venerdì 11 giugno 2021

LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL NAPOLETANO

LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL NAPOLETANO

 

Mi è stato chiesto da alcuni miei abituali lettori che passim usufruiscono delle cosucce che scrivo qua e là e mi è stato chiesto di spendere una parola chiarificatrice sul modo migliore di vergare gli infiniti del napoletano, se cioè sia piú corretto usare gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ad es.: magnà= mangiare) oppure una forma apocopata (es.: magna’) o addirittura (come fa uno sprovveduto compilatore di lessico partenopeo) una forma pletorica con accento e segno d’apocope (cfr. magnà’). Dico súbito che il modo piú corretto è quello di scrivere  gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ess.:  fà, dà,jí,parlà, cantà,saglí,ferní,cadé, tené etc.) e chiarisco qui di sèguito il perché1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate)  siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.fa(re)→fà – magna(re)→magnàcammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé -  murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata degli infiniti monosillabi (cfr. fa’, da’)  presta il fianco,se considerati fuor del contesto  ad esser confusa con la 2ª p.sg. dell’imperativo: da’= dai,fa’= fai. Rammento altresí che durante le mie numerose  letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni  autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico facendo le viste di dimenticare  che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!)  indicarne  graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi, ripeto,  in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata  napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:

l'accento, inglobando in sé la doppia funzione,  è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine  mantenendone però il primitivo accento tonico.

 Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere  va reso con la grafia cadé  e non  cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!

Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti  risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere  che in napoletano è reso con vedé  ed in romanesco vede’ (che va letto: vede  e non vedé.)È pur vero che, in  napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato:  sta’  in luogo di stà , per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, per l’infinito di dare l’ apocopato: da’ invece di dà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto  per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà  e fà, dà in luogo dei pur corretti sta’  e fa’, da’  che valgono stare, fare,dare tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ e da’  esso potrebbe essere inteso, ripeto,  come voce degli imperativo (fai→fa’dai→da’), piuttosto che degli infiniti fare,dare cosa che invece non può capitare con il verbo stare  il cui imperativo nel napoletano  non è sta’, ma statte.  Rammento  che, normalmente  occorre accentare sull’ultima sillaba  tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse  ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti  non spostandosi  l’accento tonico  si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo  spàrtere  (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí  se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse -  una scorretta forma della 2ª pers. sing. dell’ind. pres.che è sparte e non sparti. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso ripeto che  è opportuno – per una sorta di omogeneità -  accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito  anche quelli monosillabici  (ovviamente quando si tratti di autentici  verbi  presenti nel  lessico napoletano e non  presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai, se non per rare  licenze ed esigenze metriche poetiche, l’apocopato  e chi lo usasse o avesse usato in prosa, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si  fósse chiamato Di Giacomo! )

Et de hoc satis, augurandomi d’essere stato chiaro e d’aver adeguatamente risposto al quesito di alcuni dei  miei ventiquattro lettori. Brak

 

Nessun commento: