1 PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente
viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che
gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto
veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui
lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale
richiamato nella locuzione fu un tal
Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di
A. Petito.
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2 PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia
Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella
di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose
stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in
terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a
meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse:
pastores mirati sunt.
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3 MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP'Ô MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che
sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere
quella che comporti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco, a
Napoli erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il
patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione
significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
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4 FUTTATENNE!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre,
non porvi attenzione. È il pressante invito a lasciar correre dato a chi si
sta adontando o si sta preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si
stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico
invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché
il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma
della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa
propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e
allora scrissero sui muri cittadini: SAN GENNA' FUTTATENNE! Volevano lasciare
intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo
quali che fossero stati i dettami di Roma.
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5 FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id
est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da
trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il
trinciato per pipa.
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6 FÀ TRENTA E UNO TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso,
conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da
trenta a trentuno non v'è che un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta
l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un
trentunesimo non previsto.
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6 ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di
cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima
stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro
che se ne serve.
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7 ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di
confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona
assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale
individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti
vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro
ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che
vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane
metaforicamente insozzato.
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8 'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LE
DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Berta alla
nipote: aprì la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per
sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore
lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che,
all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
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9 'E PPAZZIE D''E CANE FERNESCENO A CCAZZE 'NCULO.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con
pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono
inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per
nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà
allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a
latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la
postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche
10.TRE CCALLE E MMESCAMMÉCE.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e
mescoliamoci. Così, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che si
intromette nelle faccende altrui, che vuol sempre dire la sua,
interessandosi con poco impegno o spesa delle faccende altrui. Il tre calle
era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era
raffigurato un cavallo da cui per contrazione prese il nome di callo. La
locuzione significa: con poca spesa si interessa delle faccende altrui.
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11.CHI SE FA MASTO, CADE DINT'Ô MASTRILLO.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per
essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e
domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e
supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma
poi finiscono per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da
coloro che pretendono di ammaestrare.
mastrillo = trappola per topi (dal lat. volg. mustriculu(m)→mustriclu(m)→mastrillo).
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12.TUTTO A GIESÚ E NIENTE A MARIA.
Letteralmente: tutto a Gesú e niente a Maria; ma
non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú e a
negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano
davanti ad una iniqua distribuzione di beni di cui ci si dolga, nella
speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa
redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda
non migliora per il petente.
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13.CHI GUVERNA 'A RROBBA 'E LL'ATE NUN SE COCCA SENZA ‘O
MMAGNATO!
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non
va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che
legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato,
denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui
sono incorreggibili ladri!
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14.PARÉ LL'OMMO 'NCOPP'Â SALERA
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id
est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a
quel Tom Pouce, viaggiatore inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,
molto piccolo e ridicolo preso a modello dagli artigiani napoletani che lo
raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso
quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno
verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti
fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
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15.FÀ COMME A SANTA CHIARA:
DOPP' ARRUBBATA CE METTETERO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo
che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari
quando sia troppo tardi, quando si sia già subìto il danno paventato, alla
stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista
di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno,
ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti a danno della
antica chiesa partenopea.
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16.ESSERE 'A TINA 'E MIEZO.
Letteralmente: essere il tino di mezzo. Id est:
essere la massima somma di quanto piú sporco, piú laido, piú lercio possa
esistere. Offesa gravissima che si rivolge a persona ritenuta così
massimamente sporca, laida e lercia da essere paragonata al grosso tino di
legno posto al centro del carro per la raccolta dei liquami da usare come
fertilizzanti, nel quale tino venivano versati i liquami raccolti con due
tini piú piccoli posti ai lati del tino di mezzo dove veniva riposto il
letame raccolto.
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17.'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di
cipolla. E' il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a
comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di
criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano
stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé
che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa
stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
18.NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il
capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della
Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di
intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a
cui è rivolta l'espressione non ha nè l'autorità, nè la capacità di
esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
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19.TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE; TANTA GLIUOMMERE 'A
DO' 'E CCACCE?
Letteralmente: Tu non cuci, non fili e non
tessi, tanti gomitoli da dove li tiri fuori? Tale domanda sarcastica la
si rivolge a colui che fa mostra di una inesplicabile, improvvisa
ricchezza; ed in effetti posto che colui cui viene rivolta la domanda non
è impegnato in un lavoro che possa produrre ricchezza, si comprende che
la domanda è del tipo retorico sottintendendo che probabilmente la
ricchezza mostrata è frutto di mali affari. E' da ricordare anche che il
termine GLIUOMMERO (gomitolo)indicava, temporibus illis, anche una grossa
somma di danaro corrispondente a circa 100 ducati d'argento.
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20.MENARSE DINT'Ê VRACHE...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id
est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla
pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi
al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione
del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono
appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache
(imbracature) proprio perché imbracano la bestia.
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21.CHI POCO TÈNE, CARO TÈNE.
Letteralmente: Chi ha poco, lo tiene da conto.
Id est: il povero non può essere generoso
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22.LASSA CA VA A FFUNNO 'O BASTIMENTO, ABBASTA CA MÒRENO
'E ZZOCCOLE.
Letteralmente: lascia che affondi la nave,
purchè muoiano i ratti. Con questa locuzione si suole commentare l'azione
spericolata di chi è disposto anche al peggio pur di raggiungere un suo
precipuo scopo; proverbio nato nell'ambito marinaresco tenendo presente
le lotte che combattevano i marinai con i ratti che infestavano le navi.
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23.NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali
per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati
occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si
adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere
raggiunti che per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di
carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale
di bestie da soma...
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24.SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE
VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una
cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno
(stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle
quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica
descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
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25.MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con
le proprie simili. E' una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol
lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche
cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
Brak
Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no!
Letteralmente: Tu senti il
richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a
quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti
favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli
comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il
cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento
tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita
è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere
accettato, il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col
medesimo significato di :allontanati, sparisci.
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'E denare so' comm'a 'e chiattille: s'attaccano a 'e
cugliune.
Letteralmente: i soldi son come le piattole:
si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo
il termine cugliune viene usato per intendere propriamente i testicoli,
e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono
così tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
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Faccia 'e trent'anne 'e fave.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa
gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco
rassicurante, da galeotto, dal quale non ci si attende niente di buono, anzi
si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava
secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva
somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle
detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato
a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e
sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le
distanze.
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Sparà a vrenna.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare
per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione
la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un
nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui
proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i
colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
'E sciabbule stanno appese e 'e fodere cumbattono.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al
chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le
situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o
cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee,
con risultati chiaramente inferiori alle attese.
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'A taverna d''o trentuno.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Così, a
Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle
donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle
piú disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A
tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna
del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove
era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a
qualsiasi ora del giorno e della notte.
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'A vacca, pe nun movere 'a coda se facette magnà 'e ppacche
da 'e mosche.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la
coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli
indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non
muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita
dalle mosche per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che
le mosche le pizzichino il fondo schiena!
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Trasì o passà cu 'a scoppola.
Letteralmente: entrare o passare con lo
scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei
o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie
credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo
comportamento di taluni custodi che son soliti fare entrare i ragazzi senza
pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per
traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove
gratuitamente si ottengono benefìci per la magnanimità di coloro che invece
dovrebbero controllare.
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Pozza murì 'e truono a chi nun le piace 'o bbuono.
Letteralmente: possa morire di violenta
bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è
un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire
bastonato violentemente. in napoletano TRUONO significa sia tuono che
percosse violente.
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'A forca è fatta p''e puverielle.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id
est: nei rigori della legge vi incorrono solo i poveri, i ricchi trovano
sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però
che la pena dell'impiccaggione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed
ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la
fucilazione.
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Piglià vavia e metterse 'nguarnascione.
Letteralmente: prender bava e porsi in
guarnaccia. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice
soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a
piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed
onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose,
se non la vita, laddove in realtà poggiano la loro albagia sul nulla.
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Darse 'e pizzeche 'ncopp' a' panza.
Letteralmente: darsi pizzichi sulla pancia. Id
est: sopportare, rassegnarsi, far buon viso a cattivo gioco. E' il
consiglio che si dà a chi ad una contrarietà sarebbe pronto a render la
pariglia ed invece gli si consiglia di sopportare assestandosi dei pizzichi
sulla pancia quasi che il dolore fisico che ne deriva servisse a lenire
quello morale, in nome del quale ci si sentirebbe pronto a scatenare una
guerra!
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'Ncopp' a 'o muorto se canta 'o miserere.
Letteralmente: sul morto si piange il miserere Id
est: non bisogna precorrere i tempi, in ispece quelli delle lamentazioni
che allora son lecite quando ci si trovi davanti al fatto compiuto del
danno patito, mai prima.
Piscià acqua santa p''o velliculo.
Letteralmente: orinare acqua santa
dall'ombelico. La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di
coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che
coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi,
come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio
inesistente, addirittura dell'acqua santa.
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A 'e tiempe 'e PAPPAGONE
Letteralmente: Ai tempi di PAPPAGONE Id est: in
un tempo lontanissimo. Così vengono commentate cose di cui si parli che
risultano risalenti a tempi lontanissimi, quasi mitici. Il PAPPAGONE
della locuzione non è la famosa maschera creata dal compianto attore
napoletano Peppino De Filippo; ma è la corruzione del cognome PAPPACODA
antichissima e nobile famiglia partenopea che ha lasciato meravigliosi
retaggi architettonici risalenti al 1400, in varie
strade napoletane.
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Arretìrate, pireto!
Letteralmente: Ritirati, peto! Imperiosa ed
ingiuriosa invettiva rivolta verso chi, per essere andato fuori dei limiti
consentiti, si cerchi di ridimensionare esortandolo, anzi imponendogli di
rientrare nei ranghi, anche se non si capisce come un peto, partito dalla
sua sede vi possa rientrare a comando...
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A 'nu parmo d''o culo mio, fotta chi vo’.
Letteralmente: ad un palmo dal mio sedere, si
diverta chi vuole. Id est: fate pure i vostri comodi, purchè li facciate
lontano dal mio spazio vitale, non mi coinvolgiate e soprattutto non mi
arrechiate danno!
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Dicette 'o miedeco 'e Nola: Chesta è 'a ricetta e ca Ddio
t''a manna bbona...
Letteralmente: Disse il medico di Nola: Questa
è la ricetta e che Dio te la mandi buona. La locuzione viene usata quando
si voglia sottolineare che, dinnanzi ad un problema, si sia fatto tutto
quanto sia nelle proprie possibilità personali e che occorra ormai
confidare solo in Dio dal quale si attendono gli sperati risultati
positivi.
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Fà 'nu quatto 'e maggio.
Letteralmente: fare un quattro di maggio. Id
est: sloggiare, cambiar casa, trasferirsi altrove. Da intendersi anche in
senso figurato di allontanarsi, o recedere dalle proprie posizioni. Nel
lontanissimo 1611 il vicerè Pedro de Castro, conte di Lemos, nell'intento
di porre un po' di ordine nel caos dei quasi quotidiani traslochi che si
operavano nella città di Napoli, fissò appunto al 4 di maggio la data
fissa soltanto nella quale si potevano operare i cambiamenti di casa. Il
giorno 4, da allora divenne la data nella quale gli inquilini erano
soliti conferire mensilmente gli affitti ai proprietarii di immobili
concessi in fitto.
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S'à dda ògnere l'asso.
Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est:
se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua bisogna, anche
obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere
l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i
birocciai solevano spalmare con grasso animale gli assi che sostenevano
gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse
procedere con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato
in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita
d'altri chiarimenti.
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Paré 'nu pireto annasprato.
Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato.
Lo si dice salacemente di chi si dia troppe arie, atteggiandosi a
superuomo, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale
atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto
che, non si sa come, sia inzuccherato, ma che per quanto coperto di
glassa dolce resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.
L'Accìomo a 'e Bbanche nuove.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi.
Così oggi i napoletani sogliono indicare quei giovani, che - per essere
alla moda - non si radono, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli
che dovrebbero costituire l'onor del mento, e per apparire in linea con i
dettami della moda si mostrano smagriti e pallidi. La locuzione rammenta
una scultura lignea sita in un'edicola posta ai Banchi Nuovi - quartiere
napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara -
scultura rappresentante il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa,
ed appare il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subiti dai saldati
romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato,
proprio come i giovani cui la locuzione si attaglia.
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Chi tène cummedità e nun se ne serve, nun trova 'o
prevete ca ll'assolve.
Letteralmente: Chi ha comodità e non se ne
serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi ha avuto, per
sorte o meriti, delle comodità deve servirsene, in caso contrario
commetterebbe non solo una sciocchezza autolesiva, ma pure un peccato
così grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice
prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.
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Quanno nun site scarpare, pecché rumpite 'o cacchio a 'e
semmenzelle?
Letteralmente: poiché non siete ciabattino,
perché infastidite le semenze? La locuzione barocca, anzi rococò viene
usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di
faccende che non gli competono non essendo supportate, né dal suo
mestiere, né dalle sue capacità intellettive o morali. Le semenze sono
i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini sogliono sistemare la
tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa.
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'A riggina avette bisogno d''a vicina.
Letteralmente: la regina dovette ricorrere
alla vicina. Iperbolica locuzione con la quale si sottolinea che
nessuno è bastevole a se stesso: persino la regina ebbe bisogno della
propria vicina, figurarsi tutti gli altri esseri umani: siamo una
società dove nessun uomo è un'isola.
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Senza fesse nun campano 'e deritte.
Letteralmente: senza gli sciocchi non vivono
i furbi; id est: in tanto prosperano i furbi in quanto vi sono gli
sciocchi che consentano loro di prosperare.
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'O purpo s'à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con
l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza
interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone
che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro
è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed
attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non
necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
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Dà 'ncopp' a 'e recchie.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La
locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi,
dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti
a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti
bisogna usare una sana violenza colpendoli sulle orecchie per fargliele
abbassare.
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N' aggio scaurato strunze, ma tu me jesce cu 'e piede 'a
fora...
Letteralmente: ne ho bolliti di stronzi, ma
tu (sei così grosso)che non entri per intero nella pentola destinata
all'uso. Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di
chi si dimostri così esageratamente pezzo di merda da meritarsi di
esser paragonato ad un pollo o simile che ecceda i limiti della pentola
rendendosi così difficile da esser bollito.
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Tante galle a cantà nun schiara maje juorno.
Letteralmente: tanti galli a cantare non
spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un
parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un
problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi
meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante
di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e
saggiamente: parlano in tanti...
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Sì, sì quanno curre e 'mpizze...
Letteralmente: sì quando corri ed infili! La
locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto
difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso
ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non avverrà. La
locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze
dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del
paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa
pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo
a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa
difficilissima da farsi.
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Madonna mia, mantiene ll'acqua!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id
est: fa che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione
viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il
cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva
volontà di uno o piú dei contendenti.
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Ommo 'e ciappa.
Letteralmente: uomo di bottone e, per
traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione ha origini antichissime
addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria
particolare, la cd repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la
classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino=capula) erano i
grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della
toga simbolo, appunto, di detta consorteria.
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Ommo 'e ciappa.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato,
uomo importante, di vaglia. La locuzione ha origini antichissime
addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria
particolare, la cd repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la
classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino=capula) erano i
grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della
toga simbolo, appunto, di detta consorteria.
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Fà tre fiche nove rotele.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con
l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o -
meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti
che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della
locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle
Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo
circondario,ad 890
grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a
circa 8 kg.
ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare
8 kg.
Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso
ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al
Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua
origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca
LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca
romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che
indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi,
pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
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'A disgrazzia d''o 'mbrello è quanno chiove fino fino.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando
pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di
rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando
debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; così
l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di
piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se
pesante danno.
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Avimmo fatto: cupinte, cupinte: 'e cavére 'a fora e 'e fridde
'a dinto.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i
caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica
espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la
logica e l'attesa, si dà via libera a chi non è all'altezza della situazione
e si lascia a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un
quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).
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'A pecora s'à dda tusà, nun s'à dda scurtecà
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non
scorticata. Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso :
è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come
è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
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- Zi' pre' 'o cappiello va stuorto... - Accussì ha dda jì!
- Signor prete, il cappello va storto - Così deve
andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di
porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il
suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta
maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si
voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto
quando chi dovrebbe riceverli ha - per sua autorità - sufficiente autonomia
di giudizio.
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Dicette Nunziata: Ce ponno cchiú ll'uocchie ca 'e scuppettate!
Letteralmente: Disse Nunziata: Hanno piú potenza
gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno
che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che
possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può
guarire, piú difficile sfuggire alla jettatura.
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A' nnotte se 'nzuraje Catiello.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese
moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa
con: MEGLIO TARDI CHE MAI, il Catello, infatti procrastinò tanto il suo
matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione
partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella
parola notte che lascia capire che la
A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una
preposizione che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di
notte; se la A
fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in
maniera scempia con una sola N.
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