RAFFAELE VIVIANI –GUAGLIONE
Questa volta,per illustrare alcune parole della parlata napoletana,
mi servirò di una poesia di Raffaele Viviani, illustre ed apprezzato poeta,
commediografo ed attore del teatro partenopeo; egli nacque a Castellammare di
Stabia il 10 gennaio del 1888 da famiglia povera, il padre, Raffaele, fu cappellaio e poi vestiarista teatrale e la
madre una umile e squattrinata casalinga. Ad appena 4 anni e mezzo fece il
suo esordio (indossando un minuscolo frac, confezionatogli da suo padre) in un
teatrino di marionette sito in Napoli nella via Foria(strada limitrofa del
centro storico, frequentata ed abitata da operai e medio- bassa borghesia, abituati
a frequentare quei piccoli e rabberciati teatri
di cui pullulava la strada e quelle adiacenti), di proprietà di Aniello
Scarpati. A soli dodici anni Raffaele, rimasto orfano del padre, piombò in un profondo stato d'indigenza e si dovette
accollare il gravoso compito di badare alla madre ed alla
sorella Luisella. La tragicità della condizione familiare di Papiluccio
traspare, in maniera straziante, dall'opera autobiografica La Boheme dei
comici che egli scrisse nel 1930. Negli anni seguenti divenne uno dei maggiori esponenti della
drammaturgia napoletana,e son da ricordare, tra le sue piú belle opere: 'O
vico, Tuledo 'e notte,’O sposarizio, Circo equestre Squeglia, I
pescatori e la notissima Morte di
Carnevale. Si spense il 22 marzo del 1950 a Napoli nella sua casa del Corso
Vittorio Emanuele II (la magnifica strada panoramica che – a mezza costa della
collina del Vomero - fu aperta per volere del re Borbone Ferdinando II col nome
di C.so Maria Teresa, poi per opportunismo politico mutato in C.so Vittorio
Emanuele II in omaggio al 1° re della scellerata Italia unita!), e prima di morire, dopo esser stato zitto per piú
di 12 ore, trovò la forza di chiedere, con un ultimo sforzo e con un tenue filo
di voce: Arapite, faciteme vedé
Napule.(Aprite (il balcone) e fatemi vedere Napoli!). La poesia, di cui
mi servirò per la mia ricerca, apre la raccolta completa delle poesie di R.
Viviani e si intitola: Guaglione. Eccone qui di sèguito il testo completo con la relativa traduzione.
GUAGLIONE
Quanno
jucavo ô strummolo,
â
liscia, ê ffijurelle,
a cciaccia,
a mmazza e ppívezo,
ô
juoco d''e ffurmelle,
stevo
'int' â capa retena
d’'e
figlie 'e bbona mamma,
e mme
scurdavo ô ssolito,
ca
me murevo 'e famma.
E ccomme
ce sfrenàvamo:
sempe
chine 'e sudore!
'E
mamme ce lavàvano
minute
e cquarte d'ore!
Junchee
fatte cu 'a canapa
'ntrezzata,
pe ffà a pprete;
sagliute
'ncopp'a ll'asteche,
p'annarià
cuméte;
p’
‘o mare ce menàvamo
spisso
cu ttutte 'e panne;
e
'ncuollo ce 'asciuttàvamo,
senza
piglià malanne.
'E
gguardie? sempe a sfotterle,
pe'
ffà
secutatune;
ma ê
vvote ce afferravano
cu
schiaffe e scuzzettune
e â casa ce purtavano:
Tu,
pate, ll'hê 'a 'mparà!
Ma manco 'e figlie lloro
sapevano
educà.
A
dudece anne, a tridece,
tanta
piezz''e stucchiune:
ca
niente maje capévamo
pecché
sempe guagliune!
'A scola ce 'a sàlavamo
p''arteteca
e pp''a foja:
'o
cchiú 'struvito, ô massimo,
faceva
'a firma soja.
Po
gruosse, senza studio,
senz'arte
e ssenza parte,
fernévamo
pe pperderce:
femmene,
vino, carte,
dichiaramiente,
appicceche;
e
sciure 'e giuventú
scurdate
'int'a ‘nu carcere,
senza
puté ascí cchiú.
Pur'io
jucavo ô strummolo,
â
liscia, ê ffijurelle,
a cciaccia,
a mmazza e ppívezo,
ô
juoco d''e ffurmelle:
ma, a dudece anne, a tridece,
cu
'a famma e cu 'o ccapí,
dicette:
Nun po’ essere:
sta
vita à dda ferní.
Pigliaje ‘nu sillabbario:
Rafele mio, fa' tu!
E me
mettette a ccorrere
cu
A, E, I, O, U.
Eccone la traduzione:
Guaglione
(Ragazzo)
Quando
giocavo con la trottolina, alla liscia, alle figurine,
a cciaccia , alla lippa, al giuoco dei
bottoni,
stavo
nella maggior combriccola dei figli di
buona mamma (buona lana),
e
dimenticavo, al solito, di avere fame;
e quanto chiasso facevamo, sempre molto sudati:
le
mamme ci lavavano continuamente!
Fionde
fatte di canapa intrecciata, per lanciar pietre,
salite
sui lastrici solari per innalzare
aquiloni;
spesso
ci tuffavamo in mare con i vestiti
e
li asciugavamo tenendoli indosso, senza prender alcun malanno.
Gli
agenti di polizia? Sempre a prenderli in
giro, per farci inseguire,
però
– a volte – ci prendevano con schiaffi e
scappellotti
e
a casa ci conducevano (dicendo): Tu padre, devi insegnargli (a comportarsi
bene) !
ma
neppure i loro figlioli sapevano educare…
A
dodici anni, tredici, tanto alti e sviluppati
che
(però) nulla mai comprendevamo, perché
sempre (con la testa di) ragazzi
la
scuola la marinavamo per la
vivacità e la furia,
il
piú istruito, al massimo, sapeva firmare;
poi
(diventati) grandi, ignoranti, senza avere un mestiere o un partito (un’inclinazione
)
finivamo
per perderci: donne, vino e carte
sfide
cruente, litigi e giovanissimi
rinchiusi
in carcere, senza poterne uscire piú;
Anch’io
giocavo con la trottolina, alla liscia, con le figurine,
a
ciaccia, alla
lippa, al giuco dei bottoni,
ma
a dodici anni, a tredici, per la fame e per aver compreso,
dissi:
Non può durare, questo (tipo di) vita deve finire;
mi
procurai un sillabario, (mi dissi): Raffaele, mettici impegno!
e
presi a correre con A E I O U .
Raffaele Viviani
Ed
arriviamo in medias res, occupandoci delle singole parole e/o espressioni,
cominciando con il titolo della poesia: guaglione; si tratta di parola
che pur essendo napoletana è ormai approdata nella lingua nazionale e non mette
conto darne una traduzione, essendo termine largamente inteso e compreso;
d’esso già ebbi modo di dire abbondantemente alibi; ne reitero qui, per amor di completezza;
-
guaglione:
La
parola a margine , pur se accolta in
tutti i dizionarii della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra,
come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili,
vongola, scarola etc. e con il termine
guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco piú che decenne che abbia eletto per
proprio regno la strada nel cui
rutilante
chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole
nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie, ‘o
guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro piú
o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a
Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o
anche ninno o nennillo e (quando si tratti di piccolissimo) anche anema
‘e dDio.
Per
ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo
il vocabolo scatenato la fantasia di
addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi piú
disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco
perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che
ritengo piú perseguibile.
A – si cominciò,
temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino,
grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza
grazioso, ma chiunque si può render
conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata
prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B
–Si
congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla
parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il
latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è
pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come
è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C,
sebbene caldeggiata dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci
occupiamo dal latino gàneone(m)
che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il
frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non
nego che, talvolta, il guaglione possa
aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne
derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non
perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Ròlfs, che accosta
la parola guaglione a guagnone e
cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio
inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da
ciò l’origine della parola?
E
–
Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che
che tirano dentro le parole latine : qualus= cesto e qualis=
quale, termini che chiaramente sono inconferenti rispetto la sostanza del
nostro guaglione
F – Si è cercato, da
qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero –
indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone,
per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi
convince l’idea, espressa marginalmente
dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico
napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato valione(m) dal
verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i
guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H
-Scarto
altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del
nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o
guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese
riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché
affermò di avere udito in quel di
Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou)
stranamente assonante con il nostro
guagliú; si tratta di una tentazione, ma
se si esclude il tenue legame del francese voie = strada, con il guaglione
partenopeo troppe sono le discrepanze semantiche che ostano a che si possa
accettare simile discendenza , tenendo oltretutto presente che in francese la
voce voyou
vale mascalzone, canaglia, delinquentello
che non sono semanticamente da
appaiare con il probo, onesto,
lavoratore guaglione napoletano.
Per
concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi
di far discendere dal sempre vivo
basso latino galione(m)=
giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo
dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra; è vero che la voce galione(m)
pare che non sia attestata, ma non è la prima volta che voci non attestate, o
ricostruite abbiano generate voci napoletane o italiane; tali termini non
attestati s’usa segnarli con un (*) sia nei dizionarî etimologici partenopei che in quelli della lingua
italiana; procediamo oltre:
-jucavo
=
giocavo; voce verbale (1° pers. sing. indicativo imperfetto) dell’infinito jucà
etimologicamente dal lat. volg. *iocare,
per il class. iocari, deriv. di iocus 'gioco'.
- strummolo = trottolina; con il termine
strummolo, nell’idioma napoletano, si indica un semplicissimo
giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi
di una trottolina di legno a forma di cono con il vertice costituito da una
punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la
superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette
scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che à lo scopo di
imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che detta corda sia stata
velocemente srotolata e portata via dallo strummolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in
terra prenda a girare vorticosamente su sé stessa facendo perno sulla punta
metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strummolo, tanto
maggiore sarà la velocità della
roteazione e la sua durata . Se invece
lo strummolo è di scadente fabbricazione
, il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta,
per cui il suo prillare risulterà di
breve o
nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino
o tiriteppe, volendo con tale onomatopea indicare appunto la non idoneità
del giocattolino. Allorchè poi alla
scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente
lunga, tale cioè da non permettere di
imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a
funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia
fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace
ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, rammentando
un famoso modo di dire che afferma che sono
i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono artiere è quello che posside
buoni ferri...o magari – per concludere -
quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per
tornare allo strummolo rammentiamo un altro modo di dire:
cu
chestu lignammo se fanno ‘e strummole Id est: con questo legno si fanno le
trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A
– È con questo legno, non con altro che si fanno le trottoline...ovvero : ciò
che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B
– Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi
altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché
mi avrete dato materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima
di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strummolo costruito male
per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto
per dileggio: strummolo scacato
Nel
giuoco dello strummolo il maggior rischio che correva il perdente tra due
contendenti era quello di vedersi scugnare (e sia detto per
incidens, è da quest’azione che poi derivò la voce scugnizzo= monello) il
proprio strummolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strummolo
violentemente contro quello dell’avversario
tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strummolo, se
non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica
la etimologia dello strummolo gioco addirittura greco se non antecedente e
greca è l’etimologia della parola che viene dritta dritta dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus poi con consueta assimilazione progressiva strummus ed infine nel napoletano, con
il suffisso diminutivo olu(m)→olo: strummolo con il suo
esatto significato di piccola
trottola.
-
‘a
liscia = voce
intraducibile con la quale in napoletano si indicò un tipico giuoco di ragazzi,
giuoco che anticipò quello delle bocce, meglio delle piastrelle, giuoco che si
faceva facendo scivolare a mo’ di primordiali bocce dei sassi appiattiti e
levigatissimi, probabilmente ciottoli di fiume, quegli stessi che in varie
misure servirono un tempo per lastricar le strade napoletane dando luogo alle
c.d. ‘mbrecciate (derivato di brecce plur. di breccia dal lat. volg. *briccia(m);
liscio di cui liscia è il femminile, etimologicamente è
da un lat. volg. *lisiu(m), voce di orig. espressiva.
-
fijurelle
diminutivo
plurale di fijura dal lat. figura(m), da fingere 'plasmare,
foggiare' =
letteralmente figurine e cioè
immaginette di santi; ma non furono i santini ad essere usati nel giuoco, bensí
altre figurine che non riproducevano immagini sacre, ma piuttosto foto o disegni di personaggi storici, attori/attrici o campioni dello sport e furono dette in napoletano alternativamente fijurelle
oppure ritrattielle e furon
merci vendute dai cartolai( colcografate su sottili fogli di carta da incollare
su cartoncini flessibili e poi ritagliar alla bisogna e poi impilate e piegate
al centro lungo l’asse maggiore, per essere usate nel giuoco, sia come mezzo di
divertimento, che come posta del giuoco stesso) ben prima che apparissero sul
mercato le figurine Panini.
-
ciaccia
con questa voce chiaramente d’origine
onomatopeica, viene indicato quel giuoco altrove detto schiaffo del soldato;dal
tipico rumore: cià, cià provocato dal secco, violento colpo del palmo
della mano contro la palma dell’altrui mano ne è nata la parola usata per
indicare, tra i ragazzi napoletani, quel tipico giuoco;
mazza
e pivezo -mazza = è il generico corpo contundente di forma e
grandezza varie, preferibilmente ligneo, atto ad offendere;etimologicamente dal
latino mattea; con essa parola si indica altresí il bastone usato dai
ragazzi in quel giuoco detto in
toscano: lippa,in
romano: nizza ed in
veneto:pandolo (tutte voci di probabili origini gergali fanciullesche), giuoco che in
napoletano si rende, come a margine indicato
con mazza e pivezo dove la mazza è il corto ed
agile bastone usato per colpire e spinger lontano il pivezo (da un basso
latino:pélsu(m)→ pilsu(m) forse per il classico pulsu(m) (ligneum))
che è il breve pezzo di bastone appuntito ai lati per facilitarne il sollevamento
operato con il bastone che poi lo spinge lontano con un ben assestato colpo.
-
furmella=
bottone
circolare, piuttosto grande, da
biancheria, etimologicamente diminutivo di forma , in quanto oggetto di
una ben determinata forma quale appunto
quella circolare; tali bottoni piuttosto grandi venivano usati in un giuoco,
che prevedeva il lancio dei bottoni
radente il suolo verso un buco ricavato sul terreno o simulato con il disegno
di un cerchio tracciato con il gesso; una volta lanciati i loro bottoni, i singoli giocatori spingevano il loro bottone
verso il cerchio o buco sospingendoli con un colpo dell’unghia del pollice che prendeva slancio facendo leva contro il polpastello dell’indice; vinceva
chi riusciva a far cadere, colpendoli con destrezza e misura, nel buco o nel
cerchio i bottoni degli avversarî; successivamente i bottoni furono sostituiti
dalle monete metalliche, ma il giuoco rimase comunque ‘o juoco d’’e furmelle
(il giuoco dei bottoni);
-
junchee
s.vo f.le pl. di junchea fionda fatta con sottili giunchi intrecciati o con altre piante flessibili di crescita spontanea
(voce modellata sul lat. iuncu(m));
-
capa
retena
letteralmente la redine maggiore, piú importante, ma qui e per estensione sta
per piú importante combriccola di scugnizzi;
di
per sé retena derivata del basso
latino retina deverbale di retiníre è la redine cioè ciascuna
delle due strisce di cuoio attaccate al morso del cavallo per guidarlo;
briglia: e poi che le briglie tengono costretta la testa della bestia e quindi la
bestia, per estensione con retena si intende la combriccola, il branco, la
torma quelli nei quali si trovan
uniti e quasi astretti un gruppo di individui, qui scugnizzi o figli di buona
donna/mamma, i medesimi che altrove son detti figli ‘e ‘ntrocchia (monelli,
ragazzacci, scavezzacolli etc.) per la voce ‘ntrocchia vedimi alibi;
per il vero il termine italiano combriccola che in italiano
è voce prob. connessa con briccone che è dall’ant. franc. bric è reso con svariati vocaboli che sono:
-
acchietta da un basso latino applicitum
= ammucchiata,
-
maniata ovviamente derivato di mana
= quasi insieme di cose e/o persone da tenere in una sola mano,
mmorra che è esattamente branco,
torma (e dunque voce da riferirsi alle bestie e solo per dileggio o
estensivamente alle persone) con derivazione probabile attraverso lo spagnolo morra
da un antico latino mora=
mucchio, rocchia, s.vo.
f.le antica voce
icastica,ancóra viva e vegeta che è esattamente ,
1 torma, schiera;
2 stuolo adunata di giovani
rumorosi e spesso facinorosi; voce derivante da un basso latino roclja per il classico rotlja
= schiera,
-
scamunea che è esattamente bordarglia, scarto ed estensivamente schiera di bricconi e
simili con derivazione dal basso latino scammonea che è dal greco
skammonía,
-
scuglietta esattamente ,1
schiera di bricconi e simili
2 torma, combriccola voce derivata da un latino collecta con prostesi della S intensiva
partenopea = raccolta;
Solo
in Viviani in luogo d’uno dei vocaboli
qui elencati mi è occorso di trovare capa retena, ma non mi è stato
possibile sapere se si trattasse di voce
in uso normale in quel di Castellammare di Stabia (città che, come visto, diede i natali a Viviani) o se si sia trattato
di una scelta poetica.
- scurdavo voce verbale (1° pers. sing. indicativo imperfetto) dell’infinito scurdà
= dimenticare, togliersi dalla mente; dal lat. ex +(re)cordari, deriv.
di cor cordis 'cuore', perché il cuore era considerato sede della
memoria.
- sfrenàvamo voce verbale (1° pers. plur.
indicativo imperfetto) dell’infinito sfrenà = letteralmente liberar/rsi dei freni e cioè far
chiasso, senza inibizioni e senza remore; da un lat. frenare, deriv. di frínum
'freno' con la prostesi di una S qui distrattiva;
-junchee sono le fionde fatte con i giunchi
intrecciati, voce derivata dal termine
giunco ( lat. iuncu(m )) che è pianta erbacea monocotiledone
dallo stelo flessibile, che cresce spontanea nei terreni umidi e paludosi; il
fusto e le foglie forniscono materiale d'intreccio;
- asteco è il
lastrico solare, tipica copertura delle case partenopee; etimologicamente la
voce è dal greco óstrakon = coccio, quantunque l’asteco partenopeo non sia
coperto di coccio ma un tempo di lapillo ed oggi di greve pece;
al proposito della voce asteco ricorderò due tipiche espressioni partenopea
che suonano:
1)Fà
chiagnere asteche e lavatore.
2)Fà
n’asteco areto ê rine.
Cominciamo con la prima: Fà chiagnere asteche e lavatore
Ad
litteram: far piangere terrazzi e
lavatoi; id est: rubacchiare qua e là, infierire contro amici e parenti e
conoscenti fino a farli piangere, fare del male a tutti non curandosi del male
fatto o del dolore causato.Semanticamente è molto piú esemplificativa e
significativa la seconda espressione: Fà
n’asteco areto ê rine. Un tempo quando le tecniche di costruzione
erano diverse da quelle attuali ed i materiali usati molto meno sofisticati, per rendere
impermeabili i terrazzi ed i
lavatoi si spargevano sugli
impiantiti grossi quantitativi di
bianco lapillo vesuviano, lo si bagnava a dovere e poi lo si
percuoteva pesantemente con appositi attrezzi detti mazzocche fino a che il lapillo cosí compresso non
divenisse un blocco compatto ed impermeabile
tale da competere con le piogge o con le acque usate per lavare i panni. Se si pensa alla
forza, se non alla violenza, necessaria
a compiere l’operazione descritta, si comprende perché con divertente
traslato i solai o i lavatoi dovessero
quasi gemere delle percosse subite. La
seconda espressione ricordata si
traduce come violenta minaccia di compiere
l’operazione di compattazione
sulle spalle di qualcuno, ossia lo si minaccia
di percuoterlo a dovere sulle
spalle.
-annarià = mandare in aria, innalzare, far
ascendere; da un basso latino con un non
infrequente doppio in + ariare;
- cumete -
plurale di cumeta che è l’aquilone; etimologicamente da un greco kométis
= chiomato, tenendo presente le lunghe code di carta colorata che ornano gli aquiloni.
- menàvamo = buttavamo voce verbale
(1° pers. plur. indicativo imperfetto) dell’infinito menà = buttare;
menarse a mare vale tuffarsi;
di per sé la voce menà, etimologicamente viene da un
tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e
percosse', deriv. di minae 'minacce';
-malanne plurale di malanno che è un composto di di mal(o) e anno = noia,
disgrazia, grosso fastidio;
- ‘e gguardie = gli agenti di polizia, coloro che stanno in guardia ;
etimologicamente dal francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. ted. warten
'custodire' e Warte 'vedetta';
-
sfotter(le) = prendere in giro, canzonare, provocare;
voce verbale: infinito, etimologicamente dal latino fotuere
donde fottere + la solita
protesi della S intensiva;
- secutatune/i plurale metafonetico di secutatone che
di per sé vale inseguimento, meglio: grande inseguimento (si noti l’accrescitivo
finale one che per metafonesi al plurale une/i)
pacifica l’etimologia quale deverbale del verbo secutà =
inseguire che è dal basso latino secutare
forma frequentativa ed intensiva del
classico sequi (star dietro, inseguire);
- afferravano voce verbale ( 3° pers. plur. indicativo
imperfetto ) dell’infinito afferrà = prendere, bloccare, quasi prendere
e tenere con forza (anche fig.): ed addirittura etimologicamente: mettere i ferri da un * ad+ferrare;
- schiaffe e scuzzettuni intesi come generiche percosse; segnatamente gli
schiaffe sono gli
schiaffi e cioè il colpo dato a mano
aperta sul viso; etimologicamente forse da un antico tedesco schlappe se
non dal greco kólafos, con prefisso intensivo s; (mi corre
l’obbligo di dire che in pretto napoletano non si dovrebbe usare la voce schiaffe
solitamente sostituita dalla onomatopeica pàccare; probabilmente Viviani
fu condizionato dal dovere usare un bisillabo piano e non potette usare il
trisillabo sdrucciolo napoletano; ) mentre gli scuzzettuni plurale
metafonetico di scuzzettone, sono i colpi portati a mano aperta,
ma diretti non al viso, bensí alla parte posteriore del collo, la nuca detta in napoletano cuzzetto o scuzzetto forse con etimo dalla voce cozza
corruzione meridionale di coccia che
è dal gr. kochlías;
-‘mparà voce
verbale: infinito: ‘mparà;di per sé il verbo napoletano ‘mparare (con
derivazione dal latino volg. imparare,
comp. di in→’m davanti alla
esplosivaconsonante
occlusiva bilabiale sorda(p) o a quella sonora (b) illativo e parare
'procurare'; propr. procurarsi cognizioni,) varrebbe il toscano imparare,
ma spesso – come nel caso in esame - esso vale: insegnare, rendere edotto; per
cui l’intera espressione: tu, pate ll’hê ‘a ‘mparà sta per: tu, padre, devi insegnargli (a
vivere, a comportarsi nella maniera piú giusta etc.); reputo che
probabilmente il verbo toscano insegnare fosse totalmente sconosciuto
nel meridione e si sia preferito
attribuirne il significato al già noto imparare (‘mparà) piuttosto che
coniare un nuovo verbo marcandolo su insegnare;in effetti nel napoletano di per sé non esiste, né si usa un generico
vebo insegnare che valga:fare apprendere con metodo, teorico o
pratico, una disciplina o un'arte e si preferisca usare di volta in volta
accanto a ‘mparà verbi che valgono sí insegnare ma che ànno particolari nuances e sfumature,quali:
1)aducà=
formare con l'insegnamento e con l'esempio il carattere e la personalità di...qualcuno
(dal lat. educare, intensivo di educere 'trarre fuori, allevare',
comp. di ex- 'fuori' e ducere 'trarre'),
2)allezziunà
= impartire una lezione sia in senso reale che in senso figurato (voce verbale denominale di
lectione(m)con protesi del rafforzativo ad→al);
3)
catechizzà
= indurre alla conversione ad un’idea, ad un principio, un comportamento; istruire nel
catechismo
(estens.) adoperarsi per convincere; indottrinare.( dal lat. eccl. catechizare, che è dal gr. tardo katìchízein, deriv. di katìchêin 'istruire';
(estens.) adoperarsi per convincere; indottrinare.( dal lat. eccl. catechizare, che è dal gr. tardo katìchízein, deriv. di katìchêin 'istruire';
4)mmezzià
= stimolare, sollecitare, incitare al male (da
un latino volgare *in (illativo) +malitiare (denominale di malitia)
nel senso di spingere ad agire
deliberatamente contro l'onestà, la virtù, la giustizia etc. con consueta semplificazione
dell’ in d’avvio che aferizzato si assimila alla successiva
m dando ‘mm;
5)‘nzajà
=istigare, sobillare (dallo spagnolo ensayar
di pari significato).
Sia come sia in napoletano ‘mparà (imparare) vale
sia insegnare che apprendere: ad es.: t’aggiu ‘mparato vale ti ò insegnato mentre m’aggiu ‘mparato vale ò
appreso!
-educà altro
infinito non esattamente napoletano, ma prestito del toscano; infatti in napoletano,
come ò già détto, l’italiano educare
si rende con aducà o piú
semplicemente con ‘mparà e mancano altri sinonimi tronchi in à (che non siano quelli esaminati che però ànno accezioni particolari che ne sconsigliano
un uso generico); per cui fu giocoforza per il Viviani, bisognoso d’una rima in à
ricorrere al prestito toscano di educare che apocopò alla bisogna troncandolo in educà.
-stucchiune/i plurale metafonetico di stucchione
che vale: spilungone (in senso dispregiativo) ma è
l’accrescitivo (vedasi il suffisso one) di stucchio
derivato del prov. estug (astuccio per conservare);
- capévamo= comprendevamo, voce verbale (1° p.p. indicativo
imperfetto) dell’infinito capí = comprendere, capire, afferrare
con la mente etimologicamente tal quale il toscano capire dal latino capère,
con cambio di coniugazione; si noti il cambio dell’accento tonico tra
l’italiano capivàmo ed il napoletano capévamo;
- salàvamo voce verbale (2° p.p. indicativo imperfetto)
dell’infinito salà che letteralmente è salare, ma riferito
al sostantivo scola (scuola) dal lat. scòla(m), che è dal gr. scòlé,
in orig. 'tempo libero da occupare con lo studio', poi 'luogo di studio', vale
i toscani marinare, bigiare; il napoletano salare nel suo
significato primo sta per cospargere di sale, conservare qualcosa(cibo) sotto
sale per un’altra occasione ed è
questo il senso di salare riferito alla scuola che vien quasi conservata
per un’altra occasione: in tal simile
senso è da intendersi anche il toscano marinare, mentre per il verbo bigiare,
sia per l’etimologia che per il significato di assentarsi, saltar la
presenza in qualche occasione: scuola, messa etc. si brancola completamente nel buio;
- artéteca letteralmente inquietudine, irrequietezza,
smania sebbene etimologicamente dal
latino arthrítica(m) indichi una malattia delle articolazioni;
- foja letteralmente ardore, impeto, concitazione
ed alibi per estensione eccitazione
sessuale; quanto all’etimologia piú
che adattamento dell’italiano foga, penso possa risalirsi al latino fuga(m)
deverbale di fúgere = correre impetuosamente;
- struvito letteralmente istruito etimologicamente deverbale (p.p.) dal lat. instruere
'fornire, preparare, istruire', comp. di in + struere 'collocare
a strati, connettere;nella voce napoletana da notare l’aferesi della sillaba
d’avvio i peraltro, stranamente, non indicata da alcun segno
diacritico (‘) e l’epentesi della v eufonica;
- soja femm.
metafonetico dell’aggettivo possessivo sujo
(suo) etimologicamente dall’acc. latino suu(m) con epentesi del suono j tra vocali;
arte e parte letteralmente arte(o mestiere)
e parte(partito=inclinazione)
nella locuzione partenopea, la mancanza di ambedue le voci a
margine è riferita a chi non abbia, né
si spera che avrà capacità e/o volontà di applicazione allo studio o al lavoro;arte
etimologicamente dal latino arte(m); parte etimologicamente
dal latino parte(m);
-dichiaramiente plurale di dichiaramento deverbale di dichiarare dal latino: declarare 'render
chiaro, manifesto', deriv. di cla¯rus 'chiaro, evidente'; id est: esposizione,spiegazione
del proprio modo di vedere una faccenda; ma nel linguaggio gergale
malavitoso incontro(tra cattivi soggetti) spesso prodromico di
sfide cruente all’arma bianca (zumpate) o quanto meno di
- appicceche plurale di appicceco (litigio,
questione, alterco spesso sfociante in rissa) deverbale di appiccecà dal latino adpiceare che è unire con la pece atteso che l’appicceco
comporta spessissimo il darsi di mano, avvinghiandosi come chi fosse
impeciato;
- ascí = uscire voce voce verbale infinito dal
latino dal latino exire = andar
fuori;
- capí = capire, comprendere voce
verbale infinito dal latino capere, con cambio di coniugazione;
- sillabbario ovviamente il libro sul quale si impara a leggere e
a scrivere, seguendo il metodo sillabico, libro che, cosí come il toscano sillabario, deriva
dal lat. med. syllabariu(m) con consueto raddoppiamento popolare della
labiale esplosiva implicata.
E qui mi fermo non sembrandomi che vi siano altre voci da
illustrare.
Raffaele
Bracale
19/9/2006
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