ANTICHE ESPRESSIONI NAPOLETANE 2
11.LL’ACCIO SENZ’ACQUA SE SECCA
Letteralmente : il sedano privato dell’acqua si secca.
Espressione da intendersi sia nel normale senso letterale, sia in un giocoso,
furbesco senso traslato ; nel normale senso letterale è da intendersi quale consiglio pratico per la coltura del
sedano (dal greco selinon), pianta
erbacea con foglie aromatiche, dalle grosse costole commestibili bisognosa per
la sua crescita rigogliosa di abbondante acqua; nel giocoso, furbesco senso
traslato l’espressione, messa sulla bocca di un uomo, è usata quando costui
intenda in maniera non esplicita, ma furbesca
chiedere ad una donna prestazioni
sessuali e comunque ben si comprende
cosa si nasconda dietro il sedano
titolare dell’espressione e quale sia
l’acqua richiesta.
accio s.vo neutro = sedano (ma – per traslato furbesco
- nell’espressione membro maschile) la
voce accio etimologicamente è dal tardo
lat. apiu(m) con normale evoluzione fono-morfologica di sapio→saccio.
12.DICETTE ‘A VIPERA ‘NFACCI’ O VOJE : PURE SI M'ACCIRE
SEMPE CURNUTO RUMMANE!
Ad litteram: disse la vipera al bue: anche se mi uccidi
comunque rimani provvisto di corna. Id est: Tu bue potrai anche uccidermi, ma
resterai comunque macchiato dal fatto d’esser cornuto, cioè tradito (da quella
vacca della tua compagna!). Antica, desueta espressione a carattere proverbiale
che in maniera icastica fotografa una deplorevole situazione nella quale si
vedono messi l’un contro l’altro un soggetto piccolo, inferiore sia fisicamente
che socialmente inutile e pericoloso
(rappresentato dalla vipera) opposto ad un soggetto piú grosso, piú valente,
piú utile, superiore sia fisicamente che
socialmente (rappresentato dal bue), situazione nella quale il soggetto
inferiore presso ad essere travolto da quello superiore se ne vendica
rammentandogli che in ogni caso il fatto che esso sia piú grosso e piú valente non lo salva dal fatto di esser
provvisto di corna, ovverosia di essere stato tradito. Magra vendetta atteso
che finire tra le zampe d’un bue ed esserne schiacciato è ben peggiore che
l’essere tradito dalla propria compagna! Solo alla morte non v’è rimedio!
vipera s. f. genere di rettili squamati ovovivipari diffusi
nelle regioni temperate del Mediterraneo (tranne che in Sardegna), in Asia Minore
e in India, con corpo cilindrico lungo da 30 fino a 140 cm, secondo le specie,
testa triangolare, coda corta e sottile, lingua bifida e bocca armata di due
denti; hanno morso velenosissimo, spesso mortale anche per l'uomo (fam.
Viperidi): vipera del, dal corno, ammodite; vipera comune, aspide | essere una
vipera, avere una lingua di vipera, (fig.ma non nel caso che ci occupa) si dice
di persona maligna, perfida o, anche, irascibile e aggressiva; etimologicamente
è voce dal lat. vipera(m), forma aplologica
(l’aplologia è la caduta di una sillaba all'interno di una parola che dovrebbe
presentare, in base alla sua etimologia, due sillabe consecutive identiche o
simili (p. e. mineralogia per mineralologia).di
*vivipara(m), comp. di vivus 'vivo' e un deriv. di parere 'partorire';
propr. 'che partorisce prole viva';
‘nfacci’ ô locuzione prepositiva articolata: ad litteram in faccia ad
il/lo ma piú in breve al. Al proposito rammento che nel napoletano, cosí come nell’italiano, le
locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma
scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre
nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo,
nel napoletano occorre aggiungere alla
preposizione impropria non il
solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione
semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si
esige sotto al tavolo e ciò per
riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso
annoto altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni
articolate formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni
semplici, ànno una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per
una o due preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa
mantenendo cioè separati gli articoli dalle preposizioni.
Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí
come rese in italiano e poi in napoletano:
con la preposizione a
in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+ le agli = a+
gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli la forma
scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni articolate formate
dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la
preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a +
‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le);
con la preposizione di
in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle = di+ le, degli
= di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o
(lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di), produce una preposizione articolata di forma
rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de
‘e→d’’e; con la preposizione da in
italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+
gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il),
‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una preposizione articolata di forma
normalmente scissa e spessa apostrofata:
da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata
(quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni
articolate formate con la preposizione
de (=di), e d’acchito è
impossibile distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da
‘a→d’’a, da ‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò
dunque proposto d’usare una forma affatto diversa per le preposizione
napoletane da + ‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma
che eliminando l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione
usata per le preposizioni articolate
formate con la preposizione a consente di
evitare la deprecabile
confusione cui accennavo
precedentemente. . Rammento che nel napoletano è usata spessissimo una locuzione
articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo – dalla –
dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa generalmente
fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei suoi elementi
costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e
es.: è gghiuto add’ ‘o zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna,
add’ ‘e pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; francamente non si
capisce da cosa sia generato quel add’
né si comprenderebbe il motivo
dell’agglutinazione della preposizione a con la successiva da→dd’; a mio avviso
è piú corretta e qui la propugno: a ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es.
avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai
parenti);; rammento tuttavia di non
confondere
a ddô con l’omofono
addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong. subord.
che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette
ed indirette.
Nel nostro caso la locuzione prepositiva è formata da un
sostativo (faccia) con protesi agglutinata di un in→’n (illativo) sino ad
ottenere un ‘nfaccia che unito alle
crasi â = a+ ‘a (a+ la), ô = a +
‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le) dà volta a volta ‘nfacci’ ô,
‘nfacci’ â‘nfacci’ ê e cioè in faccia
al/allo oppure soltanto asl/allo, oppure in faccia alla oppure soltanto alla,
oppure in faccia alle/ a gli.
vojo s.vo m.le = bue
1 il maschio adulto castrato dei bovini domestici | bue
muschiato, grosso mammifero ruminante delle regioni artiche, con corna larghe,
pelo lungo e scuro, folta criniera (ord. Artiodattili) | bue grugnente, yak |
lavorare, faticare come un bue, (fig.) molto, senza tregua, duramente |
chiudere la stalla quando sono fuggiti i buoi, (fig.) provvedere tardivamente |
mettere il carro davanti ai buoi, (fig.) parlare o agire in modo prematuro,
dando per scontato un risultato ancora non conseguito
2 (fig.) uomo ottuso, ignorante, grossolano;
3 (per traslato volg.) si dice di persona tradita dal proprio
coniuge, persona cornuta.
accire voce verbale (2ª, ma alibi anche 3ª pers. sg.)
dell’ind. pres. dell’infinito accidere (dal lat. volg. *accidere,per il cl.
occidere comp. di ob-→oc 'contro' e caedere 'tagliare, abbattere'; da notare
nella coniugazione la rotacizzazione osco-mediterranea della d di accidere che s’alterna con la r ottenendo
accirere;
curnuto agg.vo m.le
1 provvisto di corna: animale curnuto ' facenna
curnuta(argomento cornuto), (fig.) il dilemma in quanto consiste di due
proposizioni contrapposte, dette corni
2 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge ||
Usato anche come s. m.le [f. -a] (volg.) persona cornuta;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu
'corno'
A proposito del s.vo corna annoto che
ccorna = corna, sost. femm. plur. del maschile sg. cuorno
prominenza cornea o
ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente cilindro-conica ed
incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi
ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri
mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat.
cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏ→uo nella sillaba
d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno
alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove
nel plurale maschile è mantenuta (‘e
cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee
reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi
rispettivamente dalla propria
compagna, o dal proprio compagno, mentre
con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali
a fiato o i piccoli o grossi amuleti di corallo rosso o altro materiale
(piú spesso corneo) usati come
portafortuna;ugualmente infatti come gli amuleti di corallo rosso, con valore
di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla
testa, messi a seccare, opportunamete vuotati, opportunamente tinti di
rosso tali cuorne, non piú ccorna
devono rispondere – nella tradizione partenopea - a precisi requisiti, dovendo necessariamente
il corno essere russo, tuosto, stuorto e
(se non di corallo) vacante pena la sua inutilità come porte-bonheur.
russo= rosso (da non
confondere con ruosso che è grosso),
cioè di colore rosso derivato del latino
volgare russu(m) per il class. ruber;
tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tŏstu(m), part. pass. di torríre
'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea
della ŏ→uo;
stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato
del lat. tŏrtu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class.
torquíre con prostesi di una s intensiva
e tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo;
vacante= cavo, vuoto
ed altrove insulso, insipiente
part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante,
libero di; a margine rammenterò che esiste un altro tipico cuorno quello de ‘o carnacuttaro (il girovago
venditore di trippe bovine che nettate,
lavate e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli
pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e
cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in
punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato
alla base con un grosso turacciolo di sughero; tale cuorno viene portato pendulo sul davanti del corpo,
legato in vita con un lungo spago, in modo che nel suo pendere insista su di
una bene identificata zona anatomica
maschile; ciò è rammentato nell’espressione: Mo t’’o ppiglio ‘a faccia ô cuorno
d’’a carnacotta! (Adesso te lo procuro, prendendolo dal corno della trippa)
nella quale ‘o cuorno è usato eufemisticamente in luogo d’altro termine becero,
facilmente intuibile se si tiene presente la zona anatomica maschile su cui insiste il pendulo
corno del sale… l’espressione è usata con una sorta di risentimento da chi
venga richiesto di azioni o cose che sia impossibilitato a portare a compimento
o a procurare, non essendo le une o le altre nelle sue capacità e/o
possibilità.
rummane voce verbale (2ª, ma alibi anche 3ª pers. sg.)
dell’ind. pres. dell’infinito rummané = restare, rimanere, trattenersi, stare;
soffermarsi, sostare (dal lat. L remaníre→remmaníre→rummanire→rummané, comp. di
re-, che indica continuità, e maníre 'stare' con raddoppiamento espressivo
della consonante nasale bilabiale (m).In
coda a tutto quanto detto circa il s.vo cuorno, rammento che nel napoletano da
esso si sono ricavati due verbi
denominali : scurnà (donde il part. pass. aggettivato scurnato = 1 con le corna
rotte 2 (fig.) beffato, svergognato) e scurnacchià(donde l’icastico part. pass. aggettivato scurnacchiato =1 ampiamente tradito dal coniuge 2 (fig.)
diffamato pubblicamente ; mentre il
verbo scurnà è un derivato del s.vo cuorno addizionato in posizione protetica
di una S distrattiva, il verbo
scurnacchià è anche esso un derivato del s.vo cuorno, ma
addizionato in posizione protetica di una S intensiva e di un suffisso
peggiorativo acchio (suffisso alterativo peggiorativo di sostantivi ed
aggettivi corrispondente al lat. –aculu-m→aclu-m→ acchio; di per sé poco
diffuso, ma espressivo).
13.MUNZÚ,MUNZÚ È GGHIUTA ‘A ZOCCOLA ‘INT’Ô RRAÚ
Letteralmente: signor cuoco, signor cuoco è finito il ratto nel ragú! Antica,
ma ancóra usata espressione sarcastica usata per prendersi giuoco delle persone
meno esperte che incorrono, per imperizia, incapacità, disattenzione colpevole in errori macroscopici nel
tentativo di portare avanti le faccende che intraprendono, come un inesperto,
disattento incapace cuoco che consentisse ad un ratto di finire nella pentola
dove avesse in cottura il ragú da anmmannire ai clienti. L’espressione canzonatoria nacque sfruttando la rima tra i
s.vi rraú= ragú ed il s.vo munzú.
Con il s.vo munzú (etimologicamente corruzione del francese
monsieur) in origine si indicarono i
cuochi francesi chiamati nel
Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria
Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo
moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di
Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento
incanutí d’un colpo. L’intento di Maria Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto
dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea e da quel
momento non ci fu cuoco napoletano che non ambisse ad ottenere dalla propria
clientela il titolo onorifico di munzú. Rammento che l’invasione dei cuochi
d’oltralpe forní il destro per la nascita d’un’altra icastica voce napoletana:
zoza. Con il sostantivo in epigrafe in napoletano si indicano varie cose: il sudiciume in genere,un brodo sciapito o
preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il fango o la
fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati come
autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui
siano ammanniti, vengon da costoro
rifiutati e definiti tout court
zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante,
una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente
brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal
disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in
mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche,
dal nausebondo sapore, approntate - contro tossi e febbri - da volenterosi
semplicisti : farmacisti/ erboristi cosí chiamati in quanto venditori di
preparati per i quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed
infine estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera
raffazzonata di talché il risultato
risulti essere scadente, riprovevole e
non confacente; fino a giungere all’offensivo: sî ‘na zòza totalizzante offesa
rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare
come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e
ributtante.
Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante
offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato
primo stette ad indicare una miscela di
liquori scadenti e successivamente tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere
un’alterazione popolare della parola suzzacchera (forgiata sul
greco:oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente, terminazione diminutiva.
Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della
parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la
tentazione che zòza sia
semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa
nel toscano e aperta in napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua,
a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto - sucidus donde per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata
neutra, poi sentita femminile sucia =cose sporche, sudice.
In realtà la parola napoletana è molto piú recente rispetto
al basso latino sucia o alla voce toscana
zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli una
sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani, corrompendo
il termine monsieur dissero munzú -
chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina
Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di
Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse
ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria
Carolina sarebbe stato quello di voler
elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice
cucina partenopea; il risultato però non fu quello sperato: i munzú d’oltralpe
e le loro raffinate preparazioni culinarie mal si sposarono (con la sola
eccezione del sartú (dal francese surtout ) tronfio e saporito timballo di
riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana dapprima di corte e
della nobiltà, poi della borghesia ed infine del popolo minuto) mal si
sposarono, dicevo con i gusti dei
partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed
i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces
francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono le salse
galliche storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte
le estensioni summenzionate, e trattandosi di un sostantivo fu e viene usato
nel napoletano quale apposizione di molti altri sostantivi.Ciò non
pertanto, il titolo di monzú come ò anticipato,attecchí fino a diventare
la denominazione che spettava solo ai grandi cuochi.Divenne e mi ripeto quasi
come un titolo onorifico, tanto ambíto che - cosí come riportato da Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo
preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva
offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo.
zoccola s.vo
f.le 1
in primiscome nel caso che ci occupa
indica il grosso topo di fogna ;
2 estensivamente e per traslato indica la prostituta che
come quel topo frequenta nottetempo i
marciapiedi;
etimologicamente zoccola
è da sorcula diminutivo latino
femm. di sorex-ricis;
‘int’ô oppure dint’ô
locuzione prepositiva articolata che vale nel/nella; per illustrarla
rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a=
in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla
preposizione impropria dinto (dentro – in dal lat. dí intro→dint(r)o→dinto 'da
dentro'); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con
preposizioni improprie ànno nel napoletano
tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle
preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione
impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione
articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à:
dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il
pensiero di chi mentalmente articola in
napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e
(i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle.
rraú s.vo neutro = ragú,tipico condimento della cucina
napoletana per paste asciutte, risotti e
sim. che si ottiene facendo cuocere a fuoco lento in olio e strutto uno o piú pezzi di carne o alibi (ragú alla
bolognese) della carne tritata con aggiunta di cipolla, erbe aromatiche ed
altri ingredienti, quanto all’
etimo risulta essere un adattamento del fr. ragoût, deriv. di ragoûter
'stuzzicare l'appetito' (da goût 'gusto');tra i principali altri ingredienti nel ragú partenopeo ed in
quello alla bolognese vi è il pomodoro, vi è però un altro ragú partenopeo privo di pomodoro,
ma ricchissimo di cipolla che prende il nome di (ragú alla) genovese o tout
court genovese (cfr. alibi).
14.T' AGGI’ ‘A VEDé 'NCOPP’ ê GGRARE 'E 'NA CCHIESIA CU 'A
MANA SCHIJATA
Letteralmente: Devo vederti sui gradini d’una chiesa con la
mano aperta. Id est: devo avere la soddisfazione di vederti ridotto in miseria,
tanto da esser costretto ad elemosinare innanzi ad una chiesa. Maliziosa,
cattiva, malevola, malvagia, velenosa, acida, perfida espressione ancóra in
uso che si suole rivolgere molto poco
caritatevolmente a persona verso la
quale si nutra tanto astio, acrimonia, avversione, odio, ostilità, inimicizia,
malevolenza, livore, rancore da desiderarne ed
augurargli tutto il male possibile e cioé quello di esser ridotto alla
estrema povertà, cosa che dopo la perdita della salute è quanto di peggio possa
capitare ad un essere vivente!
T' aggi’ ‘a espressione verbale che letteralmente è Ti ò da
etc. ed è il modo napoletano di rendere il verbo dovere; in effetti con aggi’ ‘a seguíto da un verbo all’infinito si
raffigura l’espressione italiana devo da o anche semplicemente devo;
nell’espressione in esame ad es. T' aggi’ ‘a vedé va tradotta Ò da vederti ossia
Devo da vederti oppure piú
semplicemente Devo vederti; altrove con l’espressione aggi’ ‘a
(=ò da) si rende in napoletano l’idea di
un’ azione futura; ad es.: Dimane aggi’ ‘a jí a pavà ‘e ttasse (Domani
andrò a pagare le tasse) e ciò perché
nel napoletano il verbo dovere manca ed è supplito dalla costruzione con
il verbo avere seguito dalla preposizione ‘a (da) e dall’infinito connotante
l’azione dovuta: ad es. aggio ‘a purtà ‘sta lettera (devo portare questa
lettera), hê ‘a cammenà cchiú chiano! (devi camminare piú lentamente!); la
medesima costruzione è usata pure, come ò anticipato in funzione di futuro che benché sia un tempo
esistente nelle coniugazioni dei verbi
napoletani è pochissimo usato, per cui ad es. la frase dell’italiano: domani andrò dal barbiere è resa in napoletano con dimane aggi’’a jí a
d’’o barbiere piuttosto che con dimane jarraggio a d’’o barbiere e talvolta altrove con il presente in
funzione di futuro dimane vaco a d’’o barbiere.
'ncopp’ ê locuzione
prepositiva articolata = sulle Rammento
qui che con la preposizione su in
italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+
gli; in napoletano per formare analoghe
preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su,
dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto alibi
e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie
ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle
preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria
il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione
articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à:
sulla tavola o sopra la tavola , ma nel
napoletano si esige sulla o sopra alla tavola
e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente
articola in napoletano e non in
italiano) per cui le locuzioni articolate
formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e
(i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente
sul/sullo,sulla,sugli/sulle.
grare s.vo f.le
pl.del sg. m.le graro = gradoni,brevi, ma ampi
ripiani costruiti o scavati per superare un dislivello; rammento che nel
napoletano il s.vo m.le sg. graro→(g)raro
indica il gradino cioè un breve e contenuto ripiano atto a far superare
un dislivello; l’esistenza di due plurali grari ( che però non si usa e ci si
serve del solo sg graro= gradino
semplice) e grare( di cui non esiste il sg. f.le ed è usato al pl. per indicare
un complesso di gradoni) uno maschile
ed uno femminile per indicare quasi la medesima cosa si spiega con il fatto che
in napoletano un oggetto (o una cosa
quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente
femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú
piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a
cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande
rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o
canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e
‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella ; va da sé che nella fattispecie la voce
femminile ‘e ggrare (i gradoni) indichi
un tipo di scalino piú ampio da quello rappresentato dalla
corrispondente voce maschile ‘e rare (i gradini) ;
etimologicamente
ambedue le voci graro→(g)raro e grare
derivano dal lat. gradu(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea
d→r 'passo, gradino, grado', dalla stessa radice di gradi 'muovere il passo,
camminare';
chiesia s.vo f.le = chiesa, basilica, luogo di culto la
chiesa intesa cioè non come comunità di fedeli che professano una delle
confessioni cristiane: chiesa cattolica, ortodossa, anglicana, luterana,
calvinista ma piú semplicemente come
l’edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto
delle religioni cristiane, quell’edificio detto casa del Signore accostato di
solito da un campanile dal quale
squillanti campane chiamano a raccolta i fedeli, quell’edificio intorno al
quale, soprattutto nei giorni festivi, gravitano una pletora di poverelli che a
mano aperta e tesa son soliti chiedere l’elemosina a fedeli impietositi che si recano ad assistere alle funzioni
religiose. . Etimologicamente la parola
chiesia/chiesa è dal lat.
ecclesia(m)→(ec)clesia(m)→chiesia/chiesa,che è
dal gr. ekklísía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'; tipica
l’evoluzione del nesso cl in chi (cfr. clausu(m)→chiuso, clavu(m)→chiuovo
etc.).
schijata = aperta, tesa, allargata part. pass. f.le agg.vato dell’infinito
schijare = aprire, tendere, allargare, distendere, allungare;
etimologicamente dal lat. explicare; tipica l’evoluzione del nesso pl in chi
(cfr.plica(m)→chieja, platea(m)→chiazza etc.).
15.T'AGGI' 'A Fà CACà oppure PISCIà DINT' A 'N 'AGLIARO
Letteramente: Ti devo far defecare oppure mingere nel bricco
dell’olio. Id est Ti devo costringere all’impossibile (vessandoti o facendoti
violenza). Questa iperbolica icastica
espressione desueta, un tempo fu in uso nel linguaggio del popolo basso
soprattutto sulla bocca di mamme a mo’ di minaccia per ridurli
all’obbedienza verso i proprî figlioli
irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. figliuoli che per ridurre alla
ragione occorreva minacciare di cosí
tante e violente percosse tali da levigare ed affinare il fondoschiena ed altre
parti del corpo al segno che il figliolo
destinatario della minaccia in epigrafe non avesse piú necessità, per le sue
funzioni defecatorie,o alternativamente
per la minzione di servirsi di unalto e vasto càntaro, ma gli bastasse,
iperbolicamente, il bricco dell’olio
(agliaro) contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con
un’unica ansa arcuata, con base
circolare oppure ovale ampia, collo stretto e
bocca appena appena svasata atta a far defluire l’olio; va da sé che
nella realtà, nessuno (per quanto fisicamente minuto o ... levigato dalle
percosse) potrebbe usare un bricco
dell’olio per espletare le proprie
funzioni fisiologiche, ma si sa e non fa
meraviglia che l’iperbole la fa
da padrona nell’eloquio popolare partenopeo ed i ragazzi minacciati cosí come
in epigrafe, prendendo per vere le parole usate, spesso recedevano dal loro
comportamento irrequieto.
cacà/cacare =
defecare dritto per dritto dal lat. cacare
pisciare = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat.
pi(ti)ssare→pisciare;
càntaro = alto vaso cilindrico di comodo, pitale derivato dal lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos; da non confondere
con la voce
cantàro voce derivata
dall’arabo qintar= quintale
agliàro s.m. = contenuto vaso di rame stagnato in forma di
tronco di cono, con un’unica ansa arcuata,
con base circolare o ovale ampia, collo stretto e bocca (con coperchietto incernierato) appena
appena svasata atta a far defluire l’olio; ne esiste anche un tipo con
coperchio ad incastro e cannello
erogatore; tale tipo però non è
d’uso domestico, ma viene usato per
solito dai pizzaiuoli che devono stare attenti a non eccedere nel consumo
d’olio ed il cannello a beccuccio si presta meglio della bocca svasata a
contenere l’erogazione dell’olio; l’etimo della voce a margine è dal lat.
oleariu(m)→*uogliaro→ogliaro→agliaro.
16.T'AGGI' 'A Fà ABBALLà 'NCOPP’ô CERASIELLO Letteralmente:
Devo farti ballare su di una (pianta di) peperoncino.
Id est: devo costringerti all’impossibile, e ciò perché la
pianta del peperoncino è bassa,di poca o nulla
consistenza e flessibile al segno
di non consentire che qualcuno vi possa
montarvi sopra e ballarci sostenuto dai rami della pianta di montarvici su per
potervi ballare. L’espressione antica, ma ancóra in uso à all’incirca la medesima
valenza della precedente utilizzata come è sulla bocca di genitrici di figlioli
irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. a mo’ di iperbolica minaccia repressiva, minaccia consistente
nella costrizione a suon di percosse, a fare qualcosa di palesemente
impossibile.
L’espressione viene usata, sempre a mo’ di iperbolica, ma
divertita minaccia pure nei confronti di
chiunque, anche adulto, si mostri restio a fare il proprio dovere.
T'aggi' 'a cfr. antea sub 15.
fà = fare
Comincerò con il precisare che nel napoletano l’infinito dell’italiano fare è fà/ffà
infinito che io, contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma
napoletano (che usano la grafia
apocopata fa’), preferisco rendere con la à accentata (fà/ffà ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità
di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti
accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà
–cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2)
la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg.
dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione
l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal
contesto, come2° p.sg. dell’imperativo: da’= dai, A proposito di infiniti rammento che durante
le mie numerose letture sulla parlata
napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso,
di imbattermi in taluni autori che,
ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in
luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può
appunto dare un tono alla parola,e può (solo!)
indicarne graficamente l'esatta
pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed
addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in
segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia
accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico
apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente; il segno dell'apostrofo
in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento
tonico.
Per esempio il verbo
èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come
ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o
metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e
non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio –
l’infinito del verbo cadere va reso con
la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non
cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco
dove quasi tutti gli infiniti risultano
apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi
con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto:
vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che,
apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno
dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi
l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non
esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’
in luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà,
ma personalmente reputo piú comodo come ò détto
per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di
altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare
stà e fà in luogo dei pur corretti
sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto
altresí che almeno nel caso di fa’ esso
potrebbe essere inteso, ripeto, come
voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che
invece non può capitare con il verbo stare
il cui imperativo nel napoletano
non è sta’, ma statte.
abballà =ballare,per estensione semantica dimenarsi, per
traslato vacillare ;
etimologicamente dal tardo lat. ad +ballare→abballare ;
'ncopp ô = sul/sullo
vedi antea sub 14.
cerasiello s.vo neutro
(pianta e frutto del) peperoncino piccante dalla tipica forma
sferica simile a quella di una ciliegia
(in nap. cerasa); etimologicamente voce dal
tardo lat. cerasia, neutro pl. di cerasium 'ciliegia' con suffisso diminutivo maschile iello.
17.TANTO LAMPEJA NFI’ CA TRONA; TANTO TRONA NFI’ CA CHIOVE;
TANTO CHIOVE NFI’ CA SCHIOVE Letteralmente: Tanto lampeggia finché tuona;
tanto tuona finché piove, tanto piove finché spiove. Antica ma desueta
espressione di tipo didascalico che vuole evidenziare l’esistenza in ogni cosa
di un rapporto di causa ed effetto e per ammonire i discenti che natura non
facit saltum e cioè che partendo da una
medesima premessa non si può non perviene sempre ad una medesima conclusione;
nella fattispecie il baleno è sempre un prodromo del tuono a sua volta indizio certo di pioggia che per quanto
intensa e durevole sia finirà per scemare ed arrestarsi del tutto.
lampeja voce verbale
(3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito lampijà = (in primis come nel caso che
ci occupa) lampeggiare,scoccar baleni; (poi per estensione semantica anche)
sfolgorare, sfavillare, brillare, risplendere;etimologicamente lampijà è un
denominale di lampo che è un deverbale
lat. tardo lampare, dal gr. lámpein 'splendere';
nfi’/nfino ca = sino a che (cfr. antea sub 6.);
trona voce verbale
(3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito trunà = tuonare etimologicamente trunà
è un denominale metatetico del lat. tonitru(m)→tronitu(m);
chiove voce verbale
(3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito chiòvere = piovere etimologicamente chiòvere è dal
lat. pluere con normale evoluzione del nesso pl in chi (cfr. antea sub 14.);
schiove voce verbale
(3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito schiòvere = spiovere, cessar di piovere; etimologicamente schiòvere è dal lat.
pluere con protesi di una s distrattiva con normale evoluzione del nesso
pl in chi.
18.TE PUOZZE SAZZIà 'E TURRENO 'E CAMPUSANTO! Letteralmente:
possa saziarti di terreno da camposanto.
Icastica,iperbolica antica ancorché
desueta maledizione lanciata con
acredine nei confronti di chi si voglia veder deceduto e seppellito sotto una
spessa coltre di terreno; si tratta di un’espressione un tempo in uso tra il
popolino della città bassa che sostanzia
una maledizione cosí tanto maligna , cattiva, malevola,
malvagia,velenosa da lasciare addirittura inorriditi poi che ci si augura che
il deceduto o creduto tale venga seppellito addirittura da vivo per modo che
possa iperbolicamente mangiare tanto di quel terreno da camposanto da
addirittura saziarsene!
puozze = possa voce verbale servile (2ª pers. sg. cong.
pres.ottativo in quanto esprime desiderio o possibilità) dell’infinito puté=
potere; etimologicamente puté è da un lat. volg.pōtere per il class. posse:
pōtere →putere/puté;
sazzià = saziare,
1 soddisfare l'appetito, la fame di qualcuno; rendere sazio
(anche assol.): sazzià a cchi tène famma (saziare gli affamati);’a pasta
sazzia( la pasta sazia);
2 (fig.) appagare, soddisfare pienamente (desideri,
aspirazioni, inclinazioni): sazzià ll’allanca, ll’autanza( (saziare
l'ambizione, l'orgoglio);
3 (fig.) annoiare (anche assol.): sazzià ‘a ggente cu
predeche esaggerate(saziare la gente con
lunghe prediche); ‘nu tipo ‘e museca ca à sazziato(un tipo di musica che à
saziato) ||| sazziarsi v. rifl.
1 sfamarsi completamente, mangiare a sazietà: tène sempe
famma, nun se sazzia maje; sazziarse ‘e sfugliatelle, ‘e maccarune(è sempre
affamato, non si sazia mai; saziarsi disfogliate, di maccheroni);
2 (fig.) appagarsi, soddisfarsi; stancarsi: nun se sazziava
maje d’ ‘a guardà ( non si saziava mai di guardarla). Etimologicamente
sazzià è da un lat. satiare, deriv. di
satis 'abbastanza'; normale l’evoluzione del nesso ti intervocalico in zzi;
turreno s.vo neutro =
terreno, porzione di terra piú o meno
estesa, coltivata o coltivabile o destinata ad altri usi come nel caso che ci
occupa. Etimologicamente dal lat.
terrínu(m), neutro sost. dell’agg.vo
terrínus;
campusanto s.vo m.le = terreno consacrato, cinto da mura,
dove si seppelliscono i morti; cimitero.
Etimologicamente agglutinazione del s.vo lat. campu(m) 'luogo aperto,
campagna', poi 'campo di battaglia' con l’agg.vo lat. sanctu(m), propr. part.
pass. di sancire 'sancire'.
19.TENé 'NA MANA A FFà ZEPPOLE, E N’ATA A FFà PEZZELLE
Letteralmente Avere una mano (impiegata) a confezionare zeppole ed un’altra a
confezionare frittelle. Antica,ma non desueta ironica espressione usata,
soprattuto nei confronti di una donna
per bollarla di avidità,di
avarizia ma pure poltronaggine
atteso che la si giudica persona che tende ad ottenere il massimo
risultato con il minimo sforzo e piú precisamente un doppio favorevole risultato positivo con
il risicato impegno della metà dei mezzi
predisposti dalla natura!
tené voce verbale infinito
tenére, possedere, afferrare etc.
sinonimo di avere ma non come ausiliare; etimologicamente dal verbo lat. teníre corradicale di tendere ;
zeppole s.vo neutro pl. di zeppola. Sulla voce zeppola è
necessario ch’io mi dilunghi alquanto; La
voce zeppola, che in italiano, (con ogni probabilità con derivazione dal napoletano) indica
esclusivamente quale sost. femm. (spec. pl.) una ciambella o frittella dolce
tipica di alcune regioni dell'Italia meridionale, è presente nel lessico della
parlata napoletana dove indica oltre che
una tipica ciambella o frittella dolce (zeppola di san Giuseppe), anche una
frittella rustica (‘a zeppulella) ed estensivamente un particolare difetto di
pronuncia, una sorta di balbuzie che impedisce di esprimersi correttamente e
chiaramente (tené ‘a zeppula ‘mmocca= avere la zeppola in bocca, come chi
parlasse masticando un pezzo di quella frittella(zeppola) dolce.
Chiarito però che con l’originaria voce zeppola deve intendersi la ciambella dolce, e che, a
mio sommesso, ma deciso avviso, l’uso di
zeppola per la frittella rustica è un semplice adattamento di comodo, e
che per tale frittella rustica sarebbe
piú esatto (come si vedrà alibi
trattando della preparazione di tale frittella) parlare di pasta cresciuta o pastacrisciuta come mi sembra piú acconcio scrivere
agglutinando sostantivo ed aggettivo, dirò che quanto all’etimologia di zeppola
(ciambella dolce) una non confermata
scuola di pensiero fa riferimento ad un tardo latino *zipula(m) peraltro(si noti l’asterisco) non attestato,
laddove io reputo invece che zeppula (letteralmente zeppola) sia voce che abbia
una derivazione dal latino serpula e
debba indicare innanzi tutto e quasi
esclusivamente un caratteristico dolce
partenopeo, in uso per la festività di san Giuseppe(19 marzo) , di pasta bigné
disposta, con un sac a poche, a mo’ di
ciambella, poi fritta due volte: la prima in olio bollente e profondo, la seconda
nello strutto o (meno spesso)
cotta al forno, spolverizzata di zucchero e variamente guarnita con crema
pasticciera ed amarene candite; il dolce
à origini antichissime quando intorno al 500 a.C. si celebravano a Roma le
Liberalia, che erano le feste delle divinità dispensatrici del 'vino e del
grano nel giorno del 17 marzo. In onore di Sileno, compagno di bagordi e
precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino addizionato di miele e
spezie e si friggevano profumate
frittelle di frumento; le origini del dolce dicevo furon dunque antichissime
, anche se pare che la ricetta attuale delle napoletane zeppole di san
Giuseppe (peraltro già riportata in un suo famoso manuale di cucina da Ippolito
Cavalcanti, duca di Buonvicino(2 settembre 1787 † 5 marzo 1859)) sia opera di quel tal P. Pintauro(1815
ca) che fu anche, come vedemmo alibi, l’ideatore della
sfogliatella, il quale rivisitando le antichissime frittelle romane di semplice fior di frumento,ed ispirandosi ai consigli
del Cavalcanti diede vita alle attuali
zeppole arricchendo l’impasto di uova,
burro ed aromi varî e procedendo poi ad
una doppia frittura prima in olio profondo e poi nello strutto; la tipica forma a ciambella della zeppola rammenta – ò
detto - la forma di un serpentello
(serpula) quando si attorciglia su se stesso da ciò è quasi certo che sia derivato il nome di zeppola (
morfologicamente è normale il passaggio di s a z e l’assimilazione regressiva
rp→pp).Nell’espressione in esame le zeppole richiamate non sono i dolci ideati
da Pasquale Pintauro, ma le frittelle rustiche (quelle che come ò chiarito
sarebbe piú opportuno chiamare pastecrisciute) e tanto si evince dal fatto che
le zeppole di san Giuseppe sono un prodotto di pasticceria, mentre sia
zeppole/pastecrisciute che le successive pezzelle sono un prodotto di
friggitoria/rosticceria e si prestano ad una confezione contemporanea.
pezzelle s.vo f.le pl.di pezzella =pizzetta, frittella
rustica di pasta di pane spesso farcita
di ricotta ovina, salumi, uova ed aromi; la voce pizza di cui pezzella è il
diminutivo (cfr. il suff. dim. f.le élla) piú che dal longob. bizzo 'morso, focaccia', penso sia un deverbale del latino pinsere= pestare,
schiacciare: il part. pass. pinsa à dato pinza
donde pizza.
20.TENE ‘NA MEZA LENGUA
Ad litteram : Avere una mezza lingua Id est : non parlar
correttamente o chiaramente come chi non
fosse provvisto di un’intera lingua ma solo della metà ; antica espressione
ancóra utilizzata in primis per celiare bonariamente ed affettuosamente gli infanti che tardino a parlare e lo facciano
stentatamente ; espressione usata altresí per dileggiare gli adulti che
balbuzienti non riescono a parlar correttamente
o chiaramente risultando ridicoli, comici, buffi.
meza agg.vo f.le =
mezza,metà di qualcosa, poco meno di,
quasi; etimologicamente voce dal lat. media(m)
lengua s.vo f.le =
lingua, organo mobile della bocca, che compie i movimenti necessari alla
masticazione, alla deglutizione e (come nel caso che ci occupa)
all'articolazione della voce; etimologicamente voce dal lat. língua(m)→lengua.
Brak(SEGUE).
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