sabato 13 febbraio 2016

PREVETE ED ESPRESSIONI COLLEGATE


 

PRÈVETE ED ESPRESSIONI COLLEGATE

Qui di sèguito prendendo le mosse  dal s.vo  prèvete illustrerò  alcune icastiche espressioni, nonché proverbi e/o wellerismi che lo chiamano in causa.

Cominciamo con il dire che 

prèvete è un s.vo m.le che vale prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,  che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete  da cui poi per sincope della sillaba centrale ve si è probabilmente  formato il toscano prete è dal tardo latino  presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;

 la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m)  è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e. Tanto premesso cominciamo con l’elencazione delle espressioni, proverbi o wellerismi:

 

 

1.FATTE BENEDICERE ‘A ‘NU MONACO (ma oggi  ) PRÈVETE RICCHIONE

Letteralmente: Fatti benedire da un monaco (ma oggi)  prete omosessuale attivo. Id est: Chiedi la benedizione (che risolva i tuoi problemi) a qualcuno che ti possa adiuvare: nella fattispecie chiedila ad un monaco (o prete) omosessuale.

Chiariamo la portata dell’espressione:  In primis è da rammentare che il detto/consiglio  originariamente parlava di  un monaco ricchione;  il prete  è un' estensione piú moderna nata probabilmente o  a rimbrotto in un qualche monastero/convento  maschile, o piú probabilmente allorché i monaci dismisero i conventi della città bassa dove era nata l’espressione.

Ma tentiamo di chiarire il  perché dell’espressione; atteso che nella vita  ci sono casi tanto  disperati che necessitano di interventi adeguati per essere avviati a soluzione,  chi se non un monaco (o un  prete) ricchione, (che cioè sono tra coloro che   abbiano  tutto provato nella vita ed affrontato situazioni particolari) può/possono essere chiamato/i in causa per operare efficaci benedizioni che sortiscano i benefici effetti desiderati?

Prima di soffermarci un po’ su gli elementi squisitamente linguistici, ripeto e preciso che l’espressione in origine recitava fatte benedicere ‘a ‘nu monaco ricchione  e solo successivamente al termine MONACO fu sostituito quello di PRÈVETE. La faccenda si spiega, come anticipai,  con il fatto che l’espressione nacque nella zona bassa della città dove il popolo aveva gran dimestichezza piú che con i preti secolari,   con i monaci di sant’Anna quelli che avevano il loro convento in piazza San Francesco nell’edificio che un tempo era stato appunto  il convento dei monaci di sant’Anna ed in sèguito e fino a poco tempo fa ospitò gli uffici  della Pretura di Napoli ed è piú che probabile che a tali monaci si rivolgesse il popolo per aver consiglio o chiedere soccorso imbattendosi (è ipotizzabile) in qualche monaco omosessuale, ma piú capace d’altri suoi confratelli di prestare consigli o aiuti di pratica efficacia.Quando poi i monaci abbandonarono il convento e si trasferirono altrove il popolo prese a confidarsi con il clero secolare e l’espressione fu adeguata alla nuova evenienza divenendo  fatte benedicere ‘a ‘nu prèvete  ricchione!

Rammento infine che la benedizione ottenuta da un monaco o prete ricchione è ritenuta altresí, nell’inteso comune popolare ottima arma di difesa contro i proditori assalti di menagramo, iettatori, uocchie sicche o cestarielle che siano.      

Benedicere = benedire 1 (teol.) pronunciare una benedizione: il Signore benedisse Abramo 2 invocare la protezione di Dio su persone o cose: il padre benedisse il figlio; il sacerdote benedice i fedeli; benedire l'olivo | andare, mandare a farsi benedire, (fig.) andare, mandare via; anche, andare, mandare in malora 3 lodare, esaltare, ricordare con amore e gratitudine: lo benedico per il bene che mi à fatto 4 da parte di Dio, aiutare, custodire, elargire grazie: benedetto da Dio | che Dio ti benedica, formula di benedizione; nell'uso fam., esclamazione di meraviglia ironica  o lieve rimprovero: che Dio ti benedica, ài mangiato tutto tu!. L’etimo di verbi sia italiano che  napoletano (il napoletano anzi ripete piú esattamente la forma latina) è dal lat. benedicere, comp. di bene e dicere; propr. 'dir bene'

 monaco s.vo m.le  è  ovviamente  il monaco cioè a dire  chi à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità ed obbedienza; etimologicamente è voce dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; a Napoli il monaco è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e proprio ai monaci dei numerosi conventi presenti nell’area cittadina e limitrofa il popolo napoletano fu aduso rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi. Per restare nell’àmbito della parola monaco rammento che  il medesimo etimo d’esso monaco,  sia pure addizionato di un suffisso diminutivo iello  vale per la voce munaciello  che nella tradizione popolare partenopea è (quantunque non si tratti di un autentico religioso) un particolare piccolo monaco;

‘o munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici; ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d. bambino vecchio, ed  assume due personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora,  se à in simpatia gli abitanti della casa,che lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o munaciello è molto goloso!) egli   arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in  odio una famiglia, che non lo abbia accolto con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son  le testimonianze che riguardano l’apparizione di  questa simpatica entità che non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci pasti, odorosi incensi) da tributare a  questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però  se donne in ispecie giovani e procaci) , magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di calpestio Scalzo, scheletrico, spesso  lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone,  dello spavento procurato o di inconfessabili  confidenze palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine:

La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora di un tal  Stefano Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice  garzone di bottega.

Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la storia  finisse in tragedia. Stefano venne assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del convento  adottarono motu proprio il bambino  cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito.

La seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non  sia che il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando non addirittura nel primo vano delle case, di tal che  aveva facile accesso nelle case passando attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo.

Personalmente sono maggiormente  attratto dalla vicenda di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente spesso Napoli, imprendibile dalle mura,  fu invasa attraverso le condutture idriche.

Prèvete  s.m. prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,  che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete  da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente  formato il toscano prete è dal tardo latino  presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;

 la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m)  è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;

Come per il precedente monaco, anche il prete è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto molto preparato,   a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e segnatamente al prete titolare di una parrocchia (parrucchiano) i fedeli  furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi.

recchione o ricchione, s. m. omosessuale maschile, pederasta,gay;  vocabolo che, partito dal lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa   di taluna letteratura minore ed altre forme artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati lessici della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico  significato di omosessuale maschile.

Molto  piú precisamente della lingua nazionale, però, il napoletano con i vocaboli a margine  non definisce il generico omosessuale maschile, ma definisce l’omosessuale maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano  : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento espressivo della postonica  m tipico in parole sdrucciole piú il consueto suffisso diminutivo ella.

Torniamo al recchione/ ricchione precisando súbito  che nel napoletano  tale omosessuale maschile non va confuso (come invece accade nell’italiano)con il pederasta il quale, come dal suo etimo greco: pais-paidos=fanciullo ed erastós=amante, è  chi intrattiene rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la parlata napoletana non à un termine specifico per indicare il pederasta e ciò  probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine partenopea, quantuque Napoli sia stata città di origine e cultura greca ;dicevo: ben diverso il pederasta  dal recchione / ricchione che infatti à i suoi viziosi rapporti sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari risma.

Ed accostiamoci adesso al problema etimologico del termine recchione – ricchione; sgombrando súbito il campo dall’idea  che esso termine possa derivare dall’affezione parotidea nota comunemente con il termine orecchioni, affezione che attaccando le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.

Una prima e principale scuola di pensiero, alla quale, del resto mi sento di aderire fa risalire i termini in epigrafe al periodo viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón con il quale i marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti nei viaggi nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi attaccati grossi e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano indicati anche dei nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro costumi viziosi e lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera ridondante ed eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni auricolari,donde la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.

Da non dimenticare che detti usi di incaici e peruviani furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a Napoli, provenienti dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti orecchini(cosa che i napoletani non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili da donna e non da uomo..) e parecchi di questi marinai furono súbito indicati con i termini in epigrafe oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati anche per il modo di proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai napoletani si ritenne che il loro comportamento sessualecambiato,  fosse stato determinato dalla lunga permanenza in mare, per i viaggi transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver rapporti con donne e doversi contentare di averne con altri uomini.

Successivamente i termini recchione / ricchione palesi adattamenti dello orejón spagnolo passarono ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli omosessuali attivi, conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli passivi.Rammento che  il femminiello, nel gergo della parlesia malavitosa, fu détto anche fegàto/fecàto (chiara corruzione per semplificazione di fregato = posseduto carnalmente).

 

E mi pare che ce ne sia abbastanza, anche se – per amore di completezza – segnalo qui una nuova ipotesi etimologica proposta dall’amico prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione una culla greca: orkhi-(pédes)= chi à la strozzatura dei testicoli,impotente, con aferesi iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento popolare espressivo  e suffisso qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso Jandolo non esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.

A malgrado dei sentimenti amicali che nutro per Jandolo, non trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio avviso,  convincente  via vecchia per  percorrere la impervia  nuova.

In coda a tutto quanto détto rammento che nel linguaggio corrente  nazionale per indicare l’ omosessuale maschile è usato, a preferenza, il termine gay voce del lessico inglese dove quale aggettivo essa   vale propriamente «gaio, allegro » e verrebbe fatto di chiedersi cosa mai abbia da essere gaio/ allegro un omosessuale maschile, un ricchione. L’anglomania che pervade il lessico nazionale è veramente riprovevole.Quanto sarebbe opportuno che in luogo di gay l’italiano recepisse il tanto piú icastico  e semanticamente corretto recchione/ricchione e lo facesse nella  sua autentica accezione di omosessuale maschile attivo e non di omosessuale maschile passivo  cosí come attualmente, ma erroneamente riporta il Dizionario Treccani!

2.SI SÎ TU ‘O SI’ PRÈVETE CA CE A BENEDITTO QUANNO DICETTEMO ‘E SÍ, PECCHE MO TE LL’ANNIEJE?

 Letteramente  Se sei tu il signor prete che ci à benedetti quando dicemmo di sí (quando sposammo) perché ora lo neghi?

Questa frasetta  non à alcun recondito significato traslato e/o nascosto e la riporto  solo per illustrare alcuni vocaboli partenopei tra i quali ben quattro differenti  SI  che avendo  ognuno   un ben preciso, differente  significato necessitano di quattro diverse scritture che indichino d’acchito e precisamente la diversa  funzione grammaticale dei quattro omofoni si.  Cominciamo:

il primo Si  scritto senza alcun segno diacritico (accento o apostrofo) corrisponde all’italiano se  nei significati e funzioni  che seguono:


1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo  nun ce truvarriamo o truvassemo   a chistu  punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste  truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire  cchiú accorto , non te  truvave dinto a ‘sta situazziona  ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jirce semp’i’?  | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che:  si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al piú: simmo nuje, si maje, ca avimmo  bisogno ‘e  te; 2)  fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â  lotteria!; si putesse turnarmene â  casa mia!; si ll’ avesse saputo primma! (se vincessi alla lotteria!Se potessi tornarmene a casa mia! Se l’avessi saputo prima!) 3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto? (se ne sei proprio sicuro, ti credo.Se lo sapeva, perché non gliel’à detto?) 4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si  anche à sbagliato, no ppe cchesto  ‘o cundanno (se pure si pentisse, ormai è troppo tardi; se  anche à sbagliato, non per questo lo condanno.)
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è! (agisci come se non te ne importasse niente; mi guardava come se non avesse capito; come se non si sapesse chi è!) 6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse  fernuto pe ttiempo; nun saccio  che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava  si nun se fosse pe ccaso sbagliato (mi chiedo  se è una buona idea; non sapeva se avrebbe o avesse  finito per tempo; non so  che cosa fare, se partire o restare; si chiedeva   se non se fósse per caso sbagliato) | si è overo?, si tengo  pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.

Rammento che questa congiunzione  SI  napoletana non viene mai usata  come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano.

Andiamo oltre :

si’   è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo finale;  viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prèvete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.

 Ricordo che càpita  spesso che   sulla bocca  del popolino, meno conscio  o attento  del/al proprio idioma, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna  di taluni  pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata  napoletana  la voce a margine  è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto zi’ (zio) apocope appunto di zio che è dal lat. thiu(m).

 

Proseguiamo dicendo che

corrispondente all’italiano sei  voce verbale (2ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse; la forma sî    [derivata  etimologicamente quale crasi   di una forma sies→sie(s)→sie→sî  della seconda persona del cong. presente del verbo esse, attestata  almeno fino alla fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero accanto alla normale forma sis] esige un segno diacritico (accento circonflesso)  per distinguere la voce verbale a margine, come abbiamo visto, da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente;

 

  avverbio affermativo  derivato dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'

1 si usa nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Hê capito?" "Sí"; "Venarranno pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo",  "Sí overamente!", "Ma sí!" | facette segno ‘e sí, annuire ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, credere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' si è  ssí, in caso affermativo: si è  ssí, te  telefono/' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no 2 spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; ‘nu juorno íí e uno no, a giorni alterni ' sí e no, a malapena, quasi  ' te muove sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú sí ca no, probabilmente sí 3 con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ch’ è bbella!; chesta sí che è ‘na nuvità!
come s.vo
1 risposta affermativa, positiva: m’ aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu
  bbelul sí; ‘e spuse ànno ggià ditto sí; stare tra ‘o sí e ‘o 
no, essere incerto; 2 pl. voti favorevoli: se so’ avuti  tre ssí e quattro no || Usato come agg. invar. (fam.) positivo, favorevole: ‘na jurnata sí.

3.'E SÀBBATO, 'E SÚBBETO E SENZA PRÈVETE! Di sabato, di colpo e senza prete! È il malevolo augurio che si lancia all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso.

4.FÀ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE.

Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa  quale, ingiustamente, si riteneva ed ancóra si ritiene che fósse e   sia  quella svolta dai sacerdoti  al segno che, altrove si dice che si ‘a fatica fosse bbona ‘a faccesro ‘e prievete (se il lavoro  fosse  una cosa buona, lo farebbero  i preti).

Fatica s. f.  sinonimo di lavoro, impegno quantunque di per sé il termine fatica connoti il semplice lavoro, ma uno  sforzo fisico o intellettuale che genera stanchezza, quella  che nasce da un'attività fisica o psichica troppo intensa o prolungata; l’etimo è dal  lat. volg. *fatiga(m), deriv. di fatigare 'prostrare, stancare';

prievete s. m. plurale metafonetico  di prèvete: prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,  che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete  da cui poi per sincope della sillaba implicata ve si è probabilmente  formato il toscano prete è dal tardo latino  presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;

 la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m)  è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e.

5.CHI TÈNE CUMMEDITÀ E NUN SE NE SERVE, NUN TROVA 'O PRÈVETE CA LL'ASSOLVE. Letteralmente: Chi à comodità e non se ne serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve servirsene, in caso contrario commetterebbe non solo una sciocchezza autolesiva, ma pure un peccato cosí grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.

6. SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... - ACCUSSÍ À DDA JÍ! - Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sghimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo.Questa la storiella che stava a monte dell’episodio: un non meglio identificato prete napoletano  venne trasferito dal suo Vescovo in un paesino della provincia, paese dove imperava una consorteria di malavitosi camorristi che a mo’ di riconoscimento solevano portare alla sgherra (di traverso)  il cappello o la coppola. Giunto nel paese fu consigliato al sacerdote di portar di sghimbescio anche il suo vasto cappello, affinché fósse considerato uomo da rispettare; il prete seguí il consiglio e fu rispettato dagli adulti, ma non dai manelli che lo insolentivano con l’espressione in epigrafe, cui il prete fece seguire l’adeguata risposta.   La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.Rammento che nel parlato comune dei meno consci o attenti della/alla parlata napoletana, l’espressione viene riportata erroneamente come: Zi' pre' 'o cappiello va stuorto... - Accussí à dda jí! con un’evidente colpevole confusione tra il si’  e zi’  che  comporta  la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di si- gnore ) con lo scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottiene  lo scorretto zi’ prèvete  in luogo del corretto si’ prèvete dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre alibi per indicare la voce signora si usa un sié  che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur sie-gneuse.

Rammenterò a margine di tutto ciò un’altra tipica espressione partenopea che è ‘o si’ nisciuno usata per dileggio nei confronti di chi sia uomo di nessuna valenza teorica e/opratica; a tale insignificante individuo s’usa dire: sî ‘o si’ nisciuno(sei il signor nessuno, non vali o conti nulla!); l’espressione ‘o si’ nisciuno, spessissimo scorrettamente suole rendersi con‘o zi’ nisciuno incorrendo maldestramente nell’equivoco di cui ò già detto; in tale equivoco incorse inopinatamente anche il famosissimo scrittore partenopeo don Peppino Marotta (Napoli, 5 aprile 1902 -† Napoli, 10 ottobre 1963),  che tradusse in un suo scritto l’espressione‘o si’ nisciuno con un inconferente lo zio Nessuno invece dell’atteso il signor Nessuno… Ma Marotta fu cosí grande scrittore e napoletano da pietra di paragone, che gli perdono e gli dobbiamo perdonare tutto!  - 7.DICETTE ‘O SI’ PRÈVETE Â SIÉ BADESSA: SENZA DENARE NUN SE CANTANO MESSE!

Ad litteram: Il signor prete disse alla signora abadessa: Senza denari, non si celebrano messe cantate!

Antico icastico proverbio partenopeo, il cui assunto indica che nella vita nulla viene fatto gratuitamente, ma ogni cosa – persino lo piú sacra – à un suo prezzo, dal quale non si può prescindere se si vogliono ottenere i risultati pratici agognati. Infatti se persino i sacerdoti pretedono un corrispettivo per la celebrazione di una S.Messa , sia pure cantata, quanto e piú potrà fare chiunque altro cui si chieda di prestare la propria opera!

È inutile attendersi gratuità!

 

nota :

Comincio col dire che spesso sulla bocca  del popolino, meno conscio  o attento  della/alla propria lingua,ma – inopinatamente – pure sulle labbra di taluni sedicenti studiosi della lingua napoletana  il proverbio in epigrafe è reso con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di signore ) con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco  tehîos ) per cui si ottenengono gli scorretti zi’ prèvete e zi’ badessa in luogo dei corretti si’ prèvete e sié  badessa dove il si’   detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano  mentre  il sié è l’apocope  di signora,apocope ricavata sulla   voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→ sie-gneuse.

E passiamo ad analizzare qualche singola parola sorvolando su prèvete di cui reiteratamente ò détto;

-     badessa  e cioè: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche  donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa  voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.

-     Messe propiamente il plurale di messa che è – come noto -  nella religione cattolica, il sacrificio del corpo e del sangue di Gesú Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, è offerto dal sacerdote a Dio sull'altare, per rinnovare il sacrificio della croce; etimologicamente la parola napoletana messa tal quale la identica toscana, è il participio passato femminile del verbo latino mittere e cioè missa= inviata, mandata; per comprendere appieno il perché di questo nome dato alla celebrazione liturgica bisogna risalire al 1°,2° sec. quando i primi cristiani, per celebrare il loro rito della eucaristia (etimologicamente da un  tardo latino eucharistia(m), dal gr. eucharistía, comp. di êu bene e un derivato di cháris -itos : grazia; propr. riconoscenza, gratitudine) si riunivano nelle catacombe (etimologicamente da un tardo latino catacumba(m), comp. del gr. katá:  giú, sotto e il lat. cumba :cavità); al termine della celebrazione liturgica, il presbitero che aveva consacrato l’eucaristia  ne affidava alcune particole = piccole parti ai diaconi che erano i suoi assistenti, affinché essi  le recassero a tutti i fedeli che, per varî motivi assenti, non avevano partecipato al rito;  fatto ciò, congedava gli altri fedeli annunciando loro: Ite, missa est!  id est: Andate via, l’ò mandata! Quel missa finale finí per dare il nome alla celebrazione liturgica  relativa. A margine e completamento delle locuzioni incentrate sulla figura del prèvete, parlo di alcune figure che strictu sensu non rietrano fra quelle dei consacrati,ma dal popolino spesso per ignoranza o dileggio vi vengono accomunate 

8.MIEZU PRÈVETE – BIZZUOCO E PECUOZZO

Entro súbito in argomento dicendo che le voci miezu-prèvete (mezzo prete) e la voce bizzuoco  sono, nell’inteso comune, dei sinonimi e negli anni intorno al 1950 furono usati per dileggio con riferimento a tutti quegli uomini adulti che avessero frequentazioni piú o meno abituali e continue con la propria parrocchia o altre familiarità  chiesastiche, per patecipare ad attività religiose, il piú delle volte   risultando iscritti ad associazioni cattoliche come in primis, l’ A.C.I.( Azione Cattolica Italiana la più antica, ampia e diffusa tra le associazioni cattoliche laicali d'Italia, associazione le cui origini possono essere fatte risalire al 1867, quando due giovani universitari, Mario Fani, viterbese, e Giovanni Acquaderni, bolognese, fondano la Società della Gioventù Cattolica. Il motto dell’ A.C.I.:  "Preghiera, Azione, Sacrificio" sintetizza la fedeltà a quattro principi fondamentali:la devozione al Papa (sentire cum Ecclesia),un forte progetto educativo (studio della religione),la vita secondo i principi del cristianesimo,un diffuso impegno alla carità verso i piú deboli e i piú poveri) oppure ad altre associazioni di ispirazioni cattoliche: Terziari francescani, F.U.CI.(Federazione Universitaria Cattolica Italiana che nacque nel 1896, sull'onda di una nuova enfasi alla partecipazione sociale dei cattolici alla società civile ed alla politica, che culminerà con la fine del "non expedit" di lí a pochi anni),Coadiutori salesiani  ed altre, o risultando  assidui frequentari oltre che della santa messa domenicale anche di altre funzioni religiose  quali benedizioni eucaristiche, processioni, mesi mariani (sermoni e preghiere quotidiane dedicate al culto della santa Vergine Maria,durante il mese di maggio) o del Sacro Cuore(sermoni e preghiere quotidiane dedicate al culto del  sacro Cuore di Gesú,durante il mese di giugno), Ritiri di perseveranza (corsi predicati tenuti da gesuiti, corsi in genere serali e quotidiani di preghiera e meditazione tenuti nel mese antecedente la celebrazione dell festa della santa Pasqua di Resurrezione)etc. Ogni uomo adulto che avesse tali frequentazioni fu battezzato dal popolino con l’appellativo di miezo-prèvete =mezzo prete atteso che, per il popolo ignorante, solo un sacerdote avrebbe potuto sentire il bisogno di  avere quelle frequentazioni quotidiane o ricorrenti con la materia religiosa; posto invece che quegli adulti che le avevano non erano sacerdoti, ma semplici laici, ecco che furono    per dileggio détti mieze-prievete =mezzi preti, quasi preti. Tale appellativo fu – ovviamente – solo maschile; successivamente accanto all’appellativo or ora ricordato  ogni uomo adulto che avesse  frequentazioni chiesastiche fu battezzato anche con il termine bizzuoco che originariamente nella morfologia di bizzoca era destinato esclusivamente alle donne.Rammento altresí che alla fine degli anni ‘960   invalse l’uso d’usare, sia pure impropriamente, altresí il termine pecuozzo  per indicare ogni uomo adulto che avesse quotidiane o ricorrenti frequentazioni chiesastiche.

Esaminiamo un po’ le singole voci incontrate:

parrocchia s. f.  (dal lat. tardo parochia(m), dal gr. paroikía, propr. 'vicinato', deriv. di paroikêin 'abitare presso') 1  nella chiesa cattolica e in altre chiese cristiane, la piú piccola circoscrizione territoriale in cui è divisa una diocesi | la chiesa in cui il parroco esercita il suo ministero; anche, la sede dell'ufficio parrocchiale o l'edificio in cui si svolgono alcune attività parrocchiali; la parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell'ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l'autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore; spetta unicamente al Vescovo diocesano erigere, sopprimere o modificare le parrocchie; egli non le eriga, non le sopprima e non le modifichi in modo rilevante senza aver sentito il consiglio presbiterale.


2 l'insieme di tutti i parrocchiani cioè dei fedeli frequentanti la parrocchia affidati alle cure pastorali del parroco; l’ò precisato perché in napoletano esiste l’omofona ed omografa voce parrocchiano/parrucchiano  che non indica però  il fedele frequentante la parrocchia, ma indica il parroco con la medesima derivazione della voce parrocchia(dal lat. tardo parochia(m)) con l’aggiunta del suffisso di pertinenza aneus→ano); ricordo ancóra che ebbi con un tal sig. Gambardella frequentatore di un mio blog una divertente diatriba e durai non poca fatica per fargli comprendere ed accettare l’idea che le voci pacchiano e parrucchiano son solo graziosamente assonanti, ma ànno significati affatto diversi : ò détto di parrucchiano= parroco; mentre la voce  pacchiano/a   parola (sost. ed agg.vo m. o f.) oramai pressoché desueta ,  che fu molto usata negli anni tra il ’40 ed il ’50 dello scorso secolo e fu usata per indicare i contadini, i provinciali ed estensivamente gli zoticoni ed i rozzi provinciali provenienti dai paesi (nei quali per altro si rifugiarono parecchi napoletani per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale) della campagna partenopea (da non confondere dunque con i cafoni per solito provinciali di montagna). Ancora piú estensivamente con il termine pacchiano si identificò il villano, il rozzo provinciale fisicamente ben pasciuto, e con il corrispettivo pacchiana la contadinotta di generose forme, quella contadina, detta affettuosamente ‘a pacchianella ‘e ll’ova, che ogni giorno era solita rifornire le case dei cittadini sfollati id est:fuggiti dalla città, di generi alimentari freschi (uova, formaggi,insaccati, latte, burro nonché verdure ed altri prodotti dell’orto). Chiarito ad un dipresso il concetto di pacchiano/a, passiamo a parlare brevemente della sua etimologia.
Sgombriamo súbito il campo da quella che – a mio avviso – è solo una graziosa, ma pretestuosa paretimologia e cioè che con la parola pacchiana e poi il corrispondente maschile si indicasse, contrariamente al cafone che è montanaro, la contadina, la villana e poi il contadino, il villano che giungessero in città p’’a chiana attraverso cioè la pianeggiante campagna. È altresí da escludere una pretesa derivazione onomatopeica da un ipotizzato, ma non spiegato suono pacchio.
Cosa mai produrrebbe nel pacchiano il suddetto suono? Non è dato sapere!...
Un’altra tentazione è che il termine pacchiano/a possa collegarsi al sostantivo italiano pacchia =gran mangiata e per estensione: vita beata e tranquilla, gioiosa ed allegra (dal latino: patulum→pat’lum→pac’lum→pacchio e pacchia = cibo,pasto),oppure che il termine pacchiano/a possa essere un deverbale di pacchiare: vivere beatamente, satollandosi di cibo e/o altro, senza quasi fatica; a me non pare però che, per quanto ben nutriti e satolli, i contadini durino una vita che sia solo una pacchia; ugualmente penso sia da scartare l’ipotesi che pacchiano/a possan derivare da un tardo latino regionale pachylus→pachilós derivato da un pachýs greco ="grassoccio".
Non resta dunque che aderire, per l’etimologia di pacchiano, a quanto proposto dal grandissimo prof. Rohlfs che ne congettura una derivazione per metatesi dal sostantivo chiappa (forgiato su di una radice indoeuropea klapp con l’aggiunta del suffisso di pertinenza aneus→ano) nel significato però non di sasso sporgente, ma di natica, elemento sporgente del corpo umano, tenendo presente la morfologia fisica del pacchiano o piú spesso della pacchiana, dotati quasi sempre di sostanziose natiche sporgenti.
3 (fig.) gruppo di persone legate da comuni interessi; conventicola (per lo più spreg.): appartenere alla stessa parrocchia, a parrocchie diverse.

miezo-prèvete  o anche miezoprèvete s.vo ed agg.vo ma.le e solo m.le    è voce usata esclusivamente per dileggio, sta per mezzo prete, quasi prete; etimologicamente è formata dalla unione di miezo = mezzo, metà a.vo (dal lat. mĕdiu(m)→miezo) e del s.vo prèvete   s.m. prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,  che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete  da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente  formato il toscano prete è dal tardo latino  presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;

 la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m)  è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;

Come qui di sèguito   per il  monaco, anche il prete è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto molto preparato,   a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e segnatamente al prete titolare di una parrocchia (parrucchiano) i fedeli  furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione dei problemi personali o familiari.

Andiamo oltre e parliamo di:

bizzuoco/bizzoca  s.vi ed agg.vi  che valgono bigotto/a,bacchettone/a, baciapile, collotorto, pinzochero/a,   e designano tutte all’incirca una  persona che badi alle pratiche esterne della religione piú che allo spirito di essa, ed estensivamente  quindi anche persona ipocrita attenta piú all’apparire che all’essere; in principio fu in uso la sola voce declinata al femminile atteso che furono in maggior numero le donne piuttosto che gli uomini coloro che avessero quotidiane frequentazioni chiesastiche; successivamente (attorno alla fine del 1800) con la nascita di associazioni a frequentazione anche maschili, accanto al termine di nuovo conio: miezoprèvete, fu adottato, a maggior motteggio, il termine bizzuoco  che al  femminile è  bizzoca = beghina; quanto all’etimologia di bizzuoco/bizzoca  accanto ad un basso lat. *bigiòcius= dal saio bigio, ben si è supposto un *bicòtiu(m) donde un *picotiu(m) base anche  del successivo nap. picuozzo  da cui per metatesi ed alternanza p/b→ bizzuoco/bizzoca. A proposito di questo bizzuoco rammento una curiosità e cioè che essa voce venne usata dalla mia nonna simpatica, ma semianalfabeta, per indicare quale aggettivo del pane,   il pan tostato che per lei era ‘o ppane bizzuoco. Ovviamente non c’entrava nulla il bizzuoco di cui ò fin qui détto, ma si trattava di una involontaria,  patente seppure impropria corruzione spagnoleggiante del termine iberico bizcocho= biscotto. Fui un ragazzo beneducato, costumato e rispettoso e mai mi sarei permesso di far notare alla nonna un suo errore. Forse da adulto mi sarei azzardato a consigliarle d’usare per indicare il pan tostato piú che quell’improprio bizzuoco la voce in uso nel salernitano mascuotto s.vo neutro formato dal part. pass. cuotto (dal lat. coctu(m) p.p. di coquere) agglutinato in posizione protetica dell’avverbio iberico mas = di piú; ma la nonna non c’è piú da tanti anni...

L’ ultima voce   usata  per dileggiare, motteggiare, irridere al massimo gli uomini adulti che avessero quotidiane frequentazioni chiesastico-parrocchiali, fu

pecuozzo   s.vo ed agg.vo m.le e solo m.le che di per sé à un ambito piú ristretto ed  identifica in primis il frate converso, il frate laico di convento e solo estensivamente tutte le voci quali bigotto,bacchettone, baciapile, collotorto, pinzochero, e tutti coloro che – come i surriportati uomini adulti - avessero quotidiane frequentazioni chiesastico-parrocchiali; l’etimo della voce è un tardo latino  *bicòtiu(m) donde un *picotiu(m)picuozzo/pecuozzo.

E qui potrei far punto, ma mi pare giusto dire anche di  - bigotto  che è chi fa le viste di stare in perenne continuo contatto con la Deità, assorto in continue orazioni e/o pratiche religiose, la voce deriva  dal fr. bigot, originariamente  epiteto spregiativo dato ai Normanni per il loro intercalare bî God, che  nell'ant. alto ted.valse per Dio;

- beghina s. f. 1 (storicamente) donna appartenente a comunità ispirate a ideali evangelici e caritativi, sorte spec. in Belgio nel sec. XII 2 (per estensione) donna bigotta, bacchettona.

Etimologicamente la voce a margine  è dal fr. beguine, che è probabilmente un adattamento del  medio ingl. beggen 'pregare';

- bacchettone  che è chi si dedica a pratiche religiose con zelo esagerato e superstizioso; la voce è probabilmente un accrescitivo (cfr. suff. one) deriv. di bacchetta, con riferimento  alla pratica medievale dell'autoflagellazione;oppure con riferimento a coloro che ben volentieri ed ostentatamente si recavano nelle basiliche dai penitenzieri maggiori che usavano assestar loro delle solenni bacchettate dette Sicutennosse  parola  interessante e presente sebbene con piccole varianti, ma analogo significato,  nelle lingue regionali calabre: zicutnose, zichitinos;  sicutenosse fu il nome dato al  colpo assestato con una verga sulla testa o sulle spalle; etimologicamente la parola è una chiara, scherzosa deformazione del latino: sicut nos (come noi) che si incontra nella parte finale della preghiera pater noster; un tempo nelle cattedrali o nelle basiliche cattoliche esistevano i c.d. penitenzieri maggiori, sorta di prelati abilitati,nell’amministrare il sacramento della confessione,ad assolvere anche i piú gravi peccati, tali penitenzieri maggiori  inalberavano sul lato destro del loro confessionale, dove sedevano ad ascoltare le confessioni dei penitenti, una lunga canna con la quale solevano colpire sulla testa o le spalle i penitenti a mo’ di suggello dell’avvenuta assoluzione.Poiché il piú delle volte i penitenzieri maggiori  nel congedare i penitenti, facevan recitar loro il pater noster assestavano il previsto colpo di canna sul finire della recita della preghiera, proprio in coincidenza delle parole sicut nos e da ciò il colpo  trasse il nome di sicutennosse;

 

- baciapile  che è chi ostentatamente usi baciare , a mo’ di devozione ipocrita le acquasantiere presenti all’ingresso delle chiese; va da sé che l’etimo è una  composizione  di baciare( che è dal  lat. basiare, deriv. di basium 'bacio' e il pl. di pila(= grande vasca di marmo usata nelle chiese cattoliche per contenere l’cquasanta o acqua benedetta  dal lat. pila(m) 'mortaio', della stessa radice di pinsere 'pestare) per l'uso di baciare le pile dell'acquasanta;

- collotorto  che è chi per mera ostentazione, reclini, quando prega, il capo in atto di falsa pietà; etimologicamente è composizione di collo (dal lat. collum) + l’agg.vo torto = piegato (dal part. pass. del lat. volg. *torquĕre, per il class. torquēre/torquíre;

- pinzochero  che precisamente nel secolo XIV, fu un  appartenente ad un gruppo di terziari francescani che praticavano il voto di povertà,  ma non quello di obbedienza alla gerarchia; etimologicamente la voce a margine risulta la stessa di pizzocchero che è un ampliamento di pizzòco  a sua volta da bizzo=bigio colore del saio indossato da quei terziari di cui sopra.

 

  

Satis est.

Raffaele Bracale

 

 

 

 

   

 

  

 

 

 

 

 

  

 

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