giovedì 20 settembre 2018

ESPRESSIONI 185


 1.COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, Pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca  per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva  parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche  sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí mai il ladruncolo.
2.    COMME PAGAZZIO, ACCUSSÍ PITTAZZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.A.S. GRUE: Francesco Antonio Saverio (1686-†1746), figlio di Carlantonio, che preferí la pittura di figure,  famosissimo artista appartenente alla famiglia Grue, famiglia di ceramisti di Castelli (Teramo). Il caposcuola fu Carlantonio (1655-†1723), figlio di Francesco Antonio, che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola napoletana contemporanea. Francesco Antonio Saverio fu  noto per i suoi vasi di maiolica, e come détto riportò la frase in epigrafe su di un’antica albarella détta di san Brunone.
3.    CAPURÀ È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli  si vuol significare  che non è piú  né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o  si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto  al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era  possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi  di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era  il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino  boriosi e supponenti.
4.    CÀNTERO SPETENATO - CESSO A VVIENTO.
Ad litteram:  Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie  che a mo’ di offesa vengon rivolte  a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo  vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati  a quei vespasiani  che un tempo  troneggiavano lungo le strade  per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú adatta)  che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso  dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione;  sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione  già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente  si’ peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi,   troneggiava in tutte le case ,ma  anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene  provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa  che servivano a tener lontani sguardi indiscreti  Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia  con pompe idrauliche .
càntero =  grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero  o càntaro alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero  o càntaro  è dal basso latino càntharu(m)  a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati  confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo  porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!

5.    CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Ad litteram: Cuor contento alla Loggia. Cosí a Napoli si suole appellare chi si dimostri  sempre allegro, spensierato, buontempone  al segno d’apparire  di non aver mai pensieri di sorta che possano preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato  fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe, il medesimo che temporibus illis  si meritò lo scrittore nolano Michele Somma  che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta  amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della Loggia de’ Genovesi  dove la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
6.    COPPOLA Ê DENOCCHIE!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú  cogente per  suggerire il saluto piú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio  gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia,  da rivolgere  ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge  l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo  del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi  ad oggetti di culto.


7.         CURNUTO E MAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto  a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto  debba subire anche il dileggio. Altrove  in maniera molto piú icastica e cruda, piú estesamente   si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est:  (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè  del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso  deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a  agg.vo m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo  (volg.) persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito, bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile   in quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa serie di percosse; quanto all’etimo è un derivato  de l lat. mattea = bastonr, randello;
sciorta  s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto) etimologicamente dal lat. sorte(m) con il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo, simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro  s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un  lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque;  voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;

murette = morí;  voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato =  sgozzato, ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito scannà  denominale di canna= gola (dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto e mazziato  fu adoperata per addolcire quasi  la più cruda curnuto e scannato.



8.    COMME ‘A VIDE ACCUSSÍ ‘A SCRIVE
Ad litteram: come la vedi  cosí l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare  oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva  alla promessa sposa  di cui al momento di scrivere i capitoli  del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che  di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre  ciò che apparisse  ad un primo esame.

9.    CHI ‘NFRUCE, NUN LUCE
Ad litteram: Chi accumula stipando(beni e/o danaro)non rifulge . Id est: L’avaro, a malgrado possieda molte ricchezze messe via raccogliendone in quantità, non risulta risplendente, smagliante, lucente, rilucente davanti al prossimo in quanto non riesce a godere appieno dei beni accumulati atteso che non ne usa o mette in mostra nel timore che l’esposizione induca i malintenzionati a sottrarglieli.
‘nfruce = accumula, stipa voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito ‘nfrúcere =ammassare, stivare, assembrare [lettura metatetica ed aferizzata con ritrazione d’accento(tipica del lat. parlato e volgare) e cambio di coniugazione  del lat. infulcíre→(i)nflúcire→’nflúcere→’nfrúcere].
luce = riluce,risplende voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito lúcere   che è dal lat. lucère con ritrazione d’accento(tipica del lat. parlato e volgare)
R.Bracale

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