PRONTUARIO DI MONOSILLABI DELLA PARLATA NAPOLETANA.
2ªparte
Esaurito il discorso sulle preposizioni semplici, passo alle
articolate che comunque si risolvono in un monosillabo. Preciso súbito che nel
napoletano non si ritrovavano (almeno fino ad una mia scelta di codificare una
forma per le preposizioni articolate formate con la preposizione semplice da e
cioè dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli, forme che ò pensato debbano essere
rispettivamente rese con dô, dâ e dê ) non si ritrovavano preposizioni articolate
formate con l’agglutinazione degli articoli con le preposizioni semplici di,
da,con, per ma solo preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli
articoli con la preposizione semplice a. In napoletano infatti non si avranno
mai preposizioni del tipo dello, della,dallo,dagli etc. preferendosi per esse
la forma disagglutinata ‘e ‘o – ‘e ‘a ed anche de ‘o – de ‘a – da ‘o – da ‘a/ra
‘a o anche d’ ‘o, d’ ‘a, d’ ‘e sia usando la preposizione semplice di, sia
usando da dando luogo ad evidenti confusioni che per essere evitate
necessitavano il ricorso al contesto; con la mia scelta di usare le scrizioni
DÔ, DÂ e DÊ per le preposizioni corrispondenti a dal/dallo, dalla, dalle e
dai/dagli non c’è più pericolo di confusione ed anche fuor di contesto si coglie
subito di quali preposizioni si tratti. Abbiamo invece sempre le seguenti forme
di preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la
preposizione semplice a; analiticamente abbiamo: 1)Ô che è la scrittura
contratta di a + ‘o= a +il,lo e tale preposizione articolata ( derivata dal
lat. ad+ (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello' va sempre usata, in corretto e
pretto napoletano, da sola per significare al, allo o unita alle cosiddette
preposizioni improprie e/o avverbi: annante/ze= davanti, arreto=
dietro,’ncoppa= sopra, sotto, doppo=dopo, vicino, comme etc.perché il
napoletano mentalmente non elabora ad es. davanti il,dietro il o vicino il,
come il etc. come accade per l’italiano, ma elabora davanti al,dietro al o
vicino al, come al etc. elaborazioni che correttamente messe per iscritto vanno
rese annante ô, arreto ô o vicino ô, comme ô etc. e non annante ‘o, arreto ‘o o
vicino ‘o, comme ‘o come invece spesso (per non dire quasi sempre) mi è occorso
di trovare negli autori napoletani (anche famosi e famosissimi), ma con molta
probabilità a digiuno delle esatte regole grammaticali e sintattiche della
parlata napoletana che è diversa dalla lingua nazionale, alla quale, con ogni
probabilità, ma errando, quegli autori intesero uniformarsi pur nello scrivere
in napoletano che – mi ripeto – è cosa affatto diversa dalla lingua nazionale,
quantunque generata dal medesimo padre: il latino volgare e parlato! 2)Â
(derivata dal lat. ad+ (ill)a(m)) che è la scrittura contratta di a + ‘a e sta
per alla preposizione articolata femminile,per la quale valgono i medesimi
campi applicativi della precedente ô = al, allo; 3)Ê che è la scrittura
contratta di a + ‘e e sta o per alle o per a gli. preposizione art. plurale
valida per il maschile ed il femminile; preposizione per la quale valgono i
medesimi campi applicativi visti per ô ed â nonché per gli art. plurali ‘e essa
preposizione si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal
lat.ad + (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; quando è posta innanzi ad un
vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad
es.:êpate= ai padri, voce maschile, ma ê mmamme= alle mamme, voce femminile.
Esaurita cosí la trattazione relativa alle preposizioni semplici ed articolate,
passiamo ad altri monosillabi in uso nel napoletano; parlerò prima delle voci
verbali monosillabiche e poi degli avverbi, pronomi, sostantivi, congiunzioni
ed infine avverbi. SO’ forma apocopata di songo corrispondente all’italiano
sono voce verbale (1ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat.
esse la forma songo/so’ marcata etimologicamente sul lat. su(m)→so presenta un
suffisso –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo
etc.
SÎ corrispondente all’italiano sei voce verbale (2ª p.sg.
indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî derivata
etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento
circonflesso) non per questione etimologica (la caduta di una consonante finale
non esige alcun segno diacritico: cfr. re← re(x), mo←mo(x), cu←cu(m) etc.), ma
per un’opportunità pratica, quella cioè di distinguere la voce verbale a
margine da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò
successivamente; STA corrispondente all’italiano sta voce verbale (3ª p.sg.
indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare; la forma a margine, come
la corrispondente dell’italiano, è marcata etimologicamente sul lat. sta(t) e
non esige quindi segni diacritici atteso che a cadere è una semplice consonante
e non una sillaba (ovviamente vocalica); STO’ forma apocopata di stongo
corrispondente all’italiano sto voce verbale (1ª p.sg. indicativo pres.)
dell’infinito stare dal lat. stare la forma stongo/sto’ è marcata
etimologicamente sul lat. sto ma presenta un suffisso forse del parlato –ngo,
poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.;
l’apocope della sillaba ngo comporta il segno dell’apostrofe per cui si avrà
sto’ per stongo; DÀ = dà voce verbale (3ª p.s. indicativo pres.) o anche infinito
del verbo dare/dà derivato del lat. dare; è pur vero che in napoletano non
esiste la preposizione da che in napoletano è sempre (cfr. antea) ‘a per cui
non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3ª
p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un
pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche
sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito della medesima
lingua) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che
la3ª p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun
mettere carne a cocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una
forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure a
malincuore) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per il
dà (forma tronca dell’infinito dare). Premesso che, normalmente occorre
accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno
bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.)
per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono
della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si
procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal
caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la
lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che
apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse
scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo
accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - la 2ª pers.
sing. dell’ind. pres. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso è
opportuno – per una sorta di omogeneità accentare sull’ultima sillaba tutti i
verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti
di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito
dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti
del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del
verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre
la forma dícere e mai l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto,
sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! )
ottenendosi perciò: DÀ = dare( apocope del lat. dare) , FÀ = fare ( apocope del
lat. facere, DÍ = dire usato soprattutto in poesia (apocope di dicere) evitando
di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ o di’ che potrebbero
esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai o di’? dici. JÍ= andare;
infinito del verbo jí usato anche nella forma ghí/gghí(cfr. a gghí a gghí)
verbo derivato dal lat. ire.Rammento che è scorretto usare il detto infinito
nella forma í atteso che la j= gh fa parte integrante del tema del verbo e non
può essere impunemente eliminata! Continuando con le voci verbali
monosillabiche avremo: va’ da non confondersi con va la voce va’ è dell’
imperativo 2ª p. sg. e corrisponde a vai di cui è apocope, mentre va = va
dell’italiano è la 3ª p. sg. dell’indicativo presente ambedue dell’infinito jí=
andare etimologicamente il verbo jí è dal lat. ire, ma per le forme del
presente ind. vaco, vaje, va e per l’imperativo va’ cioè per tutte le forme che
ànno per tema vac- occorre risalire al lat. vacare 'andare'; Vi’ corrisponde a
vi(de) imperativo 2ª p. sg. dell’infinito vedé con etimo dal lat. vidíre; ‘Í
altra forma del precedente vi’ qui con aferesi della v iniziale sostituita
dall’apostrofo e con sostituzione della i apostrofata (i’) con una í per
evitare l’appesantimento di due apostrofi uno iniziale ed uno finale nella
medesima voce; anche questa ‘í sta per vi(de ) soprattutto nelle espressioni
quali ‘a ‘í lloco= vedila lí= eccola lí, ‘o ‘í ccanno= vedilo qui= eccolo qui);
HÊ = scrittura contratta di aje (2ª per. sg. ind. pres. del verbo avé)
corrispondente all’italiano hai che personalmente preferisco ed uso scrivere ài
evitando l’inelegante consonante diacritica h sostituita da un elegante
accento, cosí come mi insegnò negli anni ’50 la mia insegnante delle scuole
elementari , sostituzione che si ripete altrove quando à sostituisce ha, ài
sostituisce hai ànno sostituisce hanno ; i medesimi motivi di eleganza
stilistica mi spingono a consigliare, anche per il napoletano d’usare à, ài,
ànno piuttosto che ha, hai, hanno; nella voce a margine è stato giocoforza
usare un’ acca diacritica che segnalasse la differenza tra ê= ai, a gli, alle e
la (h)ê voceverbale del verbo avé; ricordo che il verbo avé, in tutti i suoi
tempi, seguito dalla preposizione ‘a (da) e da un infinito vale il verbo dovere
e tavolta è usato per indicare un’azione futura: ess.: m’hê ‘a stà a ssèntere =
ài da starmi ad ascoltare =mi devi ascoltare; dimane m’aggi’’a taglià ‘e
capille = domani ò da tagliarmi i capelli= domani mi taglierò i capelli o
anche:dimane aggi’’’a jí a d’’o barbiere = domani andrò dal barbiere azione
che, rammento, può essere espressa però acconciamente anche con un verbo al
presente: dimane vaco a d’’o barbiere= domani vado (andrò) dal barbiere ; ME’
voce verbale apocopata di mena = spingi, butta e nell’iterativo mena, me’= tira
via, lascia correre! (2ª p. sg. dell’imperativo) dell’infinito menà che è dal
tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse',
deriv. di minae 'minacce' TRA’ voce verbale apocopata di trase = entra,vieni
dentro, e nell’iterativo trase, tra’= suvvia, non perder tempo, entra ! (2ª p.
sg. dell’imperativo) dell’infinito trasí/tràsere che è dal lat.
transire→*trasire; ‘NFRA = fra preposizione semplice dal lat.
infra→(i)nfra→’nfra. CU’ voce verbale apocopata di cu(rre) = corri,fa’ presto,
affrettati, soprattutto nell’iterativo curre, cu’= suvvia, non perder
tempo,sbrigati ! (2ª p. sg. dell’imperativo) dell’infinito correre che è dal
lat. currere;la voce a margine non va confusa con l’omofona cu = con di cui
parlerò in appresso; del resto questo cu = con, come chiarirò, va scritto senza
alcun segno diacritico; PO’ corrisponde all’italiano puó (3ª p. sg. ind. pres.)
dell’infinito puté con etimo dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class.
posse), formato su potens -entis; la grafia usata per la voce a margine è l’
apocope di po(test) per cui la preferisco a pô dove nella ô si riconoscerebbe
la contrazione del dittongo uo di puó; ma chi indicasse questa via non mi
convincerebbe atteso che sotto sotto vorrebbe far passare l’idea che il
napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il
napoletano non è mai, proprio mai!, tributario dell’italiano, ma filiazione
diretta del latino volgare e parlato; VO’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p.
sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al
lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia
usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole)
per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però
nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando
tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il
napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il
napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario
dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato. PUÓ – VUÓ /
BBUÓ rispettivamente puoi e vuoi (2ª pers. sg. ind. pres.) degli infiniti puté
e vulé/bulé degli etimi ò detto precedentemente sub po’ e vo’; qui mi preme
sottolineare la mia scelta di accentare i tre monosillabi in luogo di
apocoparli puo’ – vuo’ / bbuo’ come suggerisce e fa qualcuno, operando una
scelta che non mi convince poi che . come ò detto alibi – l’apostrofe
dell’apocope non può indicare su quale delle vocali del dittongo deve cadere
l’accento per una corretta pronuncia! Non tutti son tenuti a sapere che uò è un
dittongo ascendente con la vocale accentata che segue la semivocale...., meglio
indicare la precisa pronuncia accentando la vocale tonica! Esaurite, o almeno
considerate molte voci verbali monosillabiche (le prime che mi son venute in
mente...) passiamo oltre e trattiamo i pronomi: cominciamo con I’ apocope di io
(sempre proclitico), pron. pers. m. e f. di prima pers. sing. indica la persona
che parla; si impiega solo in funzione di soggetto o come predicativo quando il
soggetto è ugualmente di prima persona singolare (nelle altre funzioni è
sostituito dalla forma tonica me o dalla forma atona me); come soggetto può
essere sottinteso, ma è sempre espresso quando possono sorgere dubbi sulla
persona del verbo, quando si stabilisce una contrapposizione, quando è
coordinato con un altro soggetto, quando lo si vuole sottolineare
enfaticamente: (i’) nun crero a cchello ca se dice; quanno parlo (io) nun
voglio essere interrotto; si (i’) nun facessi accussí, nun fosse o sarria cchiú
io; forze è mmeglio ca i’ me ne vaco ; fallo tu, i’ nun ce riesco; i’ e isso
continuammo a faticà ‘nzieme; ‘o faccio io!; io,a dicere ‘na cosa ‘e chesta? |
si rafforza se è seguito da stesso o preceduto da anche, neanche, nemmeno,
proprio, appunto ecc. : vengo i’ stesso; neanch'io so’ stato ‘nfurmato; sono
stato proprio io a dicerlo ; l’etimo è dal lat. volg. eo per il class. ego. ‘O
promome maschile o neutro proclitico che vale lo è usato come compl. ogg. e
comporta, nel caso sia riferito al neutro, la geminazione della consonte
d’avvio del verbo; riferito al maschile non lo esige; ess.: Chellu ppane? ‘O
ffacette Nunziatina - Chillu ‘mpiccio ‘o facette isso! ‘A promome femminile
proclitico che vale la ed è usato come compl. ogg. per solito innanzi a
consonanti; innanzi a vocali si usa nella forma lla apostrofato →ll’ ess.: ‘a
purtaje isso fino â casa.- ‘a sentettemo ‘a vascio ê scale! ll’âmmo (avimmo)
sagliuta fino a ‘ncoppa! – ll’îmmo (avimmo)’ntisa ‘a vascio ê scale; CE/NCE
corrisponde all’italiano ce o ci ed è pron. pers. di prima persona pl. atono;
usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, ,
‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce
‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne
vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene tale ce/nce è usato anche
come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e
e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in
questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje;
mettimmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie;
l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’. SÉ particella
pronominale tonica corrispondente a quella dell’italiano sé= se stesso/a/i/e
particella di cui forse non metterebbe conto di parlare, perché poco usata nel
napoletano se non in particolari costrutti; ad ogni buon conto dirò che si
tratta d’un pron. pers. rifl. m. e f. di terza pers. sing. e pl. si usa solo
quando si riferisce al soggetto della proposizione, altrimenti è sostituito da
isso, essa, lloro; è sempre sostituito da lloro quando vi sia reciprocità
d'azione (parlavano tra lloro e non tra sé); si usa talvolta nei complementi
retti da preposizione, spesso rafforzato da stesso o medesimo quantunque
nel’uso gli si preferiscano i pronomi isso, essa, lloro;: se preoccupano solo
‘e lloro stessi; è suddisfatto d’isso; à fatto molto parlare ‘d’essa ; attirare
a ssé; | come compl. oggetto, in luogo della forma atona se, acquista
particolare risalto, soprattutto nelle contrapposizioni (e per lo piú seguito
da stesso o medesimo): invece di se cunsidera cchiú ‘e ll’ate si può avere
cunsidera sé stessocchiú ‘e ll’ate; aggenno accussí danneggia sé stesso e nun
giova all’ate; ma meglio: aggenno accussí se danneggia e nun giova all’ate | |
penzà sultanto a ssé, comportarsi egoisticamente | dinto di sé, fra sé e sé,
nel proprio intimo: pensare qualcosa dentro d’isso, tra sé e ssé | ‘nzé =in sé,
‘nzé stesso = in sé stesso, ‘nzé e nzé e ppe ssé, si dice di cosa che viene
considerata soltanto nella sua essenza, nella sua singolarità: ‘a cosa nzé tene
poco valore; è ‘na risposta nzé e ppe ssé abbastanza nzipeta | a ssé, a parte,
separatamente: è ‘nu caso a ssé; va cunsiderato a ssé | ‘a sé =da solo, senza
l'aiuto di altri, senza che altri intervengano: vo’ fà tutto ‘a sé; ma meglio:
vo’ fà tutto ‘a ppe isso;l’etimo di questo sé è il lat. sí. e passiamo ora
altre varie particolari voci monosillabiche prima di affrontare avverbi,
congiunzioni ed altro; OJ/O’ = ohi, fonema esclamativo che si premette ad un
vocativo ad es.: oj ne’ (ragazza!) oj ni’ (ragazzo); esprime, secondo il tono
con cui è pronunciata ed a seconda del soggetto cui è diretto, o un semplice
richiamo o dolore, piacere, meraviglia, sdegno, dubbio, sospetto, compassione,
paura o altro. Trattandosi di un fonema esclamativo à un’origine quasi
certamente espressiva/onomatopeica e non è possibile azzardarne una qualche
etimologia; rammento che ò trovato (anche in grandi scrittori (o intesi tali)
partenopei la voce a margine oj riportata come oje e tutti costoro ànno inteso
con tale oje, formulare il richiamo esclamativo, ma tutti sono incorsi nel
medesimo errore poi che in pretto e corretto napoletano la voce oje non è
un’esclamazione, ma un sostantivo che con derivazione dal lat. volg.
hodie→(h)oje significa oggi: la forma apocopata o’ è usata in espressioni
esclamative del tipo o’ fra’ (fratello!)te ll’aggiu ditto – o’ no’
(nonno!)lassàteme fà! Talora questo fonema è riportato nella morfologia oi con
la vocale chiusa palatale (i) piuttosto che con la semiconsonante palatale (j)
e di per sé non sarebbe una morfologia scorretta in quanto fu la medesima usata
anche nell’italiano antico al posto di ohi, ma proprio per il fatto d’essere
anche voce dell’italiano, perché nel napoletano non appaia un prestito della
lingua nazionale, preferisco e consiglio d’usare la morfologia oj con la
semiconsonante palatale (j) tipica del napoletano. QUA’ forma apocopata
dell’agg.vo interrogativo o esclamativo qua(le) ‘a qua’ parte sî venuto? – qua’
giacchetta t’ hê miso! l’etimo è dal lat. quale(m). rammento che contrariamente
a ciò che avviene nella lingua nazionale, in napoletano quale oltre che
apocopato può essere tranquillamente eliso davanti a vocoli non esistendo in
napoletano la forma tronca qual; NO avv. olofrastico come il corrispondente no
dell’italiano è negazione equivalente ad una intera frase negativa, usata
specialmente nelle risposte (si contrappone a sí): «ll'hê visto?» «No»; «Parte
oje?» «No, dimane!» («l’ài visto?» «No»; «Parte oggi?» «No, domani!»). PO avv.
di tempo = poi voce dal lat. post→po(st)→po, avverbio che in napoletano non
esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una
sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua,ed invece mo
(ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)). NU avv. negativo apocope non sillabica di nun
corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal
verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron.
negativo: nun venette; nu pparlaje pe tutt’’a jurnata parlò ; nun c'è verzo
d’’o fà capace! ; nun c'è prubblema; nu nce sta nisciuno; nun esiste ‘o riesto
‘e niente come il precedente l’etimo è nel lat. non. per la voce a margine,
trattandosi di un’apocope non sillabica (con la sola caduta di una consonante
(n) non è necessaria l’apposizione di alcun segno diacritico cosí come è
avvenuto per il precedente pe←per e come avverrà quando si parlerà
dell’avverbio mo e ciò a malgrado di qualcuno che consiglia la grafia nu’ forse
nel timore che il nu potesse confondersi con l’articolo indeterminativo nu che
taluno invece di vergar ‘nu à il gusto di scrivere privo del necessario segno
distintivo d’aferesi... ‘UN avv. negativo aferesi non sillabica di nun
corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal
verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase negativa: ‘un ‘o vedette e
‘un ce parlaje; è usato soprattutto in poesia per ragioni metriche. NE
particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano e
come per l’italiano è pron. m. e f. , sing. e pl. [forma atona che si usa in
posizione sia enclitica sia proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono
che l'accompagni e si può elidere davanti a vocale] 1) riferito a persona o a
persone già nominate in precedenza, di lui, di lei, di loro (può assumere funzione
partitiva, di compl. di specificazione e d'argomento): mancavano ‘e ggiuvane: a
chella festa nun ce ne steva nisciuno; appena ‘o cunuscette,addivintajene
amice; ne parlano comme ‘e ‘na perzona capace | in usi pleonastici:n’aggi’ntiso
pure troppe! 2) riferito a cosa nominata precedentemente, di questo, di questa,
di questi, di queste o di quello, di quella, di quelli, di quelle (può assumere
funzione partitiva, di compl. di specificazione, d'argomento, di causa e,
nell'uso ant. o lett., anche di mezzo): damme ‘na caramella, io nun ne tengo
cchiú ; aggio avuto ‘nu libbro libro e ggià n’asggiu liggiuto parecchie
paggine; è ‘na cosa troppo/a delicata, preferisco nun parlarne; | in usi
pleonastici: ne avimmo mangiate troppo/e assaje ‘e sfugliatelle!; nun ne
tenesse, pe fatte mieje ‘e guaje! | in espressioni ellittiche: farne ‘e tutt’’e
culure; sapernecchiú ‘e ll’ate; ce ne à ditto ‘nu sacco e ‘na sporta; 3) con
valore neutro, riferito a un'intera frase o a un concetto già espressi in
precedenza, equivale a 'di ciò': è proprio accussí, ma tu nun ne sî cunvinto;
chesta è ‘a verità: è ‘na perzona scustumata, è impossibile nun tenerne cunto |
in usi rafforzativi: nun avertene a mmale!; nun ne vale ‘a pena! 4) da ciò, da
questo, da quello (indica derivazione, provenienza; in senso fig., conseguenza
logica): s’ avvicinaje all'albero e ne spezzaje parecchi ffronne;nun putarria
tirarne ata cuncrusione; pígliate ‘e responsabbilità tojele cu tutto chello ca
ne dipende | riferito a persona, da lui, da parte sua, da loro, da parte loro:
è stata sempe gentile cu tte , ma nun ne à avuto ca malazzione!;avimmo
presentato a lloro ‘a richiesta nosta cchiú ‘e ‘na vota , ma non ne avimmo maje
ricavato niente!: Questo ne è usato anche come avverbio ed à i medesimi usi
sintattici del pron.: di lí, di là, di qui, di qua (indica allontanamento da un
luogo, in senso proprio o fig.): «Sî stato a Napule?» «Sí, mo ne sto’ turnanno
»; ‘na vota trasuto dint’ â ‘rotta, nun fuje cchiú capace ‘e ascirne; era ‘na
situazzione difficile, ma ne venette fora cu ‘a bbona sciorta | in usi
pleonastici: me ne vaco subbeto; se ne fujette ‘e corza | in taluni usi verbali
( jirsene, venirsene, starsene ecc.) è una semplice componente fraseologica: se
ne veneva tinco tinco; se ne steva là sulo sulo. L’etimo della voce a margine è
dal lat. inde. Procediamo oltre: NE’ è un’apocope sillabica in funzione
vocativa del sostantivo nenna cfr. antea oj ne’ l’etimo di nenna = fanciulla,
ragazza è forse dal greco neanías ma qualcuno prospetta (forse a ragione) lo spagnolo
niña o il catalano nina→ninna→nenna; NI’ che è un’apocope sillabica in funzione
vocativa del sostantivo ninno cfr. antea oj ne’ l’etimo di ninno è il medesimo
di nenna di cui è maschilizzazione; ME/ MME pron. pers. m. e f. di prima
persona sing. 1) forma complementare tonica del pron. pers. io; si usa come
compl. ogg., quando gli si vuole dare particolare rilievo, e nei complementi
introdotti da preposizioni: cercano proprio a mme; parlavano ‘e me; ll’ànno
cunzignato a mme; a mme nun/’un me ne ‘mporta; è vvenuto addu me ajere; l'à
fatto pe mme; nun pigliartela cu mme ; tra me e tte non c'è stato nisciuna
putecarella; raramente è anche rafforzato da stesso o medesimo: me metto
scuorno ‘e me stesso | da me, da solo, senza l'aiuto altrui: ll’aggiu fatto ‘a
ppe mme | per me, per quel che mi riguarda: pe mme, puó ffà chello ca vuó |
secondo me, a mio parere: , pe mme è tutto sbagliato | quanto a mme, per quanto
mi riguarda: quanto a mme puó stà dint’ ê tranquille | ‘nfra me (o ‘nfra me e
mme), dentro di me, nel mio intimo: parlavo ‘nfra me e mme; | nun saccio niente
né ‘e me né ‘e te, 2) si usa quasi sempre preceduto dalla preposizione a come
soggetto nelle esclamazioni e nelle comparazioni dopo come e quanto: povero a
mme!; niru me !; nun sî comme a mme; ne sapevano quanto a mme | non è quasi mai
usato come predicato nominale dopo i verbi essere, parere, sembrare, 3) si usa
come compl. di termine in luogo del pron. pers. mi in presenza delle forme
pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, sia in posizione
enclitica sia proclitica: m’’o dicette; me ll’à date n’ata vota; me ne à fatte
tante e ttante; mannàtemelo; pàrlamene. L’etimo della voce a margine è dal lat.
me. MA’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo mamma cfr.ad es.:
oj ma’ l’etimo della voce mamma è dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' e nel
linguaggio infantile 'mamma, mammà’ E andiamo oltre; abbiamo i pronomi CHE
pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso
usato nella forma ca 1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia
a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore
ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje tu
hai visto; ‘o ggiurnale che staje liggenno è chillo d’ajere 2) talvolta è usato
come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop.,
spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca ce simmo
‘ncuntrate; paese ca vaje ausanze che truove; piú fortemente popolare o
dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa
‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune: (nun) tene ‘e che se lamentà,
(non) ne ha motivo; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun
c'è che dicere, espressione di consenso 3) la quale cosa (con valore neutro,
preceduto dall'art. o da una prep.): te sî miso a sturià, il che te fa onore;
nun s’ è ffatto cchiú vedé, dal che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a
capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in
prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?;
a che pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e
che ti lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito
da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che
nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?,
a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di
interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere?
|talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva
capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare,
esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche
a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | ma che!, lo stesso che macché ||| come
pron. indef. indica qualcosa di indeterminato (solo in partic. locuzioni): ‘nu
che, nun saccio che, ‘nu certo che, ‘nu certo nun saccio che, | (‘nu) gran che,
(una) gran cosa: oje nun aggiu cunchiuso (‘nu) gran che; ne parlano tutti
buono, ma pe mme nun è (‘nu) gran che | un, ogni minimo che, un, ogni nonnulla:
‘ncazzarse p’ ògne minimu che come agg. interr. invar. quale, quali: che tipo
è?; a che ora venarrà?; che llibre liegge ‘e solito?; nun saccio ch’ idee tene
p’’a capa ||| come agg. escl. invar. quale, quali: ma che idee!; che bbella
jurnata!; che perzone antipatiche! | (fam.) molto diffuso l'uso dell'agg. escl.
in unione a un semplice agg., senza altra specificazione, in frasi del tipo:
che bello!, che bellezza, com'è bello; che strano!, che stranezza, com'è strano
| diffusa anche l'anteposizione dell'agg. qualificativo: scemo ca sî!, sei
proprio stupido! rarissimamente è s. m. anzi è usato solo nell'espressione il
che e il come e sue varianti, nel senso di 'ogni cosa, tutto': voglio sapé
bbuono ‘o cche e ‘o ccomme; t’addimannarrà ‘o cche, ‘o ccome e ’o quanno.
L’etimo del che è dal lat. quid mentre la forma ca è forse un prestito di
comodo della congiunzione di cui qui di seguito, congiunzione per la quale
qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre
mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca
congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe buona norma scrivere
il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche
visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non
stanno cosí! Proseguiamo CA congiunzione che corrisponde all’italiano che 1)
introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o
talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun
penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu
cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.:
spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è
assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive? 2)
introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in
correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu
‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun
riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella
formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a
bbevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje; 3) introduce prop. causali con il v.
all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse
scapputtà 4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.:
fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male; 5)
introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando,
da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte;
sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc.
cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,:
ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta
sempe; 6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto
ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse
tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio,
‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia; 8)
introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati,
‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun
aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata
manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a
meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a
truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne
fosse ‘nfurmato; 9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al
congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo
fernesse ampressa; 10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con
il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno; 11) con
valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca:
sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove
o ca nun chiove...; 12) introduce il secondo termine di paragone nei
comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è
obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due
inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e)
Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca
‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta
lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con
tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda
tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú
ca certo; songo cchiú ccerto ca maje; 13) entra nella formazione di numerose
cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché;
sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim. Dell’etimo di questa
congiunzione ò già detto sub che come sempre sub che ò parlato del pronome ca =
che. Procediamo oltre. Un’ altra congiunzione molto usata nel napoletano è la
congiunzione
SI corrispondente all’italiano se 1) posto che, ammesso che
(con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata
condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce
cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse
sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo
nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto ,
non te fusse o sarriste i truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire
cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni
enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni
di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu
poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino;
pecché, si è llecito,aggio ‘a jirce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi
o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è
propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e
nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e
niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se
provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame;
anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!;
si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma! 3) dato che,
dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o
ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto? 4) con valore concessivo nelle loc. cong.
se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à
sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno 5) preceduto da come, introduce una
proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse
niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è
‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio
che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato
| si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi'
ecc. Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come
sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano.
Lasciando da parte altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del
napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua
nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione
si per illustrare l’omofono, ma non omografo
SI’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno
diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo
comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor
prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui
l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m)
comparativo di senex=vecchio,anziano. Ricordo che càpita spesso che sulla bocca
del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa
non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della
penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere
esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la
trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è
l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto ZI’ (che è l’apocope di uno zio/a
etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco
tehîos ) ed usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si
ottenengono gli scorretti zi’prevete o zi’ Giuanne. Per restare nel tema
suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo: SIÉ che è usato per
indicare la voce signora; per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora)
che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si
preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che
correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una
voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse).
Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del
popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non
fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna
di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere
esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la
trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto zi’= zia; mi è
infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi
napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un
notissimo proverbio riportato come e pertanto esigerebbe il segno diacritico
dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere
síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine
etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di
seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié
càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla
propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure
sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi
autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata
napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié=
signora con uno scorretto zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere
recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di
patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come
Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano
messe..." infece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa:
"Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto
scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire
alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto
di si' moneco, e sié Badessa. - se = si pron. pers. rifl. m.le e f.le di terza
pers. sg. e pl. 1 forma complementare atona del pron. pers. sé; si usa, in
posizione sia enclitica sia proclitica, come compl. ogg. con i verbi riflessivi
e con i verbi riflessivi reciproci: se veste cu ggusto; se ‘ncontrajeno tiempo
fa; armatose ‘e ribbotta; aiutarse ll’uno cu ll’ato; vistosi scoperto; (si
veste con gusto; si incontrarono tempo fa; armatosi di fucile; aiutarsi a
vicenda;) ' come compl. di termine con i verbi riflessivi apparenti: s’è
accattato ‘nu cappotto nuovo; se ‘nfilaje ‘a giacchetta; farse ‘na
pusizziona(si è comprato un cappotto nuovo; si infilò la giacca; farsi una
posizione) | nella coniugazione dei verbi intransitivi pronominali: se pentette
amaramente;s’accurgette ‘e avé sbagliato; (si pentí amaramente; si accorse di
aver sbagliato;) vergognarse, scurdarse ‘e di quaccosa; s’ allamenta ‘e tutto;
riferennose a quanto aveva ditto (vergognarsi, dimenticarsi di qualcosa; si
lamenta di tutto; riferendosi a quanto aveva detto) | 2 unito a un verbo di terza
pers. sing. dà a esso valore impers.; se si accompagna ad altro pron. atono, lo
segue: se dice, se raccumanna ca; ê vvote nun se sape chello ca se dice; se
parte tra poco; nun ce se capisce niente; me s’addimanna troppo (si dice, si
raccomanda che; talvolta non si sa ciò che si dice; si parte tra poco; non ci
si capisce nulla; mi si chiede troppo) | nell'uso ant., a inizio di periodo,
sempre in posizione enclitica: vuolsi così colà dove si puote / ciò che si
vuole 3 unito a un verbo transitivo attivo di terza pers. sg. o pl., gli
conferisce valore passivo (è il cosiddetto si passivante):’a mostra s’ è
‘ncignata ô mese passato; se vennono quatre; (la mostra si è inaugurata il mese
scorso; si vendono quadri;) 4 con valore intensivo e/o con sfumatura affettiva:
s’è magnato ‘nu pullasto sano! Se facesse ‘e ccorna soje!(si è mangiato un
pollo intero!; si faccia gli affari suoi!) Ciò detto passiamo agli avverbi
monosillabici, cominciando con il
SÍ avverbio olofrastico affermativo corrispondente
all’italiano sí 1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera
frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?"
"Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí,
sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente
", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí,
affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca =
e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no 2) spesso
contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni '
sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca
no, probabilmente sì ; 3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche:
chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità! talvolta è usato come s. m.
invar. 1) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu
un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere
incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa ' 2) pl. voti
favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no. L’etimo di questo sí è dal lat.
sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in
esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba
non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza
accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si
congiunzione o dal si’ apocope di signore. Di... segno opposto l’avverbio
olofrastico negativo NO scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non
confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no.
CCA( e non ca)avv =
qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (e)cc(um) (h)a(c);
da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua
corrispettivo) l’avverbio a margine va
scritto senza alcun segno diacritico
trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri;
nel napoletano esistono , per
vero,anche una congiunzione ca = (giacché, poiché, perché) ed un pronome ca = (che);
la congiunzione ca è derivato del francese car→ca(r)→ca
di uguale significato mentre il pronome ca = (che) è dal
lat. quia→q(ui)a→qa→ca; ora sia la congiunzione che il pronome si rendono con la c iniziale
scempia (ca), laddove l’avverbio a margine(cca) è scritto sempre con
la c iniziale geminata e basta ciò ad evitar confusione tra i tre
monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo
capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori
partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna
sillaba!) e talora addirittura ccà’
addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che,
ripeto, non v’è alcuna sillaba finale
che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin
qui détto, mi occorre però aggiungere
un’ultima osservazione: è vero che gli
antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a
margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e
congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto
che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei
vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano
né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare
il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica
parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca)
ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal
cà
registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi,
R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la
linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi
sento di perdonare a Raffaele
D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad
altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni
spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei
quali qualcuno addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di
regole linguistiche, (quando non sai una
cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni
grafiche!
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