domenica 4 aprile 2021

ALTRI EPITETI

ALTRI EPITETI

Accodo alla precedente nutrita elencazione di epiteti  numerosi altri molto iconici come da   l’espressività popolare  quantunque  antichi e desueti, tutti riportati nelle sue opere dal Basile  (Giugliano in Campania, 1566 o 1575 –† Giugliano in Campania, 1632) notissimo  letterato napoletano  di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare.. Gli epiteti desueti sono:

Ciernepérete agg.vo f.le e solo femminile letteralmente setacciatrice di scorregge ma va da sé che non potendosi passare allo staccio le emissioni gassose intestinali, si  tratti di una  divertitente, quantunque offensiva  voce  traslata con cui si indica una donna dal voluminoso fondoschiena che abbia un incedere ancheggiante e dondolante facendo oscillare il sedere per modo che imiti il movimento d’un setaccio; la voce è formata dall’agglutinazione di cierne + il s.vo pérete:

cierne v.ce verbale (2ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito  cèrnere= stacciare, setacciare dal lat. cernere 'vagliare, separare',

pérete s.vo f.le pl. di péreta femminilizzazione espressiva  di píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat.  pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);il s.vo f.le péreta fu coniato nell’intento di connotare un emissione  di gas intestinali che fosse piú rumorosa di quella normalmente indicata dal m.le píreto e ciò perché In napoletano un oggetto o cosa che sia è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ) ,‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella;

Forcelluta agg.vo f.le; al maschile, ma poco usato, è  furcelluto mordace, maledico/a aggressivo/a, caustico/a, graffiante, tagliente, salace, sferzante, ironico/a ma sempre addizionati di una dose di malevoli bugie; con linguaggio moderno si direbbe lingua biforcuta ; etimologicamente la voce infatti è un denominale di furcella/forcella = forcina,forcella, nome generico di vari utensili costituiti da un'asta  biforcata in due bracci: dal lat. furcilla(m), dim. di furca 'forca';  

Perogliosa agg.vo f.le; al maschile, ma poco usato, è  perogliuso = cencioso/a – lacero/a, sbrindellone/a, sciattone/a; epiteto rivolto soprattutto a giovane donna o giovane uomo che siano molto poco attenti al loro decoro personale mantenendo un atteggiamento di immagine  o comportamentale trasandato, trascurato, disordinato,  scalcinato; la voce è un denominale di pèroglie s.vo f.le pl. =cenci, cianfrusaglie,pezze per i  piedi dal lat. pedulĭa : da notare la roticizzazione osco-mediterranea della d→r;

Pontonèra/Puntunèra doppia morfologia alternativa di cui la prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana  d’un'unica voce che   sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò fatto, furono  usate sia in letteratura (cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra )  che nel parlato della città bassa  quale epiteto offensivo; il significato fu univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce etimologicamente è un denominale di pontone/puntone (angolo di strada,  spigolo di muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.); pontone/puntone s.vo m.le = angolo di strada, spigolo di muro, cantonata;  voce ricavata dal s.vo puncta(m) con riferimento allo spigolo del muro,   addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima valenza e significato  della voce in esame  fu usato sebbene piú in letteratura che nel parlato un analogo cantonèra/cantunèra  (marcato sul s.vo - che non è della parlata napoletana cantone) voce mutuata dal siciliano;

Puppeca  prostituta, malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne; di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo il seguente percorso morfologico  publĭca→pubbica→pubbeca→puppeca;

Quaquarchia/Quarchiosa/Quarchiamma  triplice morfologia d’un unico vocabolo di partenza: quaquarchia che sostanziò una pesante offesa rivolta ad una donna e solo a donne: donna brutta,sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida nonché sordida; volgare, scurrile, indecente  e quindi spregevole; la voce  quaquarchia  come le successive, etimologicamente derivano tutte  da quarchia (s.vo f.le d’origine onomatopeica per indicare una cosa sporca, un oggetto unto); quaquarchia  presenta  l’iterazione espressiva e rafforzativa  della prima sillaba posta in posizione protetica; sempre partendo da quarchia  si  ottenne (addizionandole il suff. osa suffisso di pertinenza  derivato dal lat. osa←osu(m)),si ottenne l’agg.vo sostantivato quarchiosa  = sporca, unta,impiastricciata e dunque  lorda, lercia, lurida nonché sordida,  volgare, scurrile, indecente; infine   sempre partendo da quarchia  si  ottenne (addizionandole il suff.dispregiativo amma (cfr. lut-amma/lot-amma) suffisso affine ad imma←imen (cfr. zuzz-imma cazz-imma etc.), si ottenne quarchiamma s.vo f.le e solo f.le = cosa eccessivamente sporca o unta di grasso fluido, donna sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida, sconcia, abietta, turpe, laida, immonda, ignobile

Varvera s.vo f.le e solo f.le bruciante offesa che sta per prostituta esosa, donnaccia pelatrice ed estensivamente anche piú semplicemente  donna che sia  avida, ingorda, gretta, tirchia, spilorcia nonché profittatrice,sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare amici e conoscenti. Di per sé infatti la voce a margine quale denominale del s.vo varva (dal lat. barba(m) con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m), varca←barca etc.) addizionato del suff. f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.) indicherebbe la barbiera f.le di barbiere: la donna o l’uomo che svolge il mestiere di  radere la barba e tagliare o acconciare i capelli ( rammento en passant che fino agli inizi del sec. XIX all'esercizio di questo mestiere erano connesse anche pratiche mediche e chirurgiche);posto, dicevo,  che la voce indicherebbe in primis la donna che svolgesse il mestiere di barbiere, è del tutto pacifico che si possa indicare con il medesimo termine, a fini offensivi,  una donna sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare (togliere figuratamente… i peli ad) amici e conoscenti.  

Vammana  comincio con il dire che la voce vammana fu un tempo accostato a mammana = levatrice domestica levatrice, donna esperta che assiste le partorienti e ne raccoglie il parto ( sia vammana che mammana  son voci derivate dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma per vammana  con forma dissimilata nella cons. d’avvio che da mammàna passa a vammana;

la vocevammana     è usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per  significare, in senso dispregiativo, e quindi offensivo  quelle praticone, prive di adeguata preparazione, ma non di esperienza,  aduse ad esercitare   pratiche  abortive clandestine (spesso servendosi di  mezzi di fortuna, inidonei  e pericolosi).Che si tratti di termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana era usata quale epiteto.

 

Vommacavracciólle  ancóra un epiteto abbondantemente desueto quantuque molto icastico ed espressivo; s.vo o agg.vo f.le voce composta addizionando una voce verbale (vommeca) ed un sostantivo pl. (vracciolle); letteralmente vale: vomitabraccine ma significò quale grave  epiteto offensivo  strega antropofoga, fattucchiera,  ingorda arpía, megera adusa iperbolicamente a cibarsi di bambini di cui però  poi recedesse le braccia; un tempo la voce a margine fu usata non solo come s.vo ma anche come agg.vo accostato al s.vo janara  ottenendosi un’offensiva janara vommecavracciollle (megera antropofoga) accostata alle pregresse janara catarrosa     ed janara cecagnòla o scazzata  (per ambedue cfr. antea);

vommeca  voce verbale (3 p.sg. ind. pres. dell’infinito vummecà (= vomitare,recere,) adattamento del lat. vomitare, intensivo di vomere 'vomitare': vomitare→vomicare→vommicare/vummecà;

vracciolle  s.vo f.le diminutivo di vraccia   pl. del m.le  vraccio = braccine del corpo umano; vraccio è  dal lat. brachiu(m), che è dal gr. brachíon con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m), varca←barca etc.); rammento che negli anni ’50 del 1900 la voce in esame era completamente sparita anche nel parlato nella zona bassa della città e se ne adottò, quanto meno nel solo parlato, una sorta di adattamento che fu vommecavrasciole con il medesimo significato di strega, megera, ingorda fattucchiera che vomitasse indigeste braciole ripiene; la voce adottata metteva da parte le iperboliche e raccapriccianti vracciolle (braccine) per accontentarsi di piú probabili e meno inorridenti vrasciole (braciole/involtini ripieni); per ciò che riguarda  la voce brasciola/vrasciola s.vo f.le dirò ch’esso s.vo deriva dal tardo latino brasa/vrasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola  fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuta grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.

A margine di tutto ciò rammento che  la voce brasciola  viene usata nel napoletano   quale voce furbesca e di dileggio riferita ad un uomo basso e grasso détto comunemente fra’ brasciola; ancóra la medesima voce è usata per traslato, ma piú spesso nei dialetti della provincia, che nell’autentica parlata napoletana,per indicare un tipo di pettinatura maschile, segnatamente quella  del ciuffo prospiciente la fronte che  semanticamente si ricollega alla brasciola perché il ciuffo è quasi ripiegato come un grosso involto; a Napoli il medesimo ciuffo cosí pettinato viene détto ‘o cocco voce del linguaggio infantile che oltre ad indicare il ciuffo suddetto è un  s. m. [f. -a; pl. m. -chi] voce familiare usata per indicare una  persona prediletta, un  oggetto di affettuosa e protettiva tenerezza (spec. un bambino)che semanticamente si ricollega all’affettuosa tenerezza con cui le mamme sogliono sistemare la pettinatura dei proprii bambini, prediligendo il ciuffo ripiegato a mo’ di involto.

Infine rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) , furbescamente  con la voce brasciola viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile.A Napoli che pure (vedi alibi) sono in usi numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.

Vottacàntere/ Votacàntere  altra desueta voce composta s.vo f.le raramente anche m.le, ma come epiteto esclusivamente femminile; valse letteralmente butta/svuotacànteri cioè serva o anche servo addetto ai lavori piú umili  e segnatamente a quello di vuotare in mare i cànteri cioè i grossi vasi di comodo in cui la famiglia depositava le proprie deiezioni giornaliere; va da sé che una siffatta misera serva o talora misero servo fosse ritenuto un essere immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido tale che con la voce a margine si sostanziasse una corposa offesa.

Se si trattò di una donna che fósse addetta al còmpito rammentato, essa fu détta anche

 zambracca= serva di infimo  conio, fantesca addetta alla pulizia dei cessi e/o dei cànteri. La voce a margine origina dall’addizione del suffisso dispregiativo acca (=accia) con la  parola zambra (che è dal francese chambre) in francese la voce chambre  indicò dapprima una generica camera, poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza. Pure questa zambracca fu usato quale epiteto offensivo nella medesima valenza precedente; tornando a

vottacàntere  ripeto che si tratta di una voce s.vo f.le o talora m.le composta  da una voce verbale votta = butta, svuota etc. (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vuttà = gettare,buttare, svuotare etc. dal fr. ant. bouter, provenz. botar, di orig. germ con il consueto passaggio di b a v.; la voce verbale votta  non è da confondere con l’omofono omografo s.vo votta = botte (dal lat. tardo *butta(m)→vutta(m)→votta 'piccolo vaso') che semanticamente nulla à a che vedere dall’incombenza esercitata dal/dalla vottacàntere;

leggermente diversa la morfologia della voce votacàntere piú vicina al parlato della letteraria vottacàntere; votacàntere è composta  addizionando la voce càntere  a quella verbale vota = vuota, svuota etc. (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vutà = vuotare,liberare, svuotare etc.) cfr. ultra

 

1) càntare/càntere s.vo m.le pl. di càntaro/càntero alto e vasto vaso cilindrico  dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,  vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea e cioè con:cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un  quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti  l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!Per restare in tema di càntaro/càntero   riporto qui di sèguito un’interessante espressione che suona:

Vutà ‘o càntero  = vuotare il vaso di comodo  vale  a dire: rinfacciare torti subíti o spiacevolezze patite; anche in questo caso è relativamente semplice cogliere il collegamento semantico tra il vuotare un vaso di comodo  ed il rinfacciare torti subíti trattandosi in ambedue i casi di due operazioni fastidiose e/o spiacevoli, ma necessarie ed in fondo chi rinfaccia torti subíti o spiacevolezze patite si affranca  di qualcosa di sgradevole che fino al momento di liberarsene era stata  tenuta come un peso increscioso sul proprio io, il tutto alla medesima stregua di chi in tempi andati, come ò già riferito ( e cfr. ad abundantiam  alibi ‘a malora ‘e Chiaia ) era costretto all’incresciosa, ma necessaria operazione di svuotare in mare i vasi di comodo colmi degli esiti fisiologici della famiglia.

Vutà/are v. tr. = vuotare, rendere vuoto, privare qualcosa del contenuto; svuotare; etimologicamente denominale del lat. volg. *vocitu(m), variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto', corradicale del lat. vacuus 'vuoto'.

Faccio notare che nel napoletano non va confuso il verbo a margine vutà = vuotare con il verbo avutà/are = voltare, girare, volgere, indirizzare in un altro senso; orientare altrove (derivato dal lat. volg. * a(d)+volutare, intensivo di volvere 'volgere'; da * a(d)+volutare→av(ol)utare→avutare).

E sempre  per restare in tema di di càntaro/càntero  e di insulti/epiteti  veniamo a dei  duri brucianti insulti che sono: a) Piezzo ‘e càntero scardato! e b) Pezza ‘e càntero!

Sgombero súbito il campo da un facile equivoco: è vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo dandogli del coccio infranto di un vaso da notte sbreccato, nell’intento di classificarlo e considerarlo moralmente  sporco, lercio, immondo, individuo sordido, abietto, corrotto, ripugnante come potrebbe essere un pezzaccio di   un vaso da notte che per il lungo uso risulti sporco e  sbreccato; dicevo è pur vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo, mentre l’insulto sub b) è rivolto ad una donna,bollando anche costei come persona moralmente sporca, sozza, lorda e quindi da evitare,  ma le voci usate piezzo e pezza  non sono il maschile ed il femminile di un unico termine, come qualche sprovveduto potrebbe ipotizzare, ma sono due sostantivi affatto diversi di significato affatto diversi:

 piezzo s.vo m.le  = pezzo, quantità, parte non determinata, ma generalmente piccola, di un materiale solido, qui usato nel significato di coccio, ciascuno dei pezzi in cui si rompe un oggetto fragile; l’etimo della voce a margine è dal lat. med. pettia(m) con metaplasmo e cambio di genere; ben diverso il sostantivo

pezza  s.vo f.le = straccio, cencio, pezzo, ritaglio di tessuto (con etimo dal  dal lat. med. pettia(m)); nella fattispecie la pezza dell’insulto in esame fu quello straccio, quel cencio usato in tempi andati per ricoprire, in attesa di vuotarli,  i cànteri usati quando cioè risultassero colmi di escrementi; la medesima pezza era talora usata per nettarsi dopo l’operazione scatologica ed in tal caso però  prendeva furbescamente il nome di ‘o liupardo (il leopardo) risultando détta pezza al termine delle operazioni maculata a macchie come il mantello d’un leopardo.

Rammento infine che in luogo dell’insulto piezzo ‘e càntero

un tempo fu usato un corrispondente scarda ‘e ruagno che ad litteram è:  coccio di un piccolo vaso da notte. Cosí con gran disprezzo si usò e talvolta ancóra s’usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un contenuto vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola

scarda  s.vo f.le che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative,  vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo,dicevo noto che  il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in epigrafe assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce scarda (che attraverso il verbo scardare= sbreccare è anche  alla base dell’agg.vo scardato/a) l’assume nell’espressione Sî‘na scarda ‘e ruagno! = Sei un coccio d’un piccolo vaso da notte!

Ruagno s.vo m.le = pitale, piccolo vaso da notte.Per ciò che riguarda etimo e semantica di questa voce dirò súbito che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellenti necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi contenuti  scorrimenti o  viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
schiattacàntere  anche in questo caso ci troviamo di fronte

ad un antico, desueto epiteto in forma di voce composta, voce f.le, ma pure m.le che letteralmente sta per crepacànteri  e che pertanto non è un sinonimo (come invece  qualche disaccorto addétto ai lavori à erroneamente  opinato)in quanto  la voce in esame non è riconducibile all’attività svolta da un/una servo/a di vuotare i vasi di comodo liberandoli delle deiezioni ivi contenute  e come tale essere immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido; niente di tutto ciò! Con la voce a margine ci troviamo invece difronte a tutt’altra tipologia di soggetto per quanto anch’esso nauseante, ripugnante, ributtante, stomachevole, sgradevole in quanto soggetto aduso a stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle; in napoletano l’azione del crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à (voce intesa  d’origine onomatopeica, ma è lecito ipotizzare  un tema latino sclap-it  da un originario sclap (il medesimo di schiaffo), da sclapit si ricavò    un lat. parlato *sclapitare→sclaptare→schiaptare→schiattare); dicevo che in napoletano   l’azione del crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à per cui addizionando la 3° pers. sg. dell’ind. pres. schiatta con il consueto s.vo cànatare/càntere si ottenne la voce a margine usata quale epiteto rivolto ad una ripugnante donna accreditata, per offesa  di stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle;

vocca ‘e cernia  antico, desueto offensivo epiteto di pertinenza femminile e talora anche m.le; epiteto formato addizionando al s.vo f.le vocca (=bocca, dal lat. bucca(m)→vucca→vocca con consueto, normale passaggio di b a v (cfr. varva←barba(m), varca←barca etc.) ) con lo specificativo ‘e cernia (di cernia) per indicare una donna brutta, deforme,  sguaiata, volgare, triviale, scurrile, sboccata, maleducata, rozza, zotica, grossolana, linguacciuta e pettegola provvista iperbolicamente, alla bisogna d’una bocca ampia tal quale quella della cernia; la cernia (dal lat. tardo (a)cernia(m) infatti è un   pesce marino, comune nel mediterraneo, di dimensioni medio grandi con carni pregiate, ma d’aspetto poco rassicurante, brutto e deforme,  provvista altresí di una grossa brutta ed irregolare bocca vorace; 

zoria  eccoci all’ultimo antico, desueto epiteto, registrato dal Basile e di pertinenza f.le e solo f.le; si tratta d’un s.vo f.le usato anche come agg.vo nel significato di furba,maliziosa, maligna, malevola,  adescatrice,seduttrice, ammaliatrice; con diversa valenza: prostituta, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca, donnaccia; la voce a margine    voce marcata sullo spagnolo zorra  (dove vale volpe e/o  zoccola): come volpe semanticamente riporta al significato di furba, adescatrice,seduttrice, ammaliatrice etc.; come zoccola semanticamente richiama il significato di sgualdrina, baldracca, donnaccia, prostituta etc.

E giunti a questo punto ritengo di poter porre un punto fermo. Satis est.

Raffaele Bracale

 

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