ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI
parte 2ª
Ecco ora un
altro mestiere antico e praticamente ormai desueto. Parlo de
‘o sapunaro s.vo m.le letteralmente
venditore girovago che compra e rivende roba usata di scarso valore, rigattiere, robivecchi; tale venditore girovago aduso a
comprare e rivendere, per poche lire,
roba vecchia, usata, di scarso
valore tra cui pentolame, cenci, ed
abiti dismessi era solito offrire in cambio di détte merci in luogo di (sia
pure poco) danaro, del sapone voce che è dal tardo lat. sapone(m),
e che indicò in origine una 'miscela di cenere e sego per tingere i
capelli', voce di orig. germ. ( sapp) solo successivamente la voce sapone indicò le paste usate quali
detergenti. Rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette
industriali che conosciamo, ma un tipo
di sapone artigianale molto morbido e di
colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria e non per la pulizia personale), che veniva ceduto avvolto in fogli di carta
oleata, a mo’ di fétte, staccandole con
una lama da un congruo parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone
‘e piazza= sapone della piazza, forse perché venduto non in una qualche
specifica bottega (come è invece per
altre merci) , ma esclusivamente per istrada /piazza dai
venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi
(saponari ) che ne erano
anche i produttori artigianali secondo
antiche ricette ; va da sé che la voce a margine deriva da sapone(m) + il suff.
di competenza arius→aro.
Parliamo ora di
alcuni mestieri, due femminili gli
altri maschili, irrimediabilmente
spariti con il progresso ed il consumismo dilagante. Il primo mestiere esercitato dalle donne e solo dalle
donne di cui dico fu quello di
capera cioè pettinatrice
girovaga che pettinava, con particolare attenzione e capacità ,giovani o mature
popolane che (assise su di una sedia di
paglia spesso en plein air all’imboccatura del proprio terraneo, ch’era bottega e/o
abitazione) si affidavano alla sua esperienza e competenza. Quello della capera
era un lavoro lungo e faticoso tenendo
presente l’abbondanza della capigliatura
di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima in trecce
e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette e pettinesse, in
crocchie che in napoletano si dicono tuppi.
Come ò détto si trattava d’una pettinatrice che girando casa per casa,basso per
basso, terraneo per terraneo,non si limitava a pettinare le sue clienti ma
amava riportare sussurrando ai loro
orecchi tutti i fatti soprattutto
se piccanti appresi in altre
case, per cui la capera era a tutta ragione
considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé
che le notizie, apprese in gran segreto,
circolavano súbito, diventando di dominio comune.
capera s.vo f.le = in
primis 1 pettinatrice, parrucchiera,
acconciatrice.
2 per traslato = pettegola, persona che à l’abitudine di fare e scambiare
chiacchiere sul conto degli altri, riportando indiscretamente e con malevolenza
fatti privati altrui e abbandonandosi con gusto ad allusioni e commenti
maliziosi.
voce dal lat. volg. *capa(m) addizionato del suff. f.le di
pertinenza era; il m.le è iere (cfr. salumera ma salumiere,
cantenera ma canteniere etc. ).
tuppe s.vo m.le pl. del
sg tuppo = tupè/tuppè, crocchia,
chignon, rotolo o treccia di capelli avvolti a ciambella e fermati sopra la
nuca; voce adattamento del fr. toupet .
L’altro mestiere tipicamente femminile fu
quello della lavannara (lavandaia), mestiere che durò fino a tutti i primi
anni ’60 del 1900 quando nelle case degli operai evoluti e della piccola
borghesia apparvero le prime
lavatrici/lavabiancheria elettriche domestiche
provviste dapprima di vasca per il lavaggio e di rulli per la strizzatura, rulli poi sostituiti con un piú funzionale cestello centrifuga.
La lavannara (lavandaia) fu colei che con cadenza settimanale o bisettimanale nel caso
di famiglie numerose passava di casa in casa ritirando la biancheria da
detergere e sbiancare che poi provvedeva
a lavare presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un
paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della
città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia e spesso nelle
eleganti case di costoro non esisteva ‘o
lavaturo (il lavatoio) in pietra, aggeggio essenziale per procedere all’operazione di
lavatura dei panni; tale lavaturo (
lavatoio) esisteva invece in tutte le
case della città bassa e la lavandaia dava corso alla sua opera settimanalmente o bisettimanalmente direttamente nel
domicilio delle clienti. Nella nostra casa di via Foria in un passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu
demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da
un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una
grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi
avambracci e dai grossi polpacci segnati
da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza
(di cui ò détto), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla
dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando come pure ò
già ricordato, la cenere del vicino focolare; terminata la colata poneva la
biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( voce forgiata sul greco
kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco
óstrakon→òst(r)ako(n)→àsteco = lastrico solare, loggia), dove la biancheria
lavata era posta ad asciugarsi,
adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra
delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da
padroni.
bucato s.vo m.le
1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o
altri detersivi: fare il bucato
| lenzuola di bucato, appena lavate, pulitissime
2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il
bucato.
Deriv. del francone *bukon 'immergere'
Culata s. f. 1 lavatura della biancheria
fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi;
2 la biancheria già lavata.
Deverbale di colare che è dal lat. colare deriv. di colum (filtro)
cennerale s. m. grosso
telo (usato durante il bucato) a trama
larga su cui venivano sistemati pezzi di
arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere (prelevata dal
focolare domestico o acquista da un rivenditore girovago); sulla cenere ed i
pezzi d’arbusto si lasciava colare dell’acqua bollente addizzionata, magari di
altre essenze profumate; la voce a margine è un denominale del lat. cinere(m) (affine al gr. kónis
'polvere’)addizionato del suff. alis→ale un
tempo usato per formare gli aggettivi, ma poi anche nomi concreti.
E mi occupo adesso di quattro mestieri esercitati, sino a
tutta la prima metà del 1900 e poi irrimediabilmente spariti, come ò détto con
il progresso ed il consumismo dilagante.
, da uomini e solo da uomini. Abbiamo nell’ordine
‘o cenneraro s.vo m.le = ceneraio
commerciante girovago che ,alla voce “Oj ne' 'o cenneraro!”,un tempo, comprava
e rivendeva alle massaie cenere da
usarsi per il bucato sistemata su di ungrosso
telo a trama larga ch’era il già détto cennerale venduto a chi ne fósse sprovvisto dal medesimo cenneraro; sul telo, come ricordato, venivano sistemati arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere; si lasciava poi
colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze
profumate, quando tutta l’acqua era passata
e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di
sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un
ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole
augurandosi che questo non fósse mancato
e anzi, fósse
stabilmente presente facendo capolino tra le nuvole.
‘o cenneraro s.vo m.le è etimologicamente voce denominale di cennere
( dal lat. cinere(m),con raddoppiamento espressivo della
nasale dentale (n) cinere(m) è affine al gr. kónis 'polvere')addizionato del suffisso di competenza arius→aro
variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali.
E veniamo al
conciambrielle s.vo
m.le = ombrellaio, riparatore di parasole e parapioggia; artiere girovago
che armato di pochi ferri del mestiere, qualche pezzo di ricambio (stecche
d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro)e tanta pazienza riparava ombrelli illico et immediate, seduto sul marciapiedi all’imboccatura di
bassi e palazzi.Rammento en passant che fino a tutto il 1950 il possesso
di un ombrello elegante e funzionante
forniva ai giovanotti l'occasione per
contattare ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.Questo
artiere girovago di cui dico svolgeva spesso anche il mestiere di conciatiane
s.vo m.le = era colui che
riparava stoviglie rotte di terracotta o
ceramica. Il suo lavoro di riparatore era un lavoro di pazienza e precisione
consistendo nel recuperare dapprima tutti i pezzi d’ una stoviglia
rotta, spalmarne i lembi con del mastice adesivo di propria segreta produzione,
far combaciare con precisione i pezzi e
ricucirli , dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano
provvisto di punta sottile) dei
minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per
torsione; il lavoro veniva completato
spalmando ad abundantiam con mastice le connessure.
la voce conciambrielle s.vo m.le è etimologicamente il
risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª
pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià
= aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di
*comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o
atona ad u ) con il s.vo m.le pl. ‘mbrielle pl. metafonetico del sg. ‘mbrello (
adattamento al m.le del lat. tardo umbrella(m)→’mbrellu(m)→’mbrello,
rifacimento, secondo umbra 'ombra', del lat. class. umbella
'parasole').
La voce conciatiane s.vo m.le è invece etimologicamente il
risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª
pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià
= aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di
*comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o
atona ad u ) con il s.vo f.le pl. tiane pl. m del sg. tiana
s.vo f.le = pentola, tegame a
bordo alto; è voce che à un collaterale nel m.le tiano utilità simili se non uguali
che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per
la lessatura di taluni cibi; etimologicamente ambedue dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; rammento che in questo caso si fa eccezione alla regola che vuole che in napoletano
si consideri femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.:
tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo –
carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno
eccezione appunto tiano piú grande -
tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. )ed il maschile tiano indica una pentola piú grande della
femminile tiana; nella tiana si
potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie
minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal
latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto
minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era
giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile;
Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu
un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani
della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de
ll’arganattore s.vo m.le che
indicava un tintore di panni che usava
una sostanza colorante: l’alcanna volgarmente détta détta arganetta (adattamento dell’ant. fr. arquanet diminutivo di arcanne=
alcanna); da arganetta si trasse il nome del mestiere; l’alcanna (dal
lat. mediev. alchanna(m), che è
dall'ar. alhinna, cfr. henna)
è
un arbusto perenne con fiori profumati e foglie ovate (fam.
Borraginacee), da cui si ricava una sostanza usata in tintoria e nella
confezione di cosmetici e medicinali.
E termino accennando al mestiere che non è piú
errabondo dell’arrotino di forbici, di
coltelli per usi domestici,ed artigianali (macellai, sellai etc.), di rasoi da
barbiere, mestiere che perdura in qualche sparuta bottega: nella città bassa
non v’è che una sola caotica botteguccia confinata in un angolo di piazza san
Francesco. Sto dicendo de
l'ammolafrobbice
s.vo m.le = arrotino girovago
che sospingeva, in giro per i rioni della città soprattutto bassa, un
suo caratteristico carrettino sormontato
dalla mola azionata da un pedale a tavoletta, corredata d’un supporto
ligneo a cui era attaccato un barattolo di latta donde a goccia a goccia
stillava dell’acqua per inumidir la mola e favorire l’affilatura delle lame; sul finire degli
anni ’50 del 1900 l’arrotino che serviva i clienti di Foria dismise il suo
carrettino sostituendolo con una bicicletta con manubrio da passeggio al quale
era anteposta la mola con il suo ambaradan di piano d’appoggio e barattolo
dell’acqua; una volta che avesse raggiunto un luogo consono a richiamar clienti
e avesse dato stabilità alla bicicletta azionando il cavalletto,l’arrotino
azionava la mola con sciolte pedalate. Poi invecchiò e smise di lavorare e noi
di Foria dovemmo obtorto collo reperire l’arrotino all’angolo di piazza san Francesco.
ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino
La voce è etimologicamente il risultato
dell’agglutinazione della voce verbale ammola (3ª pers. sg. ind. pres.
dell’infinito ammulà = arrotare,
molare, affilare ( dal lat. *ad-molare, derivato del
lat. mola(m), dalla stessa radice di molere
'macinare'= mola, utensile rotante costituito da un disco di materiale
abrasivo, usato in diverse macchine utensili (molatrici, affilatrici,
levigatrici, rettificatrici ecc.); normale il
passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. frobbice
= forbici; la voce napoletana è una lettura metatetica del lat. volg. *forbice(m)→
*frobice(m)→ *frobbice(m)
per il class. forfice(m), nom. forfex con il tipico raddoppiamento espressivo
della occlusiva bilabiale sonora
(b)
E chiudo queste paginette soffermandomi ora su di un mestiere da
venditore girovagoche esistette un tempo ed oggi ancóra esiste solo nelle zone
piú popolari della città bassa; si tratta di mestiere che dirò stagionale
atteso che chi lo esercitava (uomo o donna) cambiava con rotazione
stagionale la merce da vendere: in primavera ed in estate questa/o venditrice/tore girovaga/o
offriva pannocchie di mais (‘e spogne)
una volta bollite, altra volta abbrustolite, mentre in autunno ed inverno offriva castagne che se lessate con la buccia
dura erano chiamate vallene/vallane o bballuotte,
se lessate senza buccia dura erano détte
allesse; quando poi invece erano
abbrustolite prendevano il nome di veróle.
Tale venditrice/tore girovaga/o cambiava con la merce anche il nome ed era
semplicente chella o chillo d’ ‘e spogne quando vendeva pannocchie di mais,
ed era chella o chillo d’ ‘e vvallane o
d’allesse se vendeva castagne lessate, mentre finalmente era ‘a castagnara
oppure ‘o castagnaro se vendeva castagne arrostite/bruciate. Scendiamo un po’ nei particolari. Questa/o
venditrice/tore girovaga/o si serviva di un rabberciato, ampio
carruociolo/carruocciolo, trainato con una cordicella, carruociolo/carruocciolo su cui era montato un gran braciere
alimentato a carbone sul quale
insisteva un paiolo nel quale
erano lessate o le pannocchie di mais (‘e
spogne) oppure le castagne chiamate vallene/vallane
o quelle détte allesse; quando
poi la merce non andava lessata, ma abbrustolita, braciere e paiolo erano
sostituiti da un alto fucone anch’esso
alimentato a carbone sormontato da una griglia per abbrustolire le
pannocchie (spogne) o da un padellone forato (verularo) per abbrustolire/bruciare le castagne (veróle).
Qui giunti esaminiamo le significative
voci incontrate:
spogna s.vo f.le
1.in primis spugna
2 per traslato ingegno della
chiave
3. per traslato come nel caso che
ci occupapannocchia di mais
4. per traslato gran bevitore;
i significati traslati sub 2 e 3 semanticamente si ricollegano al primo per una
somiglianza di forma; quello sub 4 si ricollega al primo per somiglianza di
funzione: quella di assorbire; voce metatetica
del lat. spongia(m), dal gr. sponghía;
vàllene/vàllane s.vo f.le plur. del m.le vàlleno/vàllano= marrone, varietà di castagna
piú grossa e pregiata della normale castagna ; come questa privata del riccio
e della dura scorza esterna e lessata
in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata
dall’acc.vo lat. bàlanu(m), con tipica alternanza partenopea b/v e
raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (l), tipico nel
tipo di parole sdrucciole (cfr. còllera←cholera(m); quando le castagne siano
bollite private del riccio, ma non della buccia dura vengon piú acconciamente détte bballuotte
(voce derivata con gran probabilità dall'ar. ballut 'ghianda');a margine
della voce in esame rammento una gustosa, antica espressione popolare usata
sarcasticamente quando ci si voglia riferire alla pochezza di mezzi economici
conferiti per il raggiungimento di uno scopo; quando quei mezzi siano molto
esigui s’usa dire: Aeh, ce accatte ‘o
ssale p’’e vallane! (Eh,ci copri il sale per le castagne bollite);
allesse s.vo f.le plur. di allessa= castagna privata
del riccio e della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di
foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dal part. pass. femm. del
tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo
lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità in quanto nulla osta al passaggio
che riporto elixare→alissare→allissare→allessare e da quest’ultimo il part.
pass allessato/a→allessa(to/a)→allessa;
veróla s.vo f.le =
caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce diffusa, specialmente al
plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne arrostite) e delle valleni
(castagne bollite)) sia nella Campania che nel Lazio che nelle Marche;
verularo s.vo m.le= padellone
bucherellato per arrostirvi le castagne;ma è voce quasi esclusivamente campana,
denominale della precedente verola addizionata del suffisso aro/a suff. di competenza per sostantivi o aggettivi derivati dal latino o
formati in italiano, che indicano oggetti,ma soprattutto mestieri (putecaro/bottegaio,rilurgiaro/orologiaio) oppure luoghi(lutammaro/letamaio), ambiente pieno di
qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa suffisso che continua il
lat. arius→aro; lo stesso latino
a(r)iu(s) à dato l’italiano aio che
in napoletano è spesso nei suffissi
composti ajo.
carruociolo/carruocciolo s.vo m.le una tavola di legno di forma rettangolare
all’incirca cm.70/80
di lunghezza e cm. 20/25
di larghezza, poggiante su due assi fisse sporgenti inchiodati nel solo punto
centrale, portanti ciascuno due rotelle all’estremità.
Come rotelle si
utilizzano generalmente cuscinetti meccanici usati, dismessi e donati da
qualche meccanico.Veniva usato sia come mezzo per trasporto di merci e/o masserizie
(come nel caso che ci occupa),sia come giocattolo per bambini che dopo una breve rincorsa, salendovi sopra, affrontavano discese abbastanza ripide
riuscendo ad effettuare anche delle curve, grazie alla parte anteriore del carruociolo/carruocciolo
sagomata con due tagli ad angoli retti per permettere alle ruote anteriori di
sterzare per mezzo di tiranti, collegati a queste ultime e ad un manubrio
fissato su un piccolo ceppo, posto sopra la tavola. la voce fu attestata nella
doppia morfologia: carruociolo/carruocciolo; la prima fu usata nella città
bassa, in luogo piú pianeggiante dove il giocattolo non dovendo affrontare
ripide discese,veniva trainato
risultando meno rumoroso cosa che suggeriva l’uso di un nome piú
dolce evitando di raddoppiare l'affricata palatale sorda (c);
la morfologia carruocciolo (con raddoppiamento espressivo dell'affricata palatale sorda (c)
fu usata in collina dove la presenza di declivi ripidi favoriva la rumorosità
del mezzo e suggeriva l’uso d’ un nome piú duro; in ambedue le morfologie la voce etimologicamente è dal tardo latino, di origine gallica carruculum-
dim. di carrus.
fucone s.vo m.le: fornello, focolare, caldano di grosse dimensioni contenente
il fuoco usato in istrada; su di esso
era poggiata la griglia per arrostire le spighe di mais, oppure il
padellone forato per le caldarroste oppure
il calderone colmo d'olio per la cottura delle pizze fritte; voce denominale del tardo lat. *fōcu(m) per il class. fŏcu(m).
Tratto ora, concludendo, di altro antico (pressoché sparito)
mestiere girovago peculiare della città bassa e di pertinenza maschile,
ancorché lo potesse fare anche una donna, ma – a mia memoria – mai m’occorse di
vederne. Sto dicendo del mestiere del ventrajuolo détto anche cajunzaro e piú modernamente carnacuttaro che fu il venditore girovago, su di un
approntato carrettino del complesso
delle trippe o frattaglie bovine o suine
già nettate e lessate al vapore,
pronte per essere consumate
servite (tranciate in piccoli pezzi) su
minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa erano prima irrorati
col succo di limone e poi cosparsi con del sale che veniva prelevato da un
corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale, corno tappato alla
base con un congruo sughero e bucato
sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno veniva portato dal
venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendulo sul davanti del
corpo.Dall’osservazione della figura del ventrajuolo/cajunzaro/ carnacottaro e
del suo modo di portare il corno per distribuire il sale si coniò
un’icastica,furbesca espressione che qui riporto:
Mo t''o ppiglio 'a faccia 'o cuorno d''a
carnacotta
Letteralmente: Adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Con
tale espressione suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in
possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla.Come si
vede ci si riferisce al corno del ventrajuolo/cajunzaro/ carnacottaro portato pendulo in vita; proprio la vicinanza con intuibili parti
anatomiche maschili del corpo,
permettono alla locuzione di avere un suo significato furbesco con cui si vuol
comunicare che ci si trova nell'impossibilità reale o volontaria di aderire alle richieste.
sull’avverbio di tempo mo = ora, adesso poco fa
che
è un’interessantissima voce occorre
ch’io mi dilunghi.
Nel napoletano vuoi nei testi
scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in
esame usato per significare: ora, adesso
e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo
significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla
vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter
tranquillamente definire cittadino o
provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o
aperta (mò) connota il cittadino e se è pronunciato con la o chiusa(mó), connota il provinciale.
questo mo che è possibile trovare,
ma erroneamente anche come mo'
o ancóra mò à una lunga
tradizione storica, ma non si è quasi
mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato
all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
nel napoletano anche
nella forma iterata mmo mmo con tipico
raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito,immantinente, immediatamente, senza
por tempo in mezzo
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola
inesame?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia
della parola, unica strada forse da
percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi
scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine
dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si
scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene
apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente
indicato dall’apposizione di un segno
diacritico (’).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, súbito, come io reputo che sia,
ecco che la faccenda diviene piú semplice
e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un
termine, per motivi etimologici, perde
una sola o piú consonanti in fin di
parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare
graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che ciò che accade
per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano,
per la parola cu (con) derivante dal
latino cum per pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una
doppia consonante ( m – r - st ) e non
una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (’ ) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La
stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi)
avverbio che in italiano è là; sia
l’avv. napoletano che quello italiano sono
ambedue derivati dal lat.
(i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare
distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.le. C’è invece un
napoletano po’ che necessita
dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª p. sg. ind. pres. di
potere) che derivando dal lat. pote(st)→pote→po(te)→po’
comporta la caduta d’una vera
sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere
gli omofoni po = poi e po’ = può. Rammento infine che nel
napoletano non esiste un po’ apocope
di poco ( apocope che invece esiste
nell’italiano) poi che nel napoletano poco
è sempre usato in forma intera poco (cfr.
‘nu poco ‘e…(un po’ di…) - a ppoco â vota (un po’ alla volta);
nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una
consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope
(’ ): sto parlando della negazione nun= non
che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la
confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre
fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non
addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di
rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno
diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che
è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio
di parola un piccolo segno (‘)
comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non
fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo di chi
scrive (si chiamassero pure Di
Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e giú giú fino
ad E.De Filippo.)
cuorno s.vo
m.le = corno
prominenza
cornea o ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente
cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di
molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla
fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con
etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏ→uo nella
sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far
ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e
ccorne) laddove nel plurale maschile
è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e
ccorne è usato per indicare le
protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi
rispettivamente dalla propria
compagna, o dal proprio compagno, mentre
con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti
musicali a fiato o i piccoli o
grossi amuleti di corallo rosso usati come portafortuna;ugualmente con valore
di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla
testa, messi a seccare, opportunamete vuotati
e talvolta tinti di rosso tali cuorne,
non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea a
precisi requisiti, dovendo necessariamente
essere russo, tuosto, stuorto e vacante pena la sua inutilità
come porte-bonheur.
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per
il class. ruber;
tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tostu(m), part. pass. di torríre
'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea
della o→uo;
stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato del lat. tortu(m), part. pass. del lat.
volg. *torquere, per il class. torquìre con prostesi di una s intensiva e tipica dittongazione partenopea della o→uo;
vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare
= esser vuoto, mancante, libero di; non bisogna dimenticare l’esistenza d’un altro tipico cuorno quello appunto del
carnacuttaro s.vo m.le =
girovago venditore di trippe bovine che nettate, lavate, e lessate vengon vendute al minuto
opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta
oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno
bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del
sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di
sughero voce denominale di carnacotta s.vo f.le = nome generico usato per indicare le trippe bovine o
suine già lessate ed atte al consumo; per ottenere la voce a margine:
carnacuttaro, al s.vo carnacotta
(agglutinazione funzionale di carne + cotta) è aggiunto il suff. aro (cfr.
antea) ;carnacotta addizionato di aro per metafonia divenne carnacutta.
cajunzaro s.vo
m.le = voce antica e desueta, sinonimo del precedente; denominale
di cajonza
s.vo f.le = sacco intestinale
, trippa, intestini delle bestie vaccine
macellate; voce adattamento dello spagnolo callos→cajons→cajonza;
in ispagnolo c’è anche l’espressione callos
de tripa puntualmente riprodotta nel napoletano callo ‘e trippa per indicare un
determinato tipo di carnacotta; anche
per la voce a margine si ricorse al suff. aro
(cfr. antea) addizionato al s.vo cajonza
che per metafonia divenne cajunza e
diede cajunzaro.
ventrajuolo s.vo m.le = voce antica e desueta,
sinonimo delle precedenti: 1 trippaio,
venditore di trippa, e anche di altre
interiora bovine già pulite e lessate.2 per estensione operaio macellatore che nei mattatoi lavora
nel reparto tripperia.... voce denominale di ventre [lat. venter-tris] (sinon. di addome e del piú comune e piú familiare pancia, per indicare sia la
cavità dell’addome contenente i visceri sia la regione esterna corrispondente,
nell’uomo e negli animali) addizionato del suff. ajulo suffisso
costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente
in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo,
vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che
stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo).
E
cosí penso proprio d’avere contentato l’amico A.L. ed interessato
anche qualcun altro dei miei
ventiquattro lettori e chi forte
dovesse imbattersi in queste paginette. Penso perciò di
poter concludere con il consueto satis
est.
R.Bracale
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