CAGNACAVALLE
Con la parola in epigrafe, a far tempo dalla seconda metà del 1400, a Napoli si intese indicare chi su banchetti di fortuna nell’àmbito dei mercati rionali esercitasse, spesso non autorizzato, il mestiere di cambiavalute e non chi esercitasse l’attività di addetto al cambio di posta ( come erroneamente potrebbe far pensare la parola formata dall’agglutinazione della voce verbale cagna (3° persona ind. pres. del verbo cagnare= cambiare dal tardo lat. *cammjare per * cambiare, di orig. gallica) con il sostantivo cavalle (plur. di cavallo che è dal tardo lat. caballu(m).
La faccenda si spiega con il fatto che la voce cavalle, seconda parte della voce cagna-cavalle non si riferisce al veri e proprî grossi mammiferi erbivori con testa lunga, collo diritto sovrastato da criniera, coda corta con peli lunghissimi, orecchie corte e diritte, arti con un solo dito, usati appunto nelle poste (luoghi situati lungo le vie di comunicazioni ed usati dai viaggiatori per fermarvisi temporaneamente, rifocillarsi e sostituire gli stanchi cavalli usati fino al momento del cambio), ma si riferisce ad una moneta che i napoletani chiamarono cavallo; rammento appunto che
nella seconda metà del Quattrocento Napoli era governata da Ferdinando I d’Aragona, il quale nel 1472 fece coniare una moneta sul cui rovescio era effigiato un cavallo galoppante. Il popolo chiamò questa moneta «cavallo»→ca(va)llo e, nei secoli successivi, molti altri sovrani fecero battere monete con la medesima effige e conseguente medesimo nome, sino all’ultima emissione da tre cavalli→tre ca(va)lle del 1804. A margine rammento un icastica espressione partenopea che recita: Pe ttre ccalle 'e sale, se perde 'a menesta.
Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle, come ricordato, era la piú piccola moneta divisionale napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale che insaporisse la minestra.
Raffaele Bracale
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