1.METTERE O MENÀ ‘O VELLÍCULO Ô FFUOCO.
Letteralmente: Mettere o buttare l’ombelico ( piú
esattamente il cordone ombelicale) al fuoco. Antica espressione partenopea
risalente addirittura al ‘600 (attestata nel Cortese, Basile, Trinchera ed
altri, con la quale si era e si è soliti riferirsi all’atteggiamento da
profittatore di chi, non invitato, faceva o fa in modo di appalesarsi in casa
di amici e/o semplici conoscenti in occasione di una qualche ricorrenza o
festività per partecipare ad una approntata festa, comportante distribuzione,
spesso abbondante , di cibi e bevande; oppure appalesarsi in casa di amici e/o
semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito
alla tavola imbandita, invito in uso tra i napoletani che non lesinano a
nessuno un pasto o una libagione.
Di chi, non espressamente invitato, si comportasse in modo
di trovarsi presente all’ora dei desinari, scroccando l’invito a tavola si
diceva e si dice che aveva miso o aveva menato ‘o velliculo ô ffuoco!
L’espressione nacque allorché, in tempi andati, le donne partorivano in casa
assistite da una o piú levatrici dette mammàne oppure meno opportunamente (e
qui di sèguito chiarirò)vammane Costoro una volta che la puerpera aveva
partorito erano use tagliare il cordone ombelicale del bambino o bambina nato/a
e buttare, con intento augurale, nel fuoco del braciere o del focolare il pezzo
di cordone tagliato. A questa funzione seguiva un immediato festeggiamento con
ampia distribuzione di cibo e bevande, festeggiamento cui partecipavano oltre i
genitori ed i parenti prossimi del neonato o neonata, la/le mammana/e e tutti
coloro che, invitati o no, fossero intervenuti al rito della ustione del
cordone ombelicale. Dalla imitazione di questa situazione nacque il modo di
dire di cui all’epigrafe riferita a tutti coloro che profittassero di una
ricorrenza o festività per partecipare senza invito ad una approntata festa,
comportante distribuzione, spesso grande, di cibi e bevande; oppure riferita a
tutti coloro che avessero l’abitudine di presentarsi, senza preventivamente
annunciarsi, in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare
nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita. Tutto quanto qui
detto è da riferirsi espressamente al cittadino privato che approfitti di una
situazione festevole per parteciparvi e satollarsi di cibo o bevande. Per
indicare il medesimo atteggiamento da profittatore tenuto inizialmente non da
comuni cittadini. ma da militari a Napoli fu in uso un tempo l’espressione
appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda id
est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al
periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando si voglia commentare il
violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente,
intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma
non espressamente previsti per Lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno
spagnolo (1503 e ss.) i soldati iberici, di stanza in quelli che poi sarebbero
stati chiamati quartieri (spagnoli) a monte della strada di Toledo, erano usi
aggirarsi all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi
presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano
la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la
posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare
a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a
libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda che valse
dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi
estensivamente profittare di una qualsivoglia situazione opportuna per
conseguirne risultati favorevoli Si tratta dunque di espressione dal
significato un po’ piú esteso di quella in epigrafe che è invece usata piú
limitatamente per commentare l’atteggiamento di chi ottenga,
contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti
durante un festeggiamento).
menà verbo trans. = buttare, sospingere dentro o fuori ed
anche, ma meno comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente
assestare, dare con forza, picchiare; l’etimo è dal tardo lat. minare, propr.
'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';
velliculo s.vo m.le = letteralmente ombelico, ma nella
fattispecie solo una parte di esso e cioè il cordone ombelicale quello che una
volta che sia reciso lascia un mozzicone che opportunamente legato e ripiegato
verso l’interno forma il vero e proprio ombelico;l’etimo di velliculo è il
medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós
'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta
l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove:
bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida
nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus.
2.METTERE 'O PPEPE 'NCULO Â ZÒCCOLA.
Letteralmente: introdurre pepe nell’ano di un ratto.
Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora
ci si serviva in primis, come mezzo di trasporto, delle navi , capitava che sui
bastimenti mercantili, assieme alle merci, attratti dalle granaglie, solcassero
i mari grossi topi ( in napoletano zoccole al sg zoccola dal lat. sorcula
diminutivo di sorex), che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave
da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace:
catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero nell'ano
delle bestie e poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che
avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine
dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime
e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati.
L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto
comportamento di chi, in Luogo di metter pace in una disputa,si diverte e gode
ad attizzare il fuoco della discussione fra terzi...
3.METTERE PRETE ‘E PONTA
Letteralmente: Frapporre pietre appuntite; id est: creare
artificiosi ostacoli. Locuzione da intendersi sia nel senso reale che in quello
traslato con riferimento all’azione ostile di chi[per solito donne
invidiose],al solo fine di impedire a qualcuno/a il raggiungimento di uno scopo
si adoperi astiosamente e con cattiveria contro quel/quella qualcuno/a per
frammettere, inframmezzare, inserire reali o figurati intoppi, impedimenti, impacci,
impicci, ingombri, intralci, paragonabili a pietre pericolosamente aguzze e
nelle quali si possa inciampare, ferendosi.
prete s.vo f.le pl. di preta = pietra, nome generico per
indicare blocchi o frammenti di minerale o di roccia veri o figurati. voce
etimologicamente lettura metatetica del lat. petra(m)→preta-m , che è dal gr.
pétra.
ponta s.vo f.le =punta, estremità acuminata di qualcosa;
voce dal lat. tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere
'pungere'.
4.METTERE PUTECA
Letteralmente: Mettere bottega; id est: principiare
un’attività commerciale o di servizio impiantandone una bottega.
puteca s.vo f.le = bottega, negozio, esercizio, rivendita,
emporio, laboratorio, officina; voce dal greco apothéki→(a)pot(h)éki→puteca.
5.METTERE RECCHIE P’ ‘E PPERTOSE
Letteralmente: Porre le orecchie per i pertugi; id est:
porsi all’attento ascolto, origliare, orecchiare, usciolare con attenzione e
continuità al fine di non lasciarsi sfuggire notizie e/o voci che potrebbero
riuscire utili, se non necessarie per l’azione che si à in mente di condurre in
porto o che già sia in corso d’opera.
pertose = buchi; s.vo
f.le pl. metafonetico del maschile pertuso (dal t. lat. *pertusu(m)); di
pertuso esiste anche il normale pl. masch. pertusi/e. Piú chiaramente rammento
che il plurale del nome maschile pertuso
è femminile (‘e ppertose) quando ci si riferisce al complesso dei fori
[veri o figurati ]del corpo umano, nonché alle asole degli abiti considerati
nel loro complesso; è invece maschile (‘e pertuse) quando ci si riferisce o ai medesimi fori
[veri o figurati ]del corpo umano, nonché alle asole degli abiti considerati
non nel loro complesso, ma numericamente
[es.: ‘e dduje pertuse d’’e rrecchie/’e tre pertuse d’’a ggiacchetta] oppure ci
si riferisca ad una pluralità di piccoli e stretti tuguri, di piú stamberghe o
straducole o vie strette e buie.
BRAK
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