venerdì 17 febbraio 2017
VARIE 17/206
1.PARE ‘A MUSECA D’ ’A BARRA oppure ‘A MUSECA CIAPPUNESA
Sembra la musica di Barra o la musica giapponese. Cosí i napoletani - abituati a ben altre armoniche melodie – sogliono sarcatimente riferirsi a riunioni piú o meno rumorose e fastidiose ed altresí definire quelle accozzaglie di suoni e rumori in cui vengon coivolti strumenti musicali, ma che con la vera musica ànno ben poco da spartire. Quando ancóra esisteva la magnifica festa di Piedigrotta, spesso a Napoli per la strada si potevano incontrare gruppetti di ragazzi che producevano una dissonante musica, détta: musica giapponese, servendosi di particolari strumenti musicali popolari quali: scetavajasse, triccabballacche, tamburelli,trombette,zufoli, zerrizzerre e caccavelle/putipú ; uno dei gruppetti piú noti fu quello proveniente dal popoloso e popolare quartiere di Barra(un quartiere di Napoli, situato nella zona orientale della città, sulle pendici occidentali del Vesuvio.); il gruppetto numerosissimo e rumorosissimo, formato da monelli forniti di quei strumenti or ora elencati, soleva recarsi a piedi e suonando , quasi in processione, alla festa di Piedigrotta che si svolgeva in zona opposta a quella del loro quartiere di provenienza;
scetavajasse, s.vo m.le tipicissimo strumento musicale popolare napoletano, che per il modo con cui è sonato fa pensare ad una sorta di violino, sebbene non abbia corde o cassa armonica di risonanza; esso è essenzialmente formato da due congrue aste lignee di cui una fornita di ampi denti ricavati per incisione lungo tutta la faccia superiore dell’asta corredata altresí di numerosi piattelli metallici infissi, ma non fissati e lasciati invece liberi di ondulare, con chiodini lngo le facce laterali della medesima asta; l’altra asta usata dal sonatore a mo’ di archetto viene fatta scorrere contro i denti della prima asta (tenuta poggiata ,quasi a mo’ di violino, contro la clavicola) per ottenerne uno stridente suono, facendo altresí vibrare ritmicamente i piattelli nel tipico onomatopeico nfrunfrú.
Lo strepitío di détto strumento gli à fatto ottenere il nome di scetavajasse che ad litteram suonerebbe: desta-fantesche.
Non mette conto illustrare l’origine del verbo scetà che troppo facilmente è riconducibile al latino excitare; piú interessante è dire di vajassa che è la serva, la fantesca;voce che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano : bagascia= meretrice. Rammenterò ancóra che con termine vajassa il napoletano designa anche qualsiasi donna sciatta, scostumata, sporca, quando non laida ed addirittura affetta di contagiose malattie come è nell’espressione: Sî ‘na vajassa d’’o rre ‘e Franza che è letteralmente: Sei una serva del re di Francia. La frase è un’offesa gravissima che si può rivolgere ad una donna e con essa frase non solo si intende dare della puttana alla donna, ma accusarla anche di essere affetta dalla sifilide o lue .
Tale malattia è stata nei corso dei secoli chiamata dai napoletani mal francese, morbo gallico o celtico; i napoletani sostenevano infatti che detto morbo fosse stato importato in Napoli dai soldati al seguito di Carlo VIII(assedio di Napoli 1494). Per converso il morbo era detto dai francesi mal napolitano poiché affermavano che il morbo era stato diffuso tra i soldati francesi di Carlo VIII dalle prostitute partenopee.
A margine di questa voce voglio ricordare una parola che, di per sé non entrerebbe nella trattazione, come che estranea agli strumenti musicali; essa parola è bardascia che una vaga assonanza con bagascia potrebbe indurre i meno esperti della parlata napoletana a collegarla al termine vajassa; in realtà i due termini non ànno nulla da spartire fra di loro; abbiamo visto quale sia la portata di vajassa: serva, donna sciatta o addirittura puttana; la bardascia è invece null’altro che la ragazza e spesso la si poteva incontrare nel simpatico diminutivo – vezzeggiativo bardascella.
L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ che è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nell’ idioma napoletano.
triccabballacche, s.vo m.le tipico strumento musicale popolare usato in quasi tutta l’Italia centro –meridionale e non solo dai piccoli concertini rionali popolari, ma anche da piú vaste formazioni addirittura di tipo bandistico, sia pure – in questo caso - surdimensionato; esso è costituito da un’ asta lignea fissa alla cui sommità insiste una testa a forma di parallelepipedo, contro di essa vengono ritimicamente spinte analoghe teste di due aste mobili incerneriate alla base di quella fissa; le teste per aumentare il clangore dello strumento sono provviste dei soliti piattelli metallici.
Per ciò che concerne l’etimologia propendo per un’origine onomatopeica (lo strumento è molto rumoroso…), poco convincendomi una derivazione per adattamento dal turco tümbelek; troppo tortuosa mi pare la strada semantica e quella morfologica da percorre per giungere a triccabballacche, partendo da un tümbelek che comunque è un tamburo di rame, molto piú simile ad un timpano (strumento musicale e casseruola di rame stagnato in cui si approntavano timballi o timpani di pasta farcita) che ad un triccabballacche.
caccavella s.vo f.le conosciuta anche con il nome onomatopeico di putipú. Tale strumento in origine era formato essenzialmente da una pentola di coccio, pentola non eccessivamente alta, ma di ampia imboccatura sulla quale era distesa una pelle d’ovino, pelle che debordando dalla bocca era fermata con stretti giri di spago, per modo che si opportunamente tendesse; al centro di detta pelle in un piccolo foro è infissa verticalmente un’assicella cilindrica (originariamente una sottile canna) che soffregata dall’alto in basso e viceversa con una pezzuola o una spugnetta bagnate permette di trasmettere le vibrazioni alla pelle che, è tesa sulla pentolina che fa da cassa di risonanza per modo che se ne ottenga il caratteristico suono ( put-p ú,put-p ú), vagamente somigliante a quello prodotto dal contrabbasso, suono che per via onomatopeica conduce al putipú che, come ò detto, è l’altro nome con cui è conosciuta la caccavella che come tale, quanto all’etimologia, è latina: caccabella(m)=pentolina, quale diminutivo di caccabus = grossa pentola da cui i napoletani trassero caccavo il pentolone della minestra e segnatamente quello usato dai monaci di taluni monasteri per distribuire la zuppa giornaliera ai poveri che la mendicassero; ò parlato di originaria pentola di coccio, giacché attualmente la caccavella, pur usurpando il nome antico, è costruita usando in Luogo della pentolina di coccio, tristissime scatole cilindriche di latta e la pelle non è piú ovina, ma squallidamente sintetica di tal che è piú opportuno chiamare questo indegno strumento putipú lasciando l’originaria caccavella al degnissimo strumento d’antan!
putipú s.vo m.le
zerrizzerre s.vo m.le = raganella, strumento/giocattolo che produce un suono particolarmente stridulo (voce onomatopeica);
2.PARÉ ‘A PALATA I ‘A JONTA
Ad litteram: sembrare il filone di pane e la (sua) giunta Il paragone di questa espressione riguarda sempre due persone che incedano di conserva; si deve però trattare realmente di due persone di cui l'una sia longilinea e prestante e l'altra piccola e piuttosto in carne per modo da essere paragonati ad un grosso filone di pane ed alla piccola giunta che il fornaio soleva accordare al compratore, per aggiustare il peso del filone di pane spesso inferiore al previsto chilogrammo della pezzatura; spesso però il medesimo riferimento vien fatto con persone che nella realtà non sono né una longilinea, né l’altra piccola e grassa, ma che son solite accompagnmarsi.
palata s.vo f.le = filone di pane; pezzatura di pane che non eccede il peso d’ un chilogrammo ed occupa la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala l’occupano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.);rammento che a Napoli il pane è venduto nelle piú varie forme o pezzature tra le quali da ricordare ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) per ambedue si tratta di ampie pagnotte rotondeggianti di ca 1 kg.di peso; si à altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che , al momento di infornarlo, detto filone occupa per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata, ripeto, è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare;e ripeto altresí che un quarto o meno della pala l’ occupano le cosiddétte palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); tra le varie pezzature e/o tipi di pane si à ancóra la cocchia che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia), sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato dall’accoppiamento di due palatelle accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito, pur mantenendo la pezzatura di 1 kg., corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma alquanto diversa e fu un po’ piú larga, piú schiacciata e meno lunga della palata.Si ànno infine panini, marsigliesi e ciabatte che sono tutti formati di pane molto contenuti, quasi delle monoporzioni adatte ad essere consumate farcite di salumi o formaggi o gustose frittate per un rapido, contenuto asciolvere o quale pasto da asporto comunemente détto marenna (che etimologicamente è un gerundivo lat. neutro pl. merenda→marenna inteso femm. sg. con tipica assimilazione progressiva nd→nn.
La voce palata è un denominale di pala (dal lat. pala(m)) con riferimento all’attrezzo (lungo e stretto asse di legno) usato per infornare il filone di pane.
Rammento infine che in napoletano esiste un’altra voce quasi simile a palata, ma di tutt’altro significato; dico cioè della voce PALÏATA che vale un gran numero di gravi, dolorose batoste; quest’ultima voce (palïata) originariamente si riferiva al fatto che le percosse erano inferte con un palo donde il nome (palïata); in prosieguo di tempo è venuta meno la particolarità del palo, ma è rimasta l’idea della gran quantità di percosse che la palïata comporta.Rammento che morfologicamente dal sostantivo palo ci si sarebbe atteso come corretta derivazione la voce palata e non palïata, ma poi che il napoletano aveva già la voce palata con tutt’altro significato come ò détto ecco che per indicare la bastonatura inferta con un palo si ricorse al termine palïata che necessitò dell’anaptissi di comodo di una ï durativa nella voce palata. La locuzione FÀ‘NA PALÏATA (percuotere lungamente e dolorosamente) non è piú molto usata, un tempo, invece, era sulla bocca di tutte le mamme che con essa espressione minacciavano i loro vivaci figlioletti insensibili a piú dolci rimbrotti, affinché si calmassero e recedessero dal loro irrequieto atteggiamento.
jonta/ghionta s.vo f.le duplice morfologia d’una identica voce che vale giunta, aggiunta, sovrappiú; nella fattispecie piccolo pezzo di pane dato a complemento d’un filone di pane al fine di sistemarne il giusto peso. La voce è dal lat. (ad)iuncta→juncta→jonta/ghionta, '(le) cose aggiunte', part. pass. neutro pl.poi inteso femminile di adiungere 'aggiungere'.
3.PARÉ ‘A SCIGNA ‘NCOPP’Ô RUCCHIELLO
Ad litteram: Sembrare la scimmia sul rocchetto.Locuzione ironica quando non sarcastica usata per dileggiare coloro che, in palese difficoltà di argomentazione per difendere il proprio operato o le proprie idee spesso errati, si arrampicchino sugli specchi dialettici nel tentativo, spesso vano, di trovare ragioni, prove,assunti, asserti attendibili, stringenti e decisivi a supporto del proprio dire, comportandosi ad un dipresso, in questo loro annaspare loico, come quelle bestie da circo: scimmie platirrine o catarrine che si esibiscono in numeri di funambolismo o in numeri acrobatici tenendosi in precario equilibrio su rotanti rocchetti. scigna s.vo f.le = scimmia; 1(in primis come nel caso che ci occupa) nome generico di mammiferi superiori, per lo piú arboricoli, con quattro o due estremità prensili, dentatura completa, occhi frontali, arti anteriori piú lunghi dei posteriori; si distinguono in catarrine e platirrine (ord. Primati) 2 (fig.) persona brutta, dispettosa e maligna: è ‘na vera scigna! | fà m’a scigna ‘e quaccuno, imitarlo in quello che fa, che dice; scimmiottarlo 3 (region.) ubriacatura, sbornia ed anche rabbia: pigliarse ‘na bbrutta scigna,ubriacarsi di brutto – adirarsi; voce derivata dal lat. simia→simja, con un consueta risoluzione/passaggio di s+ vocale a sci: (cfr. alibi semum→scemo) e con passaggio di mj a gn (come in ca(m)mjare→cagnà). ‘ncopp’ô = sullo; una delle locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a addizionato degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) dando esattamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle e dove ô, â,ê sono rispettivamente le crasi [scritture contratte] di a +’o, a +’a ed a +’e. rocchiello/rucchiello s.vo m.le di doppia morfologia di cui la seconda, con la vocale chiusa velare [u], usata maggiormente nel parlato = rocchetto, arnese per incannare la seta, gruccia/trespolo con sostegno superiore cilindrico e rotante; voce diminutiva di rocchio che è dal lat. rotulu-m→roculu-m→ roc(u)lu-m→roclu-m→rocchio addizionato del suffisso ello che continua il lat. ellus/ella, suffisso alterativo di sostantivi ed aggettivi, con valore diminutivo e spesso vezzeggiativo.
4.PARÉ ‘A ZOCCOLA CU ‘E LLENTE
Ad litteram: Sembrare un topo con gli occhiali.
Divertente ed icastica espressione di dileggio riferita a tutti quegli anziani uomini spesso magri, secchi, scarni dal viso lungo ed affilato, provvisto di un congruo naso semita sotto il quale vegetano cespugliosi o affilati baffetti e sul quale poggiano spessi occhiali da miope o piú spesso da presbite; per solito costoro svolgono mansioni d’archivista presso studi notarili o uffici pubblici e segaligni, ossuti ed allampanati come sono , si aggirano tra polverosi faldoni di documenti con il loro divertente aspetto di vecchio topo… provvisto d’occhiali.
Zoccola s.vo f.le grosso topo di fogna, ratto, surmolotto, roditore dannoso sia per la voracità sia per le malattie che puó trasmettere. La voce è dal lat. sorcula(m) con tipica assimilazione regressiva cr→cc e consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z);
llente/lente s.vo f.le pl. di lenta = lente, occhiale
1 sistema ottico elementare costituito da una sostanza rifrangente, gener. vetro o plastica trasparente, limitata da due superfici di cui almeno una è curva: lente convergente o d'ingrandimento, con almeno una superficie convessa, che ingrandisce l'immagine e corregge la presbiopia e l'ipermetropia; lente divergente, con almeno una superficie concava, che rimpiccolisce l'immagine e corregge la miopia; lente biconvessa, biconcava, con entrambe le superfici curve con raggio di curvatura uguale e opposto; lente a menisco, con entrambe le superfici curve, ma con raggio di curvatura diverso e orientato nello stesso senso; lente sferica, con le due superfici sferiche o una sferica e l'altra piana; lente cilindrica, torica, con almeno una superficie cilindrica, torica, per correggere l'astigmatismo; lente prismatica, con le superfici ad assi concorrenti, per correggere la tendenza allo strabismo | lente a contatto o corneale, piccola lente di plastica che si applica alla cornea, dove è trattenuta da un velo di liquido lacrimale | lente cristallina, (anat.) il cristallino dell'occhio
2 pl.come nel caso che ci occupa, gli occhiali o altrove le lenti a contatto: portare le lenti
3 elemento, oggetto a forma di lente: la lente del pendolo, la massa metallica all'estremità inferiore dell'asta oscillante
4 (ant. , region.) lenticchia.
Voce dal lat. leªnte(m) 'lenticchia'; il sign. di 'lente ottica' si è sviluppato modernamente (dal sec. XVII).
5.PARÉ ‘NA LACERTA VERMENARA
Ad litteram: Sembrare una lucertola rimpinzantesi famelicamente di vermi. Divertente, ironico, beffardo riferimento a persona magra e/o macilenta, ma dotata di formidabile appetito, persona che, a malgrado che non l’assimili, continuamente assume cibo, per questo appaiata ad una lucertola notoriamente avida di vermi di cui è solita satollarsi.
lacerta s.vo f.le = geco: piccolo rettile terrestre dei paesi mediterranei, con i polpastrelli delle dita muniti di organi adesivi che gli consentono di arrampicarsi sui muri; si ciba di vermi; lucertola: genere di piccoli rettili terrestri con capo appiattito, corpo terminante in una lunga coda sottile, zampe corte, lingua bifida; in senso traslato con la voce a margine viene indicata una persona estremamente magra allampanata, denutrita, gracile, mingherlina, esile ; la voce è dritto per dritto dal lat. cl. lacerta(m) che diede poi il lucerta(m) del lat. volg. donde lucertola dell’italiano.
vermenara di per sé s.vo f.le e vale matassa di vermi; parassitosi, elmintosi (che,con derivazione da eliminto [ che è dal gr. ἕλμινς –ινϑος (elmins – elmintos) «verme»], nel linguaggio medico,indica la presenza di vermi parassiti nell’intestino, nell'apparato gastrointestinale, ma possono trovarsi anche nel fegato o in altri organi dell’uomo e degli animali, ma per traslato di causa ed effetto la voce a margine indica uno spavento ragguardevole, il massimo del panico tali da procurare, come un tempo si credette, nel pacco intestinale soprattutto dei ragazzi, la nascita di lunghi e sottili vermi;ovviamente la scienza medica stabilí che ben altre son le cause delle infestazioni da elminiti, cause sulle quali non mi esprimo o dilungo (mancandomene una competenza), ma anche quando la medicina si fu espressa, non venne meno la radicata credenza cui accennavo ed il termine vermenara continuò ed ancóra continua, tra il popolo della città bassa, ad essere usato per traslato di causa ed effetto indicando uno spavento ragguardevole, il massimo del panico.ò détto che la voce a margine è di per sé un s.vo f.le e vale matassa di vermi ma talora come nel caso che ci occupa è usato (sia pure impropriamente) come aggettivo in Luogo di vermenosa per indicare chi, come la lucertola, sia ghiotto o avido di vermi. La voce è un denominale di vermen addizionato o del suff. ara (al m.le aro suffisso che continua il lat. –arius e compare in sostantivio agg.vo derivati dal latino, che indicano mestiere ( oppure persona Luogo, ambiente, pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa) oppure addizionato o del suff. osa (al m.le oso suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m) che indica presenza, caratteristica, qualità ecc.).
BRAK
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