NAPOLETANISMI E/O MERIDIONALISMI NELL’ITALIANO
parte 1°
Questa volta su precisa richiesta di piú di un amico cercherò di illustrare un congruo elenco di voci figlie del napoletano o altri linguaggi meridionali, pervenute ed in uso nella lingua nazionale. Abbiamo:
Abbuffarsi/abboffarsi verbo riflessivo che vale mangiare voracemente ed in abbondanza fino a risultarne satollo e quasi gonfio; il verbo a margine è marcato sul nap. Abbuffà/are che vale gonfiare, ingrossare, allargare,ed estensivamente esagerare, ingrandire, montare, pompare; quanto all’etimo il verbo nap. da cui quello a margine è un denominale del lat. bufo/onis= rospo;
Alice s.f. in primis termine di pertinenza ittica usato per indicare un tipico pesce di mare, noto anche col nome di acciuga,sardella,sardina comune nel Mediterraneo e lungo le coste europee dell'Atlantico, con corpo affusolato, dorso azzurro/verdognolo e ventre argenteo (ord. Clupeiformi); si conserva sotto sale o sott'olio e viene impiegato per intingoli e salse; figuratamente persona magrissima; voce derivata dal lat. (h)allìce(m) 'salsa di pesce'; nel napoletano con la locuzione alice ‘e matenata= alice di mattino si indicò (tardo ‘800) le giovani ed eleganti adescatrici che solevano sostare sin dalle prime ore del giorno nelle piú frequentate strade cittadine agghindate di tutto punto, allo scopo di irretire… clienti; proprio il fatto che tali giovani prostitute fossero molto eleganti ed agghindate ed indossassero abiti con pizzi e merletti e spesso stringessero nella mano un ombrellino parasole, meritò loro l’alternativo nome di ‘mbrellino ‘e seta= ombrellino di seta.
Ammainare .v. tr. voce marinaresca: far scendere, abbassare una vela, una bandiera, un carico mediante un cavo a cui sono legati ; usato anche in senso figurato nel significato di desistere da un'impresa.Il verbo a margine fu nel napoletano antico (cfr. il Vocabolario di E. Rocco 1882) antico ammajenare tratto dal lat. volg. *invaginare o
*ad-vaginare→avvaginare→ammaginare→ammajenare= 'inguainare' o pure *(i)nvaginare → *ad-nva(g)inare →*ad-mmainare → ammainare.
Ammoina s. f. che nel lessico partenopeo suona anche ammuina; voce pervenuta nell’italiano come ammoina o ammuina o addirittura ammoino/ammuino, ma pure con voci verbali derivate: ammuinare/ammoinare. La voce vale confusione, baccano | fare ammoina, nel gergo marinaresco, darsi da fare disordinatamente e senza frutto, o per ostentare la propria laboriosità.
Comincerò col dire che in napoletano la voce in epigrafe e le corrispondenti voci verbali furono – nel lessico popolare – di quasi esclusiva competenza degli adolescenti ed indicarano essenzialmente il chiasso, la confusione, la rumorosa agitazione prodotta da costoro specialmente durante il giuoco, chiasso, confusione ed agitazione rumorosa che determinano negli adulti costretti a subirli, noia e fastidio; solo per estensione successivamente le parole riguardarono chiasso, confusione e baccano degli adulti ed addirittura se ne trasse l’espressione fare ammoina, che nel gergo marinaresco,come ò accennato, indicò il darsi da fare disordinatamente e senza frutto, o per ostentare la propria laboriosità e vi fu un capo ameno, ma scarico che, prendendo le mosse da tale gergo marinaresco(peraltro mercantile) con il palese scopo, seppur non dichiarato, di vilipendere i Borbone Due Sicilie si inventò un inesistente articolo: Facite ammuina attribuito alla marineria borbonica di Francesco II Due Sicilie.
Per amor di completezza ricorderò che il predetto fantasioso articolo recitava: All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora: chilli che stann' a destra vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a destra: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso: chi nun tiene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a llà.
Ò trascritto l’articolo pedissequamente (con tutti gli strafalcioni morfologici e/o grammaticali, nonché semantici…esistenti) cosí come l’ò travato in rete, stampato su di un evidentemente falso proclama reale recante lo stemma borbonico.
Non voglio soffermarmi piú del necessario sull’evidente falsità dell’articolo; mi limiterò ad osservare che essa si ricava già dal modo raffazzonato in cui è scritto; è evidente che il capo scarico che lo à vergato, mancava delle piú elementari cognizioni del linguaggio napoletano: basti osservare in che modo errato sono scritti tuttie le voci verbali, terminanti tutte con un assurdo segno d’apocope (‘) o di una ancora piú assurda elisione, in luogo della corretta vocale semimuta.A ciò si deve aggiungere l’incongruo, fantasioso congiuntivo esortativo che conclude l’articolo: s’aremeni, congiuntivo che è chiaramente preso a modello dal toscano, ma non appartiene al napoletano che usa ed avrebbe usato anche per il congiuntivo la voce s’aremena cosí come l’indicativo; infine non è ipotizzabile un monarca che, volendo codificare un regolamento in lingua napoletana, affinché fosse facilmente comprensibile alle proprie truppe incolte, si rivolgesse o fosse rivolto per farlo vergare a persona incapace o ignorante della lingua napoletana; ciò per dire che tutto l’evidentemente falso articolo fu pensato e vergato dal suo fantasioso autore, con ogni probabilità filosavoiardo in lingua italiana e poi, per cosí dire, tradotto seppure in modo sciatto ed approssimativo in un approssimativo napoletano, cosa che si evince oltre che da tutto ciò che fin qui ò annotato dal fatto che nell’articolo (presunto napoletano) si parla di destra e sinistra, laddove è risaputo che i napoletani, anche i colti, usavano dire dritta e mancina.
Sistemata così la faccenda del Facite ammuina , torniamo alla parola in epigrafe e soffermiamoci sulla sua etimologia;
a prima vista si potrebbe ipotizzare, ma erroneamente che la parola ammoina sia stata forgiata sul toscano moina con tipico raddoppiamento consonantico iniziale ed agglutinazione dell’articolo la (‘a); ma a ciò osta il fatto che mentre il termine ammoina/ammuina sta, come detto, per chiasso, confusione, vociante baccano, la parola moina (dal basso latino movina(m)) sta ad indicare gesto, atto affettuoso, vezzo infantile; comportamento lezioso, sdolcinato, tutte cose evidentemente lontane dal chiasso e/o confusione che son propri dell’ ammoina/ammuina e lontane dal fastidio che da quel chiasso ne deriva all’adulto che, al contrario, è appagato e gratificato dalle moine infantili o talvolta da quelle femminili; sgombrato cosí il campo dirò che per approdare ad una accettabile etimologia di ammoina/ammuina occorre risalire proprio al fastidio, all’annoiare che il chiasso, la confusione, il vociante baccano procurano; tutte cose puntualmente rappresentate dal verbo spagnalo amohinar(infastidire, annoiare, addirittura rattristare) e convincersi che l’ ammoina/ammuina prima del napoletano e poi anche dell’italiano, altro non sono che deverbali del verbo spagnolo.
Arrangiarsi v. intr. pron.
1 mettersi d'accordo, venire a un accomodamento: arrangiarsi sul prezzo
2 darsi da fare come si può; anche, destreggiarsi con mezzi piú o meno leciti: si arrangia facendo piccoli lavori; arrangiati!, cavatela da solo | sistemarsi alla meglio: ci siamo arrangiati tutti in una stanza.
Il verbo a margine è un riflessivo di
Arrangiare v. tr.1 sistemare, accomodare, aggiustare alla meglio
2 (fam.) trovare, rimediare; mettere insieme in qualche modo: arrangiare il pranzo
3 adattare liberamente un pezzo musicale: arrangiare una canzone; sia arrangiare che arrangiarsi furono nel napoletano antico dove, con derivazione dal fr. arranger, deriv. di rang 'rango', era in uso quale voce gergale militaresca.
Bancarella meno com. bancherella, s. f. banco o carretto dei venditori ambulanti di merci varie, usata spec. nei mercati all'aperto; voce tipicamente napoletana, ma pure romana ed in genere del meridione; quanto all’etimo si tratta di un diminutivo (cfr. il suff. rella) dei sost. banca/panca (dal germ. bank) pervenuti nel lat. volgare (e di lí nel napoletano ad affiancare un’originaria chianca ←planca che già ebbe un suo diminutivo in chiancarella che non indicava però un banchetto o carrettino di venditori ambulanti di merci varie, ma il cosiddetto panconcello asse sottile di legno stagionato con la quale si coprirono impalcature , e/o travi di pavimenti e soffitti.
Basolato s.m. pavimentazione stradale a grandi lastre di pietra lavica; voce pervenuta nell’italiano per adattamento (cfr. alternamento v/b) del napoletano vasolato a sua volta ricavato da vasulo/vasolo= basola: grossa lastra di pietra lavica, in forma di parallelepipedo usata per pavimentare; la voce vasolo trae da basa=base.
Basso s.m. abitazione e/o bottega a livello stradale, piccola, spesso malsana ed insufficiente per il numero delle persone che la occupano. È voce pervenuta (cfr. D.E.I.) nella lingua nazionale dritto per dritto dalla lingua napoletana dove esistono alcune voci che pur derivando da un medesimo tardo latino ànno significati molto diversi tra di loro oltre che diversa funzione.
Sto parlando innanzitutto della voce nap. vascio che, come aggettivo, vale basso, poco elevato dal suolo o da un altro piano di riferimento; che si trova in posizione poco elevata (spesso correlato o contrapposto ad auto/aveto (alto), di statura non elevata anche se in tale accezione in napoletano è piú usato curto=corto, ma vascio vale pure poco profondo, esiguo, modico ed in talune circostanze abietto, vile, umile, modesto, mentre come sostantivo ‘o vascio è una modestissima abitazione monolocale , per solito insalubre, umida e senza luce posta a livello stradale abitata dal popolo minuto, quel medesimo monolocale che come dissi altrove fu detto anche funneco(fondaco); quanto all’etimo posso affermare (supportato in ciò dall’amico prof. Carlo Iandolo) che la derivazione della voce a margine è il tardo latino bassu(m) e non (come proposto dalla dr.ssa C. Marcato (in Cortelazzo/Marcato – Dizionario etimologico dei dialetti d’Italia) dal comparativo bassiu(m), atteso che sia in napoletano che in italiano la doppia ss seguita da vocale evolve da sola nel suono palatale sci (vedi ad es. examen= (e)ssamen→sciame o anche coxa→cossa→coscia) e dunque non occorre il gruppo ssiu di bassiu(m) per ottenere il napoletano vascio; è sufficiente bassu(m) con il tipico passaggio di b a v come in barca→varca, bocca→vocca, borsa→vorza etc. rammentando che in napoletano, senza una precisa regola la b può diventare v o raddoppiare b→bb specialmente se intervocalica E versa vice la v può diventare b.
Ciò detto rammenterò che la voce napoletana vascio , sia pure nell’adattamento/traduzione basso è pervenuta nella lingua nazionale sempre nel significato di modestissima abitazione monolocale , per solito insalubre, umida e senza luce posta a livello stradale abitata dal popolo minuto.
Proseguiamo; in napoletano e sempre con derivazione dal tardo latino bassu(m) esiste l’avv. abbascio= abbasso, in giù, di sotto, in basso; morfologicamente si è pervenuti ad abbascio partendo da bassu(m) attraverso la locuzione a basso, sul modello del fr. à bas; nella locuzione la voce basso à prodotto dapprima bascio e poi il raddoppiamento dell’esplosiva labiale b intervocalica invece del passaggio di b a v; ancòra, in napoletano sempre dalla voce bassu(m) abbiamo il verbo denominale avascià/avasciare= abbassare, calare, portare, mettere qualcosa piú in basso, ridurre l'altezza, il valore o l'intensità di qualcosa; verbo nel quale è riconoscibile la prostesi di una a eufonica che qui però (misteri della lingua napoletana!) non à prodotto il raddoppiamento della b come ci si sarebbe atteso alla luce di quanto detto precedentemente, e non à influito in alcun modo sul passaggio della b a v; si è avuto dunque bassu(m)→vascio→avasci+are=avasciare/avascià.
Giunti a questo punto, torniamo a soffermarci sulla parola basso; essa morfologicamente ed etimologicamente(tardo latino bassu(m)) è in tutto e per tutto uguale alla voce della lingua nazionale basso che è aggettivo [compar. piú basso o inferiore; superl. bassissimo o infimo]
poco elevato dal suolo o da un altro piano di riferimento etc. o anche sostantivo nel significato di terraneo, povera abitazione come abbiamo visto precedentemente; tutt’altra cosa la voce napoletana dell’epigrafe;
in napoletano il termine basso,( ma nell’accezione che segue, termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. E. Murolo) fu usato per indicare un indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu con molta probabilità detta in napoletano basso perché pare si indossasse inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto.
Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna.in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) della lingua napoletana, in mio possesso e che ò potuto consultare.
Dal punto di vista etimologico c’è da notare la particolarità che il tardo latino bassu(m) generando il sostantivo vascio (abitazione terranea) e l’agg.vo vascio (basso, corto) à comportato il passaggio di b a v e di ss a sci, mentre per il sostantivo basso (gonna) si è mantenuta l’identica morfologia del tardo latino, senza passaggi di sorta.
Bustarella s.f. voce nata nel napoletano nel XX sec. e di lí trasmigrata nel lessico nazionale (cfr. D.E.I.) nel significato di sussidio segreto chiuso in busta, mancia, compenso dato illecitamente a chi sia investito di una pubblica funzione per ottenerne favori, disbrigo sollecito di pratiche e sim. Quanto all’etimo trattasi di un diminutivo (cfr. suff. ella preceduto da un infisso ar) di busta che è dall’ ant. fr. boiste marcato sul tardo lat. buxida.
Caciocavallo s.m. voce usata in origine per indicare un formaggio tipico delle regioni meridionali prodotto esclusivamente con il latte delle vacche podoliche, alla maniera tradizionale e solo in certi periodi dell’anno: fine estate – principio autunno.La razza bovina podolica , un tempo dominante su tutto il territorio italiano, sopravvive ormai solo in alcune aree del Meridione: dorsali appenniniche della Campania, Sila, Puglia e Sicilia interna;oggi la voce a margine è usata un po’ dappertutto in Italia (per indicare formaggi anche non tipici, usurpando un nome che dovrebbe essere d’uso esclusivo campano e/o meridionale); il termine etimologicamente è un’agglutinazione delle voci cacio (formaggio) e cavallo e non perché –come inesattamente ritiene qualcuno – tali formaggi che son tipici dell'Italia merid., a pasta dura, dolce o piccante, in forme simili a grosse pere allungate, fatto con latte intero di vacca vengano conservati a coppie, legati a cavallo di un bastone, ma perché prodotti in altura dai pastori/casari vengon trasportati a valle a dorso di cavallo.
Cafone s.m. s. m. [f. -a] altra voce di accertata culla napoletana ed in genere meridionale (cfr. siciliano e calabrese: cafuni oltre l’identico cafone partenopeo) , pervenuta poi nel lessico nazionale ad indicare il contadino, il provinciale, il bifolco e per estensione la persona villana, zotica, maleducata: comportarsi da cafone. DIM. cafoncello
come agg. che è maleducato, villano o che denota un gusto volgare: un individuo cafone; una cravatta cafona. Come ò detto la voce di nascita fu campana e come riportato da tutti i dizionari della lingua napoletana con il termine cafone si intende il villano, lo zotico,il contadino; interessante nel napoletano la distinzione tra ‘o cafone sic et simpliciter usato per indicare il villano, il contadino, il bifolco proveniente dalla provincia napoletana, e ‘o cafone ‘e fora usato per indicare il villano, il contadino, il bifolco, piú spesso il montanaro provenienti da altre province campane e/o meridionali. In italiano non esiste distinzione di sorta e non v’ànno problemi in ordine alla definizione di cafone. Il problema sorge quando si comincia a congetturare intorno all’etimologia della parola..Ci sono numorose opinioni : in primis quella che, partendo da scritti di Cicerone(Filippiche ed altro), la riallaccia ad un nome personale di origine osca: CAFO riferito con tono spregiativo ad un uomo incolto e villano; qualche altro congettura una derivazione della voce dal nome di un centurione romano (Cafo, I sec. a. C.), a cui sarebbero stati elargiti dei fondi nell'agro campano; altra opinione è quella che riallaccia il termine cafone al verbo osco( verbo la cui esistenza, peraltro, non è provata) *kafare= zappare.Segnalo infine la proposta (che mi pare migliore di altre) ed alla quale mi sento di aderire, mettendo via una mia precedente idea, che a questo punto metto da parte ed abbandono per fare mia quella dell’amico prof. Carlo Jandolo, (proposta, ripresa per altro da una pregressa di G.Alessio), che collega la parola cafone al greco: skaphèus, collaterale di skapaneus= contadino, zappatore.
Escludo altresí, in quanto da ritenersi leggende metropolitane, le idee che cafone possa derivare dal fatto che gli abitanti dell’entroterra o della piú remota provincia onnicomprensivamente detti cafune, giungendo in città,vi camminassero legati gli un gli altri con una fune,per evitare di perdersi o l’altra idea che fossero detti cafune gli abitanti dell’entroterra o della piú remota provincia che venissero in città ad acquistare bestiame e vi giungessero armati di fune per legare e tirar via le bestie comprate.
Ciò annotato passo ad indicare quella che per un qualche tempo fu la mia diversa opinione che si fondava sul fatto che, storicamente, nel tardo ‘800 ed ai principi del ‘900 eran definiti, nel parlar comune,cafoni non solo gli zappatori, i villani e consimili, ma estensivamente un po’ tutti gli abitanti o i nativi dei paesini dell’entroterra campano, paesini arroccati sui monti ,-come quelli del sannio- beneventano, del casertano o dell’ alta Irpinia - difficili da raggiungere e chi li raggiungeva con carretti o altro aveva bisogno di aiuto per ascendere fino al paese propriamente detto. A tale bisogna provvedevano nerboruti paesani che scendevano incontro ai visitatori , ed erano armati di robuste funi con le quali aiutavano nell’ascensione le persone bisognose d’aiuto.Tali paesani erano indicati con la locuzione “chille cu ‘a fune o chille c’’a fune “ id est: quelli con la fune. Da c’’a fune a cafune il passo è breve ed opinai per un poco che fosse ipotizzabile che con esso termine cafune si indicassero tutti gli abitanti dell’entroterra o della piú remota provincia. cafune è comunque un plurale. Il singolare cafone pensai si sia formato successivamente tenendo presente i consueti fenomeni metafonetici della lingua napoletana alla stregua di guaglione che al plurale fa guagliune.
Oggi come ò già detto,convengo che la mia non sia ipotesi propriamente scientifica e possa apparire addirittura un’ipotesi paretimologica,tuttavia penso che, in mancanza di acclarate certezze, a chiunque è consentito percorrere strade impervie o diverse, salvo alla fine, ravvedersi e cambiare opinione, nell’inteso che sulo ‘e fesse nun cagnano maje idea (solo gli sciocchi non mutano mai opinione!).
Calamaro s.m.1 mollusco marino commestibile, simile alla seppia, ma con corpo allungato, ampie pinne laterali, sottile conchiglia interna e dieci tentacoli; in caso di pericolo emette una sostanza nera, detta comunemente inchiostro, che intorbida le acque (cl. Cefalopodi)
2 (fam.) traccia bluastra che compare sotto gli occhi di chi è molto stanco o ammalato.
Voce di origine partenopea usata nel napoletano sia per indicare il mollusco marino commestibile che il contenitore dell’inchiostro; semanticamente fu proprio il fatto che il mollusco in caso di pericolo emettesse una sostanza nera, detta comunemente inchiostro a fargli attribuire il medesimo nome di calamaro che con derivazione dal lat. calamariu(m) agg., deriv. di calamus 'canna, penna per scrivere' indicava in napoletano il contenitore dell’inchiostro.
Calzone s.m. voce maschilizzata ed accrescitiva (cfr. suff. one) di calza (dal lat. mediev. calcea(m), dal class. calceus 'scarpa, stivaletto'; 1 correttamente da usarsi al pl.per indicare l’indumento, in origine maschile ma oggi diffusissimo anche fra le donne, che copre il tronco dalla vita in giú e le gambe separatamente; pantalone: calzoni corti, lunghi, alla zuava | mettersi i calzoni lunghi;à messo i calzoni (fig.)detto di un ragazzo, diventare grande | farsela nei calzoni, (fig. fam.) avere una gran paura | è la moglie a portare i calzoni, (fig. fam.) a comandare in casa. DIM. calzoncini PEGG. calzonacci
2 ciascuna delle due parti dei calzoni che rivestono le gambe: calzone destro, sinistro
3 (gastr.) involucro di pasta di pane, in genere ripieno di mozzarella e prosciutto, che viene fritto o cotto in forno; è tipico di alcune cucine centromeridionali; è proprio in quest’ultima accezione che la voce nap. cazone→calzone è pervenuta nella lingua nazionale.
Camorra s. f.
1 associazione segreta criminale sorta a Napoli nei secc. XVI e XVII ma diffusasi soprattutto nell'Ottocento; regolata da un primitivo segreto codice d'onore, agí inizialmente nelle case di pena, dove taglieggiava i detenuti; piú tardi, con uno sviluppo parallelo a quello della mafia, prese via via il controllo del gioco clandestino, della prostituzione, del mercato alimentare, della speculazione edilizia, del contrabbando del tabacco e della droga;
2 (estens.) gruppo di persone che opera per realizzare illeciti vantaggi personali e collettivi a danno del diritto altrui; insomma setta di malviventi che uniti in consorteria tentano di procacciar con ogni mezzo lecito, ma piú spesso illecito, guadagni e benefici ai propri membri;
etimologicamente, a mio avviso, la originaria voce nap.(poi pervenuta nell’italiano) camorra piú che derivata dall’omofono ed omogrofo spagnolo camorra= rissa, contesa nell’inteso che l’affiliato alla camorra(camorrista) sia un attaccabriga, è corruzione ed adattamento di altro termine spagnolo, cioè di gamurra che, a sua volta è da chamarra = abito di foggia iberica preferito dalla peggior risma di lazzaroni partenopei);
voce derita da quella a margine, come ò già accennato è camorrista s. m. e f. [pl. m. -sti] 1 chi appartiene alla camorra, chi ne è affiliato, adepto, seguace ;
2 (estens.) chi favorisce gli amici a scapito della giustizia; chi cerca di ottenere mediante favoritismi ciò che non gli è dovuto.
Capitone s.m (ma nel napoletano neutro (cosí come molti altri nomi di alimenti {pane, caffè etc.}) termine ittico usato per indicare l’anguilla femmina di grosse dimensioni, pregiata per le sue carni;per traslato nell’italiano la voce a margine indicò anche un filo di seta grosso ed ineguale ed ancóra, forse per la forma, l’alare del focolare.Il capitone è cibo tradizionale, soprattutto a Napoli, delle feste natalizie; quanto all’etimo è dal lat. capitone(m) 'che à la testa grossa', deriv. di caput -pitis 'capo'.
Caponata o capponata, s. f. (gastr.) voce pervenuta nell’italiano dal napoletano (dove però è capunata) o forse piú esattamente dal siciliano (caponata); 1 galletta (vedi oltre fresella) ammorbidita nell'acqua e condita con olio sale ed aceto ed altri ortaggi e/o aromi.
2 specialità della cucina siciliana a base di melanzane e sedani fritti, olive, capperi e pomidoro. Le voci a margine ed altre che ibidem incontreremo indicano ad un dipresso in tutta Italia una zuppa o pietanza volta a volta calda o – piú spesso – fredda i cui ingredienti variano di regione in regione, ma in tutte partano da un comune sostrato rappresentato da pezzi di galletta, pane duro o biscottato opportunamente ammollati in acqua fredda, sui quali pezzi vengon sistemati, nella originaria versione fredda, i piú svariati ingredienti: olio, olive conce, acciughe sott’olio, capperi ed aceto e talvolta, in quella napoletana,oltre ai precedenti ingredienti, anche cipolle e pomidoro maturi.
Quasi solo in Sicilia la caponata è una zuppa calda di ortaggi fritti (melanzane, sedano) addizionati di capperi ed olive e ripassati in una salsa di pomidoro in agrodolce; tali ortaggi fritti vengon comunque serviti, sistemati su di un letto di pezzi di galletta, pane duro o biscottato (freselle) ammollati in acqua fredda.
Ciò detto precisiamo che i toscani chiamano la caponata fredda cappon magro; i liguri la dicon, dritto per dritto dallo spagnolo, caponada o capon de galera o anche cappone in quanto zuppa che veniva consumata sulle galee e furon proprio i marinai delle galee che furbescamente e per dileggio verso gli armatori diedero il nome di cappone (in assenza di quelli veri) a quella semplice zuppa fredda che risultava composta con del pane tagliato quasi come tagliato è il pollo castrato che prende il nome di cappone dal lat. volg. *cappone(m), per il class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare';
in sardo la caponata è capponada, mentre in italiano la voce caponata è anche capponata.
In lingua napoletana abbiamo capunata, e tutte le voci regionali ànno un probabile etimo iberico variamente adattato: caponada e si può ritenere che la ricetta originaria di zuppa fredda, i marinai l’abbiano mutuato dagli omologhi spagnoli e portata in giro (eccezion fatta per la Sicilia (dove non è azzardato pensare che l’abbiano portata gli arabi)) per tutta la penisola. Segnalo comunque che per la capunata napoletana l’amico prof. C.Iandolo propone una derivazione dal lat. caupona/ae= osteria in quanto la capunata sarebbe un prodotto tipico da osteria. L’idea è morfologicamente interessante per la presenza d’un consueto passaggio di au→a come in augustus→agosto, auscultare→ascoltare.
La caponata napoletana prevede, come segno distintivo, accanto all’uso del pomodoro, quello delle freselle irrorate d’olio d’oliva e.v.p.s. a f. ed addizionate di pomidoro maturi grossolanamente spezzettati, cipolla rossa o dorata affettata, capperi ed olive nere denocciolate, acciughe sott’olio, origano, sale e pepe.
A margine e completamento di quanto detto preciso che accanto all’etimo iberico caponada, per la voce partenopea capunata non è inesatto pensare ad un denominale di un lat. volgare caupona/ae= osteria in quanto la capunata fu un prodotto tipico di osteria; quanto alla morfologia, è normale il passaggio di au→a pretonica come augustus→agosto.
Cardello s. m. , più spesso nel diminutivo cardellino ant. e tosc. calderino, uccellino variopinto, comunissimo in Italia, con fronte e gola rosse, fascia gialla sulle ali, becco conico; è buon cantatore (ord. Passeriformi); la voce italiana a margine è un inutile adattamento morfologico del nap. cardillo che trasse la voce dal lat. volg. cardellu(m), per il class. card(u)ílis, deriv. di carduus '(uccello) del cardo'
Carosello s. m. 1 in età rinascimentale, torneo di cavalieri che si esibivano in esercizi spettacolari gareggiando tra loro | (estens.) evoluzione o parata di cavalieri, e oggi anche di mezzi motorizzati, per celebrare ricorrenze o festività: il carosello dei carabinieri
2 giostra per i bambini, nelle fiere
3 qualunque movimento circolare vorticoso (anche fig.): un carosello di automobili; un carosello di idee
4 breve programma pubblicitario trasmesso un tempo dalla televisione italiana e divenuto molto popolare; la voce italiana a margine è pervenuta nell’italiano per adattamento morfologico (cfr. D.E.I.)marcata sul napoletano carusiello (salvadanaio di creta)diminutivo di caruso 'testa rapata', poi 'palla di creta', poiché in origine pare che i cavalieri giostranti si lanciassero palle di creta; rammento a margine che la voce caruso è anche nel siciliano per indicare un ragazzo, un bambino, quelli che – per motivi di pulizia – usan portare la testa rasata.
Carrozzella s. f. 1 vettura a quattro ruote, con chiusura a mantice, trainata da un cavallo, per il trasporto di un contenuto numero persone (massimo quattro), piú il vetturino che però è sulla cassetta della vettura.
2 carrozzina per bambini
3 veicolo, a motore o spinto a mano, per il trasporto di persone invalide | finire in, sulla carrozzella, diventare invalido
4 a Roma, a Napoli e in altre città meridionali, piccola carrozza di piazza per il trasporto di al massimo quattro persone, oltre il vetturino che siede a cassetta; è proprio in questa accezione che la voce nap. carruzzella è pervenuta nell’italiano attraverso un adattamento morfologico; pur essendo vettura in uso anche a Roma, colà non è detta carruzzella/carrozzella ma botticella ecco perché reputo che la voce a margine sia un autenticonapoletanismo/meridionalismo atteso che il termine botticella non à mai passato i confini laziali. Rammento, circa la botticella romana, che quantunque il D.E.I.lo derivi quale diminutivo da botte, preferisco la scuola di pensiero che reputa botticella un derivato del francese boite, nomignolo affibbiato alle carrozze da piazza romane dagli zuavi francesi (di stanza a Roma intorno al 1850) per essere le vetture eccessivamente contenute: quasi delle piccole scatole. Quanto all’etimo, carruzzella donde carrozzella è un diminutivo (cfr. il suff. ella) di carrozza che è da un lat. carroccja con il consueto passaggio di ccj a zz.
Cazzata s. f. voce napoletana in origine di provenienza gergale poi d’uso generale nel linguaggio del popolo basso per significare errore marchiano, sciocchezza, stupidaggine,azione sciocca, scemenza, insensatezza, scempiaggine, bestialità, fesseria.
Voce, come ò detto e qui ripeto del napoletano(dove nacque con provenienza da cazzo che è termine marinaresco dal greco akation= albero della nave), quasi che l’azione sciocca o sconsiderata cui si dia il nome a margine fosse compiuta da un cazzo e non da un soggetto pensante; voce pervenuta dal napoletano tal quale nell’italiano dove spesso però è eufemizzata in cacchiata come ugualmente si suole eufemizzare in cacchio! la corposa esclamazione cazzo!
Chiatto a.m. e/o s.m.
1 detto di battello, che è a fondo piatto; asse di legno molto larga
2 (agg.vo) detto di persona, grasso. ACCR. chiattone
Pure questa a margine è un napoletanismo accolto nel linguaggio familiare dell’italiano; quanto all’etimo è un derivato del lat.volg. *plattu(m) equivalente a planus; cfr. il greco platýs; normale nel napoletano il passaggio di pl+vocale o di cl+vocale a chi cfr. pluere→chiovere, clausum→chiuso.
Chiavica s.f. 1 fogna, cloaca (anche fig.)
2 struttura edificata all'origine o allo sbocco di un canale, dotata di paratie per regolare il deflusso delle acque.
Altro napoletanismo accolto nella lingua italiano con un piccolo, quanto inutile adattamento morfologico: in napoletano la voce, nel significato sub 1, è registrata come chiàveca; quanto all’etimo è un derivato del lat. tardo clavica(m), per il class. clovaca(m).
Ciuccio s. m. 1 asino, ciuco
2 (fig.) persona ignorante | ragazzo che non riesce negli studi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una voce napoletana pervenuta poi nell’italiano: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola:chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo, qui come altrove, quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva ;persino il D.E.I. quanto all’etimo di ciuccio arzigogola un per nulla convincente deverbale di ciucciare = poppare, quasi che l’asino/ciuccio fosse un animale perennemente poppante; che assurda pretesa! Del resto anche la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare perciò piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguíta è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
Citrullo agg. e s. m. [f. -a] sciocco, babbeo. persona stupida, che agisce con poco cervello DIM. citrullino ACCR. citrullone PEGG. citrullaccio
citrullamente avv. da citrullo. Voce che è un contenutissimo adattamento morfologico del napoletano cetrullo= cetriolo,uomo goffo e sciocco dal lat. volg. *citriolum, deriv. di citrus 'cedro' per il colore, con il seguente passaggio morfologico: citrōlium→citrulium→cetrullium→cetrullo donde il citrullo italiano; semanticamente la forma cilindrica dell’ortaggio giustifica il passaggio metaforico da cetrullo/citrullo a sciocco, babbeo mentre morfologicamente è normale la chiusura della tonica lunga ō in u ed il raddoppiamento espressivo della liquida l nella sillaba finale.
Coppola s.f. voce napoletana ed in genere meridionale usata per indicare il berretto basso con visiera, usato spec. in Sicilia ed un po’ tutto il meridione, portato ben calcato sulla nuca e per il tramite della visiera, tirato in avanti quasi sugli occhi; quanto all’etimo la voce risulta derivata dal tardo latino *cuppola diminutivo (vedi suff. ola) di cuppa(m) per il classico cupa(m) che indicò oltre che la botte, il barile etc. anche qualsiasi oggetto che avesse forma concava o ondeggiante e persino la nuca, quella stessa su cui, come ò detto si porta ben calcato il berretto a margine.
Faraglione s. m. scoglio grande ed erto, staccato dalla costa come residuo dell'erosione marina: es.: i faraglioni di Capri. Voce passata nell’italiano proveniente dai linguaggi dell’Italia meridionale e segnatamente da quello partenopeo dove etimologicamente giunse marcato sull’iberico farallón; non è perseguibile l’idea che la voce a margine derivi da faro.
Fesso agg. e s. m. [f. -a] (pop.) sciocco, balordo (detto spec. di persona) | fare fesso qualcuno, ingannarlo, imbrogliarlo; con diversa accezione: stanco, spossato e con diversa provenienza agg. (ant. , lett.) spaccato, tagliato per il lungo.Ò parlato di diversa provenienza, perché la voce a margine nella prima accezione di sciocco, balordo, stupido etc. è voce napoletana pervenuta nell’italiano per traslato con adattamento al maschile di un’originaria voce napoletana femm. fessa(part. pass. di fendere) = vulva
Fresella s.f. voce di pretta origine meridionale usata per indicare un particolare gustosissimo tipo di biscotto o galletta secca che per essere consumata occorre spezzettare ed ammorbidire in acqua o brodo;
la fresella napoletana, e meridionale in genere, altro non è che una fetta di pane messa nuovamente nel forno (e dunque biscottata): ma basta spugnarla con un po’ d’acqua, ed ecco che, “dopo molto tempo”, quel pane lo si ritrova, pronto all’uso. La fresella è un cibo povero. Nel senso di “adatto ai poveri”, perché costa poco.
Ma è povera anche lei, priva com’è di tutto. Anche di grassi, il che la rende perfetta per le diete. Assai piú dei crackers, e dei grissini che son grassi anzi che no, essendo fatti con l’olio, o con altri grassi, nel maldestro tentativo di dar loro un po’ di sapore. Ma proprio qui sta la grandezza della fresella: lei non pretende nemmeno di avercelo, il sapore. La fresella si candida come umile compagna di viaggio, e in questo è impagabile. La sua asciuttezza le rende resistente al tempo ed alla distanza: trattandosi di pane già secco in partenza, non può infatti diventare secca.
E soprattutto, non va a male.
Va piuttosto a mare: i marinai, costretti a lunghi mesi di navigazione senza toccare terra, se ne portavano appresso quantità ragguardevoli. Se la mangiavano sul mare, e col mare: spugnandola cioè in un po’ d’acqua salata. In modo da ammorbidirla e salarla al punto giusto.
Non che abbiano smesso di farlo: le classiche gallette, ultima risorsa alimentare in condizioni di emergenza, sono strette parenti della fresella. Forse per via della storia di esploratrice e di giramondo che à, la fresella sta bene con tutto. E con tutti. La morte sua? Amica dei marinai com’è, il suo elemento è l’acqua. Da quella di mare, già citata, all’acqua dei fagioli. E per restare nel liquido, il brodo di polpo, ed il sugo della trippa (zuppa ‘e carnacotta).
La fresella è l’ingrediente-base della caponata. Una caponata senza la fresella è come Roma senza il Colosseo, Milano senza il Duomo, Napoli senza il Vesuvio: un’assurdità. Per fare la vera caponata (napoletana), insieme alla fresella devono esserci l’olio, il pomodoro, l’origano e il sale (un pizzico, mai troppo!). Almeno in origine: poi vi si aggiungeranno ad libitum le acciughe (per l’apporto proteico), uova sode e, talvolta, le olive verdi. Ma della caponata ò già detto.
Tornando alla fresella, della sua presenza nel sud d’Italia ci sono testimonianze già a partire dal 1300. Di lei rimane l’eco nelle voci dei venditori ambulanti. A Napoli le freselle le vendeva il tarallaro, che batteva incessantemente le strade della città coi suoi mitici taralli ‘nzogna e ppepe contenuti entro una grande sporta, e tenuti in caldo con una coperta o sacchi di juta. Spesso il tarallaro si portava appresso anche un po’ di freselle (come si vede, ancora una volta in posizione subalterna, mai protagoniste).
Intorno al 1870 questo era il grido del tarallaro: “Pe se scarfà lu vernecale dinto a chistu piattiello, cótene cu freselle ogneduno sta a magnà!”(Per riscaldar lo stomaco, ognuno mangia in questo piattino cotiche con freselle”) .
Cibo per lo stomaco del popolo, la fresella è perciò presente nella lingua del popolo: il dialetto. E proprio in dialetto la citano due grandi della poesia napoletana, Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
A segnalare la familiarità dei napoletani con la fresella, a Napoli questo termine passò, nei secoli scorsi, ad indicare le percosse (‘e mazzate), e l’organo sessuale femminile (“Chella guagliona teneva sotto ‘na fresella….”) .
Nel passaggio dal vernacolo alla lingua; dal popolino alla cultura, la fresella sparisce. Nei dizionari italiani non comparve affatto, (ma oggi, finalmente!, il Treccani à reso giustizia alla voce a margine…) se non in quelli gastronomici. Uno per tutti, il Piccinardi, che alla voce frisella (a mio avviso, improvvido ed inutile adattamento dell’originaria fresella o frisedda” recita: “Pane biscottato a forma di ciambella tipico della Puglia e della Campania. Viene fatto con farina bianca o integrale, acqua e lievito di birra. E dopo una prima cottura viene tagliato a metà e rimesso in forno a biscottare. Prima di essere consumato va ammorbidito in acqua fredda….”
Come per la caponata, sull’origine del termine fresella non vi sono certezze. Sgomberiamo per prima cosa il campo dalle false etimologie, che chissà perché sono di solito le piú accreditate: fresella non deriva da fresa (. Semanticamente le due cose non ànno visibilmente niente in comune, senza contare che la fresa (utensile a taglienti multipli che, montato su una fresatrice, un tornio o un trapano, serve per produrre scanalature, profili sagomati, allargare fori ecc.voce derivata dal francese fraise, deriv. di fraiser, propr. 'pieghettare') è nata molto tempo dopo (fine XVIII sec.). Né è ipotizzabile, quantunque sostenuto da un qualche dotto studioso che fresella provenga da una fresa del latino med. dove stette per fava pestata; anche in questo caso mi pare che la semantica osti.
E nemmeno proviene da fresillo: in napoletano, nastrino. Anche se la forma oblunga di talune freselle potrebbe richiamare, alla lontana, un nastro.
Certe etimologie verrebbe voglia di accreditarle solo per rendere omaggio alla fantasia degli studiosi che le ànno partorite. È il caso di questa che segue : frisoles, che però in spagnolo vuol dire fagioli. Ed è appunto nella già ricordata acqua di fagioli bolliti che un tempo veniva spugnata la fresella. Peccato che questa pratica fosse solo una delle tante, e certamente non la piú diffusa, tale da poter determinare il nome del biscotto intinto nell’acqua dei fagioli!
Fresella deriva invece, con buona probabilità, se non certezza, dal latino frendere, che vuol dire, spezzettare, macinare, pestare, stritolare; e dunque fresella è un diminutivo del part. pass. f.le fresa del verbo frendere.Plinio usava infatti questo verbo nell’accezione di ridurre in piccoli pezzi, e dalla medesima radice verbale proviene l’aggettivo friabile. Ed in effetti la croccante e ruvida fresella, per esser consumata, dev’essere piú o meno ammorbidita nell’acqua o in altri liquidi, e poi sminuzzata per essere assunta con soddisfazione, anche senza l’aggiunta di condimenti o altro.
Fusillo s. m. voce merid.e segnatamente partenopea (gastron.) Spec. al plur., sorta di pasta a forma di piccole strisce attorcigliate a spirale; quanto all’etimo si tratta di un diminutivo (cfr. il suff. illo ) della voce fuso(arnese di legno dalla caratteristica forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate, usato nella filatura per produrre mediante rotazione la torsione del filo etc. ) voce che è dal lat. fusu(m)
Guaglione s.m. altra voce che, pur se accolta in tutti i dizionari della lingua italiana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigrata; con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco piú che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui
rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie, ‘o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro piú o meno stabilmente retribuito; pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e – quando si tratti di piccolissimo - anche anema ‘e Ddio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo il vocabolo scatenato la fantasia di addetti ai lavori e/o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi piú disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo piú perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma non v’à chi non sio possa render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci occupiamo dal greco gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Rholfs, che (lasciandosi stranamente, per uno studioso di chiarissima fama, suggestionare da una sorta di assonanza…) accosta la parola guaglione a guagnone e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che che tirano dentro le parole latine : qualus= cesto e qualis= quale, termini che chiaramente sono inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa marginalmente dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato *valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou) stranamente simile al suono del nostro guagliú (vocativo di guagliune plurale di guaglione; si tratta di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada con il guaglione partenopeo, troppe sono le discrepanze morfologiche e semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza.Non dimentichiamo che in francese il termine voyou è un sostantivo che indica . un mascalzone, una canaglia, un delinquentello ed ancóra un giovinastro, un ragazzaccio; tutte queste connotazioni negative, mi pare siano estranee guaglione (ragazzo) in quanto tale.
Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi di far discendere dal sempre vivo basso latino galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra. Ricorderò d’aver ritrovato attestato la voce galionem a pag. 640 del Du Cange – Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis.
Guappo s.m. voce viva e vegeta con molti derivati nei linguaggi partenopeo e/o meridionali, voce nata al sud ed ivi testimoniata fin dalla fine del XVII sec., ma trasmigrata dapprima in area lombarda e poi accolta nel lessico nazionale nei significati di prepotente, sopraffattore, prevaricatore, tirannico, aggressivo, arrogante, bullo, sfaccendato, audace, e poi anche ostentato nel vestire e nell’incedere e da ultimo (XX sec.) teppista, bravaccio, camorrista, persona sfrontata e tracotante, spavaldo.
Quanto all’etimo la maggioranza degli addetti ai lavori, a cominciare dal D.E.I., propendono per una culla iberica (guapo= bello, vistoso) la cosa però non mi convince molto attesa anche l’esistenza della voce francese guape = teppista che, a quel che pare, fu recepita nello spagnolo che ne trasse il suo guapo dal quale poi il napoletano avrebbe mutuato il suo guappo; solo un’attenta ricerca storico-linguistica ci potrebbe dire perché mai il napoletano avrebbe dovuto attingere nello spagnolo e non direttamente dal francese gergale antico; confesso di non essere attrezzato per una tale attenta ricerca storico-linguistica; mi limiterò perciò ad evitare sia la via iberica che quella francese, per tornare a percorre, in ottima compagnia: Cortelazzo- Zolli, come già feci alibi, la strada di un lat.classico vappa=, vinello inacetito
e per trasl. dissipatore, degenerato, uomo buono a nulla, cattivo soggetto; in tale ipotesi non osterebbe, a mio avviso, la mutazione metaplasmatica (?) di v in g presente anche alibi come ad es.: vorpa/volpa→golpa che è dal latino vulpe(m) o al contrario di g in v come ad es in gulio→vulio= voglia.
Iettatura s.f. 1 influsso malefico che, secondo la superstizione popolare, sarebbe esercitato da alcune persone o cose 2 (estens.) sfortuna, disdetta.
Tipica voce partenopea attestata la prima volta nel 1777 in Nicola Valletta (Arienzo 1750 - † Napoli 1814 professore degli Istituti Civili e di Diritto Romano all'Università di Napoli)nel suo Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura. La voce, e la derivata iettatore,( persona che esercita influssi malefici) sono approdate nel lessico dell’italiano sia pure con il piccolo adattamento morfologico di sostituzione dell’originaria j di jettatura ed jettatore con una piú ovvia i ottenendo iettatura ed iettatore. Tranquilli gli etimi di iettatura ed iettatore che risultano ambedue deverbali di jettà/are= gettare, lanciare (qui influssi malefici) il verbo napoletano jettà/are trae dal lat. *iectare→iettare intensivo di iàcere= scagliare via.
Impepata s. f. usato soprattutto nella loc. impepata di cozze, (gastr.) che è una tipica pietanza a base di cozze fatte bollire in acqua salata (talvolta) di mare e poi condite con olio, spezie e molto pepe o peperoncino; è un piatto tipico della cucina napoletana e/o pugliese (Taranto) la voce risulta essere un deverbale (part. pass.) di impepare (condire con pepe; rendere piccante (anche fig.): impepare una pietanza; impepare un racconto con molte salacità.).
Inciucio s.m.è la voce partenopea nciucio ad aver dato l’italiano inciucio che vale intrigo, sobillamento, pettegolezzo ed in ambito politico-giornalistico: accordo confabulatorio non lineare, frutto di basso compromesso.
La voce nciucio risulta essere, etimologicamente un deverbale di nciucià a sua volta verbo derivato da un suono onomatopeico (ciuciú)riproducente il parlottío tipico di chi confabula.
Partendo da tale premessa ne risulta che la n d’avvio di nciucio e nciucià non è derivata da un in illativo, ma è una semplice consonante prostetica eufonica (come ad. es. nel caso di nc’è per c’è) ; erra perciò chi scrive in napoletano ‘nciucio o ’nciucià con un pletorico ed inutile segno d’aferesi (‘); è l’italiano – come ò detto - che à derivato la voce a margine dal napoletano (seppure in modo cialtronescamente raffazzonato, avendo pensato la n d’avvio del napoletano nciucio, un residuo di in( che nell’italiano è stato erroneamente ricostruito)fino a dare inciucio mutuato dal napoletano nciucià, non è il napoletano nciucio ad esser derivato dall’ inciucio italiano (nel qual caso sarebbe stato opportuno e l’aferesi e la scrittura ‘nciucio).
Intrallazzo s.m. La voce a margine pervenuta nella lingua nazionale (sia pure non nella forma aferizzata ‘ntrallazzo, ma nella forma di intrallazzo) con particolare riferimento d’ambito socio-politico, è voce non eccessivamente antica (risale infatti agli anni tra il 1940 ed il 1950)ed è di origine centro- meridionale: Abruzzo, Campania, Silicia; attualmente significa: imbroglio, raggiro, intrigo, ma originariamente stette per: scambio illecito di beni o di favori e con le voci: ‘nderlacce (abruzzese), ‘ntrallazzu (siciliano) e appunto ‘ntrallazzo o anche ‘nterlazzo (napoletano) si identificò dapprima il mercato o borsa nera e solo per stensione
l’ imbroglio, il raggiro,l’intrigo dapprima quelli generici, poi segnatamente – complice il linguaggio mediatico – quelli d’àmbito socio-politico.
Di non tranquilla lettura l’etimologia della voce a margine;
dai piú si pensa ch’essa derivi dal sicil. 'ntrallazzu 'intreccio, intrigo', a sua volta deriv. del lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio', ma – pur non potendo negare un’ evidente somiglianza tra il siciliano 'ntrallazzu ed il napoletano ‘ntrallazzo penso che per il partenopeo, piú che ad un prestito siciliano, si possa risalire ad un antico tramite catalano: entralasar o anche un antico francese: entralacer ; sia il verbo catalano che quello francese furono forgiati sul precennato lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio'e valsero: impaniare, intralciare, avviluppare donde il significato di azione che si manifesti in un imbroglio, raggiro,’intrigo; va da sé che il mercato/borsa nera configuri il medesimo imbroglio, raggiro,intrigo.
A questo punto non ci resterebbe che discutere se sia stato il napoletano o il siciliano a cedere alla lingua nazionale il vocabolo in esame; ma – atteso che comunque si tratta di un meridionalismo, lo stabilire l’esatta paternità sarebbe una questione di lana caprina nella quale è inutile e/o pericoloso addentrarsi ed io evito di entrarvi. E passo oltre.
Lampàra s. f. barca dotata di una grossa lampada la cui luce attira pesci in branco, usata per la pesca notturna con una speciale rete; anche, la lampada e la rete stesse.trattasi di una voce tipicamente meridionale ( d’uso fra i pescatori della Campania,Calabria, Puglia, Sicilia); quanto all’etimo penso si tratti non di voce derivata da lampada con successiva rotacizzazione della dentale d→r, ma piuttosto una derivazione del lat. lamp(s) addizionato del suff. f.le di pertinenza aria→ara
Lagno s.vo m.le nel suo significato primo la voce a margine vale: fossato con acqua, acquitrinio fangoso ma, per traslato vale lamento fastidioso o lagnanza insistente e noiosa, l’uno e l’altra semanticamente vicini al fastidio d’un acquitrinio fangoso ed appiccicaticcio; per quanto riguarda l’ etimo della voce preferisco accodarmi all’idea dell’amico prof. Carlo Iandolo che legge in questo lagno un agg.vo amnius da amnis=fiume con successiva agglutinazione dell’art. l→ *l-amnius ed esito finale lagnu(s)→lagno , come somniu(m)→sogno, piuttosto che ritener la voce (considerato il suo significato primo) un deverbale di di lagnarsi che, come ò già detto, è dal lat. laniare 'dilaniare', poi 'dolersi, lamentarsi', dall'abitudine delle prefiche di graffiarsi e strapparsi i capelli in segno di dolore.
Preciso che lagno s.m. che è voce pervenuta nel lessico nazionale, proveniente da quello partenopeo nel significato primo di fossatello con acqua, acquitrino, corso semistagnante in terreno con acqua paludosa, spesso ricoperto di erbe palustri; tipici i cosiddetti regi lagni =canali fognarii e di scolo della reggia che costeggiano appunto i due lati del vialone antistante la reggia di Caserta ed ancóra noti altri regi lagni opere di canalizzazione e bonifica , (piú antiche rispetto a quelli della reggia di Caserta che sono del 1760 circa) iniziate nel 1610 dal viceregno spagnolo che cosí affrontò e risolse un problema che da secoli attanagliava la Campania Felix. Le continue inondazioni del fiume Clanio infatti tormentavano le popolazioni locali e impedivano lo sviluppo urbanistico sin dall’epoca pre-romana. Terminati in 6 anni,i Regi Lagni sono canali rettilinei che raccolgono acque piovane e sorgive convogliandole dalla pianura a Nord di Napoli per oltre 56 Km da Nola verso Acerra e quindi al mare, tra la foce del Volturno ed il Lago di Patria, estendendosi lungo 110 mila ettari pianeggianti dalle grandi qualità agrarie delimitati a nord-ovest dal litorale domizio e dal bacino del Volturno, a sud-est dall'area casertano-nolana e a sud-ovest dai Campi Flegrei.
Magliaro s. m. neologismo del linguaggio napoletano, poi pervenuto nell’italiano, neologismo recente (anni 1945/1950) coniato (aggregando al sost. maglia il suffisso di pertinenza aro ) per indicare un venditore ambulante di stoffe o indumenti | poi (spreg.) un commerciante disonesto; furono detti magliari quei meridionali (in primis napoletani) che negli anni tra il 1945 ed il 1950, al termine della seconda guerra mondiale emigrarono in Francia e piú ancóra in Isvizzera, Germania ed Austria accettando, per sopravvivere i piú umili mestieri ed inventandosi quello di venditore ambulante di stoffe o indumenti, molte volte scadenti o procurati spesso in maniera truffaldina; da ciò la voce a margine passò ad indicare in senso dispregiativo un commerciante disonesto; morfologicamente c’è da notare che il suff. nap. aro (che è dal lat. areus) in italiano si muta sempre in aio (cfr. ad es.: nap. sciur-aro it. fior-aio), ma con riferimento alla voce a margine l’italiano aveva già un magliaio ed una magliaia sost. usati per indicare 1)uomo o donna che per mestiere esegue lavori a maglia
2)operaio/a che lavora in un maglificio per cui fu giocoforza accettare il lemma magliaro cosí come era nel napoletano senza adattamenti morfologici.
Malocchio s. m. nella credenza popolare, influsso malefico attribuito allo sguardo di certe persone: dare, gettare il malocchio | guardare di malocchio (o di mal occhio), con malevolenza, con avversione, ostilmente; voce che etilogicamente è derivato dall’unione di malo (malu) + occhio (uocchio) e nell’italiano adattamento morfologico della voce napoletana maluocchio voce nata tenendo dietro la pregressa jettatura (di medesimo àmbito).
Mammasantissima s. m. invar. (gerg.) capo supremo, capomafia, padrino (o accreditato tale) nelle cosche malavitose: camorra napoletana, ndrangheta calabrese, sacracorona pugliese e mafia siciliana. Voce di origine meridionale, (ma è difficile stabilire quale regione abbia i diritti di primogenitura…) forgiata sull’agglutinazione dell’esclamazione di terrore mamma santissima!profferita, o solo pensata da chi si trovasse d’improvviso alla presenza di un capo malavitoso.
Mariuolo ed anche mariolo s. m. il ladro ed estensivamente la persona disonesta in genere anche quando non sia dedita al furto continuato, furfante, imbroglione. (scherz.) Birbante, briccone.L’originaria voce nap. mariuolo è arrivata nell’italiano, ma è stata legata al linguaggio letterario, in quello d’uso comune e nel parlato si è preferito ricorrere alla forma mariolo eleminando la u del dittongo uo inteso mobile come accade in molte parole derivate (cfr. ad. es.: giuoco, ma giocatore – nuovo, ma novità etc.)Non dimentichiamo che nel napoletano culla della voce mariuolo nelle voci derivate a cadere non è la u, ma la o ad es.: mariuolo ma mariuliggio – muorto, ma murticiello. Rammenterò che a Napoli un tempo il mariuolo (prima di comprendere il disonesto in genere, il furbo e truffatore) fu quel ladro di basso profilo che a far tempo dalla fine del ‘700 ed i princípî dell’’800 operava piccoli furti di destrezza in istrada sottraendo a disattenti pedoni orologi da tasca , fazzoletti di seta e portamonete; esistettero negli anni che ò detto addirittura delle scuole dove i mariuoli alle prime armi prendevano scuola e si allenavano sottraendo a dei fantocci preparati all’uopo le mercanzie ricordate, facendo attenzione durante gli… allenamenti a non far titinnare i numerosi campanelli di cui erano forniti i pupazzi, campanelli che se avessero titinnato avrebbero dimostrato che il mariuolo non stesse agendo con la dovuta rapidità e destrezza e pertanto avrebbe dovuto continuare ad imparare, magari sferzato dolorosamente dalla verga o dallo staffile del maestro mariuolo. Per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro prpende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione, qualche altro ancora lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo.
Il D.E.I. propone un’orgine da una voce (ma quale?) orientale (turca) e collega a riferimento un greco mod. margiòlos= astuto, furbo, mariolo, ma non indica l’esatta voce orientale (turca) donde sarebbe scaturito il greco mod. margiòlos o il mariuolo partenopeo e poi italiano. No, Carlo Battisti che si prese la responsabilità della lettera M con tale proposta non mi convince e continuo a preferire l’ipotesi dell’ acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo.
Raffaele Bracale
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