mercoledì 29 maggio 2013
DOLCE TIPICO DI CARNEVALE
DOLCE TIPICO DI CARNEVALE
Questo dolce tipico del periodo di Carnevale, comunissimo in tutta l’Italia, quale che sia il nome regionale che prenda à una sola antichissima tradizione che risale agli antichi romani ed alle loro frictilia: dolci di farina di mais, fritti nel grasso di maiale e conditi con il miele, che nell'antica Roma venivano preparati intorno al 500 a.C. quando si celebravano a Roma le Liberalia, le feste delle divinità dispensatrici del 'vino e del grano nel giorno del 17 marzo. In onore di Sileno, compagno di bagordi e precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino addizionato di miele e spezie e si friggevano profumate frittelle di frumento; questi dolci venivano prodotti in gran quantità poiché dovevano durare per un lungo periodo.
Si tratta di dolci, poco lievitati, molto friabili, ma croccanti che, tradizionalmente vengono fritti, oggi però anche (dieteticamente…, ma scioccamente) cotti al forno ed infine cosparsi di zucchero al velo. Attualmente sono preparazioni tipiche del periodo di Carnevale e vengon chiamate con nomi diversi a seconda delle regioni di provenienza: chiacchiere e lattughe in Lombardia, cenci e donzelle in Toscana, frappe nel Lazio, sfrappole o lasagne in Emilia, cròstoli in Trentino, galani o gale in Veneto, bugíe o rosoni in Piemonte, pampuglie(nelle Puglie e talora Campania[a Napoli, nella città bassa]), lengue d’ ‘a socra (a Napoli[nella zona collinare] ed in Campania). Ne do súbito la ricetta ed in coda tratterò ove sia possibile l’etimo e la semantica dei varî nomi.
Eccone per ora la ricetta(riporto quella napoletana, comunque affine a quelle delle altre regioni :
Ingredienti
600 gr farina,
100 gr. zucchero,
50 gr. di strutto,
4 uova,
1 bicchiere vino bianco secco,
1 tazzina di anice,
abbondante zucchero al velo,
½ bustina di lievito per dolci,
sale fino q.s.,
abbondante olio x friggere.
Preparazione
Mischiare su una spianatoia dandole una forma a fontana la farina, lo zucchero, il lievito ed un pizzico di sale; rompervi le tre uova, unire lo strutto, il vino ed il liquore. Impastare bene finché non si ottienga una pasta soda e compatta. Farla riposare, coperta da un canevaccio, per 30 minuti, indi stenderla col matterello allo spessore di circa 3 mm, poi tagliare la sfoglia con una rotella ondulata in strisce di cm. 7 x 2. Mandare a temperatura abbondante olio per frittura in una tegame alto e profondo e friggervi velocemente le strisce di pasta . Appena dorate scolarle ed adagiarle su dei fogli di carta assorbente; servirle tiepide o fredde su di un piatto di portata cosparse abbondantemente di zucchero al velo.
Giunti a questo punto esamino etimo e semantica dei varî nomi con i quali il doce viene chiamato nelle differenti regioni; premesso che quasi tutti (se non tutti) i nomi fanno riferimento alla forma a nastrino del dolce, dirò che il dolce à il nome di
1)chiacchiere e lattughe in Lombardia; semanticamente il primo nome chiacchiere si spiega con un percorso da sineddoche; il dolce à una forma di striscia che richiama una lingua quella con la quale si articolano le chiacchiere (voce onomatopeica deverbale di chiacchierare) che di per sé indicano le conversazioni su argomenti di poca importanza; discorsi inutili, futili; dalla lingua richiamata dalla forma del nastro di pasta, si perviene per metinomia o sineddoche alla chiacchiera nome con cui è noto in Lombardia ed anche altrove il dolce di cui parliamo; ugualmente sempre riferendosi alla forma lunga e dentellata del nastro di pasta si giunge al nome di lattuga/ghe pianta erbacea coltivata negli orti, le cui foglie tenere si mangiano in insalata; détte foglie sono spesso appunto strette, lunghe e dentellate; di per sé il termine lattuga è dal lat. lactuca(m), deriv. di lac lactis 'latte', per il liquido lattiginoso che secerne; ricordo che con il nome di lattuga si indica altresí la gala di merletto o di tela inamidata e increspata, che gli uomini portavano per ornamento sul davanti delle camicie, la gorgiera; la forma del dolce in esame può richiamare oltre che le foglie della lattuga le medesime gale di merletto o di tela inamidata e increspata; non per niente infatti, tenendo presente détta forma richiamante le gale di merletto o di tela inamidata e increspata, nel Veneto il dolce prende per l’appunto il nome di
2)gale o galani (gala s. f. striscia increspata di trina o di stoffa; nastro o fiocco che si mette per ornamento dal sp. gala 'guarnizione di vestiti'; mentre galano/i è dal fr. galan di significato analogo allo spagnolo gala;
3)cenci e donzelle in Toscana; sempe in riferimento alla forma del dolce in esame che può richiamare oltre che le foglie della lattuga, anche le gale di merletto o di tela inamidata e increspata; va da sé che quando le originarie trine di merletto o tela inamidata non fossero perfettamente stirate o inamidate potevano apparire piú degli stracci che degli ornamenti, da ciò ne derivò che nel salace linguaggio popolare dei toscani la gala divenisse cencio(dal lat. centiu(m)= centone, brandello, pezzo di stoffa vecchio e logoro; in partic., quello usatoperlepuliziedomestiche;mentre è da ricercarsi in una metinomia la semantica del termine donzella/e (dal provenz. donsela, che è dal lat. dom(i)nicella(m), dim. di domina 'padrona') essendo queste ultime solite ornarsi di gale e merletti.
4)frappe nel Lazio; il termine frappa fa sempre riferimento alla forma a nastro del dolce; infatti frappa è un s.vo f.le che indica (quale deverbale del fr. frapper)
1 striscia di stoffa increspata e smerlata, posta per guarnizione ad abiti, tende ecc.
2 la smerlatura delle foglie scolpite o dipinte; la raffigurazione del fogliame in arte
3 spec. pl. nell'Italia centrale, dolce a forma di nastro, fritto e spolverato di zucchero, tipico del periodo di carnevale; altrove chiamato chiacchiere, cenci ecc.
5)sfrappole o lasagne in Emilia; anche in questa regione il nome con cui è indicato il dolce fa riferimento alla sua forma a nastro di talché si ottengono i due nomi a margine: sfrappole ( marcato etimologicamente sul precedente frappe con l’aggiunta d’un prefisso intensivo (s) ed un suffisso ipocoristico (ole); e lasagne (s. f. che di per sé, con derivazione dal lat. volg. *lasania(m), deriv. del class. lasanum 'pentola', che è dal gr. lásana, pl., 'tripode da cucina', indica in primis
1 spec. pl. sfoglia all'uovo tagliata in larghe strisce: (pasticcio di) lasagne al forno, piatto tipico emiliano fatto con lasagne a strati, ragù e besciamella; lasagne verdi, contenenti spinaci.
2 (ant.) strato di cera che rivestiva all'interno le forme di gesso entro cui si facevano i getti in bronzo.
3 spec. pl. nelle Romagne, dolce a forma di nastro, fritto e spolverato di zucchero, tipico del periodo di carnevale; altrove chiamato chiacchiere, cenci ecc.
6)cròstoli in Trentino; qui il nome oltre a far riferimento alla forma a nastro del dolce richiama la sua consistenza, la sua friabilità e croccantezza rappresentate dal lat. crustulu(m)donde crostolo/i;
7)bugíe o rosoni in Piemonte, anche qui il nome usato fa riferimento alla forma a nastro del dolce, ma sottolinea il fatto che il nastro deve risultare alla fine avvolto concentricamente a mo’ di rosone o di piattello della bugia;
rosone/i s. m. (arch.) ( accrescitivo di rosa)
1 nelle chiese romaniche e gotiche, grande finestra circolare posta al centro della facciata sopra la porta principale
2 elemento decorativo a forma di rosa.
3 spec. pl. nel Piemonte, dolce a forma di nastro avvolto a spirale concentrica, fritto e spolverato di zucchero, tipico del periodo di carnevale; altrove chiamato chiacchiere, cenci ecc.
Bugía/e bugía (di cui bugíe è il plurale) =1) altrove bugia, menzogna, nel significato di menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; ma qui nel caso che ci occupa
2) piattello ansato per ragger le candele;nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
3) spec. pl. nel Piemonte, dolce a forma di nastro avvolto a spirale concentrica, fritto e spolverato di zucchero, tipico del periodo di carnevale; altrove chiamato chiacchiere, cenci ecc.
8)pampuglie(Puglie ed anche Campania[a Napoli, nella città bassa])); anche nel caso della voce a margine, d’àmbito pugliese si fa sempre in riferimento alla forma a nastro del dolce, ma questa volta il nastro preso a modello non è una gala, una trina o una frappa, è invece molto piú prosasticamente la pampuglia che nel significato primo sta per piallatura,truciolo del legname ed estensivamente: inezia, cosa da nulla, bagatella, frivolezza e persino, come estrema valenza, come nel caso che ci occupa, quel tipo di dolce nastriforme carnascialesco altrove detto chiacchiera, bugia, frappa etc.
Prima di passare a dire dell’etimologia di pampuglia, voglio rammentare come esso termine nel precipuo significato di truciolo, piallatura à nell’idioma napoletano, sempre abbastanza attento, preciso e circostanziato, degli specificativi diversi secondo la forma o provenienza dei trucioli; abbiamo dunque: -pampuglia riccia quella a spirale da legno dolce, -pampuglia ‘e chianuzzella quella strettamente arrotolata, prodotta non dalla pialla grande, ma da una pialla piú stretta e piccola detta in napoletano chianuzzella che è il diminutivo di chianozza che è dal latino: planula attrezzo per render piano, privandolo delle asperità, un asse di legno, - pampuglia ‘e ‘ntraverzatura(deverbale del verbo ‘ntraverzà= attraversare, andando contro il primitivo senso di marcia) che è il truciolo, per solito di legni piú duri, ottenuti per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati.
E soffermiamoci sull’etimologia di pampuglia, etimologia non tranquillissima; un tempo si congetturò un neutro plurale tardo latino fabulía = favuli, gambi delle fave, che dopo la raccolta venivano estirpati, adeguatamente seccati ed usati per alimentare, tal quali le pampuglie lignee, i forni domestici; la seconda ipotesi, che a mio avviso mi pare un po’ piú percorribile si rifà ad un latino regionale: pampulia forgiata su un pampus forma sincopata di pampinus che è propriamente il pampino: tralcio di vite vestito di foglie, tralcio che se improduttivo viene resecato e destinato al fuoco. Da quanto ò détto è semplice dedurre che il nome usato nelle Puglie e talora in Campania per significare il dolce nastriforme carnascialesco, faccia riferimento alle piallature, ai trucioli, per solito di legni piú duri, ottenuti per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati; richiami cioé la pampuglia ‘e ‘ntraverzatura.
9)lengue d’ ‘a socra ( Napoli[zona collinare] e/o Campania): letteralmente lingue della suocera. Ò lasciato volutamente in coda il nome che in Campania, temporibus illis con il sarcasmo tipico dei partenopei significativamente alternandolo al nome pampuglie si indicò il dolce détto, ormai anche a Napoli…, chiacchiere, bugie, frappe; il nome a margine un tempo usato a Napoli e nel napoletano, ripeto in alternativa a pampuglie usato maggiormente nella città bassa (dove erano piú frequenti le botteghe di falegname) fa riferimento al fatto che il dolce à una forma di striscia che può richiamare la forma una lunga lingua dai bordi frastagliati, lingua che potrebbe essere quella maldicente(per la lunghezza) e pungente (per la frastagliatura) d’una suocera;
lengue s.vo f.le pl. di lengua = lingua, organo mobile della bocca, che compie i movimenti necessari alla masticazione, alla deglutizione ed all'articolazione della voce; con etimo sia per l’italiano che per il napoletano dal latino lingua(m)
socra s.vo f.le = suocera,in italiano la madre del marito o della moglie, rispetto all'altro coniuge; per il napoletano il fatto è un po’ diverso e lo chiarisco qui di séguito la voce napoletana socra è dal lat. class. *socra(m)←socru(m) ed è usata per indicare segnatamente la madre dello sposo per cui una donna per parlare della mamma del suo sposo dirà sòcrema (id est: la mia socra), mentre uno sposo per indicare la mamma della sposa dirà gnórema ( id est la mia gnora) dove ‘gnora sta per (si)gnora;
Nel parlato comune infatti si è cercato di dare il nome di mamma anche alla suocera, ma come dicevo, il napoletano è molto piú attento dell'italiano a talune sottigliezze emozionali per cui posto che – specialmente per il maschio napoletano - l'unica donna cui compete o possa competere il titolo di mamma è la propria genitrice diretta, ecco che il napoletano per significare la mamma della sua sposa ricorre al meno impegnativo e piú asettico si-gnora. Da tutto ciò se ne ricava che l’espressione ‘e llengue d’ ‘a socra fu coniato da una donna con riferimento alla lingua maldicente e pungente della mamma di suo marito; l’avesse coniata un uomo l’espressione con ogni probabilità sarebbe stata ‘e llengue d’ ‘a ‘gnora con riferimento alla lingua maldicente e pungente della mamma di sua moglie!
Satis est.
Raffaele Bracale
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