1. ESSERE RICCO ‘E VOCCA.
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non
possiede, nè possiederà mai; essere un
millantatore a cui fanno difetto i
fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica
ricchezza è rappresentata dalla bocca.
2.
ESSERE N’ ACCA
‘MMIEZO Ê LLETTERE oppure
N’ ÍCCHESE DINTO A LL’AFFABBETO.
Ad litteram: essere un’acca fra le lettere oppure una ics nell’alfabeto Id
est: non contare nulla, essere una nullità assoluta, valere
quanto uno zero e non servire che
poco o nulla al pari della muta
acca che è solo una consonante
di tipo diacritico o , peggio ancora,
valere quanto la consonante ics che non
è usata né in italiano, né in napoletano
e che a stento serve per
connotare un’incognita.
3. ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum
Locuzione dalla doppia valenza, positiva o
negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza
di una bella donna assimilata alla
soffice appetitosa preparazione
dolciaria partenopea; in senso negativo
la locuzione è usata per dileggio
nei confronti di ragazzi ritenuti piuttosto
creduloni e bietoloni, eccessivamente
cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
4. FÀ ABBATE A QUACCHEDUNO.
Ad litteram: fare abate qualcuno; id est:
gabbare, imbrogliare, ingannare chi sia sciocco e credulone.Un tempo per
ricevere la nomina ad abate non occorreva che si fosse in possesso di grandi doti
intellettive, o di particolari meriti; spesso anzi piú si era stupidi piú si
avevano probabilità d’esser nominati; la locuzione prende a suo fondamento proprio l’evenienza qui
ricordata.
5. FÀ ‘A CHIERECA Ê SCIGNE.
Ad litteram: fare la tonsura alle scimmie; id est: applicarsi ad un’operazione
inutile, assolutamente balorda e certamente improduttiva, atteso che la tonsura
è di suo prodromica degli ordini sacri ai quali – ovviamente – non possono
esser chiamate le scimmie!
6. FÀ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE.
Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non
impegnativa quale, ingiustamente, si
riteneva fosse quella svolta dai sacerdoti
al segno che, altrove si diceva che se il lavoro fosse stato una cosa buona, lo avrebbero
fatto i preti.
7. FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCÉTOLE.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il
minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile
della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola
cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può
realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si
comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una
sola fava, atteso che quando questa
abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un
altro...
8. FÀ ‘ALLICCAPETTULE.
Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da
servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi davanti al potente di turno, leccandogli
metaforicamente la falda posteriore
della camicia nominata
eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui detta falda
insiste.
9. FÀ ‘O SPALLETTONE oppure al femminile FÀ‘A
CCIACCESSA
Espressione
intraducibile ad litteram in quanto in italiano manca un vocabolo unico che possa tradurlo,
per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione
per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe.
Ciò premesso, dirò che esiste, o meglio, esistette fino agli
anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè
tutto un vasto ventaglio di significati. È il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso ingloba.
In primis dirò che con esso vocabolo si indica il saccente, il
supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero colui
che si ergeva a dotto e maestro, ma non
aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria
considerazione.
Piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine in epigrafe, che vien
definito spallettone chi fa le viste
d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie
di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per
risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo
dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o
esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non
v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia
versato;l’economia nazionale? E lo spallettone
sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei
propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri
commendevoli; e cosí via non v’è cosa
che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato,
si offre e tenta di imporre la propria presenza
dispensando ad iosa consigli non
richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio
delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e
rabbia per il povero individuo fatto
segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E passiamo a quella che a mio avviso è una
accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe.
Premesso che tutti i compilatori di
dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione
forse dell’ avv.to Renato de Falco e del
suo Alfabeto napoletano, non fanno
riferimento alla lingua parlata, ma esclusivamente a quella scritta nei classici partenopei, va
da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo
termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei
classici.
Orbene reputo che essendo il sostrato dello spallettone,
la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare
l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con
la classica prostesi della S non
eufonica, ma intensiva partenopea,
l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del
suffisso accrescitivo ONE.
Per concludere potremo definire cosí lo
spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di
chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e che in napoletano è reso con un termine
diverso da spallettone e cioè con il termine:
parlettiero, quantunque spesso il parlettiero sia anche uno spallettone!
Va da sè che il termine esaminato è
esclusivamente maschile;
esiste però
un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del
maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C:
cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa
voce il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su
di un iniziale ciarlare→ciacciare.
10. FÀ ‘AMMORE CU ‘E MMONACHE.
Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile,
richiedere o sperare l’irrealizzabile come
sarebbe il godere dei favori di donne consacrate, quasi certamente
vergini illibate.
11. FÀ LL’ARTA LEGGIA.
Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del
ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività occorre aver leggerezza di mano ed accortezza di modi; eufemisticamente
perciò il suddetti mestieri son definiti arte
quasi che occorra essere degli
artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità
necessaria in simili pur truffaldini mestieri:
solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può
poi lanciarsi nella mischia e sperare di
conseguire risultati adeguati alla
stregua di un vero artista.
12. FÀ LL’ARTE D’’O SOLE.
Ad litteram: fare l’arte del sole; id est: darsi alla bella vita, magari condita
di disimpegnati amori, godendosela senza
intralci o preoccupazioni, alla stregua
del sole che una volta che sia sorto, può tranquillamente mirarsi il creato,
senza problemi o altre faticose incombenze.
13. FÀ LL’OPERA D’’E PUPE
Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a
quattro, agitarsi oltre misura per
conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto,
sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di
fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di
cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e
grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli
dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole
marionette che vengono manovrate dal
basso tenendole infilate sulla mano a
mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe, quando
tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia
evolvendo pericolosamente può accadere
che quello degli interlocutori dotato di
maggior buona volontà possa invitare
l’altro interlocutore a recedere dalla discussione con il dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe”
(evitiamo di fare una rappresentazione
con i pupi; calmiamoci!).
14. FÀ MMIRIA Ô TRE BASTONE
Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni.
Detto ironicamente di una donna
che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore al segno di detestar l’invidia del tre di
bastoni la carta da giuoco del mazzo di
carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un
vistoso mascherone , provvisto di suo di consistenti baffoni a manubrio.
15. FÀ MARENNA A SARACHIELLE
Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi
di poco, stringer la cinghia, esser
costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria
colazione di piccole aringhe salate ed
affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti
della congrua salatura. La locuzione è
usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano
con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro azioni sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso
alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto
a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in
epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui
riportato.
16. FÀ ‘A TREZZA D’’E VIERME.
Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser
colto da eccessiva paura. Olim a Napoli,
si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti, se fossero stati presi da grande spavento avrebbero potuto
germinare nell’intestino una gran quantità di vermi organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per
liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva
a sostanziose somministrazioni di aglio
da ingerire crudo; ragion per cui
era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
17. FÀ SPUTAZZELLE ‘MMOCCA.
Ad litteram: fare l’acquolina in bocca La
locuzione richiama, molto piú
veristicamente dell’italiano, quelle situazioni
in cui alla vista di cose
piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari
fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso
senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa
naturaliter allorché ci si trovi al
cospetto di un appetitoso manicaretto la
cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci
si trovi innanzi ad una bella donna
desiderabile ed appetibile al pari di una succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto
che la bella donna posson far fare
l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far
fare sputazzèlle.
18. FÀ o ESSERE
CARTA ‘E TRE (o meglio) DI TRESSETTE
Ad litteram: fare o essere una carta da
tre (o meglio) di
tressette; id est: essere o
comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi a
tutti gli altri o per naturale carisma o
per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la
carta di tre o tressette è colui che con
ogni mezzo, lecito o meno che sia riesce
ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è
mutuata dal giuco del tressette giuoco
di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore
facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle
altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica
convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo,
fante e poi dal sette fino al
quattro secondo l’ordine decrescente;dal
che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre
e a ciò si riferisce la locuzione in
epigrafe.Talvolta però l’espressione
viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità
intellettuali, tenti di atteggiarsi ad
individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole
raccomandar: nun fà ‘a carta ‘e tre ossia evita
di assumere atteggiamenti da carta di tre (quelle vincenti al giuoco
del tressette.)
brak
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