PRÈVETE ED ESPRESSIONI COLLEGATE
Qui di sèguito prendendo le mosse dal s.vo
prèvete illustrerò
alcune icastiche espressioni, nonché proverbi e/o wellerismi che lo
chiamano in causa.
Cominciamo con il dire che
prèvete è un s.vo
m.le che vale prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al
culto, che abbia ricevuto il sacramento
dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete da cui poi per sincope della sillaba centrale ve
si è probabilmente formato il toscano prete
è dal tardo latino presbyteru(m),
che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prèvete
partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e.
Tanto premesso cominciamo
con l’elencazione delle espressioni, proverbi o wellerismi:
1.FATTE BENEDICERE ‘A ‘NU MONACO (ma oggi ) PRÈVETE RICCHIONE
Letteralmente: Fatti benedire da un monaco (ma oggi)
prete omosessuale attivo. Id est: Chiedi la benedizione (che risolva i
tuoi problemi) a qualcuno che ti possa adiuvare: nella fattispecie chiedila ad
un monaco (o prete) omosessuale.
Chiariamo
la portata dell’espressione: In primis è
da rammentare che il detto/consiglio
originariamente parlava di un monaco ricchione; il
prete è un' estensione piú moderna nata probabilmente o a rimbrotto in un qualche
monastero/convento maschile, o piú
probabilmente allorché i monaci dismisero i conventi della città bassa dove era
nata l’espressione.
Ma
tentiamo di chiarire il perché
dell’espressione; atteso che nella vita
ci sono casi tanto disperati che
necessitano di interventi adeguati per essere avviati a soluzione, chi se non un monaco (o un prete) ricchione, (che cioè sono tra coloro
che abbiano tutto provato nella vita ed affrontato situazioni
particolari) può/possono essere chiamato/i in causa per operare efficaci
benedizioni che sortiscano i benefici effetti desiderati?
Prima
di soffermarci un po’ su gli elementi squisitamente linguistici, ripeto e preciso
che l’espressione in origine recitava fatte benedicere ‘a ‘nu monaco ricchione e
solo successivamente al termine MONACO fu sostituito quello di PRÈVETE. La
faccenda si spiega, come anticipai, con
il fatto che l’espressione nacque nella zona bassa della città dove il popolo
aveva gran dimestichezza piú che con i preti secolari, con i monaci di sant’Anna quelli che avevano
il loro convento in piazza San Francesco nell’edificio che un tempo era stato
appunto il convento dei monaci di
sant’Anna ed in sèguito e fino a poco tempo fa ospitò gli uffici della Pretura di Napoli ed è piú che
probabile che a tali monaci si rivolgesse il popolo per aver consiglio o
chiedere soccorso imbattendosi (è ipotizzabile) in qualche monaco omosessuale,
ma piú capace d’altri suoi confratelli di prestare consigli o aiuti di pratica
efficacia.Quando poi i monaci abbandonarono il convento e si trasferirono
altrove il popolo prese a confidarsi con il clero secolare e l’espressione fu
adeguata alla nuova evenienza divenendo fatte
benedicere ‘a ‘nu prèvete ricchione!
Rammento
infine che la benedizione ottenuta da un monaco o prete ricchione è ritenuta
altresí, nell’inteso comune popolare ottima arma di difesa contro i proditori
assalti di menagramo, iettatori, uocchie sicche o cestarielle che siano.
Benedicere = benedire 1 (teol.)
pronunciare una benedizione: il Signore benedisse Abramo
2 invocare la protezione di Dio su persone o cose: il padre benedisse
il figlio; il sacerdote benedice i fedeli; benedire l'olivo |
andare, mandare a farsi benedire, (fig.) andare, mandare
via; anche, andare, mandare in malora
3 lodare, esaltare, ricordare con amore e gratitudine: lo benedico
per il bene che mi à fatto
4 da parte di Dio, aiutare, custodire, elargire grazie: benedetto da
Dio | che Dio ti benedica, formula di benedizione; nell'uso fam.,
esclamazione di meraviglia ironica o
lieve rimprovero: che Dio ti benedica, ài mangiato tutto tu!. L’etimo di
verbi sia italiano che napoletano (il
napoletano anzi ripete piú esattamente la forma latina) è dal lat. benedicere,
comp. di bene e dicere; propr. 'dir bene'
monaco s.vo m.le è ovviamente
il monaco cioè a dire chi à abbracciato il monachesimo;
nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato
i voti solenni di povertà, castità ed obbedienza; etimologicamente è voce dal
lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi
'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; a
Napoli il monaco è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita
interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto a
conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo
tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e
proprio ai monaci dei numerosi conventi presenti nell’area cittadina e
limitrofa il popolo napoletano fu aduso rivolgersi per chiedere aiuto,
consiglio e/o soluzione di problemi. Per restare nell’àmbito della parola
monaco rammento che il medesimo etimo
d’esso monaco, sia pure addizionato di
un suffisso diminutivo iello vale per la voce munaciello che nella tradizione popolare partenopea è
(quantunque non si tratti di un autentico religioso) un particolare piccolo
monaco;
‘o
munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici;
ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno
spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è
rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d.
bambino vecchio, ed assume due
personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora, se à in simpatia gli abitanti della casa,che
lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o
munaciello è molto goloso!) egli
arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in odio una famiglia, che non lo abbia accolto
con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son le testimonianze che riguardano l’apparizione
di questa simpatica entità che
non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso
sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci
pasti, odorosi incensi) da tributare a questo spiritello che si mostra sotto forma
di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe
basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da
chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però se donne in ispecie giovani e procaci) ,
magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di
calpestio Scalzo, scheletrico, spesso
lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse
ripagare le persone, dello spavento
procurato o di inconfessabili confidenze
palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua
origine:
La
prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante
il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di
stoffe, si innamora di un tal Stefano
Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice
garzone di bottega.
Naturalmente
l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la
storia finisse in tragedia. Stefano
venne assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si
rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti
dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo
talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del
convento adottarono motu proprio il
bambino cucendogli loro stesse vestiti
simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il
ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu
munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla
leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí
misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito.
La
seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non sia che il gestore degli antichi pozzi
d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando
non addirittura nel primo vano delle case, di tal che aveva facile accesso nelle case passando
attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo.
Personalmente
sono maggiormente attratto dalla vicenda
di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché
niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne
il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente
spesso Napoli, imprendibile dalle mura,
fu invasa attraverso le condutture idriche.
Prèvete s.m.
prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto, che abbia ricevuto il sacramento
dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete da cui poi per
sincope della sillaba mediana ve si
è probabilmente formato il toscano prete
è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú
anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m) è la seguente:
presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
Come per il
precedente monaco, anche il prete è una figura emblematica, soggetto
molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere
inteso come soggetto molto preparato, a
conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo
tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e
segnatamente al prete titolare di una parrocchia (parrucchiano) i fedeli furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto,
consiglio e/o soluzione di problemi.
recchione o ricchione, s. m. omosessuale
maschile, pederasta,gay; vocabolo che,
partito dal lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa di taluna letteratura minore ed altre forme
artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati
lessici della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico
significato di omosessuale
maschile.
Molto piú
precisamente della lingua nazionale, però, il napoletano con i vocaboli a
margine non definisce il generico omosessuale maschile, ma definisce l’omosessuale maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è
etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento
espressivo della postonica m tipico in parole sdrucciole piú il
consueto suffisso diminutivo ella.
Torniamo al recchione/ ricchione precisando
súbito che nel napoletano tale omosessuale
maschile non va confuso (come invece accade nell’italiano)con il pederasta
il quale, come dal suo etimo greco: pais-paidos=fanciullo
ed erastós=amante, è chi intrattiene
rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la parlata napoletana non à un
termine specifico per indicare il pederasta e ciò probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine
partenopea, quantuque Napoli sia stata città di origine e cultura greca
;dicevo: ben diverso il pederasta dal recchione / ricchione che infatti
à i suoi viziosi rapporti sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari
risma.
Ed accostiamoci adesso al problema etimologico del termine recchione
– ricchione; sgombrando súbito il campo dall’idea che esso termine possa derivare dall’affezione
parotidea nota comunemente con il termine orecchioni,
affezione che attaccando le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.
Una prima e principale scuola di pensiero, alla quale, del
resto mi sento di aderire fa risalire i termini in epigrafe al periodo
viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón con il quale i
marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti nei viaggi
nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi attaccati grossi
e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano indicati anche dei
nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro costumi viziosi e
lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera ridondante ed
eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni auricolari,donde
la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata
ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.
Da non dimenticare che detti usi di incaici e peruviani
furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a Napoli, provenienti
dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti orecchini(cosa che i napoletani
non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili da donna e non da uomo..) e
parecchi di questi marinai furono súbito indicati con i termini in epigrafe
oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati anche per il modo di
proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai napoletani si ritenne che
il loro comportamento sessualecambiato,
fosse stato determinato dalla lunga permanenza in mare, per i viaggi
transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver rapporti con donne e
doversi contentare di averne con altri uomini.
Successivamente
i termini recchione / ricchione palesi adattamenti dello orejón
spagnolo passarono ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli
omosessuali attivi, conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli
passivi.Rammento che il femminiello, nel gergo della parlesia
malavitosa, fu détto anche fegàto/fecàto (chiara corruzione per
semplificazione di fregato =
posseduto carnalmente).
E mi pare che ce ne sia abbastanza, anche se – per amore di
completezza – segnalo qui una nuova ipotesi etimologica proposta dall’amico
prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione una culla greca:
orkhi-(pédes)=
chi à la strozzatura dei testicoli,impotente, con aferesi
iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento
popolare espressivo e suffisso
qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso Jandolo non
esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente
la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.
A malgrado dei sentimenti amicali che nutro per Jandolo, non
trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio avviso, convincente
via vecchia per percorrere la
impervia nuova.
In coda a tutto quanto détto rammento che nel linguaggio
corrente nazionale per indicare l’
omosessuale maschile è usato, a preferenza, il termine gay voce del lessico
inglese dove quale aggettivo essa vale propriamente «gaio, allegro » e verrebbe fatto di chiedersi cosa mai
abbia da essere gaio/ allegro un omosessuale maschile, un ricchione. L’anglomania
che pervade il lessico nazionale è veramente riprovevole.Quanto sarebbe
opportuno che in luogo di gay l’italiano
recepisse il tanto piú icastico e
semanticamente corretto recchione/ricchione
e lo facesse nella sua autentica
accezione di omosessuale maschile attivo e non di omosessuale maschile passivo cosí come attualmente, ma
erroneamente riporta il Dizionario Treccani!
2.SI SÎ TU ‘O SI’ PRÈVETE CA CE A BENEDITTO QUANNO DICETTEMO ‘E SÍ,
PECCHE MO TE LL’ANNIEJE?
Letteramente Se sei tu il signor prete che ci à benedetti
quando dicemmo di sí (quando sposammo) perché ora lo neghi?
Questa frasetta non à
alcun recondito significato traslato e/o nascosto e la riporto solo per illustrare alcuni vocaboli
partenopei tra i quali ben quattro differenti
SI che avendo ognuno
un ben preciso, differente
significato necessitano di quattro diverse scritture che indichino
d’acchito e precisamente la diversa
funzione grammaticale dei quattro omofoni si. Cominciamo:
il primo Si
scritto senza alcun segno diacritico (accento o apostrofo) corrisponde
all’italiano se nei significati e funzioni che seguono:
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jirce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al piú: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te; 2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma! (se vincessi alla lotteria!Se potessi tornarmene a casa mia! Se l’avessi saputo prima!) 3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto? (se ne sei proprio sicuro, ti credo.Se lo sapeva, perché non gliel’à detto?) 4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno (se pure si pentisse, ormai è troppo tardi; se anche à sbagliato, non per questo lo condanno.)
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è! (agisci come se non te ne importasse niente; mi guardava come se non avesse capito; come se non si sapesse chi è!) 6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato (mi chiedo se è una buona idea; non sapeva se avrebbe o avesse finito per tempo; non so che cosa fare, se partire o restare; si chiedeva se non se fósse per caso sbagliato) | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione SI
napoletana non viene mai usata
come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se
dell’italiano.
Andiamo oltre :
si’ è l’apocope di
si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo finale; viene usato per solito davanti ad un
sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prèvete=
il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma
signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul
latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che
càpita spesso che sulla bocca
del popolino, meno conscio o
attento del/al proprio idioma, (la qual
cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta
della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei
accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana
la voce a margine è resa con la
trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è
l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto zi’ (zio) apocope appunto di zio che
è dal lat. thiu(m).
Proseguiamo dicendo che
Sî corrispondente all’italiano sei voce verbale (2ª p.sg.
indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse; la forma sî [derivata etimologicamente quale crasi di una forma sies→sie(s)→sie→sî della seconda persona del cong. presente del
verbo esse, attestata almeno fino
alla fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero accanto alla normale forma
sis] esige un segno diacritico (accento circonflesso) per distinguere la voce verbale a margine,
come abbiamo visto, da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui
parlerò successivamente;
Sí avverbio affermativo derivato dal lat. sic 'cosí', forma abbr.
della loc. sic est 'cosí è'
1 si usa nelle risposte come equivalente di un'intera frase
affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Hê capito?"
"Sí"; "Venarranno pure lloro?" "Sí"; anche,
"Sí, sí", "Sí certo",
"Sí overamente!", "Ma sí!" | facette segno ‘e sí,
annuire ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente '
paré, sperà, credere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' si è ssí, in caso affermativo: si è ssí, te
telefono/' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2 spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; ‘nu juorno íí e uno no, a giorni
alterni ' sí e no, a malapena, quasi '
te muove sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú sí ca no, probabilmente sí
3 con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ch’ è bbella!;
chesta sí che è ‘na nuvità!
come s.vo
1 risposta affermativa, positiva: m’ aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu bbelul sí; ‘e spuse ànno ggià ditto sí; stare tra ‘o sí e ‘o no, essere incerto; 2 pl. voti favorevoli: se so’ avuti tre ssí e quattro no || Usato come agg. invar. (fam.) positivo, favorevole: ‘na jurnata sí.
come s.vo
1 risposta affermativa, positiva: m’ aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu bbelul sí; ‘e spuse ànno ggià ditto sí; stare tra ‘o sí e ‘o no, essere incerto; 2 pl. voti favorevoli: se so’ avuti tre ssí e quattro no || Usato come agg. invar. (fam.) positivo, favorevole: ‘na jurnata sí.
3.'E SÀBBATO, 'E SÚBBETO E
SENZA PRÈVETE!
Di sabato, di colpo e senza prete! È il malevolo augurio che si lancia
all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa
che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter
porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso.
4.FÀ
‘A FATICA D’’E PRIEVETE.
Ad litteram: fare il
lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non
impegnativa quale, ingiustamente, si
riteneva ed ancóra si ritiene che fósse e
sia quella svolta dai
sacerdoti al segno che, altrove si dice
che si ‘a fatica fosse bbona ‘a faccesro
‘e prievete (se il lavoro fosse una cosa buona, lo farebbero i preti).
Fatica s. f. sinonimo di lavoro, impegno quantunque di per
sé il termine fatica connoti il semplice lavoro, ma uno sforzo fisico o intellettuale che genera
stanchezza, quella che nasce da
un'attività fisica o psichica troppo intensa o prolungata; l’etimo è dal lat. volg. *fatiga(m), deriv. di fatigare
'prostrare, stancare';
prievete s. m. plurale
metafonetico di prèvete: prete,presbitero,
sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,
che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il
napoletano prèvete da cui poi per sincope della sillaba implicata
ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo
latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e.
5.CHI TÈNE CUMMEDITÀ E NUN
SE NE SERVE, NUN TROVA 'O PRÈVETE CA LL'ASSOLVE.
Letteralmente: Chi à comodità e non se ne serve, non trova un prete che
l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve
servirsene, in caso contrario commetterebbe non solo una sciocchezza
autolesiva, ma pure un peccato cosí grave per la cui assoluzione non sarebbe
bastevole un semplice prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere
maggiore.
6. SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA
STUORTO... - ACCUSSÍ À DDA JÍ!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare
tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli
significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sghimbescio, e si
sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto
copricapo.Questa la storiella che stava a monte dell’episodio: un non meglio
identificato prete napoletano venne
trasferito dal suo Vescovo in un paesino della provincia, paese dove imperava
una consorteria di malavitosi camorristi che a mo’ di riconoscimento solevano
portare alla sgherra (di traverso) il cappello
o la coppola. Giunto nel paese fu consigliato al sacerdote di portar di
sghimbescio anche il suo vasto cappello, affinché fósse considerato uomo da
rispettare; il prete seguí il consiglio e fu rispettato dagli adulti, ma non
dai manelli che lo insolentivano con l’espressione in epigrafe, cui il prete
fece seguire l’adeguata risposta. La locuzione viene usata quando si voglia fare
intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi
dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di
giudizio.Rammento che nel parlato comune dei meno consci o attenti della/alla
parlata napoletana, l’espressione viene riportata erroneamente come: Zi' pre' 'o cappiello va
stuorto... - Accussí à dda jí! con un’evidente colpevole confusione tra il si’ e zi’
che comporta la trasformazione del corretto si’
(che è di per sé l’apocope di si- gnore ) con lo scorretto zi’ (che è l’apocope di
uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un
greco tehîos ) per cui si ottiene lo
scorretto zi’ prèvete in luogo del
corretto si’ prèvete dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal
francese seigneur forgiato sul latino
seniore(m) comparativo di
senex=vecchio,anziano mentre alibi per indicare la voce signora si usa un sié che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata
e metatetica di seigneur → sie-gneuse.
Rammenterò a margine di tutto ciò
un’altra tipica espressione partenopea che è ‘o si’ nisciuno usata per
dileggio nei confronti di chi sia uomo di nessuna valenza teorica e/opratica; a
tale insignificante individuo s’usa dire: sî
‘o si’ nisciuno(sei il signor nessuno, non vali o conti nulla!);
l’espressione ‘o si’ nisciuno, spessissimo scorrettamente suole rendersi con‘o
zi’ nisciuno incorrendo maldestramente nell’equivoco di cui ò già
detto; in tale equivoco incorse inopinatamente anche il famosissimo scrittore
partenopeo don Peppino Marotta (Napoli,
5 aprile
1902 -† Napoli, 10 ottobre
1963), che tradusse in un suo scritto l’espressione‘o
si’ nisciuno con un inconferente lo zio Nessuno invece dell’atteso il
signor Nessuno… Ma Marotta fu cosí grande scrittore e napoletano da
pietra di paragone, che gli perdono e gli dobbiamo perdonare tutto! - 7.DICETTE ‘O SI’ PRÈVETE Â SIÉ BADESSA: SENZA DENARE NUN SE CANTANO MESSE!
Ad litteram: Il signor prete
disse alla signora abadessa: Senza denari, non si celebrano messe cantate!
Antico icastico proverbio
partenopeo, il cui assunto indica che nella vita nulla viene fatto
gratuitamente, ma ogni cosa – persino lo piú sacra – à un suo prezzo, dal quale
non si può prescindere se si vogliono ottenere i risultati pratici agognati.
Infatti se persino i sacerdoti pretedono un corrispettivo per la celebrazione
di una S.Messa , sia pure cantata, quanto e piú potrà fare chiunque altro cui
si chieda di prestare la propria opera!
È inutile attendersi gratuità!
nota :
Comincio col dire che spesso
sulla bocca del popolino, meno
conscio o attento della/alla propria lingua,ma – inopinatamente
– pure sulle labbra di taluni sedicenti studiosi della lingua napoletana il proverbio in epigrafe è reso con la
trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di signore
) con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente
derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottenengono gli
scorretti zi’ prèvete e zi’ badessa in luogo dei corretti si’ prèvete
e sié badessa dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore
(che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m)
comparativo di senex=vecchio,anziano mentre
il sié è l’apocope di signora,apocope ricavata sulla voce francese femminilizzata e metatetica di
seigneur→ sie-gneuse.
E passiamo ad analizzare qualche
singola parola sorvolando su prèvete di cui reiteratamente ò détto;
- badessa
e cioè: superiora in un
monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità;
etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per
(a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m)
che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
- Messe
propiamente il plurale di messa che è – come noto - nella religione cattolica, il
sacrificio del corpo e del sangue di Gesú Cristo che, sotto le specie del pane
e del vino, è offerto dal sacerdote a Dio sull'altare, per rinnovare il
sacrificio della croce; etimologicamente la parola napoletana messa tal
quale la identica toscana, è il participio passato femminile del verbo latino mittere
e cioè missa= inviata, mandata; per comprendere appieno il perché di
questo nome dato alla celebrazione liturgica bisogna risalire al 1°,2° sec.
quando i primi cristiani, per celebrare il loro rito della eucaristia
(etimologicamente da un tardo latino eucharistia(m),
dal gr. eucharistía, comp. di êu bene e un derivato di cháris
-itos : grazia; propr. riconoscenza, gratitudine) si
riunivano nelle catacombe (etimologicamente da un tardo latino catacumba(m),
comp. del gr. katá: giú, sotto
e il lat. cumba :cavità); al termine della celebrazione
liturgica, il presbitero che aveva consacrato l’eucaristia ne affidava alcune particole = piccole parti
ai diaconi che erano i suoi assistenti, affinché essi le recassero a tutti i fedeli che, per varî
motivi assenti, non avevano partecipato al rito; fatto ciò, congedava gli altri fedeli
annunciando loro: Ite, missa est! id est: Andate via, l’ò mandata! Quel missa
finale finí per dare il nome alla celebrazione liturgica relativa. A margine e completamento delle
locuzioni incentrate sulla figura del prèvete, parlo di alcune figure che
strictu sensu non rietrano fra quelle dei consacrati,ma dal popolino spesso per
ignoranza o dileggio vi vengono accomunate
8.MIEZU PRÈVETE – BIZZUOCO E PECUOZZO
Entro súbito in argomento dicendo che le voci miezu-prèvete (mezzo prete) e la voce bizzuoco
sono, nell’inteso comune, dei
sinonimi e negli anni intorno al 1950 furono usati per dileggio con riferimento
a tutti quegli uomini adulti che avessero frequentazioni piú o meno abituali e
continue con la propria parrocchia o altre familiarità chiesastiche, per patecipare ad attività
religiose, il piú delle volte
risultando iscritti ad associazioni cattoliche come in primis, l’
A.C.I.( Azione Cattolica Italiana la
più antica, ampia e diffusa tra le associazioni
cattoliche laicali d'Italia,
associazione le cui origini possono essere fatte risalire al 1867, quando due giovani
universitari, Mario Fani, viterbese, e Giovanni Acquaderni, bolognese, fondano la Società
della Gioventù Cattolica. Il motto dell’ A.C.I.: "Preghiera, Azione, Sacrificio"
sintetizza la fedeltà a quattro principi fondamentali:la devozione al Papa (sentire cum
Ecclesia),un forte progetto educativo (studio della religione),la
vita secondo i principi del cristianesimo,un diffuso impegno alla carità
verso i piú deboli e i piú poveri) oppure ad altre associazioni di ispirazioni
cattoliche: Terziari francescani, F.U.CI.(Federazione Universitaria Cattolica
Italiana che nacque nel 1896, sull'onda di una nuova enfasi alla
partecipazione sociale dei cattolici alla società civile
ed alla politica, che culminerà con la fine del "non expedit" di lí a pochi
anni),Coadiutori salesiani ed altre, o
risultando assidui frequentari oltre che
della santa messa domenicale anche di altre funzioni religiose quali benedizioni eucaristiche, processioni,
mesi mariani (sermoni e preghiere quotidiane dedicate al culto della santa
Vergine Maria,durante il mese di maggio) o del Sacro Cuore(sermoni e preghiere
quotidiane dedicate al culto del sacro
Cuore di Gesú,durante il mese di giugno), Ritiri di perseveranza (corsi
predicati tenuti da gesuiti, corsi in genere serali e quotidiani di preghiera e
meditazione tenuti nel mese antecedente la celebrazione dell festa della santa
Pasqua di Resurrezione)etc. Ogni uomo adulto che avesse tali frequentazioni fu
battezzato dal popolino con l’appellativo di miezo-prèvete =mezzo prete atteso che, per il popolo ignorante,
solo un sacerdote avrebbe potuto sentire il bisogno di avere quelle frequentazioni quotidiane o
ricorrenti con la materia religiosa; posto invece che quegli adulti che le
avevano non erano sacerdoti, ma semplici laici, ecco che furono per dileggio détti mieze-prievete =mezzi preti, quasi preti. Tale appellativo fu –
ovviamente – solo maschile; successivamente accanto all’appellativo or ora
ricordato ogni uomo adulto che
avesse frequentazioni chiesastiche fu
battezzato anche con il termine bizzuoco che
originariamente nella morfologia di bizzoca
era destinato esclusivamente alle donne.Rammento altresí che alla fine
degli anni ‘960 invalse l’uso d’usare,
sia pure impropriamente, altresí il termine pecuozzo
per indicare ogni uomo adulto che
avesse quotidiane o ricorrenti frequentazioni chiesastiche.
Esaminiamo un po’ le singole voci incontrate:
parrocchia s. f. (dal lat. tardo parochia(m), dal gr. paroikía,
propr. 'vicinato', deriv. di paroikêin 'abitare presso')
1 nella chiesa cattolica e in
altre chiese cristiane, la piú piccola circoscrizione territoriale in cui è
divisa una diocesi | la chiesa in cui il parroco esercita il suo ministero;
anche, la sede dell'ufficio parrocchiale o l'edificio in cui si svolgono alcune
attività parrocchiali; la parrocchia è una determinata comunità di fedeli che
viene costituita stabilmente nell'ambito di una Chiesa particolare, e la cui
cura pastorale è affidata, sotto l'autorità del Vescovo diocesano, ad un
parroco quale suo proprio pastore; spetta unicamente al Vescovo diocesano
erigere, sopprimere o modificare le parrocchie; egli non le eriga, non le
sopprima e non le modifichi in modo rilevante senza aver sentito il consiglio
presbiterale.
2 l'insieme di tutti i parrocchiani cioè dei fedeli frequentanti la parrocchia affidati alle cure pastorali del parroco; l’ò precisato perché in napoletano esiste l’omofona ed omografa voce parrocchiano/parrucchiano che non indica però il fedele frequentante la parrocchia, ma indica il parroco con la medesima derivazione della voce parrocchia(dal lat. tardo parochia(m)) con l’aggiunta del suffisso di pertinenza aneus→ano); ricordo ancóra che ebbi con un tal sig. Gambardella frequentatore di un mio blog una divertente diatriba e durai non poca fatica per fargli comprendere ed accettare l’idea che le voci pacchiano e parrucchiano son solo graziosamente assonanti, ma ànno significati affatto diversi : ò détto di parrucchiano= parroco; mentre la voce pacchiano/a parola (sost. ed agg.vo m. o f.) oramai pressoché desueta , che fu molto usata negli anni tra il ’40 ed il ’50 dello scorso secolo e fu usata per indicare i contadini, i provinciali ed estensivamente gli zoticoni ed i rozzi provinciali provenienti dai paesi (nei quali per altro si rifugiarono parecchi napoletani per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale) della campagna partenopea (da non confondere dunque con i cafoni per solito provinciali di montagna). Ancora piú estensivamente con il termine pacchiano si identificò il villano, il rozzo provinciale fisicamente ben pasciuto, e con il corrispettivo pacchiana la contadinotta di generose forme, quella contadina, detta affettuosamente ‘a pacchianella ‘e ll’ova, che ogni giorno era solita rifornire le case dei cittadini sfollati id est:fuggiti dalla città, di generi alimentari freschi (uova, formaggi,insaccati, latte, burro nonché verdure ed altri prodotti dell’orto). Chiarito ad un dipresso il concetto di pacchiano/a, passiamo a parlare brevemente della sua etimologia.
Sgombriamo súbito il campo da quella che – a mio avviso – è solo una graziosa, ma pretestuosa paretimologia e cioè che con la parola pacchiana e poi il corrispondente maschile si indicasse, contrariamente al cafone che è montanaro, la contadina, la villana e poi il contadino, il villano che giungessero in città p’’a chiana attraverso cioè la pianeggiante campagna. È altresí da escludere una pretesa derivazione onomatopeica da un ipotizzato, ma non spiegato suono pacchio.
Cosa mai produrrebbe nel pacchiano il suddetto suono? Non è dato sapere!...
Un’altra tentazione è che il termine pacchiano/a possa collegarsi al sostantivo italiano pacchia =gran mangiata e per estensione: vita beata e tranquilla, gioiosa ed allegra (dal latino: patulum→pat’lum→pac’lum→pacchio e pacchia = cibo,pasto),oppure che il termine pacchiano/a possa essere un deverbale di pacchiare: vivere beatamente, satollandosi di cibo e/o altro, senza quasi fatica; a me non pare però che, per quanto ben nutriti e satolli, i contadini durino una vita che sia solo una pacchia; ugualmente penso sia da scartare l’ipotesi che pacchiano/a possan derivare da un tardo latino regionale pachylus→pachilós derivato da un pachýs greco ="grassoccio".
Non resta dunque che aderire, per l’etimologia di pacchiano, a quanto proposto dal grandissimo prof. Rohlfs che ne congettura una derivazione per metatesi dal sostantivo chiappa (forgiato su di una radice indoeuropea klapp con l’aggiunta del suffisso di pertinenza aneus→ano) nel significato però non di sasso sporgente, ma di natica, elemento sporgente del corpo umano, tenendo presente la morfologia fisica del pacchiano o piú spesso della pacchiana, dotati quasi sempre di sostanziose natiche sporgenti.
3 (fig.) gruppo di persone legate da comuni interessi; conventicola (per lo più spreg.): appartenere alla stessa parrocchia, a parrocchie diverse.
miezo-prèvete o anche miezoprèvete s.vo ed agg.vo ma.le e solo
m.le è voce usata esclusivamente
per dileggio, sta per mezzo prete, quasi
prete; etimologicamente è formata dalla unione di miezo = mezzo, metà a.vo (dal lat. mĕdiu(m)→miezo) e del s.vo prèvete s.m. prete,presbitero, sacerdote, uomo
consacrato, addetto al culto, che abbia
ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo
latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prèvete partendo da presbyteru(m) è la seguente:
presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
Come qui di sèguito per il monaco, anche il prete è una figura emblematica,
soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino,
per essere inteso come soggetto molto preparato, a conoscenza dei casi della vita, soggetto
dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie
occorrenze i migliori e piú adatti consigli e segnatamente al prete titolare di
una parrocchia (parrucchiano) i fedeli
furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione dei
problemi personali o familiari.
Andiamo oltre e parliamo di:
bizzuoco/bizzoca s.vi ed agg.vi che valgono bigotto/a,bacchettone/a, baciapile, collotorto, pinzochero/a, e designano tutte all’incirca una persona che badi alle pratiche esterne della
religione piú che allo spirito di essa, ed estensivamente quindi anche persona ipocrita attenta piú all’apparire che all’essere; in principio fu
in uso la sola voce declinata al femminile atteso che furono in maggior numero
le donne piuttosto che gli uomini coloro che avessero quotidiane frequentazioni
chiesastiche; successivamente (attorno alla fine del 1800) con la nascita di
associazioni a frequentazione anche maschili, accanto al termine di nuovo
conio: miezoprèvete, fu adottato, a
maggior motteggio, il termine bizzuoco che al femminile è bizzoca
= beghina; quanto all’etimologia di bizzuoco/bizzoca accanto ad un basso lat. *bigiòcius= dal saio bigio, ben si è supposto un *bicòtiu(m) donde un *picotiu(m) base anche del successivo nap. picuozzo da cui per metatesi
ed alternanza p/b→ bizzuoco/bizzoca.
A proposito di questo bizzuoco rammento una curiosità e cioè che essa voce
venne usata dalla mia nonna simpatica, ma semianalfabeta, per indicare quale
aggettivo del pane, il pan tostato che per lei era ‘o ppane
bizzuoco. Ovviamente non c’entrava nulla il bizzuoco di cui ò fin qui détto, ma
si trattava di una involontaria, patente
seppure impropria corruzione spagnoleggiante del termine iberico bizcocho=
biscotto. Fui un ragazzo beneducato, costumato e rispettoso e mai mi sarei permesso
di far notare alla nonna un suo errore. Forse da adulto mi sarei azzardato a
consigliarle d’usare per indicare il pan tostato piú che quell’improprio bizzuoco la voce in uso nel salernitano mascuotto
s.vo neutro formato dal part.
pass. cuotto (dal lat. coctu(m) p.p.
di coquere) agglutinato in posizione protetica dell’avverbio iberico mas = di piú; ma la nonna non c’è piú da
tanti anni...
L’ ultima voce usata
per dileggiare, motteggiare, irridere al massimo gli uomini adulti che
avessero quotidiane frequentazioni chiesastico-parrocchiali, fu
pecuozzo s.vo ed agg.vo m.le e solo m.le che di
per sé à un ambito piú ristretto ed
identifica in primis il frate
converso, il frate laico di convento e solo estensivamente tutte le voci
quali bigotto,bacchettone, baciapile,
collotorto, pinzochero, e tutti coloro che – come i surriportati uomini
adulti - avessero quotidiane frequentazioni chiesastico-parrocchiali; l’etimo
della voce è un tardo latino *bicòtiu(m) donde un *picotiu(m)→ picuozzo/pecuozzo.
E qui potrei far punto, ma mi pare giusto dire anche di - bigotto che è chi fa le viste di stare in perenne
continuo contatto con la Deità ,
assorto in continue orazioni e/o pratiche religiose, la voce deriva dal fr. bigot,
originariamente epiteto spregiativo dato
ai Normanni per il loro intercalare bî God, che nell'ant. alto ted.valse per Dio;
- beghina s. f.
1 (storicamente) donna appartenente a comunità ispirate a ideali
evangelici e caritativi, sorte spec. in Belgio nel sec. XII
2 (per estensione) donna bigotta, bacchettona.
Etimologicamente la voce a margine è dal fr. beguine, che è probabilmente
un adattamento del medio ingl. beggen
'pregare';
- bacchettone che è chi si dedica a pratiche religiose con
zelo esagerato e superstizioso; la voce è probabilmente un accrescitivo (cfr.
suff. one) deriv. di bacchetta,
con riferimento alla pratica medievale
dell'autoflagellazione;oppure con riferimento a coloro che ben volentieri ed
ostentatamente si recavano nelle basiliche dai penitenzieri maggiori che usavano
assestar loro delle solenni bacchettate dette Sicutennosse parola interessante e presente sebbene con piccole
varianti, ma analogo significato, nelle
lingue regionali calabre: zicutnose,
zichitinos; sicutenosse fu il nome dato al colpo assestato con una verga sulla testa o
sulle spalle; etimologicamente la parola è una chiara, scherzosa deformazione
del latino: sicut nos (come noi) che si incontra nella parte
finale della preghiera pater noster;
un tempo nelle cattedrali o nelle basiliche cattoliche esistevano i c.d. penitenzieri maggiori, sorta di prelati
abilitati,nell’amministrare il sacramento della confessione,ad assolvere anche
i piú gravi peccati, tali penitenzieri
maggiori inalberavano sul lato
destro del loro confessionale, dove sedevano ad ascoltare le confessioni dei
penitenti, una lunga canna con la quale solevano colpire sulla testa o le
spalle i penitenti a mo’ di suggello dell’avvenuta assoluzione.Poiché il piú
delle volte i penitenzieri maggiori nel congedare i penitenti, facevan recitar
loro il pater noster assestavano il
previsto colpo di canna sul finire della recita della preghiera, proprio in
coincidenza delle parole sicut nos e
da ciò il colpo trasse il nome di sicutennosse;
- baciapile che è chi
ostentatamente usi baciare , a mo’ di devozione ipocrita le acquasantiere
presenti all’ingresso delle chiese; va da sé che l’etimo è una composizione
di baciare( che è dal lat. basiare, deriv. di basium
'bacio' e il pl. di pila(=
grande vasca di marmo usata nelle chiese cattoliche per contenere l’cquasanta o
acqua benedetta dal lat. pila(m)
'mortaio', della stessa radice di pinsere 'pestare) per l'uso di baciare le pile
dell'acquasanta;
- collotorto che è chi
per mera ostentazione, reclini, quando prega, il capo in atto di falsa pietà;
etimologicamente è composizione di collo (dal
lat. collum) + l’agg.vo torto = piegato (dal part. pass. del
lat. volg. *torquĕre, per il class. torquēre/torquíre;
- pinzochero che
precisamente nel secolo XIV, fu un
appartenente ad un gruppo di terziari francescani che praticavano il
voto di povertà, ma non quello di
obbedienza alla gerarchia; etimologicamente la voce a margine risulta la stessa
di pizzocchero che è un ampliamento
di pizzòco a sua volta da bizzo=bigio colore del saio indossato da quei terziari di cui
sopra.
Satis est.
Raffaele Bracale
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