FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
PARTE 1ª
Per contentare il caro amico A.B., di cui – per i soliti motivi di privatezza – mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome, per contentare, dicevo, l’amico che me ne à fatto richiesta e forse qualcun altro dei miei ventiquattro lettori tratterò qui di sèguito di alcune espressioni modali partenopee costruite con il verbo parlare/à.
Cominciamo con il darne un breve elenco per poi analiticamente trattarne:
1) Parlà tosco
2) Parlà cu ‘o scio’-sciommo
3) Parlà giargianese/ggiaggianese
4) Parlà a schiovere
5) Parlà sparo
6) Parlà sulo
7) Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
8) Parlà cu ‘o revettiello
9) Parlà mazzecato
10) Parlà ‘nfijura
11) Parlà a spaccastrómmole
12)Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
13) Parlà assestato
14) Parlà chiatto e ttunno
15) Parlà a cocoricò
16) Parlà a scampule ‘e mele cotte
In coda ed in aggiunta all’analisi delle locuzioni modali or ora elencate dirò poi due icastiche espressioni che pur non essendo modali chiamano in causa il verbo parlare:
17)Nun farme parlà!
18) Jí a pparlà cu ‘o pato
Prima di soffermarmi sulle singole espressioni mi pare comunque giusto se non necessario dilungarmi alquanto sul verbo parlare/parlà (che etimologicamente deriva dal latino volg. *parabolare→par(abo)lare→parlare, deriv. di parabola 'parabola', poi 'discorso, parola' ); parlare è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per:
1 pronunciare parole; esprimere con parole pensieri o sentimenti: parlare a, con qualcuno; parlare con voce chiara, forte; parlare a voce alta, bassa; parlare lentamente, sottovoce; parlare col, nel naso, con voce nasale; parlare a fior di labbra, piano; parlare tra i denti, in modo indistinto; parlare da solo, fare un soliloquio; parlare tra sé (e sé), pronunciare qualche parola a voce bassissima, rivolgendosi a sé stesso, quasi per riassumere i propri pensieri; parlare stentatamente, con fatica, per debolezza fisica, per mancanza di prontezza o per scarsa conoscenza della lingua ' parlare in punta di forchetta, (fig.) con parole affettate, ricercate ' parlare chiaro, dire le cose come stanno ' parlare a vanvera, a caso, senza riflettere ' bada a come parli, modo per invitare qualcuno a non offendere, a misurare le parole ' con rispetto parlando, formula di scusa che si premette o si fa seguire immediatamente a un'espressione o a una parola non troppo conveniente ' parlare bene, male di qualcuno, con benevolenza, con malevolenza ' parlare a cuore aperto, col cuore in mano, (fig.) sinceramente e disinteressatamente ' parlare con qualcuno a quattrocchi, da solo a solo, senza testimoni ' parlare al muro, al vento, (fig.) inutilmente, a chi non vuole ascoltare | chi parla?, con chi parlo?, formule che si usano al telefono quando non si sa chi sia l'interlocutore
2 sostenere una conversazione; ragionare, discutere, dialogare: parlare di letteratura, d'arte, di politica; parlare del più e del meno, conversare di argomenti vari e poco importanti ' far parlare di sé, suscitare l'interesse, la discussione, i commenti della gente ' tutti ne parlano, si dice di fatto o persona che è oggetto di chiacchiere, di pettegolezzi oppure di discussioni, di interesse' la gente parla, mormora, fa pettegolezzi | senti chi parla!, si dice a persona che è la meno adatta a pronunciarsi su qualcosa ' non se ne parla neanche, si dice di cosa che non si vuole assolutamente fare ' non parliamone più, si dice per troncare una discussione, una lite ' non me ne parlare!, si dice a chi tocca argomenti penosi o delicati
3 tenere una lezione, una conferenza, un discorso pubblico: parlare al popolo; parlare in un comizio; parlare alla radio, alla televisione | parlare dal pulpito, (fig.) assumere un tono saccente e professorale ' parlare a braccio, improvvisando
4 (estens.) esprimere un pensiero, trattare di un argomento per iscritto; anche, esprimere pensieri o sentimenti con mezzi diversi dalla parola: tutti i giornali parlano del processo; l'autore parla in questo libro di due personaggi storici; parlare a gesti, con gli occhi; i muti parlano a segni
5 manifestare un'intenzione; far progetti riguardo a qualcosa: parlano di andare in Spagna; di quella legge si parla da dieci anni | non se ne parla più, si dice di un progetto ormai accantonato
6 rivelare segreti; confessare: l'imputato non si decide a parlare
7 (fig.) essere particolarmente espressivo; suscitare, ispirare sentimenti: occhi che parlano; musica che parla al cuore | luoghi che parlano di qualcosa, che la ricordano, che ne portano i segni | i fatti parlano, sono la prova eloquente di qualcosa
8 (fig.) manifestarsi attraverso fatti o parole: in lui è l'invidia che parla, che lo spinge a dire o a fare determinate cose; lasciar, far parlare la coscienza, la ragione, ascoltarne la voce, i suggerimenti ||| v. tr.
1 usare, per esprimersi, una determinata lingua; conoscere una lingua in modo da potersi esprimere correntemente: parlare russo (o il russo); parlare bene, male l'inglese | parlare ostrogoto, turco, arabo, (fig. fam.) esprimersi poco chiaramente, non farsi intendere
2 esprimersi in un certo modo, usare un determinato linguaggio: parlare un linguaggio franco, chiaro, oscuro
3 (lett.usato transitivamente) dire: possa... parlare alquante parole alla donna vostra ||
parlarsi v. rifl. rec.
1 rivolgersi reciprocamente la parola: si parlavano da un lato all'altro della strada
2 (antiq. pop.) amoreggiare
3 avere rapporti amichevoli, essere in buoni rapporti: dopo quel litigio non si parlano più
A- Parlà tosco
L’antica, desueta espressione napoletana a margine peraltro assente in tutti i numerosi repertorî napoletani antichi e moderni,in mio possesso ma viva e vegeta fino a tutti gli anni cinquanta del 1900 sulla bocca degli abitanti della città bassa partenopea fu usata in due diverse accezioni:
a) per significare un parlare eccessivamente forbito e ricercato che eccedesse una normale comprensibilità, come accadeva quando in un dialogo uno degli interlocutori invece di usare la comprensibile parlata locale, s’azzardava ad adoperare la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili; di costui si diceva che parlasse tosco dove con l’agg.vo tosco non si voleva intendere, con derivazione dal lat. tuscu(m), toscano , ma ci si riferiva ad altro agg.vo tosco quello che con derivazione dall'albanese toske, indica l’astruso linguaggio di una popolazione albanese di religione musulmana, stanziata a sud del fiume Shkumbi.Chi cioè parlasse non in napoletano, ma in un italiano forbito e rifinito veniva accreditato nell’immaginario popolare comune d’usare, quasi per certo a fini truffaldini, un linguaggio volutamente incomprensibile, simile appunto all’astruso linguaggio dialettale tosco di una popolazione albanese;
b) la seconda accezione del parlar tosco era riferita a chi, sempre a fini truffaldini fosse eccessivamente esoso nelle sue richieste di compenso per un lavoro fatto o da farsi; di costui si diceva che parlasse tosco non perché adoperasse la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili, ma perché, pur parlando magari in istretto napoletano,con parole chiare e comprensibili, fosse cosí esoso nelle sue richieste d’apparire disonesto o truffaldino se non addirittura ladro tale da sconsigliare di tener mercato con lui.
Quando poi un interlocutore non solo parlasse in italiano piú o meno forbito, ma sconfinasse nella lingua francese veniva accreditato di parlare cu ‘o scio’-sciommo;
B- parlare cu ‘o scio’-sciommo
è infatti un’espressione intraducibile ad litteram che viene ancóra usata per canzonare il risibile modo affettato e falsamente raffinato dell'incolto che pensando erroneamente di esprimersi in corretto toscano, in realtà si esprime in modo ridicolo e falso con un idioma che scimmiotta solamente la lingua di Dante, risultando spesso piú simile ad una lingua francese malamente appresa però, della quale vengon colti essenzialmente molti fonemi intesi come sci (←ch); da tale suono è stato tratto l’onomatopeico sciommo che reiterato nella prima parte (sciò) à dato lo scio’-sciommo inteso sostantivo neutro.
C-parlà giargianese/ggiaggianese
L’espressione in esame si avvale di una vecchia parola (fine 19° sec) che quasi sparita nel corso del tempo, ricomparve d’improvviso, negli anni ’40 del 1900, sia pure leggermente modificata quanto alla morfologia , ma non nel significato; la parola in esame è giaggianese (che piú opportunamente in corretto napoletano andrebbe scritta con la geminazione iniziale: ggiaggianese), voce che poi divenne giargianese parola che nel significato estensivo di imbroglione ed in quello primo di straniero dal linguaggio incomprensibile si ritrovò e talvolta si ritrova ancóra nel salentino: giaggianese, nel pugliese: giargianaise e qui e lí in molti altri linguaggi centro-meridionali dove è: gjargianese, gjorgenese.
12) L’originaria voce ggiaggianése fu coniata sul finire del 19° sec., modellata per corruzione sul termine viggianese e fu usata per indicare alternativamente o taluni caratteristici suonatori ambulanti, o déi piccoli commercianti lucani che arrivavano alle latitudini centro-meridionali per acquistare uve e/o mosto semilavorato; di tali piccoli commercianti e/o suonatori solo una piccola parte provenivano effettivamente da Viggiano centro in prov. di Potenza, ma poiché tutti i commercianti che non fossero campani, e soprattutto quelli provenienti dal nord, parlavano un idioma non molto comprensibile si finí per considerarli tutti viggianesi e dunque ggiaggianise/i plur. metafonetico di ggiaggianese; fu cosí che con il termine ggiaggianese si indicarono tutti gli stranieri che non parlassero un linguaggio noto o comprensibile; va da sé che poiché, nell’inteso partenopeo, chi non parla in modo chiaro e comprensibile lo fa per voler imbrogliare, ecco che ggiaggianese estensivamente indicò l’imbroglione pericoloso ed in tali accezioni ( suonatore ambulante, commerciante, straniero incomprensibile, imbroglione) la voce fu usata a lungo nel parlato comune; a mano a mano poi quasi per naturale consunzione essa sparí dall’uso e non se ne ritrova memoria neppure nei calepini piú o meno noti od usati ( che ànno il torto d’essere compilati basandosi esclusivamente sugli scritti dei classici che mai presero in considerazione la voce di cui tratto). Come d’incanto la voce riapparve nell’uso del parlato comune intorno agli anni ’40 del 1900, quando in Campania, Puglia, Abruzzo etc. sciamarono le truppe alleate che parlavano un linguaggio incomprensibile, ad un dipresso un linguaggio tale (per non essere intellegibile facilmente) da potersi appaiare a quello tipico dei ggiaggianesi; fu in questo periodo che la voce ggiaggianese subí una sorta di ammodernamento, allorché (come nel 1961, con felice intuizione chiarí il grandissimo prof. Rohlfs ) accostando a ggiaggianese il nome proprio George usatissimo fra gli alleati si ottenne giargianese, nelle medesime accezioni surriportate.
D-Parlà a schiovere
Ad litteram:parlare a vanvera, quasi a pioggia battente. Détto di chi, non avendo nulla di serio e costruttivo da comunicare, dà libero sfogo alla propria lingua ed a mo' di pioggia inonda il prossimo di vuote parole senza significato e/o costrutto , a ruota libera ed inopportunamente.
Preciso qui che il termine schiovere significa per solito: smettere di piovere, ma - in napoletano - spesso la prostesi di una S ad un termine à funzione intensiva e rafforzativa, non sottrattiva ed è il caso dello schiovere della locuzione qui annotata dove con l’anteporre la S alla parola chiovere (piovere) non si è inteso indicare la cessazione del fenomeno atmosferico, ma al contrario si è inteso aumentarne la portata! Il verbo chiovere è dal lat. tardo plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.)
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E- Parlà sparo
Letteralmente: parlar dispari, caffo che sta per parlare offensivamente oltraggiosamente ed addirittura minacciosamente; semanticamente la cosa si spiega con il fatto che nel giuoco del paro e sparo (pari e dispari/caffo)sorta di morra in cui si deve indovinare se il numero totale delle dita che i giocatori apriranno sarà pari o dispari, il giocatore che partecipasse al gioco con il massimo dei numeri dispari da lui giocabili cioè il cinque,apriva completamente distendendolo il palmo della mano (in arabo kaff donde l’italiano caffo=dispari ) per mostrare appunto le cinque dita assumendo cioè una posizione quasi aggressiva come se volesse minacciare l’avversario di percuoterlo a mano aperta;per cui chi parlasse offensivamente, minacciosamente oltraggiosamente si disse che parlasse sparo come colui che distendendo interamente la mano giocasse un numero ( il cinque) dispari/caffo = sparo.
sparo agg.vo ed avverbio = dispari, in modo diverso, disuguale e per ampliamento semantico offensivo, oltraggioso, minaccioso etc. per l’etimo si deve risalire al lat. dis+pare(m)→(di)spare(m)→sparo, comp. di dis→s e par paris 'pari' cioè non pari .
F -Parlà sulo Ad litteram:parlar da solo, senza relazionarsi Détto di chi,accreditato d’essere folle o tendente alla pazzia venga isolato negandogli la possibilità di relazionarsi con gli altri e lo si costringa al vuoto ed inconferente soliloquio, al parlar da solo con se stesso che è proprio – per l’appunto – l’atteggiamento irrazionale di chi sia o faccia le viste d’esser pazzo, demente, folle, dissennato, squilibrato, forsennato, irragionevole, malato di mente, mentecatto.
Sulo agg.vo e talora anche avv. (sulo/sulamente) , ma qui aggettivo: isolato, senza compagnia,abbandonato, trascurato, accantonato, reietto, derelitto quanto all’etimo è dal lat. solu(m).
G- Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
Icastica espressione che ad litteram è: parlare con il(filo a) piombo ed il compasso id est: esprimersi ed agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e prudenza,non disgiunte da accortezza, circospezione, avvedutezza, ponderazione, avvertenza, precauzione e precisione alla stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed altri strumenti consimili. L’atteggiamento fotografato dall’espressione a margine è proprio del prudente, spesso pusillanime e di chi sia cauto, accorto, attento, avveduto, giudizioso, previdente, oculato, riflessivo, ponderato, misurato, controllato, vigile, circospetto, guardingo.
chiummo s.vo neutro = piombo, ma qui filo a piombo
la voce è dal lat. plumbeu(m) con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plovere→chiovere – plaga→chiaja etc.);
cumpasso s.vo m.le = compasso, strumento formato da due aste collegate a cerniera, usato per disegnare circonferenze o misurare distanze;
la voce è un deverbale del lat. volg. *cumpassare, comp. di cum 'con' e un deriv. di passus 'passo' = mantenere il medesimo passo.
H- Parlà cu ‘o revettiello
Ad litteram:parlare con la ribattitura id est: parlare con doppiezza, esprimersi con equivocità, finzione, slealtà. Azione tipica di coloro - in ispecie donne -che malevole e per vigliaccheria non aduse ad esprimere apertamente il proprio pensiero, le proprie opinioni, parlano in maniera ostile, sfavorevole, animosa, astiosa, avversa, mai chiaramente ma per traslati, per sottintesi, per allusioni con la doppiezza richiamante il revetto o revettiello s.vi m.li (il secondo è un diminutivo del primo): doppia cucitura rinforzata posta agli orli di gonne e sottogonne per impedirne il logoramento; l’etimo è dal fr. rivet dal verbo river= ribadire, rafforzare.
I - Parlà mazzecato Ad litteram:parlare masticato, profferir parole masticate id est parlare con reticenza; esprimersi con riluttanza, con vaghezza ed ambiguità sottacendo fattio situazioni anche importanti di cui pertimore o per colpevole menefreghismo, sciatteria, indolenza, noncuranza non si voglia far verbo come si comporterebbe chi parlasse tenenendo la bocca occupata da un boccone, per cui sarebbe costretto a non esprimersi con chiarezza e lo facesse quasi triturando le parole che risulterebbe non intellegibili, quasi sbocconcellate.
mazzecato = masticato, mordicchiato, triturato con i denti;
etimologicamente è il p.p. aggettivato dell’infinito mazzicare/mazzecare/mazzecà = mordere, masticare dal lat. tardo masticare→mazzicare, che è dal gr. mastichân, deriv. di mástax -akos 'bocca'.
L- Parlà ‘nfijura Ad litteram:parlare in figura, profferir parole figurate id est parlare non chiaramente, ma con tropi,allusioni, metafore esprimersi con circospezione e con vaghezza e ciò soprattutto in presenza di minori affrontando argomenti delicati. L’espressione a lato è una sorta d’invito rivolto ad adulti che si trovassero a parlare in presenza di minori di argomenti non consoni all’età di costoro; la medesima esortazione la si ritrova nell’espressione Mantenímmoce pulite, ca ce stanno 'e ccarte janche!
Letteralmente: manteniamoci netti perché son presenti le carte bianche! Id est: Non affrontiamo argomenti scabrosi; teniamo a mente che ci son presenti dei bambini che ci ascoltano ed in loro presenza è sconveniente toccare argomenti che potrebbero provocare domande a cui sarebbe difficile rispondere.
‘M - Parlà a spaccastrómmole Ad litteram:parlare a spaccatrottole id est: esprimersi in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti, con la medesima sconclusionata foga d’eloquio di quei scugnizzi (monelli) che nel giuoco dello strummolo (trottolina lignea) quando avessero l’opportunità di sbreccare o addirittuta di spaccare la trottolina dell’avversario perdente si esaltavano al punto da profferire emozionate parole convulse e prive di senso buttate fuori a casaccio.
a spaccastrommole locuzione avverbiale modale formata dalla unione della preposizione semplice a ( dal lat. ab/ad secondo che indichi provenienza oppure destinazione o , come qui, modo) con l’agglutinazione della voce verbale spacca (3° p. sg. ind. pres. dell’infinito spaccare/spaccà (dal longob. *spahhan 'fendere') con strommole pl. f,le metafonetico del sg. m.le strummolo.
Rammento che con il termine strúmmolo , nella parlata napoletana, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una sorta di trottolina di legno a forma di cono o piccola pigna con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella (talvolta addirittura impeciata per aumentarne resistenza e durata) che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strúmmolo , una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strúmmolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strúmmolo , tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strúmmolo è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strúmmolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale ultima onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strúmmolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strúmmolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strúmmolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per tornare allo strúmmolo rammentiamo un altro modo di dire: cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno, non con altro, che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete dato materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strúmmolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio: strúmmolo scacato.
Nel giuoco dello strúmmolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (e per incidens, rammenterò che da tale verbo deriva la parola scugnizzo) il proprio strúmmolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strúmmolo violentemente contro quello dell’avversario tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strúmmolo , se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strúmmolo protagonista di un gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritto per dritto dal greco strómbos che in primis indicò la grossa conchiglia di un mollusco gasteropodo dei mari caldi con conchiglia a spira ripetuta nel disegno delle scanalature della trottolina; lo strómbos greco trasmigrato nel latino fu stròmbus da cui con consueta assimilazione progressiva mb→mm si arrivò a strummus donde con il suffisso diminutivo olus,si ottiene strúmmolo con il suo esatto significato di trottolina.Rammento che il s.vo sg. strummolo è maschile, ma à un doppio plurale: l’uno m.le strummoli (usato ovviamente per indicare piú trottoline) l’altro f.le metafonetico strommole (usato sia per indicare piú trottoline e segnatamente nella locuzione a spaccastrommole sia per indicare per traslato divertito delle sesquipedali fandonie, delle sciocchezze madornali quali sono delle insulse parole o affermazioni appaiabili ad un giuoco come giuoco è lo strummolo.
N - Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
Ad litteram:parlare come un libro strappato id est: esprimersi in maniera incomprensibile, frammentaria, approssimativa e perciò inutile, come inutile sarebbe il consultare un libro che strappato e ridotto in pezzi non sarebbe nè consultabile, né comprensibile.
comme avv. e cong. = come
avv.
1 in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje?(come stai?); comme è gghiuto ‘o viaggio?(come è andato il viaggio?); dimme comme staje(dimmi come sta)i; comme maje (come mai?), perché mai, per quale ragione: comme maje nun è cchiú partuto?(come mai non è piú partito?) | comm’ è ca?…,comme va ca?(com'è che...?, come va che...?), qual è il motivo per cui... | ma comme?!(ma come?!), per esprimere sdegno o meraviglia | comme dice?(come dici?), comme hê ditto?(come ài detto?), per chiedere che si ripeta qualcosa | comme sarria a ddicere?(come sarebbe a dire?), per chiedere una spiegazione | comm’è, comme nun è(com'è, come non è), (fam.) per introdurre un fatto che si è verificato all'improvviso | comme no?!(come no?!), certamente | comme ve permettite?!(come vi permette?!), si guardi bene dal permettersi
2 quanto (in prop. esclamative):comme chiove!( come piove!); comme sî bbuono!(come sei buono!); | e ccomme!, è proprio cosí!
3 il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa): le raccuntaje comme ll’amico sarria partuto(gli raccontò come l'amico sarebbe partito); nun te n’adduone ‘e comme sî ffesso?!(non ti accorgi come sei stupido?!) | preceduto da ecco, con lo stesso significato e funzione: ecco comme jettero ‘e ccose; ecco comme ce se po’ arruvinà (ecco come andarono le cose; ecco come ci si può rovinare)
4 nel modo in cui, quanto (introduce una prop. comparativa): è bbello comme credevo; arrivarrà cchiú ttarde ‘e comme aveva avvisiato (è bello come credevo; arriverà più tardi di come aveva annunciato);| in frasi comparative ellittiche del verbo stabilisce una relazione di somiglianza o di identità: janco comm’ ô llatte; ‘a figlia è aveta comm’â mamma; poche so’ sfaticate come a tte; ‘e juorno comme ‘e notte (bianco come il latte; la figlia è alta come la madre; pochi sono pigri come te; di giorno come di notte) | in espressioni rafforzative o enfatiche: mo comme a mmo(ora come ora), oje comme oje(oggi come oggi), al momento attuale | con il sign. di nella condizione, in qualità di, introduce un'apposizione o un compl. predicativo: tu, comme arbitro, nun hê ‘a essere ‘e parte! (tu, come arbitro, devi essere imparziale!); fuje scíveto comme testemmonio(fu scelto come testimone); tutte ‘a vulevano comme mugliera(tutti la richiedevano come moglie)
5 nel modo in cui, in quella maniera che (introduce una prop. modale): aggiu fatto come tu hê voluto (ò fatto come tu ài voluto; tutto è succieso comme speràvamo (tutto è accaduto come speravàmo) | preceduto da accussí: lassa ‘e ccose accussí comme so’ (lascia le cose cosí come sono) | in correlazione con accussí o con tanto (in luogo di quanto): non è accussí tarde come pensavo;(non è cosí tardi come pensavo); tanto ll’une comme ll’ ate ( tanto gli uni come gli altri) ' comme (si), nello stesso modo che, quasi che: rispettalo comme (si) fosse pàteto (rispettalo come (se) fosse tuo padre) | comme non l’êsse ditto come non l’avessi detto, per ritirare una precedente affermazione.
cong.
1 appena, non appena; quando (introduce una prop. temporale): comme ‘o sapette, telefonaje (come lo seppe, telefonò) | a mano a mano che: ‘e nutizzie erano passate comme arrivavano (le notizie venivano comunicate come arrivavano)
2 (lett.) giacché, siccome (introduce una prop. causale): e comme n’effetto s’aveva avé… ( e siccome un effetto bisognava ottenere…)
‘no oppure’nu = corrisponde ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s.vo o agg.vo che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivere no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure il corrispondente del maschile e neutro no/nuprivi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
libbro s.vo m.le = libro, volume, insieme di fogli, stampati o manoscritti, cucitio incollati insieme secondo un dato ordine e racchiusi da una copertina; etimologicamente è voce derivata dal lat. libru(m)→libbro con consueto raddoppiamento espressivo dell’esplosiva labiale, orig. 'sottile membrana fra la corteccia e il legno dell'albero', che prima dell'introduzione del papiro si usava come materiale per scrivere;
stracciato = strappato,fatto a pezzi part.pass. agg.vato dell’infinito stracciare/straccià che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tractus, part. pass. di trahere 'trarre'
O - Parlà assestato
Ad litteram:parlare con cura e precisione,esponendo in maniera chiara responsabile, affidabile, scrupolosa, coscienziosa. Détto di chi, si esprima in modo serio e costruttivo, dimostrando accuratezza, cura, attenzione, meticolosità, diligenza, scrupolosità, ordine, rigore,nonché il raziocinio d’ una mente concretamente in sesto.
assestato part. pass. aggettivato dell’infinito assestà = 1 mettere in sesto, in ordine (anche fig.); sistemare;2 regolare con cura, adattare con precisione; ||| assestarse v. rifl. o intr. pron.
1 sistemarsi; mettersi in ordine, a posto (anche fig.):
2 (ant. lett.) adattarsi, confarsi.
Etimologicamente assestare/assestà è un denominale di sesto (che è dal lat. sextu(m)) s. m.
1 ordine, assetto, disposizione normale di qualcosa:
2 (arch.) curvatura di un arco;
3 (ant.) compasso, sesta:
P - Parlà chiatto e ttunno
Corrisponde all’italiano Parlar chiaro e tondo È l’esatto contrario della precedente I - Parlà mazzecato.
Ad litteramquesta a margine è:parlare grasso e tondo,ma si può rendere con l’italiano parlar chiaro e tondo, quantunque l’espressione napoletana nella sua icasticità sia piú rappresentativa del concetto di profferir parole copiose (chiatto=grasso, abbondante ) e rotonde (tunno= tondo, rotondo, anche sferico, privo di spigolosità) id est parlare senza reticenze; esprimersi senza incertezze, con chiarezza e dovizia di particolari, senza nulla sottacere, usando un eloquio aperto, ampio e rotondo che in napoletano è détto grasso come che ponderoso e privo di spigolosità che se esistessero impedirebbero la necessarie trasparenza e/o chiarezza che son proprie di un parlare chiaro e tondo che cioè non voglia nasconder nulla.
Chiatto e ttunno = copioso, abbondante e rotondo locuzione avverbiale formato dall’unione di due aggettivi: chiatto/a agg.vo m.le o f.le= pingue, grasso/a e dunque copioso/a, abbondante
Voce che è dal greco plat(s) con raddoppiamento espressivo della dentale e consueto passaggio (che è anche in lemmi dal latino) del gruppo pl a chi (cfr. ad es. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.) e tunno/a agg.vo m.le o f.le= tondo/a, rotondo/a, sferico/a e dunque senza spigoli o asperità
Voce che è dal lat. (ro)tundu(m)→tunno con tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Q – Parlà a cocoricò
Espressione del parlato e solo del parlato a cui però è quasi impossibile dare una traduzione letterale atteso che la voce cocoricò nell’inteso comune si presta ad una doppia interpretazione; a) pappagalo, b) matto, folle;
Intendendo cocoricò come pappagallo (dandole cioè un etimo onomatopeico che si riallaccia al verso del pennuto uccello esotico addomesticabile, con caratteristico becco adunco e colori smaglianti) l’espressione varrebbe parlar pappagallescamente imitando l’altrui eloquio; intendendo invece, come io penso e ritengo, ntendendo cocoricò una voce derivata dal turco curuk→cucuruco→cocoricò (agg.vo che vale in primis marcio e per traslato folle, matto) ecco che l’espressione parlà a cocoricò acquista la medesima valenza della precedente parlà a spaccastrommole cioè in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti,valenza che semanticamente s’attaglia benissimo al curuk→cucuruco→cocoricò = folle, matto.
Q - Parlà a scampule ‘e mele cotte
Ad litteram: parlare alla maniera (dei venditori) di scampoli di mele cotte id est parlare per tropi ed immagini spesso menzognere e/o fasulle in maniera suadente, ma falsa ed ingannevole nell’intento di convincere l’ascoltatore/cliente ad acquistare scampoli residuali di mele cotte probabilmente invendute per cattiva qualità delle medesime.Analogamente ai venditori di scampoli di mele cotte chiunque usasse, soprattutto a fini illusorî,e/o ingannevoli, un eloquio suadente, ma menzognero potrebbe essere accreditato di parlà a scampule ‘e mele cotte.
scampule s.vo m.le pl. di scampulo s. m.
in primis piccolo taglio di tessuto che avanza da una pezza;
fig. come nel caso che ci occupa avanzo, rimasuglio
etimologicamente la voce scampulo è un deverbale di scampare/scampà =
1uscire salvo da un pericolo(nel caso dello scampolo da quello della vendita); sfuggire a un rischio (idem c.s.) mortale:
2 trovare rifugio in un luogo: scampà all'estero ||| v. tr.
1 proteggere, liberare, salvare da mali e pericoli: scampare qualcuno dalla morte | Dio ci (ce ne) scampi!, escl. che esprime la speranza di non incorrere in un pericolo, di non subire un male
2 evitare, scansare (un male, un danno e sim.); il verbo scampare, a sua volta deriva da campo (di battaglia), col pref. s- che indica allontanamento.
E con questa analizzata avrei esaurito l’esame delle piú usate locuzioni modali costruite con il verbo parlare, ma amor di completezza mi spinge ad illustrare altre due caratteristiche espressioni partenopee costruite usando l’infinito parlà:
R - Nun farme parlà!
Letteralmente: Non farmi parlare! Id est: Fammi tacere, non istigarmi a dire qualcosa di cui potrei pentirmi… Della persona o dell’argomento dei quali vorresti ch’io parlassi conosco cose e circostanze spiacevoli che se le riferissi potrebbero suscitare malumori, dissapori o malintesi di cui sarei responsabile e di cui dovrei pentirmi; per cui Non indurmi a parlare.È preferibile ch’io taccia!
S- Jí a pparlà cu ‘o pato
Letteralmente: Andare a parlare con il padre (della fidanzata). Id est: Ufficializzare una situazione impegnandosi chiaramente a mantenere l’impegno di fare sfociare un fidanzamento nel matrimonio. L’espressione napoletana, in disuso ormai dalla fine degli anni ’60 del 1900 in coincidenza con la rivoluzione dei costumi giovanili e della società, e con il subentro all’istituto del matrimonio, della disdicevole consuetudine della convivenza disimpegnata, libera e senza regole, l’espressione in esame corrisponde ad un dipresso a quella dell’italiano chiedere la mano della sposa Rispetto a quella dell’italiano, l’espressione napoletana coglie al meglio l’importanza della figura paterna (del tutto assente nell’espressione italiana) figura che sino alla fine degli anni ’60 del 1900 ebbe un posto preminente nell’àmbito della famiglia di cui rappresentò l’indiscussa guida materiale e morale responsabile titolare della cosiddetta patria potestas ed occorreva che con lui e con nessun altro l’aspirante promesso sposo parlasse dando garanzie di serietà morale, supportata da un lavoro retribuito e chiarisse le sue serie intenzioni di voler metter su famiglia impalmando la figliola di colui con cui si andava a parlare.
jí corrisponde al verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da un *aditare frequentativo di adire ed è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare'); è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito e per esaminarle rimando alibi. Preciso che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh. È pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita di trovare nella stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti e/o meno noti!), è assolutamente errato rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponessero i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí/gghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno.
cu cong.
Corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da una voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti dell’ idioma napoletano, autori che invece ànno spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano, facendo una sciocchezza sesquipedale atteso che – come ò piú volte détto e provato – il napoletano è un linguaggio del tutto originale ed autonomo, con una propria storia letteraria e di derivazione, come tutti gli altri linguaggi regionali, diretta dal latino volgare, con proprie regole grammaticali e di sintassi e non è tributaria di nessun altra lingua, men che meno dell’italiano/toscano! Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliune; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se venesse a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe) ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazzià?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto scustumatamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i soliti grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della lingua napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
pate s.vo m.le = padre quanto all’etimo dritto per dritto dal lat. pat(r)e(m)→pate con dissimilazione totale della liquida.
Giunto a questo punto penso di non dover aggiungere altro, d’aver contentato l’amico A.B. ed aver interessato qualcun altro dei miei 24 lettori, per cui metto un punto fermo ed annoto: satis est!
raffaele bracale
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