FÁ 'O PARO E 'O SPARO
Ad litteram: fare a pari e dispari; id est:tentennare, non prendere
decisioni, essere eternamente indecisi ed affidar tutto, per non assumer
responsabilità, all'alea della sorte.
PAVÀ O FÁ PAVÀ ‘E PERACOTTE
Letteralmente: pagare o far pagare le pere cotte.
Presa nel suo significato letterale, l’espressione a margine significa ben
poco e va da sé che occorre, per intenderla, andare alla ricerca di un
qualche nascosto significato.
Comincio col sottolineare che il verbo pavà = pagare dell’epigrafe – cosí
come letteralmente tradotta - non può essere inteso nel comune senso di corrispondere una somma di denaro per
beni acquistati, servizi ricevuti, obbligazioni contratte e sim. cosí
come normalmente è inteso il verbo pavà = pagare che dal lat. pacare
'pacificare'e cioè porre in pace cioè mettere in parità prestazione e controprestazione
(da notare che la consonante
etimologica c, occlusiva velare sorda,come la corrispondente occlusiva
velare sonora g, nel napoletano
divengono spesso (sia pure non
sempre) v (come in fravula che è da fragula(m)
con consueta alternanza partenopea
della c o della g con la v o altrove al contrario della v con
la g come ad es in guappo che è dal latino vappa; cfr.anche volpe/golpe, vunnella/gunnella,vulio/gulio,
vongola←concula etc. ;) quella v che è invece la
consonante fricativa labiodentale sonora
che nel napoletano di solito si alterna con la b consonante
occlusiva bilabiale sonora) dicevo che il verbo pagare deve essere qui inteso nel senso estensivo e figurato di temere, scontare, espiare;
l’espressione in effetti vale, nel suo significato recondito: temere, oppure minacciare di andare
incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far
sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui.
Proprio in ragione di tale interpretazione, la scuola di pensiero piú
comune interpreta sbrigativamente, ma – a mio avviso – poco
convincentemente il termine peracotte= pere cotte nel non meglio chiarito
senso di percosse , atteso che non vedo (se si eccettua un tenue ed
inconferente bisticcio fonetico…) cosa possa mettere in rapporto squisitezze gastronomiche quali sono le
pere in giulebbe, con l’amarezza delle percosse .A mio avviso, pur non
mutandosi il significato nascosto dell’espressione in esame che sta per
temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe
punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di
malefatte proprie o altrui, il termine peracotte non deve intendersi
come agglutinazione di pere cotte, quanto come corruzione della voce peraconne = ippericon pianta medicinale, nota anche
con il nome di erba di san Giovanni
con proprietà astringenti e/o
decongestionanti .
Mi sembra che accogliendo tale mia originale proposta si possa innanzi tutto restituire
il significato primo al verbo pavà=pagare nel senso che l’espressione a
margine sostanzierebbe piú chiaramente la situazione incresciosa o di chi
si trovasse, per problemi di salute, costretto a far ricorso all’acquisto
di medicinali derivati dalla pianta di ippericon (che,come chiarisco qui di
sèguito dà l’etimo a peraconne)
o la ancóra piú incresciosa situazione di colui cui siano stati
indotti problemi di salute da parte
di chi lo metta nella condizione di ricorrere all’acquisto di medicamenti,
facendogli pagare ‘e peracotte= peraconne (medicine derivate
dall’ippericon.); dal punto di vista etimologico rammento che in napoletano
le parole derivate da voci straniere terminanti per consonante di solito
comportano il raddoppiamento espressivo della consonante e la paragoge di una vocale finale semimuta;non esistono quasi eccezioni a
questa regola: rammento appena le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn
= alla carlona, voci che sono
corruzione del francese sans façon
(senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del
napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere
il lusso di terminare per
consonante in luogo di una consueta
vocale evanescente paragogica finale
(e/a/o)
e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci
si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne
o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram e come è successo
qui che da ippericon si è
pervenuti a (ip)peraconne.
FÁ PALLA CORTA
Ad litteram: fare
la palla corta Id est: mancare
il fine prefissato, non giungere al risultato per avere errato nel conferire la forza necessaria affinché
si potesse raggiungere lo scopo; con altra valenza riferito ad uno
che infastidisca, vale: con le tue
richieste e/o parole non otterrai nulla di ciò che vuoi: non sei convincente, né induci a prestarti fede
e/o aiuto! La
locuzione è mutuata dal
giuoco delle bocce o del bigliardo, giochi
nei quali la biglia (palla) messa in giuoco può mancare di raggiungere il punto
voluto e risultare corta se, per conclamata imperizia, nel lanciarla il giocatore non vi à
impresso la necessaria e giusta spinta.
Palla s.vo f.le 1 corpo di forma sferica: una palla di
ferro, di marmo, di vetro, di neve ' le palle
degli occhi, (fam.) i globi oculari | palla di lardo, di
grasso, (fig.) persona molto grassa.
2 sfera di gomma, cuoio, legno o altro materiale, con cui si gioca: palla
di biliardo, da tennis; giocare a palla | battere la
palla, nel tennis e in altri giochi, iniziare a giocare | palla-goal,
nel calcio, palla che può essere con facilità inviata in rete ' prendere,
cogliere la palla al balzo, (fig.) sfruttare al volo
un'occasione propizia ' essere, sentirsi in palla, (fig.)
in forma, in giornata buona
Voce dal long. *palla
con medesima radice di balla
Corta agg.vo f.le1 di
poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale: la via più corta per
arrivare; capelli (tagliati) corti; armi a canna corta; calzoni,
pantaloni corti, al di sopra del ginocchio; maniche corte,
sopra il gomito; mi va, mi sta corto, si dice di indumento
che non raggiunge la misura giusta, soprattutto delle gambe e delle braccia
| palla (tirata) corta, che non arriva a destinazione | andare
per le corte, sbrigarsi, venire al dunque | venire alle corte,
concludere qualcosa in fretta; alle corte!, veniamo al sodo! | l'ultimo
a comparir fu gamba corta, (scherz.) si dice a chi arriva per
ultimo.
2 che non dura a lungo; breve, conciso: una visita corta, una
risposta corta | settimana corta, settimana lavorativa di cinque
giorni, da lunedì a venerdì
3 (estens.) insufficiente, scarso, poco dotato
Voce da un lat. *curta(m)
marcata sul m.le curtu(m).
FÁ ZITE E MURTICIELLE E BATTESIME BUNARIELLE.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi
abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente
invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni,
come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si
svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai
di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata
che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché,
dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del
defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose
portate di pesce fresco di cui ovviamente profittavano anche chi aveva
partecipato alla cerimonia funebre.
FÁ SCENNERE 'NA COSA
DÊ CCÓGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una
cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli
si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare
prima di concedere al richiedente un quid sia esso un'opera o una cosa
lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento
stantene la augusta (che in realtà è
falsa) provenienza.
coglie s.vo fem.le
pl. di coglia = testicolo derivato dal lat. volg. *colea(m); la voce coglia con il suo plurale coglie è attestata nel parlato
popolare della città bassa come alternativo di coglione e del pl. metafonetico
cugliune usati piú spesso
come voci offensive
AbramoAvraham,
"Padre di molti popoli";è il primo patriarca
dell'Ebraismo, del Cristianesimo e dell'Islam. La sua storia è narrata nel Libro della Genesi ed è ripresa nel Corano. Secondo Gen17,5 il suo nome originale Avram, poi
cambiato da Dio in Avraham; è considerato dall’Islam antenato del popolo
arabo, attraverso Ismaele. L'Ebraismo, il
Cristianesimo e l'Islam (détte religioni
abramitiche) proclamano tutte una loro presunta discendenza comune da
Abramo.
Non esistono tuttavia
altre testimonianze
storiche della sua esistenza
indipendenti dalla Genesi, quindi non è possibile sapere se fu una reale
figura storica. Se lo fu, visse tra il ventesimo
ed il XIX secolo a.C. L’episodio piú significativo
riguardante la vita di Abramo si riferisce alla richiesta fattagli da Dio
di sacrificargli l’unico figlio Isacco generato ad Abramo in vecchiaia da
sua moglie Sara. Abramo, seppur a malincuore, accettò. Mentre legava Isacco
per il sacrificio, però, apparve un angelo che gli
disse di non far male a suo figlio e che Dio aveva apprezzato la sua
ubbidienza, benedicendolo "con ogni benedizione".
FÁ ‘E SSETTE
CHIESIELLE.
Letteralmente:
visitare le sette chiesine ovvero per traslato : andarsene in giro per
le case altrui senza uno specifico motivo, ma solo per il gusto di
intrattenersi negli altrui domicili,
nella speranza - magari - di
scroccare un pranzo, o quanto meno un caffé che a Napoli non si rifiuta a
chicchessia. Detto anche di chi, prima di decidersi a fare un acquisto
visita innumerevoli negozi per informarsi sui prezzi dell’articolo cercato,
per confrontarli e metterli a paragone.
Originariamente le
sette chiese della locuzione sono sette bene identificati luoghi di
culto e cioè nell’ordine: Spirito santo, san Nicola alla Carità, san
Liborio alla Pignasecca, Madonna delle Grazie, santa Brigida, san
Ferdinando di Palazzo e san Francesco di Paola, quelle chiese cioè che
tutti i napoletani andando dalla
odierna piazza Dante (anticamente Largo del Mercatello) a piazza del
Plebiscito (l’antico Largo di Palazzo) percorrendo la centralissima strada
di Toledo, sono soliti visitare durante il cosiddetto struscio la rituale passeggiata che si compie il giovedì santo , durante
la quale si “visitano” i cosiddetti sepolcri ovvero le solenni esposizioni
dell’Eucarestia che si tengono in ogni chiesa di culto cattolico.Dal fatto
che le chiese incontrate nel rituale tratto dello struscio fossero
sette si instaurò la consetudine pseudo-religiosa che i
cosiddetti sepolcri da visitare
dovessero essere in numero dispari e qualche devoto poco propenso a
camminare per ottemperare a tale pseudo-precetto si recava nella chiesa piú vicina alla
propria abitazione e vi entrava ed usciva
sette volte di fila per biascicare orazioni, ritenendo in tal modo
di aver fatte le rituali dispari visite previste.
FÁ LL’AMICO E ‘MPRENÀ
‘A VAJASSA.
Ad litteram: fare
l’amico ed ingravidare la serva id est: comportarsi da “doppiogiochista”,
da falso amico come chi , atteggiandosi ad amico, frequenti una casa ed in luogo di ricordi
amicali lasci la fantesca di casa ingravidata, profittando della libertà che si usa
concedere agli amici.
amico = amico,animato da
amicizia, benevolo agg.vo e s.vo m.le
dallat. amicu(m), deriv. di amare
‘mprenà= ingravidare, render
pregna voce verbale infinito dal lat. tardo impraegnare 'rendere
gravida', comp. di in illativo
e un deriv. del lat. volg. *praegnu(m), che diede il
napoletano prena= ingravidata;
vajassa = serva, fantesca Etimologicamente il termine vajassa è dalla voce araba
baassa pervenutaci attraverso il francese bajasse: fantesca,
donna rozza e un po’ sporca, ed estensivamente donna del popolo villana e gridanciana; dalla medesima voce bajasse il toscano trasse bagascia
= meretrice.
FÁ ‘A FATICA D’’E
PRIEVETE.
Ad litteram: fare
il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non
impegnativa quale, ingiustamente, si
riteneva ed ancóra si ritiene che fosse e
sia quella svolta dai
sacerdoti al segno che, altrove si
dice che si ‘a fatica fosse bbona ‘a
faccesro ‘e prievete (se il lavoro
fosse una cosa buona, lo
farebbero i preti).
Fatica s. f. sinonimo di
lavoro, impegno quantunque di per sé il termine fatica connoti il semplice
lavoro, ma uno sforzo fisico o
intellettuale che genera stanchezza, quella
che nasce da un'attività fisica o psichica troppo intensa o
prolungata; l’etimo è dal lat. volg.
*fatiga(m), deriv. di fatigare 'prostrare, stancare';
prievete s. m. plurale metafonetico
di prevete: prete,presbitero, sacerdote, uomo
consacrato, addetto al culto, che
abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il
napoletano prevete da cui poi per sincope della sillaba
implicata ve si è
probabilmente formato il toscano
prete è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú
anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prevete partendo da
presbyteru(m) è la seguente:
presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
FÁ TRE FFICHE NOVE ROTELE
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti
bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera e si ammanti di meriti che non possiede,
né può possedere.
Per intendere appieno la valenza
della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del
Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli
e suo circondario, 890
grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli
a circa 8 kg.
ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a
pesare 8 kg.
Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora
oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al
Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine
dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca
LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso;
la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in
Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come
tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà
dell'antico rotolo napoletano.
FÁ FETECCHIA:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati
nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia,
scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che
giunto a maturazione esplode silenziosamente emettendo le spore; col
termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato
altresì lo scppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e più in generale
un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno
risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo
prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri
significati c’è una sorta di non
olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino.
FÁ QUATTO CIAPPETTE.
Letteralmente: fare
quattro ciappette. Id est: compiere un lavoro in maniera rabberciata e disimpegnata ; detto soprattutto di
lavori che impegnano poco le braccia
e molto la mente, lavori che però siano fatti con poca attenzione e
dedizione e se ad es. si tratta di vergare uno scritto, lo si fa
servendosi di concetti triti,
ripetitivi e striminziti, vergati
alla meno peggio, , messi in fila in
maniera abborracciata, quasi
automaticamente conseguenziali, non supportati da idee nuove, ma farciti di
ovvietà noiose e monotone. Con altra valenza leggermente differente, ma
corposamente sarcastica il concetto
in epigrafe viene riferito, con una tipica espressione che è: Sape
fá quatte ciappette!, a chi saccente e supponente, faccia le viste,
al contrario, di essere molto
colto, di conoscere tutte le
evenienze del vivere vantandosi di possedere conoscenze in vasti campi
dello scibile umano, laddove in realtà
tutta la sua cultura e tutte
le sue conoscenze si riducono a pochissime nozioni trite e ritrite, ovvie,
non originali, noiose e monotone
spesso non accompagnate da autentica e conclamata scienza e/o esperienza,
ma fondate esclusivamente sul sentito
dire. o sui manualetti di pronto impiego di talune professioni e
non le specifico per non incorrere nelle ire di amici e/o parenti...
La parola ciappetta
di per sé non è che il
diminutivo di ciappa s f fibbia, fermaglio, borchia voce pervenuta nel napoletano attraverso
lo spagnolo chapa derivato del
lat. capulum attraverso un plurale metatetico, inteso
poi femminile, regionale *clapa→chiapa→chapa.
Va da sé che semanticamente è quasi impossibile
collegare il concetto di un piccolo fermaglio, una piccola fibbia o una borchietta con l’idea di nozioni
trite e ritrite, ovvie noiose e monotone. Ma la cosa si può risolvere
seguendo quella che fu l’originaria
formulazione dell’espressione in epigrafe, espressione che purtroppo, nessuno mai degli addetti ai lavori si è
peritato di prendere in considerazione od esame. Lo faccio qui di
sèguito,pur non essendo un paludato o patentato addetto, augurandomi di
fare cosa gradita a chi mi leggerà.
In origine infatti nelle
isole al largo di Napoli (dove l’espressione nacque) non si usò l’espressione Sapé fá quatte ciappette ma s’usò dire Sapé fá quatte scippe sciappe con riferimento a chi avesse imparato a
fare appena pochi tratti di penna (scippi) e si vantasse, chiaramente a
torto, di essere molto istruito;
quando poi l’espressione Sapé fá quatte scippe sciappe approdò a Napoli fu trasformata in Sapé fá quatte cippe ciappe e ciò perché probabilmente le voci scippe
sciappe (di cui la seconda non corrispondeva né ad un oggetto, né ad
una idea, ma era stata ricavata da scippe
(plurale di scippo (deverbale del
lat. ex-cippare) nel senso
però di tratto di penna e non di
graffio) per bisticcio ed allitterazione espressivi ) furono intese come originarie cippe e ciappe
addizionate della solita esse protetica
intensiva napoletana, ma poiché i concetti che gli originarii scippe sciappe dovevano
rappresentare erano concetti riduttivi e negativi, si pensò – a ragione
forse – che non avevano senso le esse
intensive e scippe sciappe divennero
cippe ciappe; allorché poi ci si
rese conto che al derivato cippe non
si poteva collegare alcun oggetto reale o concetto comprensibile si preferí
eleminar tout court quel cippe e mantenere solo quelle residuali ciappe (in origine sciappe)
divenute quasi per magia corrispondenti ad un oggetto reale (fibbie,
fermagli, borchie) e dovendo esse ciappe
esprimere concetti negativi e riduttivi, se ne fece il diminutivo ciappette e l’espressione diventò Sape fá quatte ciappette che vale saper fare quattro insignificanti
cosucce e menarne vanto quasi si
trattasse di cose pregnanti e/o importanti, che è poi l’atteggiamento tipico d’ogni saccente e
supponente.
FÁ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE.
Che vale: centrare con un sol colpo due
beccafichi. Id est: conseguire
un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma
decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava:
una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di
piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due
beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni
con l’utilizzo di una sola fava, atteso che
quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi
inutilizzabile per un altro... Sempre con protagonista le fucetole (beccafichi) è la
successiva espressione:
FÁ A PASSÀ CU ‘E FFUCETOLE.
che ad litteram è fare a sorpassar(si) con i beccafichi ossia entrare
in un’ipotetica gara (di magrezza) con i beccafichi e sortirne vincitore; icastica
espressione usata nei confronti di chi (soprattutto donne)siano tanto magre
da addirittura aver ipoteticamente la meglio sulle fucetole (beccafichi) uccelletti magrissimi; fucetole è il pl.
di fucetola s.vo f.le dal lat. ficédula(m)
con tipico passaggio di sonora a sorda (d→t) in parola
sdrucciola.
FÁ LL‘ALLICCAPETTULE.
Ad
litteram: fare il leccapettole cioè
il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo
sciocco, prosternandosi davanti al
potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore della camicia nominata eufemisticamente in luogo della
parte anatomica su cui detta
falda insiste.
FÁ ‘O SPALLETTONE oppure
al femminile FÁ ‘A CCIACCESSA
Espressione intraducibile ad litteram in quanto in
italiano manca un vocabolo unico che
possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione per poter venire a capo delle espressioni
in epigrafe.
Ciò
premesso, dirò che esiste, o meglio,
esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè
tutto un vasto ventaglio di significati. E’ il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso
ingloba.
In
primis dirò che con esso vocabolo si
indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che
anticamente era definito mastrisso ovvero colui
che si ergeva a dotto e maestro, ma non
aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in
seria considerazione.
Piú
chiaramente dirò, per considerare le
sfumature che delineano il termine
in epigrafe, che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace
di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui ,
problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere,
naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo
dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza
o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale
non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone
non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio.
L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a
chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via non v’è cosa che abbia segreti per lo
spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di
imporre la propria presenza
dispensando ad iosa consigli
non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un
aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento
e rabbia per il povero individuo
fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E
passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica
del termine in epigrafe.
Premesso
che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú
moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento all’idioma parlato, ma esclusivamente a quello scritto nei classici partenopei, va da sè che il
termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine
troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici.
Orbene
reputo che essendo il sostrato
dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi
nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è
formato sul verbo parlettià (ciarlare)con
la classica prostesi della S non
distrattiva, ma intensiva
partenopea, l’assimilazione della R
alla L successiva e l’aggiunta
del suffisso accrescitivo ONE.
Per
concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore,
becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però
con il pettegolo che è altra cosa e
che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e
cioè con il termine: parlettiere.
Va
da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile;
esiste
però un corrispondente termine
femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella
variante in epigrafe: cciaccessa
correttamente scritto con la geminazione iniziale della C:
cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per
essa parola il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale
formatosi su di un iniziale ciarlare.
FÁ ‘AMMORE CU ‘E MMONACHE.
Ad
litteram: fare l’amore con le
monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare
l’irrealizzabile come sarebbe il
coire godendo dei favori di una
suora.
FÁ LL’ARTA LEGGIA.
Ad
litteram: praticare l’arte leggera;
id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per
praticare tali attività occorre aver
leggerezza di mano ed accortezza di
modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte quasi che occorra essere degli artisti per poterli
praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria in simili pur truffaldini mestieri: solo
chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può
poi lanciarsi nella mischia e
sperare di conseguire risultati adeguati
alla stregua di un vero artista.
FÁ LL’ARTE D’’O SOLE.
Ad litteram: fare
l’arte del sole. È
un’espressione usata per indicare in genere il comportamento scioperato d’
un individuo e piú esattamente di colui/colei che spensieratamente si dia alla vita beata, ai facili amori
godendosi la vita senza remore e/o preoccupazioni comportandosi ad un
dipresso come l’astro che ci illumina ed intorno a cui giriamo, astro la
cui massima occupazione è quella di levarsi e presiedere stabilmente il
firmamento sino a quando tramonti senza impegnarsi in alcuna fatica.
E sempre a proposito di arte rammenterò
l’espressione
FÁ LL’ARTE D’’O DIAVULO oppure D’ ‘O DEMMONIO.
Che letteralmente è: fare
l’arte del diavolo/demonio; id est: tenere il medesimo comportamento
del demonio o diavolo, cioè, calunniare qualcuno, istigare, sobillare qualcuno, aizzarlo
contro altri, inducendolo al male, tentandolo subdolamente il tutto in
linea con il significato etimologico della voce diavulo (teol.)
Spirito del male (chiamato anche demonio),
nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana, principe delle
tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli angeli ribelli,
variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali.
è voce che viene da un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos,
propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male,
calunniare, tentare.
FÁ LL’ARTE ‘E MICHELASSO: MAGNÀ, VEVERE E GGHÍ A SPASSO che letteralmente è: fare l’arte di Michelaccio: mangiare, bere ed andare in giro
(bighellonando) id est: tenere un comportamento da fannullone, ( che è
propriamente la persona oziosa che non vuole e vorrebbe fare nulla,
etimologicamente comp. di fa ( 3ª p. sing.ind. pres. del verbo fare) e
nulla, col suff. accrescitivo –one);
o da bighellone(che è chi
perde il suo tempo, andando in giro senza addivenire a nulla,
etimologicamente accrescitivo (per il tramite del suffisso one di un antico
bigollo o pigollo = trottola);in napoletano questo tipo di soggetto è détto
alternativamente Michelasso (come nell’espressione in esame) o Francalasso;
Francalasso è propriamente il
bighellone, colui che ozia andandosene in giro senza meta e/o scopo;
etimologicamente formato, come il suo omologo Michelasso (fannullone,scioperato)
dall’addizione di un nome proprio (qui Michele, altrove Franco) e dell’aggettivo lasso
che è dal lat. lassu(m); cfr. lassare = 'stancare'da intendersi in senso
ironico ed antifrastico, atteso che chi non lavora, non può stancarsi; il
perché di quei due nomi e non altri è ignoto,ma forse non gli è estraneo il
fatto che in napoletano franco
sta per libero, senza costrizioni e dunque senza impegni, mentre michele è usato nel senso duro, ma
affettuoso di sciocco, inetto, una persona tale cui non si affiderebbe un
lavoro o impegno, nel timore che lo mancasse.
FÁ LL’OPERA D’’E PUPE
Letteralmente:
fare la rappresentazione con i pupi;
id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura per conseguire un quid qualsiasi anche
non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo
un gran numero di cose come i pupari
costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee
atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui
all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e
grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli
dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole
marionette che vengono manovrate dal
basso tenendole infilate sulla mano
a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe,
quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si
stia evolvendo pericolosamente può
accadere che quello degli
interlocutori dotato di maggior buona volontà possa invitare l’altro interlocutore a
recedere dalla discussione con il
dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!).
FÁ MMIRIA Ô TRE BASTONE
Ad
litteram: fare invidia al tre di
bastoni, destare l’invidia del tre di bastoni. Detto ironicamente di una donna che sia provvista di
abbondante peluria sul labbro superiore
al segno di destar l’invidia del tre di bastoni la carta da giuoco del mazzo di carte
napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un
vistoso mascherone , provvisto
di suo di consistenti baffoni a
manubrio.
FÁ MARENNA A SARACHIELLE
Ad
litteram: far colazione con piccole
aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la
cinghia, esser costretti a fare di
necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione di piccole aringhe salate ed
affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti
della congrua salatura. La locuzione
è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano
con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro
azioni sono miserevoli ed
inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un
icastico: Eh, sî arrivato (che
può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire
la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo
dell’infinito qui riportato: ad es.: Eh,
sî arrivato, hê fatto marenna a sarachielle!
sarachielle s.vo m.le pl. di sarachiello che è il diminutivo
maschilizzato (per significare la contenutezza dell’oggetto di riferimento:
in napoletano infatti un oggetto
che sia femminile diventa maschile se diminuisce di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro
(piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta
(piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) tavola (piú grande) e
tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione caccavo (piú grande) e caccavella (
piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccola)), dicevo che sarachiello è il diminutivo (vedi i
suff. i+ ello maschilizzato di saràca= salacca, aringa affumicata;
la voce saràca
etimologicamente è da collegarsi con cambio d’accento ad un tardo greco sàrax (all’acc.vo
sàraka) che trova riscontri anche nel calabrese sàrica e nel salentino zàrica.
FÁ ‘A TREZZA D’’E VIERME.
Ad
litteram: fare la treccia di vermi;
id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim a Napoli, si riteneva che , soprattutto i
bambini, ma pure gli adulti, se
fossero stati còlti da grande
spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di
vermi organizzati nei visceri a mo’
di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva a sostanziose somministrazioni di
aglio da ingerire crudo; ragion per cui era auspicabile, specie
per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
FÁ SPUTAZZELLE ‘MMOCCA.
Ad
litteram: fare l’acquolina in bocca La locuzione richiama, molto piú veristicamente dell’italiano,
quelle situazioni in cui alla vista di cose piacevoli o appetitose
aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir
quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso
estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa
naturaliter allorché ci si trovi al
cospetto di un appetitoso manicaretto
la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí
allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna desiderabile ed appetibile al pari di
una succulenta pietanza; insomma sia
il manicaretto che la bella donna posson
far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far fare sputazzèlle.
FÁ oppure ESSERE CARTA ‘E TRE (o
meglio) ‘E TRESSETTE
Ad
litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio) di tressette; id est: essere o comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi
a tutti gli altri o per naturale carisma
o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la
carta di tre o tressette è colui che
con ogni mezzo, lecito o meno che sia
riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà.
La locuzione è mutuata dal giuco del tressette giuoco di carte nel quale alcune di esse
per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle
altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici
nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí
stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante e poi dal sette fino al quattro secondo l’ordine decrescente;dal che si
evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e a ciò si riferisce la locuzione in
epigrafe.Talvolta però l’espressione
viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità
intellettuali, tenti di atteggiarsi
ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole
raccomandar: nun fá ‘a carta ‘e
tre ossia evita di assumere inutili e pretestuosi atteggiamenti da carta di tre (quella vincente al
giuoco del tressette.)
FÁ PIGGLIÀ ‘E PPETECCHIE
Letteralmente: Far prendere le petecchie; détto con
riferimento alla fastidiosa azione di chi prenda, tocchi, sposti
reiteratamente e senza una valida ragione
un oggetto fino a procurargli figuratamente per stropicciatura emorragie cutanee con rosse macchie puntiformi quelle che in realtà caratterizzano determinate malattie, come
il tifo esantematico ed altre malattie affini; la voce petecchia è dal lat. volg. *(im)peticula(m)→(im)peticla(m)→petecchia,
dim. del lat. impetigo -giªnis 'impetigine'.
FÁ COMM’Ê FUNARE Agire
come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello
studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le
macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che
venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i
cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle
corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte.
La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti, ma solo il
modo di procedere tenuto dai cordari.
la voce funare s.vo m.le pl. di funaro etimologicamente –parte dal sost. funa (= fune,canapo dal lat. volg. *funa(m)) con l’aggiunta del
consueto suff. di competenza arius→ar(i)o→aro.
FÁ COMM’Ê TURRUNARE Ad litteram: Far
come i venditori di torroni, id est agire come i venditori ambulanti di
torroni, zucchero filato, mandorle attorrate, bruscolini,bomboloni e
franfellicche ed altre leccornie artigianali, venditori girovagni che son soliti presidiare con i loro
banchetti vie e piazze durante le feste rionali, alle quali accorrono tra i
primi e che abbandonano tra gli
ultimi quando non ci sia piú concorso di pubblico rionale, possibile
acquirente delle loro mercanzie. Per traslato con détta locuzione si fa
riferimento a tutti quegli inguaribili presenzialisti, importuni visitatori
che spesso senza essere invitati accorrono a festicciole familiari per
scroccare dolciumi o bevute offerte dai festeggiati ai presenti.Spessissimo
poi tali importuni visitatori sono anche i meno solleciti ad abbandonar le
festicciole. franfellicche s.vo. m.le p.le di franfellicco
= duro bastoncino di zucchero filato a forma di J
che è l’iniziale del nome
Jesus e nella tradizione popolare napoletana il franfellicco dolce, in origine
natalizio, destinato ai bambini fu
ritenuto figurazione del Bambino Gesú, roccia su cui fonda la salvezza
dell’uomo.
La voce franfellicco etimologicamente è
un adattamento locale del fr. franfeluque.
la voce turrunare
s.vo m.le pl. di turrunaro etimologicamente
parte dal sost. turrone (= torrone, dolce duro o morbido a
base di zucchero, miele, mandorle tostate, pistacchi o nocciole, confezionato
per lo più a stecche, che è dallo
spagnolo turrón, deriv. di turrar 'arrostire', che è dal lat.
torríre con l’aggiunta del
consueto suff. di competenza arius→ar(i)o→aro.
FÁ CORRERE PE BECENZONE.
Ad
litteram:far correre a causa di
Besançon, esser costretto ad
affrettarsi per estinguere un debito.; id est: preoccuparsi ed attivarsi
per risolvere i propri impegni il
meno traumaticamente possibile. A prima vista il termine Becenzone dell’epigrafe parrebbe un accrescitivo
del nome maschile: Vincenzo, ma se lo
si intendesse in tal modo, la locuzione non avrebbe significato;
esso invece non è che la corruzione del nome Besançon, nome di una
cittadina francese dove furono emesse le prime cambiali firmate dai mercanti napoletani che si
recavano colà per i propri affari; alla scadenza di dette cambiali i
mercanti dovevano preoccuparsi di
pagare i corrispondenti debiti ed
erano dunque costretti a correre pe
Becenzone, dove il pe (per) sta ad indicare: a causa di.
FÁ CHIAGNERE ASTECHE E LAVATORE. variante FÁ N’ASTECO
ARETO Ê RINE
Ad
litteram: far piangere terrazzi e lavatoi; id est:
rubacchiare qua e là, infierire contro amici e parenti e conoscenti fino a
farli piangere, fare del male a tutti non curandosi del male fatto o del
dolore causato.Un tempo quando le tecniche di costruzione erano diverse da
quelle attuali ed i materiali usati
molto meno sofisticati, per rendere impermeabili i terrazzi ed i lavatoi si spargevano sugli impiantiti grossi quantitativi di bianco lapillo
vesuviano, lo si bagnava a dovere e poi lo si percuoteva pesantemente con appositi attrezzi detti mazzocche fino a che il lapillo cosí compresso non
divenisse un blocco compatto ed impermeabile tale da competere con le piogge o con le
acque usate per lavare i panni. Se
si pensa alla forza se non alla violenza necessaria a compiere l’operazione
descritta, si comprende perché con divertente traslato i solai o i lavatoi dovessero quasi
gemere delle percosse subite. La
variante dell’espressione in
epigrafe si traduce come violenta
minaccia di compiere
l’operazione di compattazione
sulle spalle di qualcuno, ossia lo si minaccia di percuoterlo a dovere sulle spalle.
FÁ ‘E CCOSE A CAPA ‘E ‘MBRELLO oppure A CCAZZO ‘E CANE.
Ad
litteram: fare le cose a testa di
ombrello oppure a membro di cane.
Nell’un
caso e nell’altro la locuzione significa:
operare alla carlona, con pressappochismo e disimpegno per modo che i risultati siano
scadenti e non utilizzabili stante
la maniera approssimativa e disordinata con cui sono stati conseguiti. Va
da sé che la testa di ombrello è usata eufemisticamente per indicare ben
altre teste, mentre nella variante dell’espressione non ci si fa scrupolo
d’essere piú sanguignamente concreti
chiando in causa i cani e la loro appendice anatomica atteso che i cani son soliti compiere le
loro operazioni sessuali in maniera rapida
e disimpegnata.
FÁ ‘E CCOSE CU ‘E STENTINE
‘MBRACCIA
Ad
litteram: operare con gli intestini
in braccio; id est: agire controvoglia, disimpegnatamente con noia e
fastidio quasi si fosse costretti ad operare con l’àndicap di dover trattenersi il
pacco intestinale con le mani. L’espressione è comunemente usata nei
confronti specialmente dei giovani
figlioli che, sollecitati a compiere
anche una piccola incombenza, nicchiano, pongono remore e
quando finalmente si dispongono a portarla a compimento lo fanno
malvolentieri, con poco o punto impegno ed entusiamo se non nella maniera descritta al num.
precedente.
FÁ ‘E FUNGE ‘NCUORPO
Ad
litteram: fare i funghi in corpo; id est: attendere
lungamente che si verifichi un
evento desiderato, macerarsi
nell’animo nell’attesa che la
faccenda agognata venga alla luce, fino a veder nascere figuratamente, dei funghi nel corpo.Rammento che a
Napoli di una donna che non riesca a trovar rapidamente marito, si dice ca sta facenno ‘e funge (
che sta facendo i funghi ossia che, per mancato utilizzo, sta
facendo la muffa in una ben
determinata parte del corpo.).
FÁ UNA CADUTA o anche UNA CACATA.
Ad
litteram: fare una caduta o anche una evacuazione corporale; ma nessuna delle due parole di cui in epigrafe debbono esser prese in
considerazione in senso letterale se si vuol comprendere a pieno il
significato dell’espressione che si
riferisce invece all’improvviso, inatteso decadimento fisico di una
persona che di punto in bianco vede
sfiorire la propria salute e ne mostra apertamente le disdicevoli
conseguenze apportatrici, per solito, di continui, reiterati nuovi malanni
che peggiorano giorno per giorno la faccenda già di per sé poco piacevole.
FÁ ‘A CIÀULA ‘NCAMPANARO
Letteralmente:
fare la gazza sul campanile; id est:
fare il sordo, fare orecchio da mercante, comportarsi come quegli uccelli
che, rifugiatisi su di un
campanile si estraneano dal mondo
circostante e non rispondono ad alcun richiamo, perché ormai non li sentono piú, un po’ per
l’altezza e la lontananza del ricovero che si sono scelti, un po’
perché risultano insorditi dallo stormire delle campane; tenendo presente
tale impossibilità di richiamare gazze
attestate su campanili, si è coniato il detto: alluccà ê ciaule (gridare
alle gazze) nel senso di : parlare inutilmente.
FÁ ‘O MASTUGGIORGIO.
Ad
litteram: fare il castigamatti sia in senso reale di infermiere e controllore dei matti, sia in senso
traslato di organizzatore e direttore
di non meglio specificate attività o imprese dirette con pugno di ferro ed autorevolezza
impositiva. il mastuggiorgio in epigrafe
emblema di tutti i castigamatti
fu in vero un personaggio
realmente esistito rispondente al nome di Giorgio Cattaneo,
maestro dei pazzi che svolse la sua attività nella prima metà del 1600
presso l’ospedale Incurabili di Napoli ed escogitò molti sistemi coercitivi
come terapia dei malati di follia; tra détti mezzi ricorderò quello di
costringere il folle ad ingurgitare fino a cento uova in rapida successione o costringerlo a
mangiare ingenti quantitativi di carne
e poi girare la pesante ruota di un pozzo, somministrandogli
violente frustate se il folle fosse crollato non portando a termine il compito assegnatogli. Ancora
oggi a Napoli a chi dia segni di squilibri mentali si suole chiedere: Ma t’avisse pigliato ‘e cient’ove? (Per caso ài preso le cento uova?)
FÁ ‘NA FIJURELLA. oppure ‘NA FIJURA ‘E NIENTE
Ad
litteram: fare una magra figura;
id est: comportarsi in maniera tanto errata
che il risultato di simile comportamento è umiliante e mortificante tanto da
essere catalogato e considerato un nulla assoluto.
FÁ ‘NA FIJURA ‘E MMERDA.
Ad
litteram: fare una figura di sterco.Locuzione
simile alla precedente, ma connotata da una maggior durezza di linguaggio
in quanto che la figuraccia derivante dall’errato comportamento è
da considerarsi quasi lercia di escrementi e pertanto piú che umiliante e
mortificante.
FÁ N’ACCISO E ‘NU ‘MPISO.
Ad
litteram: fare un ucciso ed un
impiccato id est: minacciare una
strage con conseguenze gravissime per tutti.Reboante, antica locuzione con la quale sia pure solo
metaforicamente si minaccia di
comportarsi in maniera tanto violenta
e spropositata da lasciare sul terreno per lo meno un morto e ci si dichiara disponibile a subire le
conseguenze di tale omicidio, conseguenze comportanti la condanna alla pena di morte per
impiccagione.
FÁ ‘NA MMESCAFRANCESCA.
Ad
litteram: fare una mescolanza id
est: fare una gran frammistione di cose le piú disparate, non affini né
conferenti al punto da essere
addirittura incompatibili tra di loro; il risultato di tale mescolanza non
potrà essere ovviamente positivo e servirà a molto poco. la parola mmescafrancesca è una chiara
corruzione del francese mélange française (ricca zuppa di
svariati ortaggi).
FÁ ‘E PPÓZE DÂ FAMMA
Ad litteram: Fare
i polsi (esili e rinsecchiti) a causa della fame; id est: dimagrire
cosí tanto, a causa della fame, da averne i polsi affinati e fragili; in
effetti molti - errando - invece di dire 'e ppóze (polsi) dicono 'e ppòse
d' 'a famma (le pose da fame),ma è chiaro che si tratti di una corruzione
dell'espressione originale. Linguisticamente c’è da notare che la normale forma plurale del s.vo
m.le puzo (polso) è il m.le ‘e
púze, ma nell’espressione se ne è adottato uno f.le ‘e
ppóze ad imitazione del pl.
f.le ‘e ddenocchia del sg. m.le ‘o denucchio.
E con ciò penso d’avere,
anche questa volta risposto
adeguatamente alla richiesta dell’amico N.C. e d’avere interessato qualcun
altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele
Bracale
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