radio. Nel 1962 pubblicò una
raccolta di poesie, pensieri e disegni intolata Il sogno di
Pulcinella. Fu oltreché poeta anche pittore e scultore.).
Dicevo: inizia la decadenza. Pulcinella in teatro diventa un personaggio, e deve attenersi ormai ad una parte scritta, ad un copione. Privata del vivificante contatto diretto con il pubblico, la maschera assume sempre piú caratteristiche stereotipate, di genere. Solo nella strada, con le guarattelle (forma metatetica di guattarelle= acquattate, nascoste), e con il teatro napoletano dei pupi (grossi burattini) (ll’opera de’ pupe), Pulcinella mantiene la sua forza, conservando intatta nel tempo, incredibilmente, la struttura di spettacolo originaria della Commedia all’Improvviso, e in tal forma giungendo fino ai nostri giorni.
Ribadito che per quel che riguarda l’etimologia del nome Pulicenella o anche Pullicenella con tipico raddoppiamento espressivo popolare della l , occorre risalire ad un accusativo latino pullicinu(m)= pulcino variante del tardo latino pullicénu(m), con riferimento – come già detto – al naso adunco ed alla primitiva voce chioccia e pigolante usata dagli attori per dar vita alla maschera, ricorderò che talvolta il personaggio eternato sotto il num. 75 della smorfia napoletana non è esattamente la maschera fin qui menzionata, ma un generico buffone, un pagliaccio o un uomo di nessuna personalità, quel medesimo che per traslato è detto appunto Pulicenella.Ma questo non è il caso del proverbio in lettura dove Pulicenella è esattamente la maschera teatrale e non un uomo senza personalità del quale, giustamente, non si riporterebbero o accetterebbero parole, moniti e/o consigli.
taverne s.f. plur. di taverna= bettola,cantina, osteria d’infimo ordine con etimo dal lat. taberna(m) 'osteria, magazzino' con tipica alternanza partenopea b/v (cfr. bocca/vocca – barca/varca etc.)
tanno avv. di tempo = allora, in quel tempo con etimo dal lat. tande(m)= finalmente con tipica assimilazione progress. nd→nn;
quanno avv. di tempo = quando, allorché, nel momento in cui con etimo dal lat. quando con tipica assimilazione progress. nd→nn;
sacicce s.f. plur. di saciccia= salciccia che etimologicamente pare risultare forse da un incrocio tra l’aggettivo latino salsus/a ‘salato/a’ e la voce popolare ciccia (che puó esser sincope di c(arn)iccia) = carne; invece la voce napoletana saciccia non è un adattamento corruttivo della voce italiana, ma etimologicamente deriva da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare';
supressate s.f. plur. di supressata = soprassata, soppressata, salume di carne tritata di maiale, variamente condita a seconda delle zone di produzione e pressata in un tratto di budello grosso dello stesso animale; l’etimo della voce napoletana è dal provenz. saupressado 'carne salata e pressata', comp. di sau 'sale' e pressada 'pressata.
19 – Dicette ‘O Sarvatore: Meglio ‘nu marito scazzillo, ca n’amico ‘mperatore.
Disse Il Salvatore: (È) meglio (avere) un marito modesto che un amante imperatore.
Monito rivolto alle donne dittante una sacrosanta norma di vita , monito addirittura divino e per ciò degno di fede e da mettere in pratica; invece il proverbio è proverbio desueto e non piú applicato…Infatti oggi, proprio al contrario di quanto messo sulla bocca del divino Maestro, le donne preferiscono un amante purché sia facoltoso e prodigo e non agognano una durevole sistemazione nuziale, tanto meno con un marito scarso, carente, mancante di adeguati mezzi economici!
‘O Salvatore =Il Salvatore, appellativo riservato – se scritto con la maiuscola - a Ns. Signore Gesú Cristo, la Seconda Persona della SS. Trinità discesa sulla terra per redimere con il Suo sacrificio l’umanità intera e salvarla; scritto in minuscolo salvatore è un s.m.o agg.vo, nome comune:che salva o puó dare salvezza e talora un nome proprio di persone con etimo da un tardo lat. salvatore(m);
meglio = avv. compar. di bene (in modo migliore) liegge ‘nu poco meglio(leggi un po' meglio); cu ‘sti llente veco assaje meglio(con questi occhiali vedo assai meglio); ed agg.vo compar. inv. migliore (si usa generalmente come predicato nominale con i verbi essere, parere, sembrare) con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile: penzaje ch’era meglio ‘e fa fenta ‘e niente( credetti fosse meglio far finta di nulla); sarrà meglio ca tu parte (sarà meglio che tu parta) con etimo dal lat. melius, neutro di melior -oris 'migliore' ;
marito s.m.= marito, coniuge, sposo con etimo dal lat. maritu(m), forse da accostare a mas maris 'maschio';
scazzillo/ scarzillo agg.vo masch.= scarso, carente, mancante di adeguati mezzi economici! Le voci a margine di cui la prima scazzillo è una corruzione popolare della seconda scarzillo con una non necessaria assimilazione regressiva rz←zz sono il diminutivo (cfr. il suff. illo) dell’agg.vo scarzo= scarso, carente, mancante il cui etimo è un acc.vo tardo lat. *excarpsu(m) p. p. collaterale di excerptu(m) del verbo excerpere= estrarre;
amico s. ed agg.vo m.= amico, benevolo, affettuoso; familiare, affine (lett.) propizio, favorevole alleato
(eufem.) come nel caso che ci occupa amante; compagno
anche cultore, amante, appassionato; sostenitore, fautore
con etimo dal lat. amicu(m), deriv. di amare
‘mperatore s. m. letteralmente imperatore ma qui - per traslato - uomo ricco, importante, facoltoso e munifico con etimo dal lat. imperatore(m), deriv. di imperare 'comandare'.
20 – Dicette uno d’’o mestiere:
‘E fatte d’ogge nun so’ chille ‘e ajere!
Disse un artigiano: I fatti odierni non sono come quelli di ieri!
Piú che davanti ad un proverbio in forma di wellerismo, messo sulla bocca di un generico artigiano, ci troviamo di fronte ad una locuzione un tempo ed ancóra oggi usata per l’appunto dagli artigiani adusi a lamentarsi (con l’espressione: i fatti odierni non sono come quelli di ieri!) della magrezza degli affari accreditati di non essere piú rigogliosi come invece era in tempi pregressi.
Va da sé che la medesima espressione o anche l’intero proverbio/wellerismo possa essere usato a dispiaciuto, se non dolente commento da parte di chiunque: artigiano, professionista o semplice individuo che intenda lamentarsi di una sua situazione sociale, familiare economica od altro che non sia piú rigogliosa come invece era in tempi passati.
uno d’’o mestiere letteralmente è uno del mestiere, uno che sia del mestiere, uno che eserciti (tale) mestiere ;
la voce mestiere di per sé indicherebbe (con etimo dal lat. ministeriu(m) 'ministero, ufficio', deriv. di minister 'ministro, servo' attraverso il fr. ant. mestier (mod. métier)), qualsiasi attività pratica che una persona svolge abitualmente traendone guadagno, per lo piú dopo un periodo di addestramento; se il termine è usato in relazione a una professione, è per sottolinearne gli aspetti pragmatici; ma nel corso del tempo in lingua napoletana, seppure un po’ restrittivamente con mestiere si è inteso precipuamente un’attività manuale o di artigiano cioè di chi, in proprio, con l'aiuto di familiari o di pochi dipendenti, produce oggetti d'uso o di ornamento la cui realizzazione richieda una particolare capacità tecnica o un certo gusto artistico, e poiché spesso tali prodotti non son di prima necessità, ma beni voluttuarî, o beni cosí duraturi(ess.: lavori di ebanisteria/falegnameria – muratura/attintatura etc.) ecco che in tempi recenti ( con le persone ormai attente piú ai generi industriali di largo consumo e di quotidiano utilizzo, che ai generi d’alta tecnica o gusto artistico) ecco che l’attività ed i relativi guadagni degli artigiani ristagnano o addirittura languono permettendo a tali lavoratori che esercitano un mestiere, di lamentarsi della situazione con le parole del proverbio in esame.
fatte agg.vo e sost.masch. plur. di fatto ed altrove agg.vo femm. plur. di fatta; qui precisamente s.m.plur. di fatto= fatto, accadimento, cosa avvenuta o che avviene con etimo dal lat. factu(m), part. pass. neutro sost. di facere 'fare'
ogge avv. di tempo = oggi, al presente, all’epoca attuale derivato del lat. hodie, da hoc die 'in questo giorno',
chille agg. e pron. plur. masch. e neutro= quelli del sing.masch. chello e del sing. neutro chellu mentre il femm. sing. è chella ed al plur. chelle; l’etimo è dal lat. (ec)c(um) ille - (ec)c(um) illa con epentesi della consonante dacritica h per indicare il suono gutturale della c.
ajere avv. di tempo= ieri, il giorno che precede immediatamente l’oggi, ma anche genericamente i giorni passati, trascorsi; l’etimo della voce napoletana presuppone un ad-heri= quasi ieri con caduta della d come in adiutare→aiutà .
21 - Dicette ‘o si’ prevete â sié badessa: Senza denare nun se cantano messe!
Ad litteram: Il signor prete disse alla signora abadessa: Senza denari, non si celebrano messe cantate!
Antico icastico proverbio partenopeo, il cui assunto indica che nella vita nulla viene fatto gratuitamente, ma ogni cosa – persino lo piú sacra – à un suo prezzo, dal quale non si può prescindere se si vogliono ottenere i risultati pratici agognati. Infatti se persino i sacerdoti pretedono un corrispettivo per la celebrazione di una S.Messa , sia pure cantata, quanto e piú potrà fare chiunque altro cui si chieda di prestare la propria opera!
È inutile attendersi gratuità!
NOTA :
Comincio col dire che spesso sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua,ma – inopinatamente – pure sulle labbra di taluni sedicenti studiosi della lingua napoletana il proverbio in epigrafe è reso con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di signore ) con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottenengono gli scorretti zi’ prevete e zi’ badessa in luogo dei corretti si’ prevete e sié badessa dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre il sié è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→ sie-gneuse.
E passiamo ad analizzare qualche singola parola:
- prevete e cioè: prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto, che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prevete da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
- badessa e cioè: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
- Messe propiamente il plurale di messa che è – come noto - nella religione cattolica, il sacrificio del corpo e del sangue di Gesú Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, è offerto dal sacerdote a Dio sull'altare, per rinnovare il sacrificio della croce; etimologicamente la parola napoletana messa tal quale la identica toscana, è il participio passato femminile del verbo latino mittere e cioè missa= inviata, mandata; per comprendere appieno il perché di questo nome dato alla celebrazione liturgica bisogna risalire al 1°,2° sec. quando i primi cristiani, per celebrare il loro rito della eucaristia (etimologicamente da un tardo latino eucharistia(m), dal gr. eucharistía, comp. di êu bene e un derivato di cháris -itos : grazia; propr. riconoscenza, gratitudine) si riunivano nelle catacombe (etimologicamente da un tardo latino catacumba(m), comp. del gr. katá: giú, sotto e il lat. cumba :cavità); al termine della celebrazione liturgica, il presbitero che aveva consacrato l’eucaristia ne affidava alcune particole = piccole parti ai diaconi che erano i suoi assistenti, affinché essi le recassero a tutti i fedeli che, per varî motivi assenti, non avevano partecipato al rito; fatto ciò, congedava gli altri fedeli annunciando loro: Ite, missa est! id est: Andate via, l’ò mandata! Quel missa finale finí per dare il nome alla celebrazione liturgica relativa.
22 -Dicevano ll’antiche:
‘E maluocchie nun te levano ‘a carne d’’a pignata, ma manco te ne fanno mettere cchiú!
Dicevano gli antichi:I malocchi(cioè i cattivi sguardi degli iettatori se non ti rubano la carne dalla pentola, non te ne fanno mettere altra.
La iettatura forse non procura grandi danni (come potrebbe esser quello di vedersi sottrarre il nutrimento, addirittura in cottura) , ma bene non ti fa, e nella fattispecie non ti consente di rimpiazzare il cibo (eventualmente trafugato).
Wellerismo posto sulla bocca di generici antichi accreditati per ciò stesso d’essere saggi, sensati, equilibrati, assennati, accorti, avveduti, responsabili, giudiziosi, prudenti, ponderati, oculati, riflessivi, ragionevoli, intelligenti, lungimiranti e dunque meritevoli d’essere ascoltati,intesi, seguíti, nella fattispecie tenendosi lontani dagli sguardi malefici degli iettatori.
antiche s.ed agg.vo plur. masch., femm. e neutro dei sing. antico – antica = antichi, appartenenti ad un epoca passata ma pure e qui antenati; il sing. antico è dal lat. antiquu(m), deriv. di ante 'prima' ;
maluocchie s.m.plur.di maluocchio = malocchio, nella credenza popolare, influsso malefico attribuito allo sguardo di certe persone: dare, gettare il malocchio, estensivamente malevolenza, avversione ostile; l’etimo è dall’agglutinazione di mal(o) =cattivo + uocchio= occhio;
jettatori s.m. plur. di jettatore= iettatore, chi esercita influssi malefici; la voce a margine che è pervenuta anche nella lingua nazionale è però voce meridionale e segnatamente napoletana e come che derivata quale deverbale di jettà= gettare, buttare, lanciare (da un lat. *iectare intensivo di iàcere=scagliar via) reputo che anche in italiano andrebbe scritta jettatore e non iettatore, però la lingua nazionale (ma non se ne comprende il motivo) dura fatica ad accogliere nei suoi vocabolarî lemmi comincianti per j a meno che non si tratti di parole mutuate dalla lingua d’Albione del tipo: jet – jet-set – jet-society –jetlag!
levano = levano, tolgono voce verbale (3° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito levà= levare, togliere,portar via, rimuovere che è dal lat. levare 'rendere leggero, sollevare', deriv. di levis 'lieve, leggero';
carne s.f. = carne, nel corpo dell'uomo e degli animali vertebrati, la parte costituita dai muscoli; qui segnatamente parte del corpo degli animali, spec. dei mammiferi d'allevamento, costituita soprattutto dal tessuto muscolare e adiposo, che viene usata come alimento dell'uomo l’etimo è dal lat. carne(m);
pignata s.f. = pignatta, pentola molto capace, per lo piú di terracotta, provvista di coperchio usata per una cottura prolungata dei cibi; (fam.) qualunque tipo di pentola. quanto all’etimo qualcuno reputa la voce a margine originata da un deriv. metatetico del lat. pinguis 'grasso', col sign. di 'recipiente per conservare il grasso', ma trovo piú percorribile l’idea che pignata derivi da un tardo lat. pineata (provvista di pinea=pigna) giacché in origine la pignata ebbe un coperchio terminante con una pigna vera o in terracotta, che fungeva da manopola di presa.
manco avv modale = nemmeno, neppure, neanche con etimo dal lat. mancu(m) 'manco, mutilo', quindi 'difettoso, manchevole.
cchiú avv. mod.e temp. = piú, maggiormente etc. derivato dal lat. plus, compar. neutro di multus 'molto' normale in napoletano il passaggio di pl→chi ( cfr. chiaja←plaga – chiovere←pluere – chiummo←plumbeu(m)).
Satis est.
raffaele bracale
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