PICCOLI QUESITI
Rispondo qui di sèguito ad alcuni piccoli quesiti
pervenutimi via e-mail da un amico che si trincera sotto lo pseudonimo di
Capafresca. Ecco i quesiti:
1)Sgummato/scummato ‘e
sanco letteramente schiumato di
sangue cioè con il sangue privato della schiuma, cioè percosso tanto
duramente da provocare copiosa epistassi (emorragia dal naso) quasi che il
sangue (a sèguito delle percosse avesse perso la sua schiuma o la sua gomma e
risultasse cosí liquido da scorrere copiosamente. Sgummato/scummato è il part. pass. dell’infinito sgummà/scummà denominale di gomma che è dal lat. tardo gumma(m),
per il class. cummi e poi gummi, dal gr. kómmi, di orig.
egiziana;
2) La voce vulva è
resa in napoletano con svariati termini;
eccoli qui elencati; Tra i
piú usati sinonimi, rammento: fessa, fresella, purchiacca/pucchiacca,quatturana,
carcioffola, ficusecca,mulignana, patana,pummarola, vòngola, còzzeca, scarola, ‘ntacca, bbuatta,
cestúnia,senga, sesca, pesecchia/pesocchia, pettenessa, furnacella, tabbacchera,
sciúscia etc. e qui di sèguito li illustrerò
uno alla volta. Procediamo ordunque
ordinatamente:
féssa= fessura, apertura con
etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass.
femm. del verbo lat. findere=fendere,
aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta,
apertura che è anche del corrispondente vulva(dal
lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano;
fresella di per sé,
letteralmente la fresella è un tipico biscotto (pane biscottato) usato
in un po’ tutto il meridione, variamente
condito con diversi ingredienti(in
massima parte vegetali) per un gustoso
asciolvere; la voce fresella è un deverbale del lat. frindere= spezzettare in quanto,esso biscotto/pan biscottato à
bisogno, per esser consumato, d’esser frantumato in piú pezzi.Va da sé che il
significato traslato di fresella
usata per indicare la vulva non nasce
dal fatto che quest’ultima sia edibile tal quale la fresella-biscotto, né dal fatto che come la fresella, la vulva
debba esser frantumata; la via semantica è un’altra ed attiene alla forma;
infatti la fresella-biscotto può
avere la forma di una fettina rettangolare di pane cotto e poi biscottato, ma piú spesso la fresella-biscotto a Napoli o nelle
Puglie à la forma di corona circolare ed il pane biscottato si sviluppa intorno
ad un congruo buco centrale, cosa che – ad un dipresso accade per la vulva;
purchiacca o pucchiacca = letteralmente, fodero
di fuoco, faretra infuocata e
genericamente vulva, vagina;
premesso che la voce originaria fu purchiacca trasformato poi nel lessico popolare in pucchiacca con tipica assimilazione
regressiva rc→cc dirò che l’etimo non è tranquillissimo ed infatti io stesso
penso di poterne proporre per lo meno un paio dei quali opterei comunque
per il primo;
1 -la prima ipotesi è che la voce a margine potrebbe risultar derivata
dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il suff. dispreg. acca,secondo un percorso morfologico che da koilos, attraverso un *koleaca porta a cljaca→chiaca
e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→
puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc, tutto ciò in luogo di quanto proposto da altri quali l’Altamura, il D’Ascoli, e tutti coloro che vi
attingono, che ipotizzano un latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→
pucchiacca (erba porcellana); l’idea non
m’appare perseguibile in quanto, in effetti in pretto,corretto napoletano la voce usata per indicare l’ erba commestibile porcacchia,che giunge sulle tavole partenopee sempre in unione con un’altra erba/insalata detta arucola
(rughetta), la voce dicevo è purchiacchiello
(diminutivo masch. ricostruito del femm. purchiacca = porchiacca con tipica chiusura della ō→u; la
porcacchia/porcellana è pianta erbacea commestibile, con fusto
ramoso e piccoli fiori gialli della fam. Portulacacee; tale erba non
si vede però, a mio avviso, neppure per traslato o estensione (come invece
avviene – e lo vedremo súbito – con altri nomi mutuati dagli ortaggi e/o
da prodotti ittici), cosa possa avere in comune
con l’ organo femminile esterno della riproduzione;
2 - l’altra mia
ipotesi circa l’etimo di pucchiacca fa riferimento ad una iniziale porcacchia, ma questa non è l’erba porcacchia /porcellana; nel caso da me ipotizzato occorre
infatti partire da una radice porc ( del latino porca=maiale/scrofa;
tale voce (sostituendo il classico sus,
nel latino parlato fu usata per indicare esattamente oltre che la scrofa,
anche la sua vulva ) radice addizionata
del suffisso diminutivo- spregiativo (cfr.
Rohlfs) acchia: da porcacchia→purcacchia
e pucchiacca con il medesimo
significato di porca=vulva della scrofa
ed estensivamente vulva in genere;
- quatturana letteralmente quattro grani; il grano fu vilissima moneta in uso nel Napoletano
(Regno delle Due Sicilie) sin dall’epoca degli Aragonesi ed Angioini (fine 13°
sec.). Al proposito rammenterò, per incidens,
che l'unità del Regno delle due
Sicilie si era spezzata sin dalla ribellione dei Vespri Siciliani del 1282.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi e Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi e Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
Torniamo al grano che, dicevo,fu vilissima moneta corrispondente all’incirca al valore di 60
centesimi dell’attuale euro per cui 4 grani corrispondevano all’incirca a 2,40 euro, cioè a quasi 5000 delle vecchie lire. e questa somma,
secondo una teoria, era quanto si facevano pagare, per ogni rapporto, le meretrici di infimo ordine che prestavano
la loro opera lungo la cosiddetta ‘mbricciata
‘e san Francisco (imbrecciata (di cui dissi alibi) di san
Francesco)malfamata strada ubicata a Napoli poco fuori le mura di porta
Capuana, nei pressi dell’attuale Pretura ; secondo altra teoria, che reputo piú
esatta, la somma di quattro grani fu quanto sotto Alfonso V d’Aragona, si
pretese dalle meretrici a mo’ di tassa sulle singole prestazioni; ora sia che
fosse una tassa, sia che si trattasse del prezzo da pagare alla meretrice, la
voce quatturana (quattro grani)finí per
indicare lo strumento di lavoro della prostituta, e con estensione volgare,
l’organo riproduttivo esterno di ogni altra donna soprattutto di basso ceto;
- ‘ntacca = fessura,
apertura, scanalatura, contrassegno con probabile etimo deverbale da ‘ntaccà=intaccare derivato dal germ. *taikka
'segno';
- bbuatta= letteralmente la parola a margine vale barattolo, contenitore cilindrico in banda stagnata usato per commercializzare
generi alimentari dalla frutta sciroppata ai pomidoro, alle melanzane, ai
peperoni, al caffè; il traslato semantico è di facile comprensione; l’etimo è
dal francese boite;
- senga propriamente si tratta di una fessura, una screpolatura
una contenuta lesione, tutte cose riscontrabili su oggetti in legno (porte,
antine di mobili) o in muratura e per giocoso traslato la voce a margine si
riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è
avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta fenditura verticale)
che ripete quasi quella dell’organo suddetto; l’etimo di senga si fa concordemente
risalire al lat. signum quale lettura metatetica poi femminilizzata; da signum→singum→singo e da questo il femminile metafonetico senga;
- sesca propriamente si tratta di una ferita,il piú
delle volte da taglio, una contenuta
lesione prodotta da un’arma bianca sulla
viva carne del corpo umano, e come per la voce precedente, per giocoso traslato
la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione
cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta
apertura verticale) che ripete quasi quella
dell’organo suddetto; non di tranquilla lettura l’etimo di sesca che di per sé è la
femminilizzazione metafonetica del maschile sisco=
fischio che è un deverbale del latino fistulare→fisclare→fischiare→fischio.
Ora rammento che
anche in lingua italiana, per furbesco traslato, con la voce fischio si intende il membro maschile,cosí anche in napoletano con
la corrispondente voce di fischio e
cioè sisco soprattutto nel linguaggio
colloquiale, si intende il membro
maschile; e dunque non meraviglia se per analogia con il femm. di sisco e cioè con
sesca si è finito per indicare il corrispondente organo
femminile e quest’ultimo semanticamente è stato avvicinato ad un piccolo
taglio, una contenuta lesione prodotta
da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano per la tipica forma della lesione (contenuta
apertura verticale) che ripete quasi
quella dell’organo suddetto, per cui la voce sesca indica sia la vulva che una ferita da taglio.
- pesecchia/pesocchia propriamente fessurina, piccola apertura
atteso che con le voci a margine si indicano
alternativamente la vulva di bambine molto piccole o un po’ piú cresciute;
l’etimo è da una voce onomatopeica ps→pes
(dello zampillo) addizionata di
suffissi ecchia (diminutivo) o
occhia (accrescitivo).
- cestunia s.vo f.le= in primis tartaruga; per
traslato come nel caso che ci occupa, vulva vecchia e rattrappita di una donna
ben matura. Etimologicamente voce adattamento fono-morfologico per incrocio
greco-latino di khelòne e testudine-m.
E passiamo ora a
tutte le voci mutuate dall’ambito
orticolo o ittico; abbiamo:
-
carcioffola = carciofo con
riferimento all’organo stretto e serrato di una giovane donna tal quale il
carciofo che se fresco e giovane à le brattee ben chiuse e serrate; ciò è tanto
piú vero se si pensa che di una donna che
non sia piú giovane e che per
tanto si pensa abbia già avuto piú o meno numerosi rapporti coniugali, s’usa dire ironicamente che tene ‘a
carcioffola sfrunnata=à il carciofo
sfrondato id est:la vulva deflorata;
l’etimo della voce carcioffola risulta derivato dall’arabo harsûf addizionato del suff. diminutivo lat. ola (femm. di olus);
sfrunnata=sfrondata p. p. femm. dell’infinito sfrunnà= sfrondare che
è un denominale di fronda con prostesi di una s distrattiva; normale nella voce napoletana l’assimilazione
progressiva nd→nn;
-
ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che
corrisponde al greco sýcon con cambio
s/f)+ siccum da una radice sik
= secco, sterile.
usata in senso
furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e
non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che
furbescamente la vulva.
- patana,= patata; il
noto tubero edule è preso semanticamente
a riferimento poiché come esso vive nascosto
e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la
vulva femminile, che di suo è già
posta anatomicamente in posizione
riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento dallo sp. patata, sorto dall'incrocio
di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana);
- pummarola = pomodoro il
frutto rosso e carnoso della solanacea è preso a riferimento, cosí come
l’altrove usato fica, non perché la
vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché, come questi
ultimi à il suo interno rosso ; l’etimo
di pummarola è, come per la voce della lingua nazionale pomodoro da pomo d’oro con il passaggio
in sillaba d’avvio di ō ad u (cfr. notte→nuttata),
raddoppiamento espressivo popolare della
labiale m (cfr. comme←q(u)omo(do),
alternanza osco mediterranea d/r, onde pomodoro→pummororo, dissimilazione r-r→r-l e cambio di genere per cui pummororo→pummarola;
- vongola,= noto
mollusco bivalve gustosissimo il cui nome anche in italiano, ripete quello a
margine, voce di origine napoletana trasmigrata come molte altre
(guaglione, camorra, scugnizzo, sfogliatella e derivati e molti altri ) nel
lessico nazione; la voce vongola,
come la successiva còzzeca è presa a modello per indicar la vulva, in
quanto il bivalve aperto ricorda quasi la forma dell’organo femminile, l’etimo
di vongola (voce che indica oltre che il mollusco e la
vulva,estensivamente anche una sciocchezza, una panzana che, del resto altrove
è detta anche fesseria con evidente riferimento alla prima voce di
questa elencazione) l’etimo dicevo di vongola è da un acc.vo lat. concula(m)/*goncula(m)→gongula(m) da cui vongula→vongola
con normale passaggio di g→v (vedi
gulío/vulío – golpe/volpe etc.);
- cozzeca,= cozza, mitilo
bivalve che aperto, come la
precedente vongola ricorda quasi la forma dell’organo femminile;
in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista
di bisso, ben si presta a rappresentare
il fronzuto organo femminile
di una donna giovane; l’etimo di cozzeca è, quasi certamente, da una forma
ampliata di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca;
e veniamo ai riferimenti orticoli
cominciando da
- scarola = scarola letteralmente
scariola, varietà di indivia; anche, in
alcune regioni, varietà di lattuga o cicoria; la scarola e segnatamente la
specialità detta riccia per essere in
cespo arricciato, ben si presta a significare il fronzuto ricciuto organo
femminile di
una donna giovane; l’etimo di scarola è dal
lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che
serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca;
- mulignana letteralmente melanzana;
siamo sempre nell’ambito orticolo ed essendo la mulignana = melanzana una
pianta erbacea largamente coltivata per i frutti commestibili di forma
oblunga o ovoidale, con buccia violacea lucente e polpa amarognola (fam.
Solanacee), proprio per questa sua buccia liscia e lucente, viola scuro, quasi nera si presta a
rappresentare icasticamente la scura e fronzuta, ma liscia vulva d’una giovane
donna ; l’etimo della voce a margine è dall'ar. badingian, di orig.
persiana, riaccostato, secondo alcuni al lat. mala(mela)+insana in quanto in origine si pensò che la
melanzana fosse frutto che inducesse
alla pazzia.
- pettenessa ultima(anni ‘950) voce entrata nel lessico popolare partenopeo
per indicar la vulva, ed è voce traslata e giocosa; di per sé ‘a pettenessa indica
un tipico pettine, in forma di conchiglia, d’osso o tartaruga, a denti lunghi e sottili, disadorno o ornato di piccoli orpelli
spesso semipreziosi, grosso pettine usato dalle donne per sorreggere la
crocchia dei capelli; atteso che in lingua napoletana, per indicare il pube
( in ispecie)femminile si à la voce pettenale (derivato da un
acc.vo lat. pectinale(m) da pecten=
pettine), come del resto in lingua nazionale si à, per indicare la medesima
cosa, la voce pettignone (derivato
da un acc.vo lat. volg. *pectinione(m),
dim. del class. pecten -tinis 'pettine'con riferimento (sia per
l’italiano che per il napoletano) alla lunghezza dei peli del pube che
ricordano i denti dei pettini,sia la forma a mo’ di conchiglia di ambedue: del
pube e del grosso pettine, ecco che in
senso traslato la voce pettenessa= grosso
pettine (dal class. lat. pecten con
suff. femminilizzante essa secondo il
criterio che una voce femminile è usata per indicar qualcosa di piú grande del
corrispondente maschile (cfr. pennellessa
piú grande di penniello, tammorra
piú grande di tammurro, cucchiara piú
grande di cucchiaro, tina piú grande di tino carretta piú grande di carretto,
etc., ma per eccezione caccavo piú
grande di caccavella e tiano piú grande di tiana,,)) ben si prestò ad indicar la vulva ubicata
all’estremità del pube i cui peli richiamano l’idea del pettine.
- tabbacchèra s.vo f.le letteralmente tabacchiera,contenitore metallico, spesso finemente cesellato,
provvisto di coperchio incernierato e chiusura a scatto; contenitore da
asporto(solitamente celato in tasca) per tabacco da fiuto;
per traslato furbesco
sesso femminile; il traslato semantico è dovuto probabilmente al fatto che
come la tabacchiera, se tenuta ben chiusa,
serve a conservare il tabacco da fiuto con tutto il suo aroma, cosí il
sesso femminile se tenuto serrato serve a difendere e conservare la virtú
femminile.
La voce etimologicamente è un derivato di tabacco (dallo
spagnolo tabaco) + il suff. di pertinenza iera→era;
normale nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva
onde tabacchiera→tabbacchera. Relativamente
al significato traslato furbesco rammento il détto: Redimmo e pazziammo, ma nun tuccammo ‘a tabbacchera che letteralmente vale: Ridiamo e giochiamo, ma non tocchiamo la tabacchiera e fa riferimento ai comportamenti che si auspica tengano tra
di loro gli innamorati ai quali si consiglia di contenersi e cioè di ridere e giocare,evitando di oltrepassare taluni limiti che coinvolgerebbero
pesantemente il sesso.
- furnacella soprattutto addizionato dell’aggettivo sfunnata
furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno
sfondato; va da sé che tale accoppiata è usata quale epiteto rivolto ad una donnaccola;
nella fattispecie con la voce fornacella
non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la
vulva di colei cui è diretto
l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la
donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una
meretrice abbondantemente conosciuta in
senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione a margine vale però per traslato : vulva
atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco, l’altra
di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano, come ò già
riferito, tra le piú comuni voci per
indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca che con etimo dal greco pýr
+k(o)leacca>*cljacca sta per fodero di fuoco; tornando a furnacella dirò
che l’etimologia è dall’acc. lat.
volgare furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui
in luogo dell’atteso furnacula(m)
dim. di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata,
rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà =
sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s
questa volta distrattiva; in coda alle tante voci con cui viene reso il
sesso femminile, rammenterò che in taluni paesi dell’entroterra napoletano
(cfr. Visciano) talora la vulva viene resa con la voce
sguessa/sguessera, ma non è in alcun modo chiaro quale sia il
passaggio semantico che conduca a parlare della vulva come di una sguessa/sguessera; in effetti nelle
parlate meridionali il
mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il
famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio
1898 – † Roma, 15 aprile
1967),), la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera;
ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa
che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di
una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella
che,talvolta, impegnando in un lavoro
abnorme bocca e mandibola, può determinare gli apparenti sviamento e pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’
acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata
in ue;
infine da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia; epperò in nessun modo si riesce a spiegare o ad
ipotizzare il perché del passaggio semantico
da fame smodata o mento pronunciato,quando non addirittura
scentrato, deviato a vulva femminile; posso solo sospettare un iniziale
errato riferimento protrattosi nell’uso popolare.
Rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri,
Visciano etc.) la vulva viene indicata anche con il nome di brasciola ( che, vedi alibi, di per sé
indica un grosso involto di carne imbottito da cucinare in umido con
olio, strutto, cipolla ed in quanto tale
è un s.f. derivato dal tardo
latino brasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che
originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e
successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale
passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una
fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso
involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto
frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso
consumare caldissimo.furbescamente, come ò détto, in talune province con tale voce viene indicata la vulva, con riferimento
semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile. A Napoli dove sono in uso, come ò indicato, numerose voci per indicar la vulva, questa
provinciale brasciola non viene di norma usata.
Esaurita la
spiegazione delle voci elencate a monte,
veniamo finalmente a trattare la voce sciuscia.
- sciuscia
Come ò già detto è voce generica che vale vulva, vagina, organo
riproduttivo esterno della donna il tutto senza particolari specificazioni
concernenti l’età o la destinazione
d’uso, ed è voce colloquiale privata in uso tra contraenti (sposi, amanti, fidanzati
etc.) dei due sessi di qualsiasi ceto sociale.
Per la verità dico
súbito che solo tre vocabolarî della
lingua napoletana ( l’antico D’Ambra,ed
i piú vicini Altamura e D’Ascoli che vi
attingono spudoratamente) dei numerosi in mio possesso e che ò potuto
consultare, prendono in considerazione la voce a margine, e però a malgrado che
tali vocabolaristi àbbiano il merito di considerare la voce, per
ciò che riguarda l’etimo non ànno merito alcuno, in quanto copiandosi l’un
l’altro optano,ma a mio avviso,
maldestramente, per un inconferente
generico idiotismo (.s. m.
(ling.) locuzione, voce o
costrutto caratteristici di una lingua o di un dialetto) fatto scaturire con un
arzigogolo fastidioso ed inattendibile da far risalire a cíccia→ciàccia→sciàscia→sciúscia … che pasticcio!
Personalmente penso di poter proporre altri due etimi di cui il primo, pur essendo perseguibile quanto alla
morfologia, convengo che zoppichi e non poco quanto alla semantica; a mio
avviso si potrebbe morfologicamente
pensare al solito latino ad un part. pass. femm. fluxa dell’infinito fluere atteso che il gruppo latino fl
evolve sempre nel napoletano sci (vedi
alibi flumen→sciummo, flos→sciore etc.) e
ugualmente x=ss seguito da vocale diventa sci e dunque fluxa=flussa
potrebbe aver dato morfologicamente sciuscia;
ma, come ò io stesso notato, vi si oppone la semantica: una cosa scorsa, fluita
poco o nulla à che spartir con una vulva… Occorre tenere altra via! È ciò che
faccio e prendendo per buona un’idea dell’amico prof. Carlo Jandolo, la faccio
mia e dico che partendo dalla considerazione che la voce sciuscia termina con il
suff. latino/greco di appartenenza ia e che d’altro canto la voce classica latina sus indicò indifferentemente il maiale, la scrofa e la vulva, e tenendo
presente che la sibilante s anche scempia seguíta da vocale evolve, come la precedente doppia ss
in napoletano nel gruppo palatale sci, ecco che da un origianario sus addizionato del suffisso
d’appartenenza ia si è potuto
avere súsia→sciúscia e non susía→sciuscía ponendo bene attenzione
che il suffisso latino ia comporta
la ritrazione dell’accento tonico sulla sillaba radicale, mentre è il corrispondente ía greco che sposta l’accento sul suffisso come si ricava
osservando la voce filosofia che in
lat. è philosòphia(m), mentre
in greco è philosophía; e posta l’ipotesi in
questi termini, possiamo dire che anche
la semantica (ramo della linguistica e, piú in generale, della teoria
dei linguaggi (anche artificiali e simbolici), che studia il significato dei
simboli e dei loro raggruppamenti; nel caso delle lingue, studia il significato
delle parole, delle frasi, dei singoli enunciati);
3)'mpizze 'mpizze,locuzione
avv.le temporale che vale a tempo a
tempo, lí per lí la locuzione è formata con la reiterazione d’un avverbio
modale ‘mpizzo (sulla punta, ai
margini)derivato da pizzo (punta,
becco) voce di origine espressiva con protesi di un in→’n→’m davanti alle esplosive p
o b;
4)verrizzo pl. verrizze
Con l’antica voce(peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú
anziani, essendosi irrimediabilmente
depauperato il lessico d’antan) verrizzo,
che al plurale fa verrizze, nella
parlata napoletana vengono indicati le
bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed
estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a,
ma pure verrezzuso/osa.
Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi
sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne,
nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo
fatto, starebbero ad indacare un soggetto proclive alla lussuria o libidine,
cosí come dal significato estensivo di verrizzo.
Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione
non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di dizionari, che
accolgono il termine se la sbrigano con un’annotazione pilatesca: etimo incerto.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal
significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando
la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato
atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno
nell’immaginario comune, a pratiche
libidinose, ma la proposta paretimologia poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa
tranquillamente derivare dall’unione del verbo latino velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo,
stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota
nella forma varia ed intensiva bizza (ma sia izza che bizza
provengono dall’antico sassone hittja = ardore).
Partendo da vell(e)+izza
si può pervenire a vellizzo e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella
evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a
verrizzo adattamento resosi
necessario atteso che – pur trattandosi
di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non
ipotizzabile di pertinenza del sesso
femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile
(suff. in a).
Infine, a margine di tutto ciò che ò detto su verrizzo,voglio rammentare
che esiste un altro antico vocabolo partenopeo, fortunatamente ancóra usato con
cui si indica il capriccio, la bizza, le testarde impuntature, il reiterato
insistere in richieste sciocche e pretestuose, quasi esclusivamente da parte
dei bambini; il vocabolo è ‘nziria
che estensivamente indica anche il prolungato, lamentoso pianto, apparentemente
non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale
lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli
infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco
chieder ragione del loro pianto; spesso di tali
piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno,
comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento
con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è
bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rommento ancòra che un tempo accanto alla forma ‘nziria,
vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda
l’etimologia del vocabolo ‘nziria
(da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa
che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze)
scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono
infatti l’idea di ira e di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a
ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato De Falco nel suo Alfabeto
napolitano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal
greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si viene a
creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso
alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della
‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia
molto piú probabile una discendenza dal latino insidiǽ a sua volta da un
in + sideo = sto sopra, mi fermo su,
che semanticamente ben mi pare possa
rappresentare l’impuntatura che è tipica di chi si abbandona alla ‘nziria.
5)vase e frizze
lett. baci e
sfregamenti,pizzicotti,punzecchiature per provocare; di per sé la voce frizze fu anticamente il pl. di frezza = freccia, ma poi si affermò nel
tardo ottocento e primi del novecento quale traslato nei significati che ò
indicato; etimologicamente fu voce deverbale di frezzare/frizzare = 1 dare la sensazione di lievissime e
frequenti punture:’o spirito ‘ncopp’ê fferite frezza (l'alcol,
sulle ferite, frizza) |
detto di bevande, provocare una sensazione di solletico al palato; essere
effervescente:’a sciampagna frezzeca
(lo spumante frizza)
2 stridere, detto di ferro rovente immerso in acqua
3 (fig.) essere pungente, caustico.;
frezzare/frizzare
è dal lat. volg. *frictiare, intens. di frigere 'friggere'
6)te ce avvizze lett.
ti ci appassisci, ne resti vizzo, appassito, consunto; avvizze è voce
verb. (2° ps. sg. ind. pr. dell’infinito avvezzí=
appassire, sfiorire etimologicamente denominale di vizzo= appassito,
sfiorito che à perduto la freschezza, la sodezza; seccato, flaccido ( dal lat. vietius,
compar. neutro di viítus 'vizzo', deriv. di viíre 'legare';
7)cchiú t’appizze
lett. piú ti accanisci piú vi ,tendi, vi poni attenzione e
mente; cchiú= piú dal lat. plu(s) con tipico passaggio di pl→chi (cfr. platea→chiazza – plumbeu(m)→chiummo
– pluere→chiovere etc.), appizze è
voce verb. (2° ps. sg. ind. pr. dell’infinito appezzà= tendere, appuntire, accanire etimologicamente denominale
di pizzo (punta, becco) voce di
origine espressiva;
8)è gghiuto ô ffrisco lett. è andato al fresco cioè è stato depositato al monte dei pegni; l’espressione semanticamente è da collegarsi alla medesima usata in riferimento a chi finisce carcerato; come di chi finisce in prigione si dice che è andato al fresco, cosí di un oggetto dato in pegno resta carcerato fino a che non venga riscattato pagando i relativi interessi e la somma ricevuta in prestito depositando l’oggetto al monte di pietà(Il Monte di Pietà o Banco/Monte dei pegni fu una istituzione finanziaria senza scopo di lucro nata verso la fine del XV secolo in Italia (soprattutto meridionale) su iniziativa dei Francescani per erogare prestiti di limitata entità (i) in cambio di un pegno.
La funzione del Monte di Pietà o Banco/Monte dei pegni fu quella di finanziare persone in difficoltà fornendo loro la necessaria liquidità. A tal fine per il loro funzionamento i beneficiari fornivano in garanzia del prestito beni reali di valore ( monili ed oggetti di oro, o di argento, ma talora – nel caso di persone indigenti - anche biancheria che si vedevano restituito quando ripianavano il debito). 9)Bbelle ‘e jammere!
10)Mo t’ ‘e ccoglio e
mmo t’ ‘e vengo! Letteralmente:Ora li
raccolgo e súbito li vendo! Fu la voce degli ortolani girovaghi che
vendevano frutta ed ortaggi di stagione e di cui magnificavano la freschezza
asserendo di averli raccolti con le proprie mani nei campi di produzione e di
venderli al minuto nel giorno stesso della raccolta.
11)‘O quadrillo e ‘a
fijurella! Letteralmente: Il quadretto e la figurina! Fu la voce dei
venditori girovaghi di oggetti di culto che nei mercati rionali o nelle
festività di santi patroni offrivano quadretti, rosarii benedetti e non,
medagliette o semplici figurine di
santi.
12)Conciatielle!
Letteralmente: Aggiustategami!Fu la
voce degli operai girovaghi che per
pochi soldi provvedevano illico et immediate alla riparazione di stoviglie in
rame o piú spesso in coccio; per le
stoviglie in rame al grido di Stagnateve
‘a ramma l’artiere provvedeva a
ricoprire di stagno le pareti interne(quelle che sarebbero dovuto andare a
contatto con i cibi cotti), mentre il conciatielle/conciatiane/conciambrelle
fu colui che servendosi di mastici e/o fil di ferro provvedeva alla
riparazione di padelle, tegami,pentole in coccio o anche di ombrelli: - conciatielle (chi aggiusta le
padelle) da concia o acconcia voce verbale 3° p. sing. ind. pres. di cuncià o
accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; +
tielle pl. di tiella (dal tardo lat. te(g)ella(m)→tjella(m))-
- conciambrelle (chi aggiusta gli ombrelli) da concia o acconcia voce verbale
3° p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino
comptiare o ad-comptiare= preparare; + ‘mbrelle plurale adattato (normalmente
dovrebbe esser ‘mbrielle) di ‘mbrello
= ombrello da un basso latino umbrella maschilizzato.
- conciatiane (chi ripare le pentole) da un concia o acconcia vedi sopra +
tiane plurale di tiana da un basso latino tejana femminile di un tejano che fu
dal greco tégano collaterale di tàghenon= pentola, padella.
13)Tiene chistu campo
‘e fave!… Espressione furbesca di sapore lubrico e scurrile che letteralmente vale: “Ài questo campo di
fave!” irriguardosamente riferito al vasto fondoschiena d’una prosperosa forosetta, fondoschiena
ritenuto campo in cui siano seminate delle fave (e si sa che con la voce fava
in senso furbesco si intende il membro maschile!); E con questo penso d’aver
adeguatamente risposto alla richiesta pervenutami. Satis est.
Raffaele Bracale
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