giovedì 7 ottobre 2021

IL VERBO SMUCENIÀ

 

IL VERBO SMUCENIÀ

Mi è stato chiesto, via e-mail,  dal  caro amico A. P. (i  consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) di spendere qualche parola per illustrargli il significato del verbo  in epigrafe.L’accontento precisando súbito a lui ed a qualcun altro dei miei ventiquattro lettori che è vano cercare il verbo in esame nei piú usati ed accorsati calepini o lessici  dell’idioma napoletano. Tutti i lessicografi lo ànno snobbato, non l’ànno [colpevolmente!] preso  in considerazione, ostentandone disinteresse ed  indifferenza; eppure si tratta di un iconicissimo verbo che avrebbe meritato una buona considerazione, quella che qui gli riservo. E pazienza se son solo tra gli appassionati a farlo! Si tratta di un verbo quasi del tutto  assente negli scritti degli autori partenopei, ma usatissimo nel parlato dei napoletani d’antan che lo usarono ed ancóra lo usano per identificare l’azione di chi mesta e rimesta inutilmente in un quid [e segnatamente in un piatto di cibarie] non allo scopo di cercare qualcosa, ma quasi con l’intento di voler rendere inservibile il quid [e nel caso del cibo di non renderlo appetibile…]. Etimologicamente reputo che il verbo derivi  dal lat. tardo machināre addizionato di una S (intensiva) in posizione protetica e di una I (durativa) atona:smac[h]iniare→smucinià→smucenià.    E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A. P.  ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.

 Raffaele Bracale

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