giovedì 2 febbraio 2017
VARIE 17/133
1.FÀ ‘E SSETTE CHIESIELLE.
Letteralmente: visitare le sette chiesine ovvero per traslato : andarsene in giro per le case altrui senza uno specifico motivo, ma solo per il gusto di intrattenersi negli altrui domicili, nella speranza - magari - di scroccare un pranzo, o quanto meno un caffé che a Napoli non si rifiuta a chicchessia. Detto anche di chi, prima di decidersi a fare un acquisto visita innumerevoli negozi per informarsi sui prezzi dell’articolo cercato, per confrontarli e metterli a paragone.
Originariamente le sette chiese della locuzione sono sette bene identificati luoghi di culto e cioè nell’ordine: Spirito santo, san Nicola alla Carità, san Liborio alla Pignasecca, Madonna delle Grazie, santa Brigida, san Ferdinando di Palazzo e san Francesco di Paola, quelle chiese cioè che tutti i napoletani andando dalla odierna piazza Dante (anticamente Largo del Mercatello) a piazza del Plebiscito (l’antico Largo di Palazzo) percorrendo la centralissima strada di Toledo, sono soliti visitare durante il cosiddetto struscio la rituale passeggiata pomeridiana o serale che si compie il giovedì santo , durante la quale si “visitano” i cosiddetti sepolcri ovvero le solenni esposizioni o riposizioni dell’Eucarestia che si tengono in ogni chiesa di culto cattolico.Dal fatto che le chiese incontrate nel rituale tratto dello struscio fossero sette si instaurò la consetudine pseudo-religiosa che i cosiddetti sepolcri da visitare dovessero essere in numero dispari e qualche devoto poco propenso a camminare per ottemperare a tale pseudo-precetto si recava nella chiesa piú vicina alla propria abitazione e vi entrava ed usciva sette volte di fila per biascicare orazioni, ritenendo in tal modo di aver fatte le rituali dispari visite previste.
La voce struscio (deverbale del lat. volg. *extrusare, deriv. del class. extrudere) venne adottata con riferimento al fruscío prodotto dalle nuove lunghe vesti di raso indossate dalle signore in occasione della rituale passeggiata del giovedì santo. P.S. Nella mente ingenua del popolino si confusero le cerimonie del giovedì e del venerdì' santo e si parlò impropriamente di "SEPOLCRI" in luogo di "Esposizione Solenne" o "Riposizione". Rammento a completamento di quanto fin qui détto che la consuetudine partenopea dello struscio (rituale passeggiata del giovedì santo, con sfoggio di fruscianti abiti nuovi) fu determinata da una prammatica emessa nel 1588 dal viceré Juan de Zunica conte di Morales (?Alcantara -†ivi1605)[il medesimo che spostando al 1° di maggio (festività dei santi Filippo e Giacomo)l’ abitudine di sfratti e traslochi, l’aveva regolamentata definitivamente] il quale importando a Napoli un uso iberico, per favorire la concentrazione spirituale dei fedeli durante la settimana santa, proibí l’uso di carrozze e cavalli che con il loro frastuono avrebbero nociuto al raccoglimento di quei fedeli.
2.FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: far di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
3.FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro...
4.FÀ ‘NA REVERENZIA CU ‘A PALA. soprattutto NELL’ESPRESSIONE TE FACCIO ‘NA REVERENZIA CU ‘A PALA!
Fare una riverenza con la pala Espressione minacciosa ed ironica nata in ambito contadino allorché i lavoranti la terra del signorotto erano soliti inchinarsi al passaggio di costui stringendo sempre nelle mani lo strumento del loro lavoro, nella fattispecie una vanga, quasi a significare che essi erano sempre pronti a servirsene come mezzo d’offesa vendicativa qualora quel loro padrone li avesse maltrattati o vessati. Dall’àmbito rurale l’espressione passò poi ad avere una valenza piú generale e venne usata ad avvertimento e monito nei confronti di chiunque si comportasse in maniera oppressiva per significargli che si era pronti alla ritorsione.
reverenzia s.vo f.le in primis riverenza, inchino
(per traslato) deferenza, ossequio, riguardo; voce dritto per dritto dal lat. reverentia(m), deriv. di reverens -entis 'riverente'
cu preposizione semplice che corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora; se ne jeva passianno cu ‘o cane ;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti della lingua napoletana, autori che invece ànno spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni.
pala s.vo f.le 1in primis pala, vanga;
2 (per traslato) qualsiasi attrezzo d’uso contadino;
3 (per ampiamento semantico) utensile di legno di varie dimensioni usato da fornai e/o pizzaioli per infornare e poi prelevar dal forno pane e/o pizze; rammento che dal s.vo pala in questa terza accezione se ne ricavarono i nomi indicanti alcune pezzature di pane: palatone, palata e palatella: ‘o palatone è il grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli derivò dal fatto che un tempo, al momento di infornarlo, detto filone occupava quasi per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg.(ma in origine fu di 28 once cioè ca 680 grammi e poi al tempo della rivoluzione di Masaniello(7 - 16 luglio 1647), fu portata a 36 once di poco superiore cioè al peso di 1 kg.) ed occupava la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupano le cosiddette palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); altri nomi della pezzatura del pane esulano dal riferimento alla pala : ‘O PANIELLO o ‘A PANELLA (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ); per ambedue si tratta di un’ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg.; COCCHIA che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia), sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato da due palatelle accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito pur mantenendo la pezzatura di 1 kg. corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma diversa: un po’ piú larga, piú schiacciata e meno lunga della palata. Un’ altra pezzatura ormai scomparsa, ma che fu prodotta sino alla fine del 1600 fu la cosiddetta CIAMPETELLA ( voce diminutiva di cianfa/ciampa varianti di zampa tutte dal long. zanka)ed il nome derivò a questa pezzatura di pane croccante di circa 4 etti per il fatto d’avere la forma d’ un ferro di cavallo (in napoletano cianfa, donde ciampetella).
5.FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO.
Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che apparisse.
accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare→accaptare→accattare intensivo di capere = prendere.
BRAK
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