venerdì 2 dicembre 2016
Vrie16/963
1. ESSERE RICCO ‘E VOCCA.
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca.
2. ESSERE N’ ACCA ‘MMIEZO Ê LLETTERE oppure N’ ÍCCHESE DINTO A LL’AFFABBETO.
Ad litteram: essere un’acca fra le lettere oppure una ics nell’alfabeto Id est: non contare nulla, essere una nullità assoluta, valere quanto uno zero e non servire che poco o nulla al pari della muta acca che è solo una consonante di tipo diacritico o , peggio ancora, valere quanto la consonante ics che non è usata né in italiano, né in napoletano e che a stento serve per connotare un’incognita.
3. ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum
Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
4. FÀ ABBATE A QUACCHEDUNO.
Ad litteram: fare abate qualcuno; id est: gabbare, imbrogliare, ingannare chi sia sciocco e credulone.Un tempo per ricevere la nomina ad abate non occorreva si fosse in possesso di grandi doti intellettive, o di particolari meriti; spesso anzi piú si era stupidi piú si avevano probabilità d’esser nominati; la locuzione prende a suo fondamento proprio l’evenienza qui ricordata.
5. FÀ ‘A CHIERECA Ê SCIGNE.
Ad litteram: fare la tonsura alle scimmie; id est: applicarsi ad un’operazione inutile, assolutamente balorda e certamente improduttiva.
6. FÀ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE.
Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa quale, ingiustamente, si riteneva fosse quella svolta dai sacerdoti al segno che, altrove si diceva che se il lavoro fosse stato una cosa buona, lo avrebbero fatto i preti.
7. FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro...
8. FÀ ‘ALLICCAPETTULE.
Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi davanti al potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore della camicia nominata eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui detta falda insiste.
9. FÀ ‘O SPALLETTONE oppure al femminile ‘A CCIACCESSA
Espressione intraducibile ad litteram in quanto in italiano manca un vocabolo unico che possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe.
Ciò premesso, dirò che esiste, o meglio, esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè tutto un vasto ventaglio di significati. E’ il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso ingloba.
In primis dirò che con esso vocabolo si indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria considerazione.
Piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine in epigrafe, che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di imporre la propria presenza dispensando ad iosa consigli non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe.
Premesso che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento alla lingua parlata, ma esclusivamente a quella scritta nei classici partenopei, va da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici.
Orbene reputo che essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della S non eufonica, ma intensiva partenopea, l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo ONE.
Per concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e cioè con il termine: parlettiere.
Va da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile;
esiste però un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C: cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su di un iniziale ciarlare.
10. FÀ ‘AMMORE CU ‘E MONACHE.
Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare l’irrealizzabile come sarebbe il godere dei favori di una suora.
11. FÀ LL’ARTA LEGGIA.
Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività occorre aver leggerezza di mano ed accortezza di modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte quasi che occorra essere degli artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria in simili pur truffaldini mestieri: solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può poi lanciarsi nella mischia e sperare di conseguire risultati adeguati alla stregua di un vero artista.
12. FÀ LL’ARTE D’’O SOLE.
Ad litteram: fare l’arte del sole; id est: darsi alla bella vita, magari condita di disimpegnati amori, godendosela senza intralci o preoccupazioni, alla stregua del sole che una volta che sia sorto, può tranquillamente mirarsi il creato, senza problemi o altre faticose incombenze.
13. FÀ LL’OPERA D’’E PUPE
Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura per conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole marionette che vengono manovrate dal basso tenendole infilate sulla mano a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe, quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia evolvendo pericolosamente può accadere che quello degli interlocutori dotato di maggior buona volontà possa invitare l’altro interlocutore a recedere dalla discussione con il dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!).
14. FÀ MMIRIA Ô TRE BASTONE
Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni. Detto ironicamente di una donna che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore al segno di detestar l’invidia del tre di bastoni la carta da giuoco del mazzo di carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un vistoso mascherone , provvisto di suo di consistenti baffoni a manubrio.
15. FÀ MARENNA A SSARACHIELLE
Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la cinghia, esser costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione di piccole aringhe salate ed affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti della congrua salatura. La locuzione è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro azioni sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui riportato.
16. FÀ ‘A TREZZA D’’E VIERME.
Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim a Napoli, si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti, se fossero stati presi da grande spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di vermi organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva a sostanziose somministrazioni di aglio da ingerire crudo; ragion per cui era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
17. FÀ SPUTAZZELLE ‘MMOCCA.
Ad litteram: fare l’acquolina in bocca La locuzione richiama, molto piú veristicamente dell’italiano, quelle situazioni in cui alla vista di cose piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa naturaliter allorché ci si trovi al cospetto di un appetitoso manicaretto la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna desiderabile ed appetibile al pari di una succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto che la bella donna posson far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far fare sputazzèlle.
18. FÀ O ESSERE CARTA ‘E TRE (o meglio) ‘E TRESSETTE
Ad litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio) di tressette; id est: essere o comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi a tutti gli altri o per naturale carisma o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la carta di tre o tressette è colui che con ogni mezzo, lecito o meno che sia riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è mutuata dal giuco del tressette giuoco di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante e poi dal sette fino al quattro secondo l’ordine decrescente;dal che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e a ciò si riferisce la locuzione in epigrafe.Talvolta però l’espressione viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità intellettuali, tenti di atteggiarsi ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole raccomandar: nun fà ‘a carta ‘e tre ossia evita di assumere atteggiamenti da carta ditre (quella vincente al giuoco del tressette.)
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