CONTENITORI ED ALTRO
Questa volta, su precisa richiesta (Edoardo C.) prendo in esame alcune delle voci che identificano varî tipi di contenitori usati per riporre e/o trasportare merci, derrate alimentari e/o altro; e mi dilungherò qua e là prendendo spunto da qualcuno di tali contenitori, per illustrare tipiche fraseologie. Comincerò, al solito a considerare le voci dell’italiano, per poi soffermarmi su quelle del napoletano.
In italiano abbiamo:
- baúle e non bàule s.m.1 cassa, per lo piú foderata e con coperchio convesso, che serve per contenere o trasportare abiti, biancheria ecc. cassa non eccessivamente voluminosa, provvista di due maniglie laterali per il sollevamento e/o trasporto. 1a baule armadio, cassa piú voluminosa ad apertura verticale, in cui i vestiti possono stare appesi | viaggiare come un baule, (fig.) senza interessarsi di nulla | fare i bauli, (fig.) andarsene da un luogo. DIM. bauletto ACCR. baulone
2 nelle automobili, bagagliaio.
L’etimo della voce italiana a margine è dallo sp. ba(h)úl, da un orig. fr bagut
il corrispondente in napoletano della voce baúle è
-baúglio nella medesima accezione indicata sub 1(in napoletano non esiste infatti una voce ad hoc per indicare il cosiddetto baule armadio che in napoletano resta un bauglio; epperò in napoletano la voce bauglio è usata - per giocoso traslato - anche per indicare la gobba anteriore, quella cioè che insiste sullo sterno; chiarisco che il termine napoletano baúglio à etimo affatto diverso dal baúle italiano; il napoletano bauglio è modellato sul latino: *baulus(deverbale di bajulare=trasportare) e ben può indicare la gobba anteriore, (quella che insiste sullo sterno) perché con il termine baúle (bauglio) si intendeva quel contenitore, piccolo o meno, per asporto, provvisto come ò detto di maniglie laterali, contenitore che veniva sollevato e trasportato tenendolo poggiato sulla parte anteriore del corpo; rammento trovandomi in argomento che nel napoletano, spesso piú preciso dell’italiano, per indicare quella che nell’italiano è sempre genericamente la gobba abbiamo a dir poco, tre vocaboli; e sono: baúglio, scartiello e contrapanzetta.
Ma non son vocaboli da usarsi indifferentemente; del bauglio ò già detto; con il termine scartiello si intende invece la gobba posteriore, presente sulle spalle o tra le scapole; il termine scartiello proviene da un latino parlato: *cartellu(m) (cesta/ gerla che erano portate, proprio come una gobba posteriore, sulle spalle.A *cartellu(m) è addizionata la tipica protesi partenopea di una esse intensiva e non perché la gobba debba essere piú grossa di una cesta/gerla ma per indicare il maggior fastidio o impedimento provocato dalla gobba portata sulle spalle per un tempo indefinito rispetto alla gerla/cesta che – finito il trasporto – viene posata allegerendo del proprio peso chi la portasse. C'è infine il termine contrapanzetta che indica - anche se in maniera divertita - la medesima gobba posteriore prominenza ritenuta opposta (contra) alla normale prominenza della pancia (panzetta).
- cassa s. f. generico contenitore di vario materiale, quantunque piú spesso di legno;
1 contenitore in materiale rigido, a forma di parallelepipedo, in genere provvisto di coperchio piatto, usato per tenere o trasportare oggetti; il contenuto di tale contenitore: la cassa della biancheria; cassa da imballaggio; una cassa di libri ' cassa tipografica, cassetto a scomparti dove sono ordinati i caratteri tipografici | cassa da morto, bara. DIM. cassetta ACCR. cassone (m.)
2 (estens.) qualsiasi oggetto cavo in cui è contenuto qualcosa: cassa dell'orologio, la parte che ne racchiude il meccanismo | cassa del fucile, la parte di legno costituita da impugnatura, calcio e asta | cassa armonica (o di risonanza), corpo cavo, a pareti rigide, di uno strumento a corda o a percussione, che aumenta, per vibrazione dell'aria in esso contenuta, l'intensità dei suoni prodotti dalla fonte sonora dello strumento; cassa di risonanza, (fig.) tutto ciò che diffonde o amplifica una notizia | cassa d'aria, sulle lance di salvataggio, recipiente di metallo leggero fissato nell'interno dello scafo per renderlo inaffondabile | cassa d'emersione, d'immersione, d'assetto, nei sommergibili, compartimenti che possono venire vuotati o riempiti, per far emergere, immergere e bilanciare longitudinalmente l'imbarcazione
3 mobile a piú scomparti, in cui si conservano denaro o preziosi; macchina, installata in esercizi pubblici, atta a contenere e registrare denaro; per estens., ufficio preposto alla conservazione di denaro, assegni ecc., ai pagamenti e alle riscossioni; in negozi, uffici, banche, il posto del cassiere: non avere denaro in cassa; la cassa è in fondo al negozio | vuoto, ammanco di cassa, mancanza di denaro non giustificata contabilmente | libro di cassa, registro su cui si annotano pagamenti e riscossioni | pagamento a pronta cassa, in contanti | batter cassa, chiedere denaro | cassa continua, (banc.) dispositivo che collega una cassaforte con l'esterno della banca consentendo ai clienti di effettuare, servendosi di particolari contenitori, versamenti anche dopo l'orario di chiusura; cassa automatica, quella che permette di prelevare denaro o di compiere altre operazioni bancarie, per le quali riceve istruzioni attraverso una tastiera | fondo cassa, quantità di denaro che deve trovarsi nella cassa per consentire le normali operazioni di scambio | registratore di cassa, macchina che registra i singoli incassi realizzati dai venditori al minuto (per alcune categorie di esercenti è obbligatoria per ragioni fiscali)
4 (dir.) istituzione che raccoglie ed eroga denaro spec. a fini di utilità collettiva: Cassa di risparmio, Cassa rurale e artigiana | Cassa malattia, istituto per la raccolta e l'amministrazione di contributi per l'assistenza in caso di malattia | cassa integrazione (guadagni), istituto che assicura un dato reddito a lavoratori dipendenti di imprese colpite da temporanee sospensioni (totali o parziali) dell'attività produttiva; per estens., lo stato di chi si trova a usufruire di tale fondo: essere in cassa integrazione
5 cassa (acustica), struttura che contiene uno o piú altoparlanti e rappresenta l'ultimo elemento di una catena di riproduzione ad alta fedeltà
6 (anat.) cavità delimitata da pareti ossee, cartilaginee o muscolari: cassa toracica; cassa del timpano, cavità dell'orecchio medio.
L’etimo della voce a margine, cosí come della corrispondente voce napoletana che è
-cascia è dal lat. capsa(m), deriv. di capere 'contenere'; propr. 'contenitore'; interessante notare che mentre nell’italiano partendo da capsa con una semplice assimilazione regressiva ps→ss si sia ottenuto cassa, nel napoletano - sempre partendo da capsa - si è avuta dapprima la sincope dell’esplosiva labiale p e la successiva tipica palatalizzazione della s→sci.
A margine rammenterò che in napoletano per significare la voce bara (che in ogni caso è un... contenitore) piú che usare cassa da morto (cascia ‘e muorto) si preferisce la voce tauto/tavuto derivata dall’arabo tabut (arca), attraverso lo spagnolo (a)taúd/(a)taút;
In relazione alle voci cascia e bauglio rammento qui una gustosissima espressione partenopea che suona : Jí cascia e turnà baúglio oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi iniziasse l'apprendimento essendo una cassa e lo terminasse da baúle ossia non mutasse la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi iniziasse uno studio essendo dello stoccafisso e lo terminasse diventando baccalà, diverso cioè nella forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio riportato, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà.
- canestro, s. m. contenitore di vimini con un solo manico ad arco sulla sua bocca, di solito senza coperchio; per estens., il contenuto di tale contenitore: un canestro di verdura, di fiori, di frutta etc. l’etimo di canestro è dal lat. canistru(m), dal gr. kánastron, prob. deriv. di kánna 'canna'; la voce a margine in italiano è usata estensivamente nello sport della pallacanestro,per indicare la reticella a forma di cesto senza fondo, attraverso la quale si deve far passare la palla per segnare punti; anche, i punti cosí segnati: tirare a canestro; fare canestro; realizzare un canestro.
- cesto,s.m. 1 grosso canestro a sponde alte, talora chiuso, per trasportare o contenere oggetti non molto pesanti: cesto del bucato | il contenuto di un cesto: un cesto d'arance | DIM. cestino,, cestello (m.) ACCR. cestone (m.); 2 (teat.) il corredo dell'attore per un determinato spettacolo
3 un tempo, grosso barroccio per il trasporto del vino
4 navicella di vimini per aerostato
5 nel gioco della pelota, attrezzo consistente in una sorta di cesto allungato per raccogliere e gettare la palla.
La voce a margine à anche una versione al femminile -cesta s.f.= canestro a sponde alte, talora chiuso, per trasportare o contenere oggetti non molto pesanti: cesta per il pane, | il contenuto di una cesta: una cesta di mele etc.
Faccio notare che contrariamente a ciò che avviene nel napoletano dove con una voce femminile si intende un oggetto piú grande del corrispondente maschile (cfr. tammorra piú grande di tammurro, cucchiara piú grande di cucchiaro, tina piú grande di tino, carretta piú grande di carretto, etc., ma per eccezione caccavo piú grande di caccavella e tiano piú grande di tiana), in italiano con una voce femminile si intende un oggetto piú piccolo del corrispondente maschile come nel caso di questa cesta intesa contenitore piú piccolo di cesto. Quanto all’etimo, cesto riusulta essere la maschilizzazione della voce cesta che a sua volta è dal lat. cista(m), dal gr. kístí; e che cesto derivi da cesta e non al contrario si ricava dal fatto che nel significoto di recipiente intrecciato si trova attestato un cista(m) e mentre il masch. cistus à significato affatto diverso;
- cestello/ cestino evito di soffermarmi sulle voci a margine trattandosi evidentemente di null’altro che di diminutivi della voce cesto. Rammenterò tuttavia che con la voce cestello s.m. si indica
1 dim. di cesto
2 contenitore, di solito con struttura a gabbia, per trasportare oggetti: cestello per bottiglie; il cestello della bicicletta etc.
3 nelle lavatrici automatiche, il cilindro rotante nel quale si mette la biancheria; nelle lavastoviglie, il ripiano scorrevole che regge gli oggetti da lavare
4 negli altoparlanti, struttura metallica esterna, generalmente di forma tronco-conica, che sostiene i diversi elementi ed è fissata alla cassa.; con la voce
- cestino s.m. si indica invece un piccolo cesto di vimini o contenitore d'altro materiale; in partic., quello usato per gettarvi carte e altri piccoli rifiuti cestino per la carta | cestino da lavoro, quello in cui si tiene tutto l'occorrente per cucire | cestino da viaggio, sacchetto contenente cibi e bevande da consumarsi durante un viaggio, solitamente venduto nelle stazioni.
- corba s.f. 1 Recipiente intrecciato di grossi vimini e rami di castagno, con due manici.
2 nelle navi, ossatura che tiene uniti il fasciame esterno e la chiglia, detta anche costa
3 unità di misura di capacità per aridi, usata un tempo in Emilia Romagna, e segnatamente a Bologna ed equivalente a circa 80 metri cubi. l’etimo è dal lat.corbe(m);
- gerla s. f.
cesta a forma di cono rovesciato, usata spec. nei paesi di montagna per il trasporto di roba varia; si porta sulla schiena assicurata alle spalle con due cinghie. L’etimo della voce è nel lat. volg. *gerula(m), deriv. del class. gerere 'portare';
nel napoletano la voce corrispondente di gerla è
- cartellata s. f. di significato affatto identico a quello di gerla e cioè grande cesta a forma di cono rovesciato, usata spec. nei paesi di montagna per il trasporto di roba varia; si porta sulla schiena assicurata alle spalle con due cinghie. L’etimo della voce napoletana è nel lat. volg. *cartellu(m)(cfr. antea scartiello);
ricordo un’interessante particolarità e cioè che in tutta la provincia napoletana la voce cartellata indica, come detto, una grande cesta portata sulla schiena ed assicurata alle spalle con due cinghie, adibita al trasporto di materiali varii ed essenzialmente di frutta e/o ortaggi, ma anche di legna cedua; invece nelle isole campane la voce cartellata indica un piccolo cesto a forma di cono rovesciato, provvisto di manico ricurvo ed è cestello portato a mano per contenervi cibarie o anche gli uccelli vittime dei cacciatori.
- paniere, s.m. 1 cesta per lo piú di vimini, di varie forme, provvista solitamente di manico arcuato per infilarvi il braccio: un paniere di fichi, di mele | rompere le uova nel paniere, (fig.) far fallire i progetti altrui | far la zuppa nel paniere, (fig.) fare una cosa inutile o impossibile | punto paniere, punto di ricamo che imita l'intreccio dei lavori in paglia. DIM. panieretto, panierino VEZZ. panieruccio ACCR. panierone PEGG. panieraccio
2 panierata= la quantità di oggetti, merce e sim. contenuta in un paniere un paniere di funghi
3 (non com.e per estensione ) gonna sostenuta da un guardinfante (s. m. intelaiatura circolare di ferro o di vimini, a forma di campana, che si portava un tempo sotto la gonna per tenerla gonfia;il nome di guardinfante gli deriva dal fatto che tale aggeggio in origine fu indossato dalle donne incinte per proteggersi dagli urti; per estens., il guardinfante stesso | (per traslato giocoso) sedere, deretano, fondo schiena;
4 (agr.) cannicciata con cui si protegge una pianta nei mesi invernali
5 (econ.) insieme di beni con una data composizione; nell'analisi economica, qualsiasi combinazione di beni che il consumatore confronta con altre possibili combinazioni: paniere (dei beni) della scala mobile, insieme convenzionale di beni di consumo i cui prezzi sono presi a riferimento per calcolare le variazioni del costo della vita; paniere di monete, insieme delle monete che, in date proporzioni, costituiscono un'unità di conto: l'ecu è costituito da un paniere di monete europee | gruppo di beni in vendita a prezzo controllato. l’etimo di paniere è dal fr. panier;
la voce napoletana corrispondente di paniere è
-panaro s.m. cesta per lo piú di vimini, di varie forme,usato un tempo per il trasporto del pane fresco (donde il nome), ed in seguito per il trasporto di molti altri tipi di derrate alimentari dalla frutta, ai formaggi, agli insaccati etc. e da ultimo, usato, per il tramite di una lunga corda legata saldamente al centro del manico, per issare fino alla propria finestra o balcone le merci acquistate da venditori ambulanti che si annunciavano oltre che con i tipici richiami relativi alle merci vendute, con un pressante invito: Signò acalate! (Signora,fate discendere (il paniere)) per modo che il venditore lo riempisse della merce richiesta e la signora lo issasse comodamente fino alla propria altezza evitando il fastidio di scendere in istrada, acquistare il voluto e poi risalire in casa (temporibus illis le vecchie case napoletane non avevano ascensori, i gradini erano alti ed era faticoso scendere e risalire per fare compere: meglio l’agevole comodo panaro, cesta provvista solitamente di manico arcuato per infilarvi il braccio o per legarvi la corda per il bisogno suddetto.L’etimo della voce napoletana è dal lat. panariu(m)→panar(i)u(m) originariamente cesto per pane.Anche in napoletano (sebbene la voce panaro non venga mai usata per indicare il cosiddetto guardinfante) con il termine panaro per traslato giocoso e/o furbesco viene indicato il sedere, il deretano soprattutto di donne in carne prendendo a prestito la figura prominente disegnata sul fondoschiena dall’uso d’un guardinfante (che nel parlato popolare napoletano fu definito sella termine generico (dal lat. sella(m), corradicale di sedíre con cui si indica qualsiasi corpo od oggetto che anche non abbia forma di sella, ma che svolga una funzione di sostegno.
acalate = calate, fate discendere (lentamente) voce verb. (2° p.pl. qui imperativo – altrove pres. ind.) del verbo acalà/are dal tardo lat. a + calare, dal gr. chalân 'allentare'
Fraseologia: Avimmo perduto a Felippo e ‘o panaro!
Ad litteram: abbiamo perduto Filippo ed il paniere! Id est: Ci abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi. La dispiaciuta esclamazione ancóra perdura nel parlato comune partenopeo e trae da una non meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie, perché la portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute nel paniere, e temendo poi le reazioni del padrone, evitò di tornare a casa lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto d’averci rimesso le cibarie ed il servo!
- secchio s.m. recipiente di materiale vario e di forma troncoconica o cilindrica, talora dotato di coperchio, munito di un manico semicircolare, destinato a contenere liquidi o altri materiali: un secchio di alluminio, di legno, di plastica; il secchio della spazzatura; secchio per il latte. secchio per l’acqua DIM. secchiello, secchietto ACCR. secchione molto usato in senso traslato per indicare nel gergo scolastico, alunno che perviene a buoni risultati grazie all'ostinata applicazione, pur senza brillare per intelligenza, quasi si trattasse di un gran secchio che si lasci riempire di nozioni e/o notizie senza magari comprenderne a fondo significato e/o portata. PEGG. secchiaccio
2 (estens.) la quantità di liquido o di altro materiale contenuta in un secchio: versare un secchio d'acqua.
l’etimo della voce a margine è dal lat. volg. *siclu(m), per il class. situlu(m), var. di situla 'secchia'
la voce corrispondente di secchio nel napoletano è
sicchio s. m. anch’esso derivato dal lat. volg. *siclu(m), lat.; si tratta di un recipiente di materiale vario: alluminio, plastica, banda stagnata e di forma troncoconica o cilindrica, talora dotato di coperchio, munito di un manico semicircolare, destinato a contenere liquidi o altri materiali: i piú comuni sicchi (secchi) in uso nel napoletano sono essenzialmente due: ‘o sicchio pe lavà ‘nterra (il secchio contenente l’acqua usata per lavare i pavimenti) ed ‘o sicchio d’’a mmunnezza (il secchio della spazzatura);
E passiamo ora decisamente al napoletano dove abbiamo, oltre quelle indicate passim in precedenza,altre voci (elencate qui in appresso senza particolare sistematicità); quasi tutte le voci seguenti sono corrispondenti ad un dipresso a quelle dell’italiano or ora elecante; fanno eccezioni due o tre voci (di cui parlerò in coda) che non trovano le corrispettive nell’italiano. Voci corrispondenti sono:
- canisto s.m. corrispondente in tutto alle accezioni della voce canestro dell’italiano con medesimo etimo dal lat. canistru(m)→canistu(m);
Con particolare significazione del napoletano la voce canisto indica pure un tipico incanestrato di vimini senza coperchio e fondo in forma di tronco di cono, provvisto di rotelline, usato come aiuto alla deambulazione dei bambini che imparino a camminare; accanto a tale significazione, ne esiste un’altra tipica e molto nota nel napoletano: ‘o canisto d’’e ffeste ‘e Natale; con tale significato ci si riferiva non ad un particolare tipo di canestro di foggia o materiale diversi da altri, ma ad un’abitudine invalsa nel popolo cioè quella di ricevere in dono dal proprio abituale salumiere di cui si fosse cliente, un cesto provvisto di tipici generi alimentari (salumi, formaggi frutta secca, dolciumi etc.) da consumare durante le festività natalizie; piú spesso però tali generi alimentari (in origine contenuti realmente in un abbastanza capiente canestro (donde il nome, che venne mantenuto anche quando le cibarie furono recapitate al domicilio del cliente non in un canestro (che in ogni caso andava restituito al negoziante..., ma in una semplice scatola di vile cartone) dicevo che spesso tali generi alimentari non erano un vero e proprio dono, ma era semplicemente quanto il cliente riusciva a collezionare ed a prenotare per le festività natalizie facendo segnare dal proprio salumiere, durante gli acquisti fatti nel corso dell’anno, su di un libriccino gestito dal venditore, una cifra variabile corrispondente ad una piccola percentuale sulla spesa sostenuta per gli acquisti giornalieri effettuati; nei giorni antecedenti il Natale, si tirava la somma e tanto maggiore era questa, tanto piú fornito e provvisto sarebbe risultato ‘o canisto.
- canesta s.f. cesto piú ampio del precedente canisto dal quale si differenzia oltre che per l’ampiezza, per il fatto d’avere il canisto un solo manico, mentre la canesta ne à due quanto all’etimo si tratta della femminilizzazione metafonetica del precedente canistru(m)→canistu(m)→canesta(m); seguendo il criterio cui ò già accennato che con una voce femminile si intende un oggetto piú grande di un corrispondente maschile.
Ricordo che un tempo la napoletana canesta oltre alle normali destinazioni d’uso di contenitore di biancheria lavata e ben stirata, o di gran contenitore della biancheria da lavare, se ne ebbe una particolarissima: essa canesta (che peraltro – vedi antea sub cesto al 2 (teat.) – già esisteva nell’uso dei teatranti...) tale seconda canesta ben imbottita e munita di morbide copertine, accanto a quella prima canesta che conteneva il corredo teatrale, funse da portinfante di tutti quei neonati, che poi sarebbero stati ricordati come figli d’arte, di attori o piú spesso attrici che si portavano, fin da piccolissimi,i loro figliuoli tra le quinte per farli respirare la polvere del palcoscenico ed abituarli a quella che poi sarebbe stata (hoc fuit in votis) la futura attività dei neonati;
dubito che tale abitudine fosse comune a tutti i teatranti italiani; per certo lo fu di tutti quelli napoletani! ed ancóra oggi, tra i vecchi attori figli d’arte, se ne può sentir parlare.
Fraseologia: S’è avutato ‘o canisto oppure s’è avutata ‘a canesta! Id est: la faccenda si è rovesciata, la situazione è evoluta in modo incongruo ed inatteso lontano cioè dai normali canoni della vita!
è avutato/ta voce verbale (3° p. sg. pass. pross.) dell’infinito avutà= voltare, girare, cambiare con etimo dal lat. volg. *avolutare, intensivo di volvere 'volgere'
- cascetta s.f.
1 cassa piccola,a forma di parallelepipedo con fondo in vimini intrecciati, ma oggi anche in masonite e/o compensato, mentre le quattro pareti laterali non eccessivamente alte son formate da fascette di midollo ligneo intrecciate; per solito senza coperchio; per estens., il suo contenuto: ‘na cascetta ‘e butteglie, ‘e frutta; ‘a cascetta d’’e llettere, dove si imposta la corrispondenza in partenza o, negli androni delle abitazioni, si riceve quella in arrivo; cascetta ‘e sicurezza, racchiusa nel sotterraneo blindato di una banca, dove il cliente che l'affitta ripone i suoi valori DIM. cassettina
3 nelle carrozze, sedile del cocchiere: stare a cascetta vedi oltre te ne vaje a cascetta!
4 nei banchi dei negozi, botteghini e sim., cassetto o altro contenitore in cui si custodisce l'incasso; per estens., l'incasso stesso,’a cascetta d’’e sorde.
Fraseologia
- Jirsene a cascetta (te ne vaje a cascetta!).
Letteralmente: Andarsene a cassetta. (te ne vai a cassetta!). La cassetta in questione è quella del postiglione o del cocchiere di alte carrozze padronali: il posto piú alto, ma anche il piú scomodo ed il piú faticoso da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la dispendiosità o la fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano.
- cato s.m. bigonciolo, secchio in forma di tronco di cono, ma indefettibilmente con fondo e pareti in doghe di legno (cosa che lo distingue dal secchio che può esser di vario materale...) ed unico manico ad arco in metallo, secchio usato quasi esclusivamente per contenere acqua e dai pescivendoli per tenervi arselle, vongole cozze ed ogni altro mollusco od anche crostacei; l’etimo di cato è dal lat. cadus che è dal greco kadós.
Fraseologia
Lèvate ‘a nante ô cato( fance vénnere ‘o pesce!)
Letteralmente Spòstati, lascia il tuo posto dinnanzi al secchio (lasciaci vendere il pesce!) . L'espressione nella quale viene usato il termine cato in luogo di altro becero (termine che del cato à il medesimo avvio nella prima sillaba), viene usata con risentito fastidio quando si voglia invitare qualcuno ad allontanarsi, a liberarci della sia inopportuna presenza, evitando cosí di infastidire chi sia impegnato in un’operazione che richieda libertà di azione e/o movimento quale è l’attività d’un pescivendolo che davanti al proprio banco non può permettere che degli sfaccendati non intenzionati all’acquisto, stazionino innanzi ai tini ed ai cati brulicanti di crostacei, molluschi o pesci, impedendo forse ad eventuali acquirenti di rendersi conto della bontà della merce in vendita.
coffa s.f. la voce napoletana a margine la si ritrova anche nell’italiano per indicare, nei velieri e anche nelle navi a propulsione meccanica, la piattaforma sopraelevata che s'innesta negli alberi ed è destinata ad accogliere uomini di vedetta, strumenti di segnalazione e talvolta anche armi leggere; tale accezione un tempo fu pure del napoletano, ma poi con essa voce i napoletani d’antan della zona bassa della città indicarono semplicemente un gran paniere o una grande cesta usati quali contenitori di aridi: frutta o granaglie, corrispondenti all’incirca a 45 litri cioè al volume di tre cati da 15 litri. L’etimo della voce coffa è dall’arabo kuffa 'cesta 'ed anche peso, gravame, che è dal gr. kóphinos; cfr. cofano. Manca una fraseologia che chiami in causa la voce coffa, ma in riferimento ad essa, del napoletano, mi piace qui rammentare gli aggettivi scuffato/a e cuffiato/a; cominciamo con
scuffato/a= dal gran culo aggettivo derivato sulla via semantica del pregresso paniere – panaro dal sostantivo kuffa 'cesta'peso, carico + suff. agg.le ato/ata + tipica protesi della esse intensiva napoletana; l’aggettivo scuffato/a è usato quasi esclusivamente in segno di dileggio unito soprattutto ai sostantivi viecchio e vecchia: ‘stu viecchio scuffato – ‘sta vecchia scuffata per indicare un vecchio o piú spesso una vecchia piccoli e grassi, provvisti di un vasto, dondolante deretano.Faccio notare che le voci aggettivali scuffato/a non vanno confuse (come pure inopinatamente fece qualche vocabolarista...e non se ne pentí!...) con gli aggettivi scuffiato/a (=bastonato/a,slombato/a) attestati accanto a scioffato/a nei medesimi significati; tali scuffiato/a-scioffato/a derivano da un lat. volgare *exuffatus/a= dilombato, storpiato e semanticamente non ànno nulla da spartire con scuffato/a né con l’etimo di quest’ultime voci, per cui non comprendo cosa abbia indotto in confusione qualche noto vocabolarista (ma ne taccio il nome: Si dice il peccato e non il peccatore!). Rammento poi per chiudere circa la voce coffa che esiste un’altra voce napoletana da far risalire all’arabo kuffa; si tratta di cuffiato/a= part. pass.di cuffià/cuffiare verbo = corbellare, prendere in giro; per cui cuffiato/a vale schernito/a, preso/a in giro, corbellato/a, come chi fosse caricato di un peso, di un gravame.
E veniamo, infine alle voci napoletane che non ànno le esatte corrispondenti nell’italiano; tra di esse cito in primis:
panariello s.m.= piccolo paniere di vimini intrecciati, in forma di grossa pera, con al vertice un’ imboccatura circolare stretta con un diametro di non piú di 3 centimetri; tale panierino, che non trova un corrispondente nell’italiano, fu ideato e costruito pe far da urna ai novanta cilindretti di legno su ognuno dei quali è inciso un numero dall’ 1 al 90; tale urna bussolotto viene usata nel giuoco della tombola; esso giuco è essenzialmente un gioco familiare (e si svolge con l’estrazione successiva dall’urna suddetta di numeri con la cui sortita si determina la formazione dei gruppi vincenti (ambo (2 numeri disposti sulla medesima riga) – terno (3 numeri disposti sulla medesima riga) e cosí via: quaterno (4 numeri) cinquina o meno correttamente quintina (5 numeri) ed infine tombola (tutti i 15 numeri delle tre file); i numeri sortiti vengono indicati con un segnalino di fortuna (fagioli, ceci, monetine) sulle cartelle che vengono preventivamente acquistate (talvolta per sorteggio) dai giocatori; ogni cartella è formata da quindici numeri disposti in gruppi di cinque su tre file. il ricavato della vendita delle cartelle (detratta – nelle tombole meno familiari – la cosiddetta cagnotta (dal fr. cagnotte): somma dovuta quale percentuale sull’ammontare dei fondi raccolti, al gestore del giuoco) forma per intero il monte dei varî premi ottenibili ed ovviamente i premi sono di valore progressivo partendo dal basso: il meno cospicuo è il premio destinato all’ambo, il piú alto è il premio per la tombola ); esiste poi un particolare giuoco della tombola che è detto tombola figurata (che si differenzia dalla tombola semplice per il fatto che chi estrae i numerini dal bussolotto non annuncia il numero con il suo nome, ma con un significante (ad es.: l’italia =1 – la gatta = 3 – il porco = 4 – la mano = 5 e cosí via per tutti i novanta numeri i cui significanti ò indicato per intero alibi) tale tombola figurata è ancóra in uso nel popolino in particolari ambienti (famosissima la cosiddetta tommola d’’e femmenielle che viene estratta in un famosissimo basso d’un vicoletto dei quartieri spagnoli). Che il panariello sia un’ideazione ed una destinazione d’uso napoletana si evince dal fatto che il giuco della tombola fu ideato a Napoli intorno al 1735 a sèguito di una richiesta del famosissimo padre domenicano Gregorio Maria Rocco (Napoli, 4 ottobre 1700 †Napoli, 2 agosto 1782) frate molto noto sia tra il popolo che a corte, si prodigò a Napoli e provincia in opere di assistenza e di apostolato per alleviare la sofferenza di poveri ed emarginati e combattere il vizio in tutte le sue forme e facendo leva sulla grande la considerazione che gli veniva attribuita, indusse in Carlo III di Borbone l’idea della costruzione del Real Albergo dei Poveri (1751-1829) su progetto dell'architetto Ferdinando Fuga, per dare ricovero ai diseredati. Notissima poi la sua l'iniziativa dell' illuminazione delle strade napoletane, fino allora inesistente, per contrastare i banditi che sul far del buio assaltavano i viandanti. La situazione già critica fin dal tempo del viceregno spagnolo, si era fatta insostenibile dappoiché s’era dimostrato persino vano il tentativo di illuminare le strade con delle lampade ad olio che venivano subito rimosse dai malintenzionati; il padre Rocco ricorse ad un gesto astuto; facendo leva sul sentimento religioso popolare, aveva fatto apporre immagini sacre sui muri delle case, sollecitando i fedeli ad accendere a sera uno o piú lumini innanzi alle effigi; se ne ricavò una illuminazione stradale insufficiente forse, ma funzionale che mantenne il suo scopo fino a tutto il 1 Gennaio 1817 con le prime tracce del gas a Napoli allorché il re Ferdinando I Borbone concesse a Pietro Andevel di Montpellier un "privilegio" per fornire la città di un’illuminazione a gas. Ma non divaghiamo! Torniamo alla richiesta di padre G.M.Rocco che nel 1735, adducendo l’immoralità del giuco del Lotto, ottenne da Carlo III (Madrid, 20 gennaio 1716 †Madrid, 14 dicembre 1788); Carlo era figlio di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese, duchessa di Parma e Piacenza e fu duca di Parma dal 26 febbraio 1731 al 1735 con il nome di Carlo I di Parma, Re di Napoli e Sicilia dal 1735 al 1759 con il semplice nome di Carlo quantunque sia ricordato con il nome di Carlo III (cfr. piazza Carlo III posta alla confluenza di via Foria, C.so Garibadi, Doganella) ottenne, dicevo, che détto giuoco (peraltro ammesso come monopolio del Regno per sostenere le asfittiche casse dell’erario), fosse sospeso durante il periodo natalizio; il popolo ovviamente gradí poco il divieto e si organizzò in proprio, evitando altresí che il Lotto finisse nelle mani della camorra, ideando un giuoco familiare molto simile al Lotto,ma esente dal gravame fiscale, giuoco da farsi durante le festività natalizie in luogo del sospeso Lotto gioco quest’ultimo molto praticato a Napoli e provincia sebbene fosse giuoco non originariamente partenopeo, ma forse milanese o ligure e segnatamente genovese: del suo ideatore tal Cristoforo Taverna, mancano precise notizie biografiche: chi lo dice milanese, chi genovese, ma tutti concordono sul fatto che fosse un banchiere che intorno al 1450 ideò un giuoco a premio (giuoco delle Borse), giuoco in cui v’erano sette premi (o borse) determinati mediante l’ estrazione a sorte di cinque numeri su novanta; gli originarî sette premi (poi portati ad otto con l’introduzione di un’ottava borsa (l’otto donde lotto) che premiava chi indovinasse quindici numeri, furono nell’ordine:
1)primo eletto
2)estratto semplice
3) situato –
4)ambo
–5) terno
–6) quaterno
–7) cinquina
- 8)quindicina.
In origine si ebbe dunque il nome di giuoco dell’otto da cui poi (per corruzione) giuoco del lotto ed infine semplicemente lotto.
- curuoglio/cruoglio s.m.= cercine, panno ravvolto in forma di corona circolare che si mette sul capo per trasportare brocche, cesti o altri pesi; con altra valenza con la voce a margine si indica la parte centrale, il cuore di una lattuga o di un ortaggio simile; come si evince dalla spiegazione che ne ò dato il curuoglio/cruoglio di per sé non sarebbe un contenitore, ma, nel caso migliore (messi da parte parte centrale, cuore di una lattuga) un sostegno di contenitori ed a rigore esulerebbe dalla trattazione; se ne parlo gli è che mi occorse di notare sull’isola di Capri alcune forosette che di ritorno dalla campagna si portavano con baldanzosa sicumera, sistemate con la punta rivolta verso il basso nel vuoto del curuoglio (portato alla sommità del capo e trattenuto – per maggior securtà - con due fettucce annodate sotto il mento) delle uova di galline prelevate nei loro pollai di campagna e portate in paese per esser vendute, convinte – le forosette – che, per l’integrità delle uova, il curuoglio fosse piú sicuro dei tasconi dei loro grembiuli; quanto all’etimo curuoglio/cruoglio inteso come cercine è da collegare al lat. cōrŏllio diminutivo di corolla: cōrŏllio→curuoglio→c(u)ruoglio.
- fescena s.f. tipico cesto di vimini intrecciati, in forma di panciuto tronco di cono con punta aguzza, usato durante la vendiemma per raccogliere l’uva; confesso di non sapere se esiste una precisa parola che corrisponda nell’italiano alla voce napoletana fescena che quanto all’etimo deriva dal lat. fiscina che fu da fiscus= cesto.
Fraseologia:
Fà ‘a primma fescena pampanosa oppure tutta chiaccune
Ad litteram: fare la prima cesta pampinosa o riempire il primo cesto di pampini; id est: cominciar male un’attività, partir col piede sbagliato; locuzione di chiara matrice contadina; la féscena, come ò detto, è il cestino di vimini in cui le vendemmiatrici erano ed ancóra son solite depositare i grappoli raccolti; poteva e può accadere talvolta che, nella foga del primo raccolto, le vendemmiatrici, magari meno esperte, in luogo dei grappoli d’uva, riponessero o ripongano nella cesta un gran numero di pampini fino ad inutilmente e maldestramente riempirla e renderla perciò pampinosa.La locuzione è usata oggi per indicare e dolersi che si è cominciato male una qualsiasi attività e se ne paventa perciò una cattiva evoluzione.
pampanosa agg.vo f.le = eccessivamente ricca di pampini (il pampino dal lat. pampinu(m) è la foglia della vite).
chiaccune s. m. plur.metafonetico di chiaccone=pampino, foglia di vite, tralcio novello e/o secco, sarmento etimologicamente, accrescitivo di chiacco che è lettura metatetica di cacchio s. m. germoglio infruttifero di un albero coltivato, e spec. della vite. voce che penso derivi piú dal lat. capulum→caplum→cacchio cappio che da Lat. catulu(m) 'cucciolo, piccolo d'animale'; semanticamente mi appare infatti piú corretto l’accostamento del tralcio ( spesso nodoso ed attorcigliato) alla figura d’un cappio che a quella d’un cucciolo.
- lancella/langella s.f. capace vaso o piccola brocca muniti o di ansa laterale o di manico semicircolare usati per attingere da corsi d’acqua (con la brocca ansata) o da pozzi (con il vaso provvisto di manico ad arco). Non esiste nell’italiano una specifica voce corrispondente preferendo l’italiano generiche voci quali: vaso, brocca,secchio: l’etimo
della voce a margine è dal lat. lanx – lancis= piatto – vassoio e segnatamente dal diminutivo lancella attestato accanto a lancula; normale nel napoletano l’alternanza della occlusiva velare sorda c con la occlusiva velare sonora g.
Fraseologia:
- Chiove a lancelle
Piove a catinelle;
-Tanto va 'a lancella abbascio ô puzzo, ca ce rummane 'a maneca.
Letteralmente: tanto va il secchio al fondo del pozzo che ci rimette il manico.
Il proverbio con altra raffigurazione, molto piú icastica, ripete il toscano: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e ne adombra il significato sottointendendo che il ripetersi di talune azioni, a lungo andare, si rivelano dannose per chi le compie. La lancella, come ò già detto è propriamente un secchio atto ad attingere acqua dal pozzo, secchio provvisto di doghe lignee nel fondo e sulle pareti e di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal secchio.
spasa s.f. ampio contenitore rettangolare o anche ovale di vimini intrecciato, a fondo piatto con sponde pronunciate, fornito di due manici, usato essenzialmente per contenere la biancheria stesa ad asciugare, una volta che il vento ed il sole abbiano fatto il loro dovere; reputo che tale contenitore sia in uso quasi esclusivamente nei paesi campani dove ancóra perdura l’abitudine di sciorinare i panni sul logge o lastrici solari, cosa che comporta la necessità – una volta che essi siano asciutti di ritarli, magari piegarli in loco, sistemarli in una cesta ad hoc e portarli in casa.
la voce a margine à l’etimo nel lat. neutro plur. expa(n)sa =cose distese part. pass. del verbo expandere, ed in effetti la voce a margine oltre ad indicare la cesta che contiene i panni indica pure il complesso, l’insieme dei panni stesi ad asciugare. La voce che segue (tipica del napoletano) quanto all’etimo risulta essere un diminutivo della voce or ora esaminata; ma ciò può indurre in errore; in effetti la successiva voce non è una piccola cesta per i panni, è cosa affatto diversa:
-spasella s.f. tipico piccolo e leggero contenitore di midollo ligneo intrecciato, in forma di vassoio rettangolare a sponde basse,privo di manici contenitore in uso tra i pescivendoli campani per esporvi la merce sistemata ordinatamente ed agghindata con ciuffi di alghe marine; è un contenitore che per avere l’intreccio a maglie piuttosto larghe ben si presta a far passare l’acqua usata per spruzzare il pesce contenuto nella spasella, al fine di mantenerne o rinverdire la freschezza.
Quanto all’’etimo la voce a margine risulta – come ò detto - essere un diminutivo (cfr. il suff. ella) della precedente spasa quantunque non si tratti di un cestello per i panni.
E qui penso di potermi fermare convinto d’avere ad abundantiam soddisfatto l’amico Edoardo e chi mi leggerà.
Per cui penso di poter dire: Satis est.
raffaele bracale
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