lunedì 13 aprile 2015
LA SMORFIA NAPOLETANA parte 2ª
LA SMORFIA NAPOLETANA parte 2ª
Continuiamo nell’elencazionecommentata dei numeri della smorfia ed in questa sezione affronteremo i numm. dal 31 al 60. Abbiamo dunque
31 – ‘O PATRONE ‘E CASA= il padrone di casa, il proprietario di casa, ma non colui che possegga la casa dove abiti, quanto colui che possessore di uno o piú appartamenti li ceda da locatore a dei locatarî contro pagamento di un canone di locazione mensile o annuale detto in toscano fitto o pigione, ed in napoletano pesone che è dall’acc. latino pensone(m)dal verbo pendere= pesare, pagare; rammenterò che (come già dissi alibi) un tempo ‘o pesone era corrisposto annualmente in ragione di quattro mensilità anticipate ( 4 gennaio,4 maggio, 4 settembre), dunque tre volte all’anno di talché le quattro pigioni finirono per esser dette tierze alla medesima stregua degli interessi derivanti dai titoli obbligazionarî, interessi che venivano riscossi tre volte all’anno contro esibizione delle relative cedole dette in napoletano cupune ed al singolare cupone (dal francese coupon = tagliando). Detti tierzi intesi come interessi di un capitale impiegato (beni immobili o titoli obbligazionarii) ritornano nel detto napoletano: perdere tierze e capitale detto usato ad amaro commento di situazioni nelle quali si verifichi un tracollo finanziario grave che ponga chi lo subisce nella pessima condizione di veder sparire tutto: capitali ed interessi; va da sé che l’espressione possa essere intesa in piú ampi e traslati significati con riferimento ad ogni perdita cosí grave nella quale ci si possa rifondere ad es. lavoro e salute o tempo e danaro e cosí di sèguito. Successivamente (metà1800) quando le spettanze mensili degli impiegati cominciarono ad esser corrisposte ai 27 del mese ecco che anche il pagamento del dovuto per le abitazioni condotte in fitte da quegli impiegati furono corrisposte mensilmente e fu stabilito che ciò avvenisse in una data prossima alla ricezione dello stipendio, quando ancóra la famiglia non aveva dato fondo a tutto il lucrato; fu perciò che il padrone di casa ricevette i suoi emolumenti nell’ultimo giorno del mese, ai 31 appunto e con tale numero semanticamente venne indicato il padrone di casa cui quei mensili andavano corrisposti.
32 – ‘O CAPITONE = il capitone e cioè la grossa anguilla femmina, regina delle napoletane tavole di magro della vigilia di Natale, allorché viene ammannito arrostito alla brace, in carpione, in umido all’agro o fritto; la voce capitone etimologicamente è dall’accusativo latino capitone(m) da capito/onis collaterale di caput/tis in quanto oltre il corpo à una testa molto pronunciata; rammenterò che nelle ricordate tombole familiari quando si estraesse il num. 32 chi lo estraeva annunciava trionfante: trentaroje ‘o capitone!,ma súbito chiosava: cu ‘e rrecchie volendo significare che si intendeva riferire proprio alla grossa anguilla provvista ai lati del capo di due piccole, trasparenti appendici ritenute orecchie, e non intendeva, col dire capitone, riferirsi ad altro furbesco richiamo non ittico, di appendice maschile spesso ricordata con la voce a margine: ‘o capitone senza recchie (il capitone privo d’orecchie). Per comprendere perché semanticamente il 32 è accostato al capitone (con le orecchie) occorre rammentarsi che nella smorfia con il n° 23 si identifica lo scemo, il grullo, il tonto, il poco intelligente e poiché nell’inteso comune il capitone è tutt’altro che scemo, grullo, tonto o poco intelligente risultando anzi furbo, astuto, scaltro,restio a lasciarsi prendere ed ammazzare, al segno che anche tagliato a pezzi continua ad avere una gran vitalità, ecco che rappresenta l’esatto contrario del 23 e cioè il 32!
33 – LL’ANNE ‘E CRISTO = gli anni di Cristo, atteso che nella tradizione cattolica, sebbene non fondata su alcuna certezza storica, si presume che Cristo iniziasse la sua vita pubblica, a trent’anni e che fosse messo a morte tre anni dopo, se ne dedusse che la vita terrena di Cristo durò trentatré anni e con tale numero (da riferirsi non solo agli anni, ma alla persona , nella sua interezza),il Cristo come personaggio storico è indicato nella smorfia. Cristo, aggettivo, se non apposizione del nome proprio Gesú, è voce che etimologicamente è dal lat. Christu(m), traslitterazione del gr. Christós, che traduce l'ebr. mashiah e vale l’unto del Signore.
34– ‘A CAPA = letteralmente il capo, la testa, ma nella tradizione popolare partenopea , furbescamente il numero a margine talvolta piú che al capo, si riferisce alla capocchia ossia al glande soprattutto quando ci si voglia riferire per dileggio alla testa di qualcuno sciocco, stupido o – peggio ancora - volutamente irrazionale; ed è proprio ad una testa bislacca che bisogna pensare per spiegarsi la semantica del n° 34 che graficamente ripropone un volto corredato di occhi bolsi tipici d’uno stupido e di una bocca atteggiata ad un movimento innaturale riscontrabile appunto in un soggetto stolto.
Etimi:
capa: dal latino caput, ma reso femminile;
capocchia: dal medesimo etimo, ma con l’aggiunta del suffisso diminutivo occhia per ocula e dunque da capocula→ capocchia.
35 – LL’AUCELLUZZO=l’uccellino, nome generico di qualsiasi volatile non identificato apparso in sogno, va da sé che trattandosi di un diminutivo, il volatile debba essere piccolo; infatti aucelluzzo è il diminutivo, vezzeggiativo di auciello (uccello) da un tardo latino: aucellus doppio diminutivo di avis per il tramite di avicula→avicellus poi con dittongazione della sillaba implicata seguita da doppia consonante. Nelle consuete tombole familiari cui spesso faccio riferimento l’annuncio: trentacinche: l’aucelluzzo era seguito da un corale verso onomatopeico: zuízuí che tentava di riproporre il cinguettio dell’uccellino, ma che appariva, piú verosimilmente lo squittio di un topolino! Semanticamente il 35 è accostato all’uccellino perché fantasiosamente il nunero rappresenta graficamente proprio il corpicino di un fringuello corredato di alucce sbattute in volo.
36 – ‘E CASTAGNELLE = : castagnette esse sono la versione povera e popolaresca delle piú nobili nacchere spagnole e consistono in due cave, piccole semisfere di legno intagliato ad hoc, ma un tempo anche di osso ugualmente lavorato; dette semisfere legate a coppia con una fettuccia che è inforcata dal dito medio vengono azionate schiacciandole ritmicamente contro il palmo della mano, per modo che urtandosi fra di loro, producano un suono secco e schioppettante, atto ad accompagnare, quasi sempre, i passi delle danze popolari quali tarantella, saltarello ed altre consimili. Semanticamente il 36 è accostato alle nacchere perché fantasiosamente e furbescamente il nunero rappresenta al quadrato il numero 6 (cfr. antea) strumento di per sé atto a menare le danze per uno dei piú gradevoli sistemi per divertirsi; molto di piú se lo strumento risulta moltiplicato per se stesso.
La parola nacchera che connota uno strumento molto simile alle castagnelle è di origine araba: nakâra propriamente scavato, incavato con riferimento appunto alla morfologia dello strumento, mentre il termine castagnelle o castagnette è dallo spagnolo castaňetas (che in terra iberica indicano le nacchere) quasi castagna per la forma vagamente somigliante delle castagnelle come delle nacchere al frutto del castagno.Chiarirò che il numero a margine possa essere usato non solo per identificare le predette castagnelle, ma ogni altro gioioso strumento atto alla danza popolare, quando ovviamente non esista altro preciso numero per indicarlo come ad es il tamburello che è identificato dal num. 51 etc.
37 – ‘O MONACO ed anche ‘O MUNACIELLO; ‘o monaco sta ovviamente per il monaco cioè a dire chi à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza; etimologicamente è voce dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; il medesimo etimo sia pure addizionato di un suffisso diminutivo iello vale per la voce munaciello che nella tradizione popolare partenopea è un particolare piccolo monaco; ‘o munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici; ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d. bambino vecchio, ed assume due personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora, se à in simpatia gli abitanti della casa,che lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o munaciello è molto goloso!) egli arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in odio una famiglia, che non lo abbia accolto con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son le testimonianze che riguardano l’apparizione di questa simpatica entità che non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci pasti, odorosi incensi) da tributare a questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però se donne in ispecie giovani e procaci) , magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di calpestio Scalzo, scheletrico, spesso lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, dello spavento procurato o di inconfessabili confidenze palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine:
La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora di un tal Stefano Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice garzone di bottega.
Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la storia finisse in tragedia. Stefano viene assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del convento adottarono motu proprio il bambino cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito.
La seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non sia che il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando non addirittura nel primo vano delle case, di tal che aveva facile accesso nelle case passando attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo.
Personalmente sono maggiormente attratto dalla vicenda di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente spesso Napoli, imprendibile dalle mura, fu invasa attraverso le condutture idriche.
Per comprendere la semantica che collega il n° 37 alla figura del monaco, occorre fare una piccola digressione e ricordare che a Napoli e segnatamente nella zona popolare della città bassa la comunità monastica piú nota fu quella dei francescani cosiddetti “muonece ‘e sant’Anna” che avevano il loro convento in piazza San Francesco nell’edificio che in seguito e fino a poco tempo fa ospitò gli uffici della Pretura di Napoli; ed avevano il loro edificio di culto nell’adiacente chiesa dedicata a sant’Anna donde il nome di “muonece ‘e sant’Anna” con cui la comunità monastica fu nota. Ebbene tale comunità fino a quando (tardo ‘800) non fu dispersa in altri conventi francescani contava 37 frati e fu proprio il numero 37 asignificare nella smorfia la figura del monaco.
38 – ‘E MMAZZATE/’E BBOTTE = le percosse, gli scoppi; le percosse in napoletano, come già alibi illustrai sono di varie specie ed ànno vario nome; va da sé che quelle a margine sono da ritenere onnicomprensive di tal che chi sognasse di percosse dovrebbe giocare al lotto il numero 38 quale che fosse il tipo o la specie delle percosse sognate, a meno che non si tratti di particolari percosse ben connotate da altro numero come ad es. gli schiaffi che sono 5, il pugno che è 8, il calcio che è 88. Semanticamente il 38 è accostato alle percosse per una mera questione di rima perché in origine al numero 38 era collegata la figura delle bòtte (gli scoppi) e solo successivamente gli fu affiancato per associazione mentale la figura delle percosse (mazzate); ora il termine bbòtte rima con trentotto.
39 – ‘A FUNA ‘NCANNA= la corda alla gola e cioè per sineddoche: l’impiccagione; rammenterò infatti che spesso alibi l’impiccato, in napoletano è detto appunto ‘o funancanna, con una simpatica fusione resa maschile della situazione ricordata sotto il numero a margine; funancanna fu tempo addietro uno dei nomignoli (accanto a chiappo, chiappillo e matarazzo) assegnato dai napoletani alle quattro grandi statue che adornavono una grossa fontana fatta erigire nel 1559 sul molo grande dal viceré Parafan de Rivera. Lo scultore Giovanni Merliani, cui era stata commissionata l’opera, forse effigiò nelle quattro statue i quattro grandi fiumi: Tigri, Eufrate, Gange e Nilo oppure - secondo un’altra opinione - Ebro,Reno, Danubio e Tago: i grandi fiumi dei dominii di Carlo V, ma il popolino rammentando che lí dove era stata eretta la fontana, un tempo esistevano le forche per le esecuzioni capitali,quelle stesse forche poi trasferite posteriormente, al tempo di Masaniello, in piazza Mercato assegnò alle sculture i nomi ricordati con chiaro intento di dileggio; ( per quanto riguarda l’etimo di chiappo ed il suo diminutivo chiappillo, occorre risalire al basso latino cap’lum sincope di capulum = corda, fune;quanto a matarazzo evidente voce furbesca, giocosa usata per significare persona grande e grossa tal quale il materasso, cioè il rigonfio involucro pieno di lana su cui ci si distende per riposare, è etimologicamente da collegarsi all’arabo matrah con il suffisso estensivo aceus,che in napoletano diventa azzo; per funancanna si tratta, mi pare ovvio, di altra voce furbesca per indicare l’impiccato come persona cui è stata stretta una fune alla gola; la voce è ottenuta infatti legando assieme le parole funa= fune(dal latino fune(m)) e ‘ncanna(che è: in+canna dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove – come vedemmo alibi con canna si intende il canale della gola); quando poi, dopo appena un secolo dalla sua costruzione il viceré Pedro Antonio d’Aragona fece smontare la fontana per spedirla a Madrid si venne a sapere che della fontana e delle sue imponenti statue s’erano perse le tracce non essendo la fontana probabilmente mai giunta a Madrid, con i nomignoli riportati o con l’onnicomprensiva espressione: i quattro del molo, si passò ad indicare una combriccola di poco commendevoli individui che avesse fatto perdere le sue tracce e non fosse piú riapparsa. Semanticamente il 39 è accostato alla figura dell’impiccato e dell’impiccagione perché graficamente, anticipando i moderni emoticon,(come accadrà pure per molti altri numeri) rappresenta sia pure fantasiosamente un corpo enfiato ed una testa con una corda pendente.
40 – ‘A PAPOSCIA = l’ernia inguinale, altrove nota con molti altri icastici nomi e tra questi rammenterò: ‘ntoscia, mellunciello,quaglia, zeppola e con altra valenza in quanto nomi non riferiti all’ernia inguinale, ma a quella scrotale o allo scroto tout court: guallera, burzone, pallera; quanto agli etimi avremo: paposcia: probabilmente da un basso latino papus= rigonfiamento a papus è aggiunto un suffisso estensivo femminile osia dal quale il si→scia come da simia derivò scigna, vesica che diede vescica;
‘ntoscia: dal greco entóshia= intestini;
mellunciello riferimento giocoso al melone, la cucurbitacea chiamata in causa per la sua sfericità la medesima che ad un dipresso presenta una congrua ernia inguinale; mellunciello sta per piccolo melone e questi è dall’accusativo tardo latino melone(m), dimílo/onis, forma abbr. di melopepo/ onis, che è dal gr. mílopépon/onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépo¯n 'popone;
altro riferimento giocoso è quello che chiama in causa la quaglia con la sua quasi sfericità di corpo; quaglia è dall'ant. fr. quaille, che è probabilmente da un poco attestato lat. volg. coacula(m), forse di orig. onomatopeica;
ennesimo riferimento giocoso è quello che chiama in causa la zeppola per taluni di etimo incerto, per altri (Roòlfs) da un tardo latino zippula(m), e per altri da cymbula(m) che però avrebbe dovuto dare zommola; l’ultima scuola di pensiero (Jandolo) propone serpula(m) per la tipica forma a mo’ di serpe acciambellata che è della zeppola la frittella dolce guarnita di crema e marmellate d’uso a Napoli nella ricorrenza di san Giuseppe; atteso che la zeppola à proprio la forma di una ciambella, mi pare di potere aderire all’ipotesi proposta dall’ amico Jandolo, quantunque debba qui ricordare che la zeppola usata come sinonimo di ernia non sia esattamente il dolce qui rammentato ed il cui nome risulta usurpato atteso che la zeppola-ernia è piú esattamente quella che a Napoli si dice pastacrisciuta che è appunto una frittella ricavata da un semplice impasto rustico di farina acqua e livito; una volta che la pasta risulti liscia e lievitata, ne vengono presi a strappo piccoli pezzi messi a friggere in olio bollente e profondo; appena calati nell’olio bollente i pezzi ànno la particolarità friggendo di gonfiarsi ad libitum risultando tali pastecresciute dette popolarmente, ma inesattamente zeppole o zeppulelle, piú consone giusta la sfericità determinatasi in esse con la frittura, a rappresentare un’ inguinale ernia debordante e gonfia;
guallera= ernia scrotale o anche scroto tout court dall’arabo wadara= ernia
burzone = ugualmente ernia scrotale o anche scroto tout court il tutto ovviamente in senso ironico e giocoso, accrescitivo reso maschile (si veda il suffisso one) della voce femminile borza da un tardo latino bursa(m), dal gr. byrsa “pelle, otre di pelle”; normale il mutamento rs→rz;
il medesimo senso ironico e giocoso si riscontra in pallera che indica ugualmente l’ernia scrotale , ma piú esattamente lo scroto tout court in quanto contenitore delle palle che sono – con voce triviale - i testicoli pensati sferici a guisa di sfere; il suffisso ero/a cosí come in pallera indica la pertinenza: che riguarda i/le.Anche nel caso del n°40 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica una smorfia di disappunto e lo 0 con la sua rotondità un’ernia gonfia a dismisura.
41 – ‘O CURTIELLO = il coltello, ma ovviamente non quello da tavola, l’innocua posata usata per mangiare, quanto l’acuminata arma bianca proditoria di punta e di taglio, a serramanico che quando sia provvista di apertura a scatto è detta mulletta che è arma di difesa, ma piú spessa d’offesa, arma che facilmente si poté reperire in mano o nelle tasche di delinquenti comuni, camorristi e/o guappi che l’usarono in alternativa con affilatissimi rasule (rasoi) , prima che ci si cominciò ad armare con piú rumorose e devastanti armi da fuoco; ‘o curtiello è voce che etimologicamente è dal lat. cultellu(m), dim. di culter coltello normale l’alternanza l→r;
mulletta = coltello a serramanico, ma con apertura a scatto azionato da una piccola molla è voce che etimologicamente è appunto il diminutivo di molla deverbale di mollare in quanto atto a rilasciare.
rasulo = rasoio è voce che etimologicamente è dal latino rasorium che diede rasoru donde per dissimilazione della seconda r→l il napoletano rasulo.
Come per il precedente numero 40, anche nel caso del n°41 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di disappunto e l’1 un’acuminata lama di coltello pericolosamente inastata
42 – ‘O CCAFÈ = il caffè, ma in quanto bevanda pronta da degustare, o chicchi o polvere per approntare la detta bevanda; si noti infatti che in napoletano esistono delle voci che possono avere una doppia forma grafica: o con la geminazione della consonante d’avvio o con la consonante scempia; quando la grafia e quindi la lettura di tipo forte presenta la geminazione iniziale, ci si trova difronte ad una voce neutra e solitamente son voci che si riferiscono a generi alimentari o inanimati ovvero che non contemplano l’intervento umano (ad. es.: ‘o ccafè, ‘o ppane, ‘o ssale, ‘o ppepe, ‘o ffierro(inteso come metallo); spesso invece una medesima voce può presentarsi con una consonante d’avvio scempia ed in tal caso cambia di significato (ad es.: ‘o cafè =mescita o negozio dove viene servita la relativa bevanda, ‘o fierro (inteso come attrezzo da lavoro o utensile domestico) o ancora ‘o russo (uno con i capelli fulvi) e ‘o rrusso (il colore rosso e per traslato: il sangue; in base a tale argomentare risulta chiaro che la voce a margine ‘o ccafé debba intendersi come bevanda e non come mescita o negozio; comunque ambedue ‘o ccafè e ‘o cafè etimologicamente sono dal turco kahve, e questo dall'ar. qahwa, orig. bevanda eccitante'. Per venire a capo del perché al n°42 è associato la figura del caffé, quale bevanda tonica, eccitante e per certi versi festosa occorre pensare che il 42 è il doppio di 21 che figura la donna nuda, soggetto eccitante e per certi versi festoso e quanto piú tonica, eccitante e per certi versi festosa è da considerarsi la bevanda di caffé che del 21 rappresenta il doppio!
43 – ‘ONNA PÉRETA FORA Ô BARCONE = letteralmente donna Pereta fuori (affacciata) al balcone; ci troviamo dinnanzi ad una locuzione usata con divertente immagine per mettere alla berlina una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata per dileggio quasi come nome proprio di persona) è il femminile ricostruito di pireto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda. Altrove quella donna becera, sguaiata, volgare e sfrontata è detta, volta volta:locena o anche lumera e/o lume a ggiorno; locena: che nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locena; lumera = esattamente lume a gas e lume a ggiorno =lume a petrolio atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una pereta.Con il numero in esame è anche indicata la campana che semanticamente facilmente si raccosta alla donna Pereta fuori (affacciata) al balcone in quanto ambedue si appalesano rumorosamente. , anche nel caso del n°43 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di laido disappunto ed il 3 che l’accompagna il prominente petto della donna che si mette in mostra al balcone.
44 – ‘E CCANCELLE e cioè le carceri; la voce plurale a margine, femminile va riferita come la maschile ‘e cancielle ambedue alla voce singolare neutra canciello= cancello indicante la /le inferriate: protezioni astate in ferro, canciello è etimologicamente un diminutivo attraverso il suff. iello di un cancer latino = graticcio; nel parlato popolare l’originario neutro singolare canciello produsse due plurali: uno maschile ‘e cancielle = inferriate, cancellate ed uno femminile ‘e ccancelle, femminile che comporta al solito la geminazione della consonante d’avvio, plurale femminile che venne usato esclusivamente per indicare le carceri, le prigioni, partendo dall’osservazione che le prigioni son appunto provviste, per solito di robusti cancelli. Per venire a capo del perché al n°44 è associato la figura delle cancellate apposte alle finestre d’un carcere, basta riflettere che usando le due mani atteggiate ad indicare ognuna un quattro, sovrapponendo le dita della mano destra a quelle della sinistra si ottiene proprio ad un dipresso la forma di una grata in tutto simile a quella della finestra d’ una prigione!
45 – ‘O VINO BBUONO = il vino buono; nell’immaginario popolare partenopeo, frutto di antica tradizione contadina, una figura di preminenza forte, tale da essere considerato pure nel libro dei sogni, è quella del vino, gustosa e sacrale bevanda (non dimentichiamo che Cristo lo trasformò nel Suo Sangue! ) bevanda che va da sé debba essere buona, non potendosi prendere in seria considerazione una bevanda che sia una ciofeca (dall’arabo šafèq che in arabo indica appunto un liquido, una bevanda corrotta o piú estensivamente tutto il cattivo delle cose, di qualità inferiore, di scarto, di nessun valore); etimologicamente vino è dal latino vinum e bbuono dal latino bonum; Per comprendere perché al n°45 è associato la festosa figura del vino buono basta riflettere che il numero 45 è formato dall’addizione del 20 (‘a festa) e del 25 ( festività del Natale) ed è proprio durante le festività che si è soliti accompagnare la festa con bevute di vino buono e non di scarto memori del détto: Quann’uno s’ à dda ‘mbriacà è mmeglio ca ‘o ffa cu ‘o vino bbuono!(Se uno intende ubriacarsi, è opportuno lo faccia con il vino buono).
46 – ‘E SORDE – ‘E DENARE = i soldi e segnatamente le monete sonanti intesi nella loro genericità ; infatti in napoletano esistono – come già ebbi modo di chiarire altrove - numerosissimi vocaboli ad òc per indicare i varî tipi di monete o soldi, addirittura tali voci pare siano quasi sessanta, per cui qui non mi dilungo segnalando solo l’etimo di sordo/e che è da un acc. latino solidum =nome di una moneta d'oro romana dell'età imperiale → soldum→soldo→ sordo, mentre denaro/e viene dal lat. denariu(m) (nummum), propr. moneta da dieci, deriv. di díni a dieci a dieci; Per comprendere perché al n°46 è associato la figura del danaro occorre pensare al fatto che il numero cui è associato è formato dall’accostamento d’ un 4con un 6 (cfr. antea) e servendosi non di uno, ma di quattro 6 o meglio di ciò ch’esso rappresenta, si possono ottenere lauti guadagni cioè danari.
47 – ‘O MUORTO = il morto (ma rammentato da vivo) e segnatamente un familiare defunto, magari da poco tempo, familiare che per essere probabilmente molto amato ed affettuosamente ricordato, viene facilmente richiamato nella fantasia onirica di parenti o amici;muorto etimologicamente è part. passato del latino volgare morire collaterale del classico mori, è voce che spesso nel parlato napoletano viene addizionato, nelle tipiche iperboli del napoletano, di uno specificativo, come ad es.: muorto ‘e famma ( morto di fame che sta per molto affamato) muorto ‘e suonno, ‘e sete etc. (morto di sonno, di sete nel senso di molto assonnato, molto assetato) cioè a dire: tanto affamato,assonnato,assetanto da, addirittura, sia pure solo a parole, morirne; anche nel caso del n°47 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di triste disappunto ed il 7 che l’accompagna il vadavere d’ un soggetto disteso con i piedi sollevati.
48 – ‘O MUORTO CA PARLA = il morto che parla; questa volta con il numero a margine si significa non un morto, sognato nelle sue manifestazioni da vivo, quanto il defunto cui ò fatto cenno al numero precedente, ricordato o sognato allorché da morto parli e si manifesti esprimendo concetti e consigli a pro del sognatore; si tratta ovviamente di una assurdità: nessun morto può da morto esprimersi e formulare pensieri; ma nell’àmbito dell’onirico tutto è possibile: anche un morto che parli; parla voce verbale (ind. pres. 3° pers. sing.) del verbo parlà/parlare dal lat. volg. parabolare (con sincope delle sillaba bo) deriv. di parabola parabola, poi discorso, parola;rammenterò che un film del 1950 interpretato dal famosissimo A. De Curtis (Totò) fu intitolato in modo – solo apparentemente errato: 47, morto che parla; ò detto apparentemente perché il film trattava le vicende non di un morto che da morto parlasse in sogno, ma di un vivo che – fingendosi morto – parlava ed agiva nel sogno.
Come per il precedente n°47, anche per il 48 semanticamente occorre pensare ancóra ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di triste disappunto mentre l’8 che l’accompagna sta per la bocca aperta nell’atto del parlare del precedente defunto disteso.
49 – ‘O PIEZZO ‘E CARNE = letteralmente è il pezzo di carne, ma in realtà non ci troviamo a trattare di argomento da macelleria; infatti il pezzo di carne a margine fa riferimento, senza remore o falsi pudori, al prosperoso e procace corpo di una donna , offerto senza reticenze a gli altrui sensi! Rammenterò che in napoletano la voce piezzo che etimologicamente è un derivato di pezza da un lat. volg. pettia(m), di origine celtica con metaplasmo (nella grammatica tradizionale, qualunque alterazione formale che subiscano le parole nella loro struttura abituale) e cambio di genere, oltre ad indicare un pezzo, una particella di qualcosa,è talvolta usata, come nel caso a margine, quando sia seguita da uno specificativo, quasi in senso antifrastico per significare una gran quantità di qualcosa o una gran sovrabbondanza o prestanza fisica come ad es. ‘nu piezzo d’ommo che sta per un uomo grande e grosso o ad es.: ‘nu piezzo ‘e scemo che sta per un grosso stupido e cosí via. quanto al termine carne dal pacifico etimo latino carne(m) non mette conto aggiunger altro, avendo già chiarito che quella dell’espressione a margine rapprenta l’intero procace corpo di una donna ed estensivamente la donna tout court. anche per il 49 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica questa volta una smorfia di laido godimento mentre il 9 che l’accompagna sta ad indicare il prosperoso corpo della donna con un suo foro di pertinenza.
50 – ‘O PPANE = il pane; sotto questo numero viene ricordata una delle figure piú comuni e piú ricorrenti nei sogni del popolino partenopeo e cioè quell’imprescindibile,sacro alimento (trasformato da Cristo nel Suo Corpo!) dell’uomo; tale alimento ricorre nei sogni nelle piú varie forme o pezzature, corrispondenti a quelle normalmente in uso a Napoli e si avrà perciò ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) ambedue: ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg. avremo altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che al momento di infornarlo, detto filone occupava per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupava la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupavano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.) per ciò che attiene all’àmbito linguistico rammenterò che ‘o ppane (etimologicamente dal latino pane(m) ) è un alimento e come tale di genere neutro, ciò che comporta una grafia con la geminazione della consonante d’avvio: ‘o ppane e non ‘o pane. Semanticamente il 50 è accostato al pane perché il cinquanta fu inteso la metà d’un pensato chilogrammo e sta cioè per cinquecento grammi che fu il peso del filone di pane che un adulto poteva consumare in una giornata.
51 – ‘O CIARDINO o ‘O CIARDENIELLO; di per sé le voci significherebbero il giardino o il piccolo giardino; etimologicamente ciardino ed il suo diminutivo (vedi suff. iello) ciardeniello vengono dall’antico francese jardain con passaggio dalla sonora gi alla sorda ci come altrove nel napoletano dove si à ad es.: Calibbarde in luogo di Garibaldi etc. Ò usato il condizionale significherebbero in quanto nell’immaginario dei sognanti partenopei con la voce ciardino e piú ancora con il diminutivo ciardeniello si suole indicare con traslato furbesco e forse impudico, piú che il fronzuto appezzamento di terreno in cui si coltivano fiori e piante ornamentali, un giovane irsuto pube femminile, come suggerisce anche la rappresentazione grafica del numero che semanticamente è riconducibile al pube femminile con i riccioluti peli rappresentati dal 5 e la fenditura rappresentata dall’ 1.
52 – ‘A MAMMA o MAMMÀ = la mamma, l’essere piú caro specialmente ai soggetti maschili, essere che come tale non poteva assolutamente mancare nell’elenco dei soggetti, oggetti o situazioni sognabili; ed è tanto presente nell’immaginario partenopeo da assegnarle due identificativi: ‘a mamma (etimologicamente dal lat. mamma(m) mammella, poppa e nel linguaggio infantile mamma) voce che appare però piú asettica o meno partecipativa della successiva mammà (etimologicamente dal franc. maman ) che pur essendo voce essenzialmente regionale, usata sempre senza articolo, appare piú coinvolgente emotivamente rispetto alla toscana mamma. Semanticamente il 52 è accostato alla mamma perché esso è formato dall’accostamento tra il numero 5 (cfr. antea: la mano, qui intesa protettiva) ed il numero 2 (cfr. antea: la bambina, qui accompagnata da una protettiva mano che è propria della mamma).
53 – ‘O VIECCHIO o anche ‘O VICCHIARIELLO = il vecchietto; altra figura emblematica che non poteva mancare nella smorfia dei napoletani da sempre adusi a tenere in alta considerazione chi si porti il carico di molti anni, sia che si tratti di familiari (genitori, nonni, zii) sia che ci si riferisca ad estranei con i quali si abbia un sia pure fugace contatto di vita, piú o meno quotidiano al segno che nella smormia il soggetto è indicato con una doppia voce: ‘o viecchio (la persona anziana che si trovi negli ultimi anni di vita) voce che deriva da un basso latinoveclu(m),collaterale del class. vetulu(m), dim. di ve°tus 'vecchio'voce che è però molto fredda e quasi anodina, rispetto alla successiva vicchiariello ( diminutivo, vezzeggiativo della pregressa viecchio) usata piúaffettuosamente per indicare l’anziano di famiglia, voce che per sottolinearne l’uso piú partecipativo viene quasi sempre accompagnata dal possessivo mio: del proprio genitore s’usa dire infatti: ‘o vicchiariello mio!
Anche per il 53 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente, sia il 5 che il 3 che l’accompagna con le loro curve e tratti angolosi suggeriscono l’idea di un individuo che ormai à raggiunto un’età in cui il corpo comincia ad avere problemi di postura o di artrosi anche deformante.
54 – ‘O CAPPIELLO = letteralmente il cappello, ma in senso generico, indifferentemente da uomo o da donna, un qualsivoglia copricapo composto da una cupola o cupolino e da una tesa o falda piú o meno pronunciata, quell’oggetto il cui nome viene da un tardo latino cappellu(m) doppio diminutivo maschile di cappa= copricapo e dunque un qualunque copricapo alto o basso di feltro o di felpa, quella felpa (tessuto pesante per confezionare cappelli rigidi) il cui accrescitivo maschile : felpone diede la voce ferbone che indicò qualsiasi proditorio proiettile lanciato dagli scugnizzi sul finire del 1800 contro gli uomini che indossassero alti e rigidi copricapi, allo scopo di dileggiarli, facendo loro cascare il cappello, quel medesimo generico copricapo cui si fa riferimento nella nota frase partenopea: Àccepe cappiello! (riproducente il latino: Accipe cappellum id est: Prendi il cappello (e tira via!) usata a mo’ di canzonatura rivolta dal vincitore al perdente al termine di una gara o tenzone, quasi per dirgli: Ài perduto… Non à piú senso che tu stia qui: prendiil tuo cappello e vattene! Aggiungerò che l’oggetto a margine è uno di quegli oggetti elencati nella smorfia con numerosi numeri, secondo il tipo o la specie; ne rammento alcuni: – 53 cappello bianco – 57,cappello del papa, camauro -70, capp. vescovile -61, capp. cardinalizio – 62, capp. da prete – 3, cappello alto e bordato – 63, da donna con penne 27(si noti l’irrisione: come specificai con il medesimo num. 27 è elencato il pitale, appaiato qui ad un cappello da donna probabilmente di foggia cilindrica, la stesso d’’o cantero, pitale…), capp. da ragazzo – 58, da cafone -64, da militare generico – 82, capp. di paglia, paglietta – 36, capp. incerato, da pioggia – 39,di seta – 67, con fiori – 10,stracciato – 37, da contadino calabrese -19, da bandito – 36, gibus (che è il cappello a cilindro provvisto di molle che permettono di ripiegarlo e appiattirlo, usato un tempo nell'abbigliamento maschile da sera, e che deriva il suo nome dal fr. gibus, dal cognome del cappellaio Gibus che lo inventò nel 1834).
Anche per il 54 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 5 indica un voluminoso cappello da donna ricco di piume o merletti, mentre il 4 che gli tiene dietro sta per una smorfia di disappunto di una donna probabilmente non contenta di indossarlo!
55 – ‘A MUSECA cioè la musica, con particolare riferimento non a quella eseguita da musicisti professionisti al chiuso di teatri, ma a quella gioiosa delle feste popolari eseguita da musicanti improvvisati, all’aperto, con rumorosi strumenti a fiato e/o percussione, quelli stessi che elencai alibi sub STRUMENTI POPOLARI NAPOLETANI ed a cui rimando, per evitare di dilungarmi ripetendomi qui; la voce museca etimologicamente è dal lat. musica(m) (arte(m), che è dal gr. mousiké (téchní); (propr. 'arte delle Muse).Semanticamente è inteso figura della musica in quanto il 55 è reiterazione del 5 (cfr. antea: la mano) e richiama appunto il numero di mani ( 2) da usare per generare la musica soprattutto con gli strumenti a percussione.
56 – ‘A CARUTA e cioè la caduta, quell’inopinato accadimento, che quando avviene, se non procura in chi lo subisce gravi danni, muove spessissimo al riso, in ispecie quando detta caduta è goffa e repentina, soprattutto quando chi cada sia persona grossa e/o grassa e se donna metta in mostra nascoste grazie; alla stessa categoria che muove al riso attiene la c.d. sciuliata (che è l’atto dello scivolare ricordato però sotto il numero 68) tanto piú divertente quando alla sciuliata faccia seguito una plateale caruta; quanto agli etimi, caruta è un part. pass. femminile sostantivato, con tipica mutazione d’area osco-mediterranea della d→r, ed occorre risalire al lat. volg. cadíre, per il class. cadere; mentre sciuliata risulta essere anch’essa un part. pass. femminile sostantivato dal lat. volg. exevolare attraverso una forma frequentativa exevoliare.
Anche per il 56 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto questa volta la figura che rappresenta (la caduta) non è intesa in senso reale, ma in quello metaforico e graficamente,il 5 indica un uccello (come antea per il 35), ma questa volta figurato , mentre il 6 che gli tiene dietro sta per quel che esso indica antea (cfr. sub 6); l’unione del traslato uccello con il 6 nel significato noto, porta per l’appunto a rammentare una metaforica caduta indicata con il 56.
57 – ‘O SCARTELLATO/IL BUFFONE cioè il gobbo/il buffone di corte figura emblematiche dell’immaginario partenopeo ritenute portabuono; ricorderò che si sta parlando dello scartellato e cioè di un uomo affetto da una gobba posteriore quella che è detta scartiello (etimologicamente da un basso latino cartellu(m)=cesta, gerla con tipica prostesi della s intensiva partenopea; al contrario, se si sognasse di una donna provvista di scartiello ci troveremmo davanti ad una scartellata, figura decisamente negativa: se lo scartellato porta buono, la scartellata porta male, anzi malissimo; rammenterò in chiusura che qualora si sogni di un uomo che porti la sua gobba non sulle spalle, fra le scapole, ma sul davanti sullo sterno, non potremmo piú parlare di scartiello, ma dovremo parlare di bauglio ( che è dallo spagnolo bahúl da un basso latino bajulare=portare) e chi sognasse di un portatore di gobba pettorale (bauglio) non potrebbe piú giocare il numero 57, che fa riferimento allo scartiello posteriore e dovrebbe indirizzare le proprie preferenze per il giuoco al num. 75 che è il num. 57 lètto in maniera voltata, come voltata è la gobba non piú posizionata sulle spalle, ma sul davanti del gobbo. Anche per il 57 semanticamente occorre parlare di accostamento di tipo fantasioso in quanto questa volta la figura della gobba è rappresentata dall’accostamento del 5 che qui un grasso signore corredato di una gobba rappresentata dall’angolo del numero 1 che tiene dietro al 5.
58 – ‘O PACCOTTO che è esattamente il grosso pacco,l’ involto di qualsiasi merce confezionata e sistemata ben stretta e legata per un agevole asporto; con il medesimo termine però in senso traslato furbesco e scherzoso si intende anche un vasto, prosperoso deretano muliebre(altrove detto pure culo a buttiglione o a purtera) inviluppato in ampi ed eccessivi vestiti tali da fare apparire il detto culo merce confezionata in grosso pacco pronta per l’asporto; la voce paccotto è etimologicamente da collegarsi al greco paktòs deverbale di pegnýô=comporre, compattare.
Semanticamente il 58 è accostato al grosso pacco per una mera questione di rima
59 – ‘E PILE - i peli e segnatamente i capelli o quelli che ricoprono irsuti ed abbondanti un prestante torace d’un giovane uomo, peli intesi come simbolo di rigogliosa forza e giovinezza e come tali accolti nel libro dei sogni napoletani nel quale le manifestazioni della giovinezza son sempre tenute in gran considerazione;(non dimentichiamo la storiella biblica di Sansone che aveva nelle chiome l’origine della sua forza; i partenopei, gran parte della loro cultura di fondo la devono a greci,osci, arabi, ebrei dai quali mutuarono parecchie idee e concezioni filosofiche, ma pure credenze e norme comportamentali); etimologicamente ‘e pile plurale di ‘o pilo è dal latino pilu(m) parallelo al greco pïlos. Anche per il numero 59 accostato ai peli, semanticamente occorre parlare di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta la figura dei peli è rappresentata dall’accostamento del 5 inteso come l’ irsuta villosità d’ un petto maschile adombrato nella rotondità del nove che tiene dietro al 5.
60 – ‘O LAMIENTO o SE LAGNA – letteralmente il lamento, la lagnanza o si lagna (lamenti e lagne tipici della donna) ed ovviamente si tratta di lamenti o lagnanze ben motivati, conseguenze di un dolore provato, o di una vicissitudine subíta; sono escluse dalle voci a margine quelle fastidiose, pretestuose impuntature o capricci, richieste immotivati dei bambini che producono antipatiche lamentele che vanno sotto il nome di ‘nzirie per la cui etimologia, scartati gli inconferenti latini: insidiae ed in-ira, penso si possa risalire non al greco sun-eris che ad litteram è con dissidio,che m’appare esorbitante rispetto alla consistenza della ‘nziria, ma al lat. in-sideo = sto su, mi soffermo, insisto giusta i contrasti insistenti ed astiosi tipici delle ‘nzirie dei bambini; per l’etimo di ‘o lamiento occorre riferirsi al latino lamentu(m) mentre per quello della voce verbale se lagna del verbo lagnarse occorre pensare ad un tardo latino: laniare se = dilaniarsi per il dolore. Anche per il numero 60 accostato ai lamenti e/o lagne muliebri , semanticamente occorre parlare di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta nel numero 60 si può riconoscere nel 6 (cfr. antea: organo femminile) la donna còlta nel momento del lamento rappresentato dallo 0 che tiene dietro al 6 adombrando una bocca spalancata nell’atto del lamento.
Brak
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