CÀLMATE LIBBÒ, CA ‘O CARCERE FÈTE ‘E PIMMECE!
Anche questa volta faccio sèguito ad un quesito rivoltomi dall’amico N.C. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) occupandomi dell’espressione in epigrafe,per chiarirgliene uso e genesi.
Entro súbito in medias res traducendo la locuzione che ad litteram vale: Mantieniti calmo Liborio giacché il carcere puzza di cimici. L’icastica espressione [da completare con un sottinteso E tu potresti finirci dentro] è una sorta di ammonimento fatta ad un soggetto privo di scrupoli ed incline a comportamenti aggressivi, violenti, pericolosamente lesivi della incolumità altrui. A costui si consiglia di recedere da ógni violento e/o impetuoso, malvagio e deleterio modo di condursi rispetto a decisioni da prendere, a soluzioni da dare a questioni specifiche e piú in generale di recedere dal suo consueto modo di agire nei rapporti interpersonali evitando di tenere ad un dipresso gli atteggiamenti funesti del famigerato don Liborio Romano,al quale viene rapportato il soggetto a cui viene rivolto l’ammonimento; rammento infatti che il viscido ed infido don Liborio Romano fu un uomo politico (Patú, Lecce, 1793-†ivi 1867), docente di diritto nell’Univ. di Napoli, fu allontanato dall’insegnamento per aver preso parte alla rivoluzione del 1820-21. Imprigionato, fu confinato a Lecce e nel 1826 fu di nuovo arrestato con l’accusa di appartenere alla società segreta degli Ellenisti; liberato (1827), si trasferì a Napoli dove esercitò l’avvocatura. Nel 1848 fu tra i firmatari della petizione indirizzata a Ferdinando II per ottenere la Costituzione. Nuovamente imprigionato (1850-1852), fu costretto all’esilio in Francia, da cui rientrò nel 1854. Quando nel 1860 la monarchia borbonica, minacciata da G. Garibaldi, concesse riforme costituzionali, fu nominato prefetto di polizia e in seguito ministro dell’Interno ed in questa veste tenne un comportamento davvero poco commendevole, anzi riprovevole prendendo accordi con la camorra e segnatamente con tal Salvatore De Crescenzo detto “Tore ‘e Criscienzo” capo indiscusso della camorra di allora;il Romano, nonostante il suo ruolo, assegnò a quel “Tore ‘e Criscienzo” ed ai suoi affiliati, il compito del mantenimento dell'ordine pubblico nella capitale, nonché quello di favorire l'ingresso in città di Garibaldi, invitandoli ad entrare nella "Guardia cittadina", in cambio dell'amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e un "ruolo" pubblicamente riconosciuto, eventi che portarono il De Crescenzo ad essere considerato come "il piú potente dei camorristi".Va da sé che il comportamento del Romano fu a dir poco disdicevole avendo dato egli mano libera a camorristi, baldracche e gente di malaffare che per mantenere l’ordine usarono sistemi tutt’altro che lodevoli, fatti di angherie e soprusi per i quali chiunque altro avrebbe meritato la galera; per non parlare poi della parte avuta dalla camorra nell’invasione di Garibaldi allorché, come scriveva nel 1868 lo storico Giacinto De Sivo: «La rivoltura del '60 si dirà de' Camorristi, perché da questi goduta. [...] Il Comitato d'Ordine comandò s'abbattessero i Commissariati di polizia; e die' anzi prescritte le ore da durare il disordine. Camorristi e baldracche con coltelli, stochi, pistole e fucili correan le vie gridando Italia, Vittorio e Garibaldi […]. Seguitavan li monelli e paltonieri, per buscar qualcosa, gridando: Mora la polizia! Assalgono i Commissariati»; in divisa, armati e con coccarda rossa, il De Crescenzo e i suoi uomini ebbero anche l'incarico di supervisionare il plebiscito di annessione, vigilando le urne a voto palese (21 ottobre 1860). Secondo la testimonianza di Giuseppe Buttà, cappellano militare dell'esercito borbonico, «Dopo il Plebiscito, le violenze de' camorristi e dei garibaldini non ebbero piú limiti: la gente onesta e pacifica non era piú sicura né delle sue sostanze, né della vita, né dell'ordine […].I camorristi padroni di ogni cosa viaggiavano gratis sulle ferrovie allora dello Stato, recando la corruzione e lo spavento nei paesi vicini.».Scriveva, a tal proposito, lo stesso Romano nelle sue Memorie: «Fra tutti gli espedienti che si offrivano alla mia mente agitata per la gravezza del caso, un solo parsemi, se non di certa, almeno probabile riuscita; e lo tentai. Pensai prevenire le tristi opere dei camorristi, offrendo ai piú influenti loro capi un mezzo di riabilitarsi; e cosí parsemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze»[10]. Fu creata, cosí, una «specie di guardia di pubblica sicurezza», tra i suoi membri c'erano i camorristi organizzati in compagnie e pattuglie, per controllare tutti i quartieri della capitale. Insomma: le pecore affidate ai lupi! Da tutto quanto détto se ne ricava che un soggetto che agisse alla maniera sconsiderata di don Liborio Romano poteva correre l’alea di essere incarcerato e finire tra le pareti puzzolenti di cimici cosí come nell’espressione in esame.
Càlmate = calma te,mantieniti cheto voce verbale (imperativo 2ª per. sg.) dell’inf. riflessivo calmarse denominale di calma s.vo f.le [da un lat. reg. calama→cal(a)ma→calma che è dal gr. kαlamē]
carcere = carcere, prigione s. m. e f. [lat. carcer -ĕris, in origine «recinto» e piú propr., al plur., le sbarre del circo dalle quali erompevano i carri partecipanti alle corse; poi «prigione»].
fète puzza, emana cattivo odore voce verbale (3ª per. sg.) dell’infinito fètere/fetí = puzzare,esser fetido, che è dal lat. foetére con cambio di coniugazione e ritrazione dell’accento.
pímmece = cimice, pulce ed alibi anche ragazza bassa e di carnagione scura; s.vo f.le dall’incrocio del lat. cícimice-m + pulice-m e raddoppiamento espressivo della (M) favorito dal tipo sdrucciolo del lemma [cfr. càmmera←lat. camera-m, càmmese←gr. kamasos] .
Non mi pare ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico N.C. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
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