NASCITA DELL’IDIOMA NAPOLETANO – 3
che invece con ”ser” risulta permanente: ecco “mi mujer está cansada = mia moglie è stanca”,
“tú estás sudado = tu sei sudato”, “la chica está enferma = la ragazza è malata”, ecc., cui il nostro dialetto risponde con tipologie espressive analoghe, quali sta arraggiato = “è adirato”, stongo assettato = “sono seduto”,
stanno malati = “sono ammalati”, tu staje surato = “tu sei sudato”…
2) Cosí il verbo spagnolo “tener” è usato assoluto al posto di “àber”= “avere” quando non à funzione d’ausiliare e regge il complemento oggetto.
Ne dànno riprova frasi come “tengo sueño” = “ò sonno”, “tenemos mucho dinero” = “abbiamo molto denaro” ecc., cui rispondono i nostri sintagmi dialettali con tengo suonno, tengo famma e ssete, nu’ ttengo tiempo ’a perdere…
3) Ancòra: nel “complemento oggetto” rappresentato da esseri animati si trova puntuale nelle due comunità linguistiche la premessa del segnacaso “a”, come càpita anche nel portoghese e addirittura in un’area
marginale qual è quella del rumeno, altra lingua neolatina; ma si ritrova, senza tale preposizione indiretta, nel Basile (chiamma lo scrivano), forse per vivido influsso della lingua “letteraria” fiorentina?
Ess.: “vi a tu hermano en la plaza = vidi tuo fratello nella piazza”,
“he conocido al niño = ò conosciuto il bambino” ecc., con analoghi echi nel napoletano quali aggiu visto a frateto, aggiu salutato a Ppascale, à ‘ncuntrato ô (= a ’o) figlio, capisce a mme!, bbiato a tte! (complemento
esclamativo), salútame a ssoreta!
4) Il complemento di compagnia latino coi pronomi personali
presenta il “cum” posposto (mecum, tecum = con me, con te); però la ripetizione delle preposizioni anteposte in napoletano nei due primi pronomi personali del singolare (cu mmico, cu ttico) indurrebbe al sospetto che tali ulteriori premesse siano state modellate secondo la parallela
tipologia spagnola, nel resto autonoma per la grafia unica e per la lenizione della gutturale “c→g” (conmigo, contigo + consigo).
5) Infine la maggiór parte dei verbi intransitivi napoletani specie indicanti “movimento” mostra – in quasi tutte le persone dei tempi composti – la possibilità d’alternanza degli ausiliari “essere / avere”. È probabile che, accanto all’uso locale di “essere”, eguale a quello prevalentemente tipico del fiorentino-italiano, il napoletano abbia abbinato
l’altro ausiliare forse per riferimento e influsso diretto dello spagnolo (attinto durante i lunghi duecentoquattro anni di dominazione), che appunto ricorre esclusivamente ad “àber” = avere.
Ess.: yo he ido = i’ so’ gghjuto / i’ aggio juto = io sono andato ; ellos àn venido conmigo = chille so’ vvenuti / ànno venuto cu mmico = essi sono venuti con me; yo àbía casi muerto de miedo = i’ ero / êvo quasi muorto ’e
paura = io ero quasi morto di paura, ecc..
Tuttavia la mancanza sia d’un dizionario che d’una grammatica d’impronta storica c’ impedisce d’avere salde certezze negli orientamenti d’ attestazione cronologica circa tali tipi di lessico, di costrutti e sintagmi particolari.
Torniamo all’excursus storico ricordando che nel XVI secolo re Ferdinando II d’Aragona, il Cattolico(Sos, 10 marzo 1452 –† Madrigalejo, 25 gennaio 1516), impose il castigliano come nuova lingua ufficiale ed il napoletano di stato sopravvisse solo nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici.
Ora chiediamoci come mai quel dialetto/idioma napoletano, pur essendo il piú antico idioma che tenne dietro al latino tardo, volgare e parlato sostituendoli in una vastissima area peninsulare ed insulare (Reame al di là ed al di qua del faro), com’è che non riuscí ad imporsi come lingua ufficiale e nazionale, cosa che invece riuscí ad un altro dialetto locale, quello fiorentino, parlato in un’area piú circoscritta e versosimilmente da un numero minore di soggetti? La risposta è relativamente semplice e penso che (checché ne dica qualche moderno studioso, aduso a storcere il muso innanzi ad affermazioni come quella che sto per fare) il dialetto fiorentino, come giustamente disse Ferdinando Galiani (Chieti 1728 -† Napoli 1787) si impose non per sue intrinseche capacità o virtú espressive, quanto per ragioni storico-politiche, senza dimenticare la destrezza toscana e la soverchieria di letterati e studiosi, mercanti e banchieri toscani che brigarono per imporre il loro dialetto come lingua comune, mentre nel Meridione la perdita dell’indipendenza post-unitaria penalizzò ulteriormente il dialetto/idioma napoletano,che già non piú in uso negli atti pubblici della nazione e già confinato negli scritti ingiustamente ritenuti buffoneschi di scrittori del calibro di Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1570 – †Napoli, 1640), Giambattista Basile (Giugliano in Campania, 1566 †Giugliano in Campania, 23 febbraio 1632),Filippo Sgruttendio (pseudonimo dello stesso G.C.Cortese), Niccolò Capasso (Grumo Nevano, 13 settembre 1671 - † ivi 1744), Pompeo Sarnelli (Polignano 1649 –†Bisceglie 1724). L’avvento della monarchia sabauda fece il resto e la vanagloria glottica e riservata di quella casa regnante poi, attraverso il fascismo, impedí la piena commistione tra la parlata napoletana e quella toscana. Non dimentichiamo infatti che ancóra tra il 1915 ed il 1918 i fantaccini meridionali, mandati a difendere i sacri ( la retorica dell’epoca imponeva la sacertà di certe zone nordiche…) confini d’Italia, parlavano solo il napoletano e non riuscendo spesso a capire gli ordini dati in lingua italiana finirono per eseguirli a modo loro rimettendoci in tantissimi le penne e tirando le cuoia per una patria sentita tale solo nella pomposità interessata di E.A.Mario (al secolo Giovanio Ermete Gaeta (Napoli 1884 - † ivi 1961) e della sua La leggenda del Piave! Ci fossero stati graduati partenopei che avessero tradotto gli ordini dall’italiano al napoletano, forse meno mamme e spose e sorelle napoletane, lucane, abruzzesi, calabresi, siciliane e pugliesi avrebbero pianto i loro congiunti mandati al macello sulle petraie del Carso ed altre impervie alture estranee alle loro terre d’origine!
Infine conviene rammentare che non è esatto quanto affermato dal prof. Nicola De Blasi che tempo fa insistí nel dimostrare (?) ed affermare che Napoli, pur nei molteplici secoli "capitale" del regno meridionale, non fosse riuscita mai ad imporre la sua parlata alle altre regioni del Sud, che continuarono a conservare ed attuare un proprio sistema linguistico; invece ancóra mo, se si va ad indagare nei linguaggi di Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Puglia e Calabrie si possono trovare voci e costruzioni linguistiche mutuate chiaramente dal napoletano; il prof. Nicola De Blasi (tanto nomine!) forse con le sue affermazioni intese disconoscere le proprie origini, tentò di rifarsi una verginità,sprovincializzandosi nella speranza forse di passare un giorno dalla Federico II ad università piú prestigiose (Luiss, Bocconi etc.). (continua)
Brak
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