domenica 12 dicembre 2010

VARIE 915

1-Fà scennere 'na cosa da 'e ccoglie 'Abramo.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid ( sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta provenienza.
fà scennere = far discendere voci verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re l’infinito troncato fa è scritto fà preferito all’apocopato fa’ per evitare una possibile confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú derivato dal latino (de)scendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
cosa= cosa, termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve... sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione che produsse *cosa(m) ed il verbo *cosare usato in luogo di causare;
coglie= testicoli sostantivo femm. plur. del sing. coglia che dal neutro latino coleum (pl. colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della borsa che li conteneva
2 -Fà tre ffiche nove ròtele
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere.
Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba rate/ ratl,trasformazione a sua volta della parola greca litra, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
tre agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: l’etimo è dal latino tre(s);
fiche sost. femm. plurale di fica che è il frutto del fico, frutto che invece in italiano è maschile: fico, come la pianta da cui deriva; l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua della voce nordica figa) anche vulva, vagina con riferimento alla boccuccia, fenditura rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal maschile latino ficus reso femminile; ficus è da collegarsi al greco phýo= produco a sua volta dall’ebraico phag il tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che la vulva;
nove agg. num. card. numero naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m);
ròtele sost. masch. plurale metafonetico di ruotolo= rotolo di cui ò già detto.
3 - Fà fetecchia:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che, giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine.
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia è un acc. lat. volgare feticula(m) per il class. foeticula(m).

4 – fettiare o fittiare
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino, un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria.
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti una certa disponibilità economica e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano conserva anche il vocabolo fettíglie con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime azioni, un infastidire di lontano.


5- Chello ca nun se fa nun se sape o nun s’appura
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè verificato;
chello = quello, ciò che pron. dimostrativo neutro che indica cosa lontana da chi parla e da chi ascolta, o cosa non presente della quale si sta parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illa(m),
sape = sa voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza, apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio',
appura=, viene a conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne l'esattezza; mettere in chiaro (e nel linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar= depurare→verificare.
6 -'O pesce gruosso, magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella se combattuta apertamente da un piccolo contro un grande.
pesce = pesce, animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo, usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto al soggetto debole o di scarsa valenza economica- sociale (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m);
gruosso= grosso, che/chi à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso, potente, importante agg. qual. masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o di sillaba intesa breve nel masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o prevede la geminazione della gutturale d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la dittongazione non avviene ;
magna = mangia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;
a margine faccio notare come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo) in quanto la parlata napoletana, sulla scorta di un antico latino volgare parlato esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere) una a segnacaso che unita all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle);
piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec. per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa valenza socio-economica; l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo –femm. renèlla) che indica pochezza, parvità: es.: cusariéllo – cusarèlla (cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello, piccerenèlla(piccino/a);
7 - 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi chiunque faccia del bene ad un altro, in realtà mira certamente al proprio tornaconto che da tale azione apparentemente benefica gliene deriverà o potrà derivare prima o poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí del bene; infatti in realtà e fuor di vane illusioni, il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli insaccati ed affini che dalla macellazione del maiale si posson ricavare)
puorco sost. masch. = maiale, porco , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente persona che fa o dice cose oscene; con funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche come rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con tipica dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à infatti puorco masch. ma porca femm.
‘ngrassa =ingrassa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare, impinguire, allevare all’ingrasso con etimo denominale da un lat.tardo in (illativo) + grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio con grossus 'grosso';
sacicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare;
8 –Te pienze ca vaco mettenno 'a funa 'e notte?
Letteralmente: Pensi forse che io vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di notte; la medesima espressione interrogativa la si usa anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a significar loro che chi parla non si può certamente equiparare a quei masnadieri d’antan che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati e/o figlioli incontentabili.
te pienze = pensi tu? voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre etc.con etimo dal tardo lat. pensare, intensivo di pendere 'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale in napoletano il passaggio di ns→nz;
vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing. ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire; le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno come tema vac= vad sono derivate dal lat volgare vadere 'andare'come quelle italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere= mettere, porre, situare etc.
con etimo dallat. mittere'mandare' e 'porre, mettere';
funa= fune, corda, cavo sost. femm. dal lat. volg. *funa(m) per il class. fune(m);
‘e notte= di notte loc. avv. temporale dove ‘e= di sta per durante e notte è il sostantivo femminile indicante la parte del giorno solare, dal tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt.



9 - Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo augurio che vale : Possa tu morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e diretti al Camposanto, per cui augurare a qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
puozze= possa tu voce verbale (2° pers. sing. congiunt. pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;

passà= passare, transitare voce verbale infinito passare/passà con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo';
loggia = loggia di per sé edificio o parte di edificio aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui come luogo di riunione di persone che esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso – appartenenti ad una stessa città di provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano i loro traffici e commerci autoamministrandosi;attualmente la Loggia di Genova, ubicata un tempo a Napoli tra il c.d. Rettifilo e quello che poi sarebbe diventato il Borgo degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un tempo vi fu la Loggia ‘e Genova;
loggia sost. femm. talvolta a Napoli, impropriamente sinonimo di terrazzo (la loggia napoletana come elemento architettonico in realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato, quasi mai con calpestio piastrellato ed è circondata su tre lati da un parapetto in muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e piastrellato può essere anche coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in ferro non un parapetto in muratura) loggia etimologicamente è dal fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m), e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco';
Genova è la città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di mercanti si stabilirono automministrandosi ed aprendo botteghe per i loro traffici e commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in fitto dal vicereame napoletano;
10 - Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo partenopeo suole apostrofare ogni persona che faccia le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi propensa com’è , anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi; il medesimo appellativo se lo meritò uno scrittore nolano tale Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi appunto della Loggia de’ Genovesi dove stazionava la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivono osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori) il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú e si dovette contentare d’affiancarlo, diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e non è riuscita neppure ad affiancare il famosissimo pesto alla genovese. Ora qui di sèguito, segnalo la tradizionale ricetta della napoletana genovese.
Dosi per 6 persone
2 Kg cipolle dorate
1 Kg di Spezzato di manzo adulto (preferibilmente ricavato dalla pancia o dalla corazza)
o in alternativa 1 kg. di fette
di locena (soggolo) di manzo da cui ricavare involti (brasciole) imbottiti di uva passita, pinoli,cubetti di pecorino, prezzemolo tritato, sale, pepe nero e legati con spago da cucina
una carota
una costa di sedano
due bicchieri vino bianco secco
un bicchiere e mezzo di olio extravergine di oliva

Un pomodoro pelato (facoltativo)
sale fino e pepe nero macinato q.s.
600 gr. di rigatoni
1 etto di pecorino possibilmente laticauda grattugiato

Procedimento
Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido; solo quando la cipolle saranno abbastanza asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.

Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50 minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!) facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
Con questo sugo condite i rigatoni lessati al dente e mandateli in tavola spolverizzati di formaggio grattugiato e di abbondante pepe nero.
La carne la servirete come pietanza accompagnata da un’insalata verde o patate fritte.
Mangia Napoli, bbona salute!!!! e ringraziatemi.
Raffaele Bracale 15/12/06

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