VECCHIE VOCI NAPOLETANE
Questa
volta il compitino me lo à assegnato l’amico carissimo il prof. Carlo Iandolo
che mi à inviato un elenco di voci partenopee esortandomi ad illustrarle ed a fornirne, ove
possibile, una eventuale ipotesi etimologica.
Non
mi sottrarrò all’invito, sperando di non dire troppe asinerie.
Ecco
qui di sèguito l’elenco delle voci:
ammagliecà (ammagliechïà),
,
ammallà, arresedià, azzancà, jestariello, cataròzzola, chiuchiaro, cianculià
(cianculïà), cernetura desfazzio, fecozza, felatiello, fesina, fúrgulo, mingria/mincria,
‘mpechera, ‘mperrarse, muniglia.
Forza
e coraggio e diamoci da fare, Rafè!
Ma
devo cominciare con il dire che non si tratterà di una
passeggiata: ad un primo rapido esame a
volo d’uccello m’accorgo che mi troverò
a competere con voci per la maggior parte
desuete e non piú riscontrabili nel linguaggio comune della gente, voci
che ormai son solo nelle opere degli antichi scrittori (Cortese,
Basile, Stigliola ed altri) e non si trovano neppure in tutti i recenti calepini della parlata napoletana, ma solo in
quelli d’antan; solo di due o tre delle voci elencate ò diretta memoria essendo
voci che cinquant’anni or sono – quando fui ragazzo – erano ancóra in uso nel
parlato familiare e/o popolare; tutte le altre le ò conosciute solo per averle
incontrate in talune antiche opere napoletane e mai piú usate o ritrovate nel
linguaggio comune della gente, cioè nel parlato familiare e/o popolare.
Ciò
precisato veniamo al dunque entrando in medias res.
1) ammagliecà (voce desueta)
attestata pure come ammagliechïà (che à coniugazione diversa nella quale
(per fare un esempio) all’ind.
presente in luogo di ammaglieco- ammaglieche- ammaglieca etc che è
l’ind. pres. di ammagliecà, dà ammagliechejo – ammagliechije – ammalgliecheja etc. cosí come impone l’infinito in chïà); è
voce che valse: ruminare,gramolare, masticare lentamente alla meglio e per traslato ed estensione
semantica anche biascicare (come chi nel parlare, non trovando
d’acchito le parole esatte, muova la
bocca nell’atto di rimasticar lentamente e reiteratamente, andandone alla...
ricerca ). Ora atteso che la ruminazione
non è altro che una rimasticazione con l’intento di assottigliare il piú
possibile il cibo, come il gramolare è il far passare lino o canapa in una macchina allo scopo di separare le fibre tessili della
canapa e del lino dalle fibre legnose, insomma di renderle il piú sottili
possibile, il masticare lentamente allo scopo di assottigliare sia pure alla
meglio il cibo è un’operazione che comporta
il far sottostare il cibo ai ripetuti lenti colpi dei denti che assumono quasi la funzione di
piccoli martelli/ magli e perciò per il
verbo a margine reputo si possa
tranquillamente pensare ad un denominale del latino malleus che nella
bassa latinità fu mallius che
poté dare magliecare/magliecà= mangiucchiare
che rafforzato da una protesi
ad diede ad-magliecà→ammagliecà e poi ammagliechïare/ ammagliechïà.
1)
ammallà = ammollire (come càpita, sui
banchetti dei mercatini ortofrutticoli, alla
frutta improvvidamente passata per le mani di avventori scostumati) , ammaccare,
mantrugiare, sgualcire e (con significati però desueti) percuotere,bastonare,
uccidere. anche per questo verbo etimologicamente reputo che si possa far riferimento ad un ad+malleus→
ammallare/ammallà quantunque da qualcuno ci si attenderebbe un ammalliare/ammallià
sempre che il qualcuno non stesse pensando al pregresso mallius.
2)
arresedià (voce abbondantemente
desueta) che un tempo valse rassettare, mettere in ordine; oggi il verbo
è sostituito da arricettà ( da un ad+ receptum)= dar
sistemazione, raccogliere e riporre (arricettà ‘a casa, ‘a stanza=
rassettare la casa, la stanza mentre arricettà ‘e fierre sta per raccogliere i
ferri usati per lavorare, riporli nella borsa dando loro ricetto= pace,ricovero,
calma, tranquillità. Torniamo al verbo a margine: arresedià che
come ò detto valse rassettare, mettere in ordine, sistemare; non
tranquilla la lettura etimologica del verbo; qualcuno si trincera dietro un pilatesco etimo
ignoto o incerto qualche altro (ad es. il fu D’Ascoli) opta per un lat. asseditare
donde l’italiano assettare=
mettere in assetto, ordinare, sistemare
convenientemente e con cura; chi si trincera dietro l’etimo ignoto o
incerto mi dà l’orticara, ma
D’Ascoli non mi convince: se semanticamente asseditare potrebbe
accontentarmi, non lo può morfologicamente: v’è, a mio avviso, troppa differenza tra asseditare ed arresediare. Direi
anzi con il molisano on. Di Pietro: “Nun
ce azzecca niente asseditare con arresediare.
A mio sommesso, ma deciso avviso, anche con riferimento ai concetti di dar sistemazione, raccogliere e
riporre dando ricetto ossia ricovero, calma,
pace, tranquillità espressi dal verbo arricettà che
nel parlato comune à sostituito il verbo a margine conservandone il
significato, quanto all’etimo di arresedià dico che si possa con
somma tranquillità farlo risalire ad un lat. ad + resedare= calmare (composto da un ad + re→arre ( doppia protesi intensiva) + sedare).
3)
azzancà o pure azzangà
anche per questo verbo voce antica attestata nello Stigliola, nel P.P.
Volpe ed altri si deve parlare di voce
abbondantemente desueta che un tempo valse, soprattutto nella forma riflessiva azzancarse/azzangarse,
infangare/rsi, inzaccherare/rsi,
lordare/rsi di fango, camminar nel fango; anche in questo caso occorre dire che è non
tranquilla la lettura etimologica del verbo;
qualcuno si trincera dietro il solito
pilatesco etimo ignoto o incerto (cosa che come ò detto mi dà
l’orticaria; qualche altro piú
coraggiosamente (e sto parlando del fu D’Ascoli) opta, ma non mi pare lo faccia correttamente, per un longobardo zahhar= lacrima nell’idea
semantica che a procurar la lordatura di chi si inzacchera siano gli schizzi
(lacrime) di fango; siamo alle solite! Fatta
salva la gran fantasia del defunto professore, mi pare proprio
impercorribile il passaggio morfologico che porti da zahhar a zanco/go
che à prodotto poi azzancà ←ad + zanco/go. Sommessamente azzardo che
il napoletano zanco/go= fanghiglia che à dato il verbo a margine e che
non à nulla a che spartire con l’omofono, omografo zanco del veneto e
veneto-giuliano e triestino e dove da s(t)anco→zanco vale sinistro –
mancino Penso che la voce napoletana possa esserci pervenuta forse attraverso una
voce araba (ma quale sia, per ora non
so) marcata sul sanscrito panka→zanca= lota, polvere intrisa d’acqua.
4)
jestariello vocabolo ignoto (sia
nella forma a margine che in quella semplificata di iestariello) a tutti i calepini della parlata napoletana,
che ò potuto consultare, da quelli piú antichi: R. D’Ambra, P.P. Volpe,
Andreoli a quelli piú recenti D’Ascoli,
Altamura etc. Penso che con ogni
probabilità debba trattarsi di
voce del passato, abbondantemente
desueta e neppure originaria; la morfologia del termine con quel suffisso
diminutivo di sapore spregiativo: riello mi induce a pensare che debba
trattarsi di una voce coniata ad usum delphini da un qualche antico
scrittore:Basile(?), Cortese(?), Stigliola(?), Sgruttendio (?) etc ricavandola
come diminutivo maschilizzato sulla voce jesta che ò trovato
attestata nel D’AMBRA nel significato di sfilza di fichi secchi, per cui il
jestariello sarebbe o potrebbe essere un sostantivo o aggettivo da riferirsi ad
un uomo piccolo, minuto e rinsecchito tal quale una sfilza di fichi secchi;
quanto all’etimo di jesta che penso abbia suggerito jestariello
reputo che si possa collegarlo al portoghese aresta→(ar)esta→jesta
con la voce arèsta trasformazione neolatina del lat. àrista
5)
catarozzola anche per
questa voce antica attestata nello
Stigliola, nel P.P. Volpe ed in pochi
altri si deve parlare di voce abbondantemente desueta e resistente nel
parlato comune solo nel significato estensivo giocoso di testa, cranio con riferimento
soprattutto a quello sventanto dei/delle ragazzi/e; originariamente il vocabolo
a margine indicò un cantuccio (estremità
del filone) di pane raffermo, un grumolo, la parte piú interna del cavolo
cappuccio, il suo torsolo e solo estensivamente o per traslato il cranio, la
testa quei soli significati che oggi si attagliano (come ò detto) alla voce a
margine. Di non tranquilla lettura l’etimo della parola. Oltre numerosi etimo
ignoto o incerto trovo solo un’ipotesi dell’Altamura, fatta propria – peraltro –
anche dal D’Ascoli, ipotesi che fa
riferimento ad un ebraico chatharoth= cranio. Trovo ben strano che un
significato secondario o traslato abbia potuto produrre una parola i cui significati primi sono altri:(tozzo,
gromolo, torsolo). No, questo ebraico chatharoth non mi convince
affatto. Penso di dover e poter seguire
altra strada.Cominciamo col dire che nei significati primi qui detti(tozzo,
gromolo, torsolo), il napoletano odierno
registra tozzola quantunque segnatamente con riferimento ad un
cantuccio di pane raffermo; questa tozzola un
tempo fu pure catozzola
nella quale è riconoscibile una protesi intensiva ca che per alcuni però può corrispondere alla part. greca kata=sopra
e probabilmente potrebbe indicare
cosa che sta al di sopra, cosa rotonda, sporgente: orbene il napoletano catozzolo/a corrisponde ed è
chiaramente marcato su un catorzolo/a derivato dal lat. torsus p.p. di torqueo
secondo un percorso morfologico che
può essere stato torsus + suff. diminutivo olus/ola + protesi
intensiva ca = catorsolo/a→catorzolo/a→
catozzolo/a da cui con epentesi di una sillaba rafforzativa ar si
giunge a catarozzolo/a nei significati di tozzo, gromolo, torsolo e solo
estensivamente di capo, cranio (cosa rotonda, sporgente che sta al di sopra.
Il tutto con buona pace di Altamura e
D’Ascoli e del loro ebraico chatharoth.
7) cernetura voce desueta,
venuta meno con il venir meno di una
tipica abitudine partenopea (quella di approntare nei mesi invernali il
cosiddetto braciere(scaldino di fortuna) ormai sostituito in tutte le
case napoletane da stufe e stufette elettriche, ad olio, a gas, talvolta a
legna, quando non da eleganti camini alimentati con combustibili industriali o
addirittura dai radiatori di un riscaldamento spesso centralizzato che
massificando i bisogni toglie il gusto della autonoma indipendenza personale.
Torniamo alla voce a margine che letteralmente fu un tipo di carbonella
piuttosto spessa e consistente usata
insieme alla cosiddetta muniglia ( cfr. porro) per accendere quello scaldino di
fortuna che con il nome di rasiere
(braciere) occupò, nei mesi invernali un angolo della cucina (la stanza
dove si preparavano i pasti, spesso sormontato dall’asciuttapanne (una
cupola fatta con listelli di
midollo ligneo intrecciati ad hoc) su
cui era appoggiata la biancheria lavata, ma non ancora asciugata del tutto,
nella speranza che succhiando il calore emanato dal braciere acceso i panni
cedessero la loro umidità in eccesso.
Ma sto
divagando dilungandomi e perdendo di
vista l’assunto. Torniamoci. Ordunque cernetura = tipo di carbonella piuttosto spessa e
consistente usata per
accendere il braciere; carbonella ricavata artigianalmente dalla combustione
protratta fino a carbonizzazione dei tralci di vite potati negli ultimi mesi
autunnali; questi tralci carbonizzati erano frantumati grossolanamente e posti,
per essere con forza e velocemente
agitati, in ampi stacci o crivi con
tramatura di ferro piuttosto stretta; i pezzi di carbonella che restavano negli stacci al termine
dell’operazione costituivano la cernetura
i pezzetti di carbonella piú minuti, quasi polverosi che passavano i buchi della tramatura
costituivano la muniglia. Va da sé che la voce cernetura è
un deverbale di cernere dal lat. cernere
'vagliare, separare' mentre per la voce muniglia di cui avrei
dovuto dire porro,ma che preferisco
trattare ora trovandomi in argomento, chiarito che è voce pur’essa ormai
desueta che un tempo serví per indicare un tipo carbonella piuttosto sottile e quasi
inconsistente usata per
accendere il braciere, trattandosi semanticamente quasi di una sorta di
mondatura operata sui pezzi di tralci carbonizzati, si può ragionevolmente
ipotizzare un *mundilia→mun(d)iglia (cfr. l’italiano mondiglia)deverbale
del lat. mundare, deriv. dell'agg. mundus
'mondo, pulito'.
8)chiúchiaro ma meglio chiuchiàro
(da non confondere comunque con chiòchiaro che è tutt’altra cosa e che con derivazione da chiòchia
variante di ciocia vale zotico, villano (aduso a calzar le cioce) e per
traslato sciocco, babbeo) è la voce usata per indicare un semplicissimo
strumento a fiato d’uso pastorale, una sorta di zufolo bitonale il cui suono
all’incirca riproduce il verso d’un uccello detto chiú o assiuolo (cfr.
Pascoli Il chiú in Nuovi Poemetti ). Ed è questa – a mio avviso – la
strada piú agevole e sicura per trovare l’etimo della voce a margine: si tratta
abbastanza chiaramente, a mio modo di vedere,
di una voce di tipo onomatopeico;
ai due fonemi chiú e chià riproducenti
il bitono dello strumentino si è aggiunto un consueto suffisso tonico di attinenza aro←areus ottenendo chiuchiàro.
9)cianculià attestata pure come cianculïà
(con conseguente diversità di coniugazione come per il precedente ammagliecà
ed ammagliechïà ), voce
verbale ormai desueta che valse: divorare, strippare, mangiare avidamente, ingurgitare, trangugiare voracemente,avidamente
quasi con la medesima furia devastatrice delle bestie feroci che assalgono
le loro prede con ripetuti violenti colpi delle loro artigliate zanche
(cianche), colpi tesi prima ad abbattere e poi a
smembrare le vittime per farle infine finire tra le fauci.Ed è proprio questa
la strada semantica da seguire per pervenire (a mio avviso) ad un attendibile etimo
del verbo a margine che, letto cosí come ò fatto, risulta un denominale di cianca
alternativo di zanca (= gamba, zampa) che è da un longobardo zanka=tenaglia.
10)desfazzio eccoci innanzi
all’ennesima voce abbondantemente desueta e già poco usata nel passato: l’ò
trovata attestata solo nel Basile e riportata nel dizionario di R.D’Ambra come
locuzione avv.le: a desfazio (sic!
con la zeta scempia) nel significato di benché, a malgrado, quantunque; nel
P.P.Volpe la voce a margine non è riportata, ma vi ò trovato le voci Desfazjone
Desfazejo, Sfazejo nei significati i primi due di dispetto – vendetta – mentre il terzo privato del negativo des=dis
vale piena soddisfazione; orbene
anche in lingua italiana è attestata la
voce disfazione derivato da dis privativo + un composto di fare che vale disfacimento, rovina; ora tutto sta a convincersi che il malgrado
della locuzione a malgrado può comodamente sostituirsi con le voci dispetto
o rovina e dire benché,
a dispetto,a rovina, quantunque, avremmo trovato la quadratura del cerchio
relativa alla voce a margine che etimologicamente risulterebbe una sorta
di apocope di desfazione→desfazio(ne)
derivata come l’italiano disfazione = rovina da des o dis privativo + un composto di fare. Ma la voce a
margine è voce brutta ch’io non userei neppure sotto minaccia di arma bianca,
preferendo il piú tranquillo ed ovvio “cu tutto ca” del napoletano corrente.
11)felatiello questa è una voce
chi temo mi darà certamente filo da
torcere: troppo antica, desueta e scarsamente attestata ed i vecchi e nuovi calepini che la pigliano in considerazione ne
danno troppi significati non sempre congruenti tra di loro; nel calepino di F.
Galiani trovo registrata la voce a margine sotto l’espressione far
felatiello con la seguente
accezione: metter paura,mentre pigliare a felatiello sta per far dispettucci; idem dicasi per il P.P.Volpe
che si accoda al Galiani, ma aggiunge come significato primo del vocabolo un fantasioso filatello che non so cosa
sia, ignoto com’è ai maggiori dizionarii della lingua italiana; ancóra tra i
vecchi lessicografi, R. Andreoli non se
ne dà per inteso e non lo piglia in considerazione né come felatiello, né
come filatiello. I moderni vocabolaristi si copiano l’un l’altro per modo che per tutti (Altamura, D’Ascoli
etc.) felatiello vale paura, trepidazione, timore, ma anche raggiro,
minaccia, intrigo che semanticamente non si comprende proprio come possan collegarsi a paura, trepidazione, timore. Dopo
d’aver vagato in tale mare magnum impercorribile, mi son deciso a far ricorso all’antico vocabolario firmato
dal prof. Raffaele D’Ambra, vocabolario per il quale appassionati e studiosi
non finiranno mai abbastanza di
ringraziare l’editore Forni di Bologna che ce ne à fornito un’accuratissima
ristampa anastatica, per modo che anche noialtri di questo secolo informatico
possiamo avidamente libare a quella fonte cartacea di sapere linguistico.
Ed infatti un’attenta indagine sul D’Ambra mi
à permesso, forse, di venir fuori dai sargassi
del Galiani,del P.P.Volpe ed ovviamente degli Altamura e D’Ascoli. È
stato l’uovo di Colombo.
Il buon D’Ambra è vero non tratta felatiello
come voce autonoma, ma ne lascia intendere il corretto significato e con
esso una probabilissima esatta etimologia; egli infatti allude a questo felatiello
che ci occupa sotto la voce felato= filato,tramato assegnandogli
in quanto diminutivo di tale felato=filato,tramato, ordito il
significato traslato di piccolo raggiro, contenuta macchinazione, facendo
giustizia sommaria di ipotizzati inesatti significati come paura,dispetto,timore
e mantenendo quelli esatti di raggiri,ed
intrighi che son delle macchinazioni.Va da sé
che cosí inquadrato il felatiello diminutivo di felato etimologicamente
deriva dal verbo filare dal tardo lat. filare,
deriv. di filum 'filo' ovviamente non nel significato maldestramente
ipotizzato dal D’Ascoli di scappar via, telare, ma in quello di predisporre,
ordinare che può dar luogo alle macchinazioni. Ovunque voi siate, grazie
prof. D’Ambra!
12)fesina ecco un’altra parola
antica e desueta che non tutti gli antichi calepini riportano (ad es. il
Galiani ne registra solo un diminutivo fesinella sia pure negli stessi
significati che qui di sèguito dirò); parola
che non è in uso neppure nelle
piú remote province dove ancóra si pratica l’agricoltura e/o la pastorizia.Ò
parlato di agricoltura e/o pastorizia in quanto la voce a margine indicò un otre,
un vaso di creta panciuto e dal collo
stretto in cui si conservava vino, olio,aceto, sugna ed
altro tutti prodotti di tipica competenza di contadini, allevatori etc. Quanto
all’etimologia si brancola bellamente nel buio. E dirò che non mette neppure conto
riferire l’idea di non so chi (ma riportata dal D’Ascoli) idea che per la voce
a margine postula un greco phûsa= borsa forse perché i
primi otri furono di pelle (come le borse...);a mio avviso non ci siamo! Sia semanticamente che
morfologicamente... Come non mi piace l’idea originaria del D’Ascoli che si
inventò un lat. regionale fesina= vaso ma non ci disse donde lo avesse
tratto fuori ed - a
maggior disdoro - ipotizzò che tale fesina
fosse stato incrociato (a che scopo poi?) con fiscina= cesto. In
alternativa il defunto prof. propose un lat. med. fessina= “instrumentum
vimineum ad piscadum”una sorta di nassa cioè. Che pretese! Conservare vino,
olio aceto in un cesto o in una nassa di vimini ! Non ci siamo! Abbandoniamo borse,
cesti e nasse e tentiamo altre vie. Mio
avviso è che, ragionevolmente questa fesina a margine possa essere derivato
dal greco phûskon→ phûs(k)on = panciuto come panciuto è il vaso detto fesina.
13)
fúrgolo questa è una parola
che come la precedente cernetura non mi toccherà di andare a reperire in
antichi testi e/o calepini in quanto è parola che era in uso in famiglia e fra
il popolo al tempo della mia fanciullezza sia pure nella forma di fruvolo che
come facilmente si può intendere è una lettura metatetica della voce al margine
con il solo mutamento della g→v o alibi di v→g come capita ad es. con golpe al posto volpe, voccia
per goccia vulio per gulio
etc.Rammento ancóra l’espressione usata da una zia che redarguendo noi
ragazzi un po’ troppo vivaci
retoricamente e sarcasticamente ci chiedeva: Ma tenissive ‘e frúvole
‘int’ ô mazzo!? (Avete per caso dei razzi, dei fuochi artificiali allocati nel
sedere!?)Espressione senza dubbio ironica, ma quanto icasticamente
esatta... Letteralmente l’espressione: tené ‘e fruvole int’ ô mazzo va letta: avere i fulmini, i razzi nel
sedere. Divertente espressione con la
quale si accreditano i ragazzi un po'
troppo vivaci ed irrequieti di essere titolari addirittura di fuochi artificiali
allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a
non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii.
La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che
non stanno quieti un momento. Letteralmente la voce a margine furgolo attestata nel parlato come fruvolo ed
usata soprattutto al plurale furgole- fruvole vale fulmine/i, folgore/i e fuochi artificiali. Quanto
all’etimo reputo che tranquillamente si
possa pensare al lat. fulgor che
con doppia dissimilazione abbia generato
furgolo/i donde poi fruvolo/e cosí come nel parlato
familiar-popolare degli anni ’50 del 20°
sec.
14)mingria o mincria e qui si torna ad una voce
antica ed abbondantemente desueta che, pure se accolta da calepini antichi e
moderni, si dura fatica a comprendere nell’esatto
significato atteso che ogni vocabolario ne dà piú di un significato e non
sempre congruenti; la voce a margine è attestata nelle due forme mingria e
mincria ed i significati spaziano
impunemente da estro a fantasia da capriccio a grillo per la testa e non si riesce a
capire se questa mingria o mincria (che qualcuno, ma inesattamente, come
vedremo, vorrebbe pronunciare mingría
e mincría) non si comprende – dicevo – se tale vocabolo abbia una valenza
positiva ( estro – fantasia) o una negativa ( capriccio - grillo
per la testa ).
Anche questa volta occorre rifarsi al D’Ambra
che citando il seguente anonimo distico
: Ca ‘ncapo a Ggiove po’ zompà la mingria/de zeffonnà ‘o monte...
ci permette di evincere due
cose:1° che la pronunzia esatta è míngria
e non mingría giacché in
questo secondo caso salterebbe l’endecasillabo ca ‘ncapo a Ggiove po’ zompà la mingria; 2°
che la valenza del vocabolo è negativa, essendo chiaramente quello di Giove un
capriccio, non un estro magari artistico.
Chiarito il significato essenzialmente
negativo della voce a margine, affrontiamo – se possibile – il problema
etimologico. La gran parte degli addetti ai lavori è costetta ad optare per un pilatesco etimo ignoto o
incerto; il solo D’Ascoli propone e forse non a torto –
partendo dalla considerazione semantica che il capriccio, l’alzata di mente è un
moto del cervello – che è alla testa e
ad un suo pulsare che ci si debba riferire nel tentativo di pescar nel mazzo
l’asso etimologico; nella fattispecie si può tentar la via segnata da un tardo
lat. hemicrania(m), dal gr. hímikranía
secondo il seguente percorso morfologico: hemicrania(m)→(he)mincria con aferesi della prima sillaba ed una lettura metatetca della seconda parte
della parola. Ciò naturalmente sempre che si voglia assolutamente trovare un etimo; ma si vive benissimo ugualmente senza
trovarlo. Altro, all’attualità proprio
non saprei dire!
15)‘mpechèra anche questa, per mia fortuna è una parola che come le precedenti cernetura
e furgolo non mi toccherà di andare a reperire in antichi testi e/o
calepini in quanto è parola che era in uso in famiglia e fra il popolo al tempo
della mia fanciullezza ed ancóra oggi mi capita di ascoltare talvolta sulla
bocca di amici o meglio di amiche riferita ad una donna intrigante,
inframmettente, pettegola, che non disdegni – a maggior cordoglio – il raggiro,
l’imbroglio nel tentativo di impicciarsi dei fatti altrui, impegolandovisi. La ricerca dell’etimo della voce a margine non
mi appare complicatissima; io vi leggo molto chiaramente un deverbale del greco
empleko=intratesso, intreccio addizionato dal solito suffisso tonico di competenza era;
la caduta della e iniziale di empleko giustifica il segno d’aferesi con cui preferisco scrivere
‘mpechèra al posto del semplificato mpechèra dove
la m d’avvio priva d’aferisi potrebbe indurre qualcuno a
ritenerla non etimologica, ma mera aggiunta eufonica come càpita per la n
di nc’è o nce.
16)‘mperrarseanche questa, per mia
fortuna è una verbo che come le
precedenti parole cernetura, furgolo,
‘mpechèra non mi toccherà di andare a reperire in antichi testi e/o
calepini in quanto è parola che era in uso in famiglia e fra il popolo al tempo
della mia fanciullezza ed ancóra oggi talvolta mi capita di ascoltare riferito
a persona che nei rapporti interpersonali
usi tenere un comportamento incontrollato,incollerendosi, montando in
bestia, accanendosi, adirandosi,
ostinandosi, puntando i piedi anche pretestuosamente, intestardendosi.Vale
altresí, sia pure non nella forma riflessiva,ma transitiva aizzare È, questo a margine, un verbo presente anche in altra lingua regionale come il
siciliano dove è mpirrari/’mperrare. Quanto all’etimo tranquillamente si può pensare ad un
denominale dell’ iberico perro= cane con prostesi di un in illativo
che à dato imperrarse donde ‘mperrarse ed anche ‘mperrare/’mperrà.
17
muniglia ne ò già parlato
(cfr. antea infra cernetura). Qui mi piace ricordar solo che la lettura
di questa parola mi rimanda indietro di cinquant’anni al tempo ch’io fui
ragazzo e mi madre mi spediva dal carbonaio ad acquistare muniglia e cernetura
(ma piú muniglia che cernetura (la muniglia costava meno!) per approntare il
braciere e mi raccomandava di non dimenticare di chiedere al carbonaio
l’aggiunta gratuita d’un pezzo di carbone che immesso al centro del braciere
tra muniglia e cernetura, opportunamente acceso avrebbe mantenuto vivo il fuoco
per piú tempo.
18)
fecozza.Eccoci alla fine ed
incontriamo una parola che dovette essere antica (attestata com’è in tutti i
calepini d’antan), ma perdurava anche negli anni ’50-’60 del 1900 presente nei
dizionarî che videro la luce negli anni ’70 ed ’80. È parola tuttavia che è poi
inopinatamente sparita soprattutto
nell’espressione Stanno facenno a fecozze cioè Stanno facendo
a botte, a pugni (..per entrare - per ottenere e/o fare alcunché)...Stanno
facendo ressa. L’espressione, dicevo, non
si sente piú e non perché oggi talvolta per istrada non si faccia a pugni e/o botte o non vi
siano resse, ma solo perché anche il nostro popolo si è dovuto ahimé adeguare ai linguaggi mediatici e della
globalizzazione e non usa piú il nostro
majateco linguaggio fatto di parole dotte o musicali e di icastiche voci o
immagini come quella richiamata dalla
voce a margine che di per sé vale percossa, o meglio pugno
assestato di punta con le nocche di indice, medio ed anulare esposte a cuneo e
con il pollice ripiegato all’interno delle tre dita a far da sostegno alle
nocche protese, ma richiama alla mente un fico fiorone in quanto un
deciso pugno portato con la mano chiusa cosí come ò descritto, e diretto a parti molli
(ad es. il volto) può lasciare una ferita centrale, che può anche
sanguinare, procurata dalla nocca del
dito medio e tutt’intorno una tumefazione che tende a mano a mano ad
illividirsi ripetendo ad un dipresso il vestito del fico fiorone, mentre la
piccola ferita centrale, in ispecie se sanguinante ripete la boccuccia del
fico. Dilungandomi nella descrizione ò anticipato la via semantica seguita per
pervenire all’etimo della voce a margine; secondo tale via l’effetto
(tumefazione simile ad un fico polputo) prodotto dal pugno (fecozza/ficozza=
fico polputo) dicevo l’effetto à ceduto il nome alla causa (il pugno) ed il pugno è diventato fecozza/ficozza= fico
polputo inteso però, sulle orme del Rohlfs,
in senso spregiativo come si ricava dal suffisso ozza. E questo
con buona pace di chi vorrebbe la voce a margine un deverbale (ma per quale
strada morfologica?) del latino figere= colpire e con ancóra maggior
buona pace di chi fantasiosamente postula un lat. figicare.
E faccio punto qui, raccolgo le cartuscelle e
le giro all’amico prof. C. Iandolo
augurandomi che nel leggerle non vi tiri
sopra troppi freghi blu.
Raffaele Bracale 19/05/08
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