mercoledì 9 settembre 2015
VARIE 15/607
1 NÈ FFEMMENA, NÈ TTELA A LUME DE CANNELA.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
2 MEGLIO 'NU CANTÀRO 'NCAPA CA N'ONZA 'NCULO!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
La voce cantàro (dall’arabo quintar) significa quintale; qualche sprovveduto ritraendo l’accento la legge càntaro (che è dal lat. cantharu(m) a sua volta dal greco kàntharos)e significa pitale) rovinando il significato dell’espressione nella quale in origine si pongono giustamente a paragone due pesi: cantàro (quintale) ed onza (oncia), mentre nella lettura stravolta si porrebbero a paragone due entità incongruenti: un peso(oncia) ed un pitale
3 CHI TÈNE BBELLI DENARE SEMPE CONTA, CHI TÈNE 'NA BBELLA MUGLIERA SEMPE CANTA.
Letteralmente: chi à bei soldi conta sempre, chi à una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per molto che ne sia non ti dà la felicità, che si può ottenere invece avendo una bella moglie.
4 DICETTE 'O PUORCO 'NFACCI' Ô CIUCCIO: MANTENIMMECE PULITE!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. E' l'icastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme 'o puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)
5 DICETTE PULICENELLA: NCE SO' CCHIÚ GGHIUORNE CA SACICCE.
Disse Pulcinella: ci sono piú giorni che salcicce. È l'amara considerazione fatta dal popolo, ma messa sulla bocca di Pulcinella, della cronica mancanza di sostentamento e per contro della necessità quotidiana della difficile ricerca dei mezzi di sussistenza.
6 CHI 'A FA CCHIÚ SPORCA È PPRIORE.
Letteralmente: chi la fa piú sporca diventa priore. Id est: chi si comporta peggio è gratificato con il massimo premio. L'esperienza popolare insegna che spesso si è premiati oltre i propri meriti.
7 DICETTE PULICENELLA: I' NUN SO' FESSO,
MA AGGI' 'A FÀ 'O FESSO, PECCHÉ FACENNO 'O FESSO, VE POZZO FÀ FESSE!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che se non mi comportassi da stupido non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido!
8 DICETTE A PULLICENELLA: ‘O PIZZO CCHIú SCURO È ‘O FUCULARE.
Letteralmente: Disse (il padrone) a Pulcinella: Il posto piú oscuro è il focolare... Id est la miseria è tanta ed incombente al segno di non potersi permettere né di illuminare adeguatamente, né di accendere un fuoco per approntare il desinare. L’espressione in origine (con riferimento alla situazione di una farsa di A. Petito donde era tratta la battuta rivolta a Pulcinella dal suo padrone Pancrazio) era inerente al semplice fatto che il servitore stesse perdendo tempo e non procedesse con sollecitudine al lavoro cui era stato adibito (preparare il cibo). Successivamente l’espressione fu usata, per traslato ed in modo figurato nel senso suddetto significante che la miseria sia tanta ed incombente.
pizzo s.vo m.le interessantissima voce che non solo nel napoletano, ma anche nell’italiano che dal napoletano li à mutuati, à molti significati; e sono: 1. 1. (con accezione generica), estremità appuntita di qualche cosa, cocca, lembo, orlo, trina, merletto: il p. del fazzoletto, della camicia; un cappello a due, a tre p., a due, a tre punte;
2. punto estremo : sedere in pizzo (alla sedia, a una panca, al letto, ecc., o sulla sedia, ecc.), sull’orlo, sull’estremità. etimologicamente nei significati riportati si tratta di voce di origine espressiva
3. (come nel caso che ci occupa) posto, luogo generico. etimologicamente in tale significato è voce mutuata dal siciliano quale forma accorciata di capizzu→(ca)pizzu→pizzo «capezzale», passato a indicare il posto dove si colloca il letto, dove ci si corica, inteso come luogo dove si trova tranquillità e sicurezza e poi genericamente luogo.
4. (gerg) somma estorta da un'organizzazione mafiosa a commercianti e imprenditori. In tal senso la voce etimologicamente è da pizzo 'estremità, lembo', quindi 'parte marginale, parte, quota'.
fuculare s. m.
1 (come nel caso che ci occupa)parte inferiore del camino, formata da un piano di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco
2 (fig.) la casa, la famiglia:
3 (tecn.) negli impianti a combustione, la parte in cui brucia il combustibile; (voce dal tardo neutro latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ).
9 MONECA 'E CASA: DIAVULO ESCE E TTRASE, MONECA 'E CUNVENTO: DIAVULO ÒGNE MMUMENTO.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile.Nella locuzione si ipotizza che tutte le monache tengano comportamenti licenziosi e per estrema irriverenza si sostiene che a tenere i comportamenti piú dissoluti siano proprio le donne consacrate. Le monache di casa erano a Napoli quelle attempate signorine che, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; per ciò che attiene il convento è da pensare che la locuzione faccia riferimento non a tutte le monache consacrate, ma a quelle del convento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca e successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da molte suore ivi ospitate.
10.FRIJERE 'O PESCE CU LL' ACQUA.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
11. MEGLIO 'NA MALA JURNATA, CA 'NA MALA VICINA.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
12.CU CHESTU LIGNAMMO SE FANNO 'E STROMMOLE.
Letteralmente: con questo legno si fanno le trottoline. Id est: Non attendetevi risultati migliori, perché con quel materiale che ci conferite non possiamo che fornirvi cose senza importanza e non altro! In una seconda valenza la locuzione sta a significare: badate che ciò che ci avete richiesto si fa con questo (scadente) materiale, non con altro piú pregiato...
13.NAPULE FA 'E PECCATE E 'A TORRE 'E SCONTA.
Letteralmente: Napoli pecca e Torre del Greco è punita. La locuzione è usata a significare l'incresciosa situazione di chi paga il fio delle colpe altrui. Nel merito della locuzione: per mera posizione geografica e a causa dei venti e delle correnti marine, i liquami che Napoli scaricava nel proprio mare finivano, inopinatamente, sulla costa di Torre del Greco, ridente località confinante col capolugo campano.
14.A - COMME PAVAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO. B - POCU PPANE, POCU SANT'ANTONIO.
Letteralmente: A - Come pagherai, cosí dipingerò. B - Poco pane, poco sant'Antonio. Ambedue le locuzioni adombrano il principio di reciprocità insito nel sinallagma contrattuale, per il quale il do è commisurato al des; id est: non si può pretendere un corrispettivo superiore alla retribuzione. La locuzione sub A ricorda l'iscrizione posta da tale F. A. S. GRUE dietro il celebre albarello di san Brunone; mentre quella sub B ripropone la risposta data da un pittore a certi frati che gli avevano commissionato un quadro raffigurante sant'Antonio. Alle rimostranze dei frati che si dolevano della lentezza del pittore nel portare innanzi l'opera commissionata, il pittore rispose con la frase in epigrafe (sub B)dolendosi a sua volta dell'esiguità della remunerazione.
albarello o alberello o anche albarella è un vaso cilindrico, per lo piú di maiolica,variamente decorato usato nelle vecchie farmacie ed il nome gli deriva dal fatto
15. S' È FFATTA NOTTE Ô PAGLIARO.
Letteralmente: E' calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è mmale servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
16.QUANTO È BBELLO E 'O PATRONE S''O VENNE!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
17. ESSERE A LL'ABBLATIVO.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere ormai alla fine, ineluttabilmente alla conclusione dell’opera intrapresa; si è fatto tutto ciò che che si poteva fare; per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.
18. ESSERE MURO E MMURO CU 'A VICARIA.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 in poi ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
19. CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
20. SÎ ARRIVATO Â MONACA ‘E LIGNAMMO.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali e dove prestava servizio il famoso Giorgio Cattaneo, da cui il s.vo mastuggiorgio (cfr. alibi) .
21. STAMMO A LL'ERVA.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente détta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
22. HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
23. CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MURÍ QUATRO.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
24. A CHI PARLA ARRETO, 'O CULO LE RISPONNE.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
25. A CCRAJE A CCRAJE COMME Â CURNACCHIA.
Letteralmente: a cra, a cra come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia [cra-cra] e la parola latina cras che in napoletano è resa con craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non abbia seria intenzione di lavorare .
26. CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
27. 'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
28. 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
29. JÍ METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
30. SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti ed i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata a mo’ d’avvertimento quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
31. PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA!
Letteralmente: parla quando orina la gallina.Id est: Zittisci! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini e/o magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.
32. PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
33. CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
34. CESSO A VVIENTO!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, per consentire un agevole ricambio d'aria, sia in alto che in basso.
35. 'A MALORA 'E CHIAJA.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
36. FARNE UNA CCHIÚ 'E CATUCCIO.
Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon (La Courtille, Belleville, 1693 -† Parigi 1721).Costui, figlio d'un bottaio, lasciò gli studi intrapresi presso i gesuiti, per darsi alla malavita e divenne protagonista, durante una dozzina d'anni, di furti e avventure d'ogni sorta, che resero la sua biografia popolare in tutta Europa . Questo celebre brigante venne soprannominato Cartouche, nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. Arrestato, fu giustiziato nella piazza di Grève. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
37. ESSERE PASSATA 'E CÒVETA O 'E CUTTURA.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare.
38. QUANNO 'O DIAVULO T'ACCAREZZA È SSIGNO CA VO’ LL'ANEMA.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.
39. È GGHIUTO 'O CCASO 'A SOTTO E 'E MACCARUNE 'A COPPA.
Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
40. DOPPO MUORTO, BUZZARATO.
Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un anonimo prelato napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere effettivamente morto.
41 TROPPI GALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
42 NUN C'È PRERECA SENZA SANT' AUSTINO.
Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
43. TENÉ DDOJE FACCE, COMME A SAN MATTEO
Con questa espressione s’usa riferirsi ad una persona ipocrita o dalla doppia vita.Per il vero nessun testo biblico attesta che il santo evangelista fósse un ipocrita o dalla doppia vita, se si esclude il fatto che Levi [questo era il nome di Matteo allorché svolgeva la professione di pubblicano] chiamato dal Signore abbandonò la propria attività per seguire il Cristo cambiando vita e nome; questa evenienza altamente positiva non può aver ispirato l’espressione chiaramente negativa. Il bandolo della matassa sta nel fatto che il san Matteo, a cui si fa riferimento nell’espressione, è quello realizzato da Michelangelo Naccherino(Firenze 1550 - †Napoli 1622).[ Allievo a Firenze del Giambologna, ne trascrisse i moduli in un'ampia produzione per la quale si avvalse anche di una operosa bottega. Nel 1573, dopo una permanenza in Sicilia, si stabilì a Napoli, dove, nominato scultore di corte, scolpí con grazia decorativa monumenti funebri (tomba Pignatelli in S. Maria dei Pellegrini; tomba Caniglia in S. Giacomo degli Spagnoli) e statue (Madonna delle Grazie in S. Giovanni a Carbonara etc.]. La statua del san Matteo, tuttora conservato sull’altare della cripta del Duomo di Salerno, è stranamente bifronte e la si può vedere da entrambi i lati dell’altare e non è peregrina l’idea che lo scultore nel realizzarla abbia utilizzato una precedente opera di bottega raffigurante un Giano bifronte.
Brak
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