giovedì 4 febbraio 2016

PRONTUARIO DI MONOSILLABI DELLA PARLATA NAPOLETANA. parte 2ª


PRONTUARIO DI MONOSILLABI DELLA PARLATA NAPOLETANA.

2ªparte

Esaurito il discorso sulle preposizioni semplici, passo alle articolate che comunque si risolvono in un monosillabo. Preciso súbito che nel napoletano non si ritrovavano (almeno fino ad una mia scelta di codificare una forma per le preposizioni articolate formate con la preposizione semplice da e cioè dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli, forme che ò pensato debbano essere rispettivamente rese con dô, dâ e dê ) non si ritrovavano preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con le preposizioni semplici di, da,con, per ma solo preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a. In napoletano infatti non si avranno mai preposizioni del tipo dello, della,dallo,dagli etc. preferendosi per esse la forma disagglutinata ‘e ‘o – ‘e ‘a ed anche de ‘o – de ‘a – da ‘o – da ‘a/ra ‘a o anche d’ ‘o, d’ ‘a, d’ ‘e sia usando la preposizione semplice di, sia usando da dando luogo ad evidenti confusioni che per essere evitate necessitavano il ricorso al contesto; con la mia scelta di usare le scrizioni DÔ, DÂ e DÊ per le preposizioni corrispondenti a dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli non c’è più pericolo di confusione ed anche fuor di contesto si coglie subito di quali preposizioni si tratti. Abbiamo invece sempre le seguenti forme di preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a; analiticamente abbiamo: 1)Ô che è la scrittura contratta di a + ‘o= a +il,lo e tale preposizione articolata ( derivata dal lat. ad+ (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello' va sempre usata, in corretto e pretto napoletano, da sola per significare al, allo o unita alle cosiddette preposizioni improprie e/o avverbi: annante/ze= davanti, arreto= dietro,’ncoppa= sopra, sotto, doppo=dopo, vicino, comme etc.perché il napoletano mentalmente non elabora ad es. davanti il,dietro il o vicino il, come il etc. come accade per l’italiano, ma elabora davanti al,dietro al o vicino al, come al etc. elaborazioni che correttamente messe per iscritto vanno rese annante ô, arreto ô o vicino ô, comme ô etc. e non annante ‘o, arreto ‘o o vicino ‘o, comme ‘o come invece spesso (per non dire quasi sempre) mi è occorso di trovare negli autori napoletani (anche famosi e famosissimi), ma con molta probabilità a digiuno delle esatte regole grammaticali e sintattiche della parlata napoletana che è diversa dalla lingua nazionale, alla quale, con ogni probabilità, ma errando, quegli autori intesero uniformarsi pur nello scrivere in napoletano che – mi ripeto – è cosa affatto diversa dalla lingua nazionale, quantunque generata dal medesimo padre: il latino volgare e parlato! 2)Â (derivata dal lat. ad+ (ill)a(m)) che è la scrittura contratta di a + ‘a e sta per alla preposizione articolata femminile,per la quale valgono i medesimi campi applicativi della precedente ô = al, allo; 3)Ê che è la scrittura contratta di a + ‘e e sta o per alle o per a gli. preposizione art. plurale valida per il maschile ed il femminile; preposizione per la quale valgono i medesimi campi applicativi visti per ô ed â nonché per gli art. plurali ‘e essa preposizione si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat.ad + (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; quando è posta innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.:êpate= ai padri, voce maschile, ma ê mmamme= alle mamme, voce femminile. Esaurita cosí la trattazione relativa alle preposizioni semplici ed articolate, passiamo ad altri monosillabi in uso nel napoletano; parlerò prima delle voci verbali monosillabiche e poi degli avverbi, pronomi, sostantivi, congiunzioni ed infine avverbi. SO’ forma apocopata di songo corrispondente all’italiano sono voce verbale (1ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma songo/so’ marcata etimologicamente sul lat. su(m)→so presenta un suffisso –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc. SÎ corrispondente all’italiano sei voce verbale (2ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non per questione etimologica (la caduta di una consonante finale non esige alcun segno diacritico: cfr. re← re(x), mo←mo(x), cu←cu(m) etc.), ma per un’opportunità pratica, quella cioè di distinguere la voce verbale a margine da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente; STA corrispondente all’italiano sta voce verbale (3ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare; la forma a margine, come la corrispondente dell’italiano, è marcata etimologicamente sul lat. sta(t) e non esige quindi segni diacritici atteso che a cadere è una semplice consonante e non una sillaba (ovviamente vocalica); STO’ forma apocopata di stongo corrispondente all’italiano sto voce verbale (1ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare la forma stongo/sto’ è marcata etimologicamente sul lat. sto ma presenta un suffisso forse del parlato –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.; l’apocope della sillaba ngo comporta il segno dell’apostrofe per cui si avrà sto’ per stongo; DÀ = dà voce verbale (3ª p.s. indicativo pres.) o anche infinito del verbo dare/dà derivato del lat. dare; è pur vero che in napoletano non esiste la preposizione da che in napoletano è sempre (cfr. antea) ‘a per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3ª p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito della medesima lingua) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che la3ª p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun mettere carne a cocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure a malincuore) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per il dà (forma tronca dell’infinito dare). Premesso che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - la 2ª pers. sing. dell’ind. pres. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso è opportuno – per una sorta di omogeneità accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! ) ottenendosi perciò: DÀ = dare( apocope del lat. dare) , FÀ = fare ( apocope del lat. facere, DÍ = dire usato soprattutto in poesia (apocope di dicere) evitando di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ o di’ che potrebbero esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai o di’? dici. JÍ= andare; infinito del verbo jí usato anche nella forma ghí/gghí(cfr. a gghí a gghí) verbo derivato dal lat. ire.Rammento che è scorretto usare il detto infinito nella forma í atteso che la j= gh fa parte integrante del tema del verbo e non può essere impunemente eliminata! Continuando con le voci verbali monosillabiche avremo: va’ da non confondersi con va la voce va’ è dell’ imperativo 2ª p. sg. e corrisponde a vai di cui è apocope, mentre va = va dell’italiano è la 3ª p. sg. dell’indicativo presente ambedue dell’infinito jí= andare etimologicamente il verbo jí è dal lat. ire, ma per le forme del presente ind. vaco, vaje, va e per l’imperativo va’ cioè per tutte le forme che ànno per tema vac- occorre risalire al lat. vacare 'andare'; Vi’ corrisponde a vi(de) imperativo 2ª p. sg. dell’infinito vedé con etimo dal lat. vidíre; ‘Í altra forma del precedente vi’ qui con aferesi della v iniziale sostituita dall’apostrofo e con sostituzione della i apostrofata (i’) con una í per evitare l’appesantimento di due apostrofi uno iniziale ed uno finale nella medesima voce; anche questa ‘í sta per vi(de ) soprattutto nelle espressioni quali ‘a ‘í lloco= vedila lí= eccola lí, ‘o ‘í ccanno= vedilo qui= eccolo qui); HÊ = scrittura contratta di aje (2ª per. sg. ind. pres. del verbo avé) corrispondente all’italiano hai che personalmente preferisco ed uso scrivere ài evitando l’inelegante consonante diacritica h sostituita da un elegante accento, cosí come mi insegnò negli anni ’50 la mia insegnante delle scuole elementari , sostituzione che si ripete altrove quando à sostituisce ha, ài sostituisce hai ànno sostituisce hanno ; i medesimi motivi di eleganza stilistica mi spingono a consigliare, anche per il napoletano d’usare à, ài, ànno piuttosto che ha, hai, hanno; nella voce a margine è stato giocoforza usare un’ acca diacritica che segnalasse la differenza tra ê= ai, a gli, alle e la (h)ê voceverbale del verbo avé; ricordo che il verbo avé, in tutti i suoi tempi, seguito dalla preposizione ‘a (da) e da un infinito vale il verbo dovere e tavolta è usato per indicare un’azione futura: ess.: m’hê ‘a stà a ssèntere = ài da starmi ad ascoltare =mi devi ascoltare; dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille = domani ò da tagliarmi i capelli= domani mi taglierò i capelli o anche:dimane aggi’’’a jí a d’’o barbiere = domani andrò dal barbiere azione che, rammento, può essere espressa però acconciamente anche con un verbo al presente: dimane vaco a d’’o barbiere= domani vado (andrò) dal barbiere ; ME’ voce verbale apocopata di mena = spingi, butta e nell’iterativo mena, me’= tira via, lascia correre! (2ª p. sg. dell’imperativo) dell’infinito menà che è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce' TRA’ voce verbale apocopata di trase = entra,vieni dentro, e nell’iterativo trase, tra’= suvvia, non perder tempo, entra ! (2ª p. sg. dell’imperativo) dell’infinito trasí/tràsere che è dal lat. transire→*trasire; ‘NFRA = fra preposizione semplice dal lat. infra→(i)nfra→’nfra. CU’ voce verbale apocopata di cu(rre) = corri,fa’ presto, affrettati, soprattutto nell’iterativo curre, cu’= suvvia, non perder tempo,sbrigati ! (2ª p. sg. dell’imperativo) dell’infinito correre che è dal lat. currere;la voce a margine non va confusa con l’omofona cu = con di cui parlerò in appresso; del resto questo cu = con, come chiarirò, va scritto senza alcun segno diacritico; PO’ corrisponde all’italiano puó (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito puté con etimo dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; la grafia usata per la voce a margine è l’ apocope di po(test) per cui la preferisco a pô dove nella ô si riconoscerebbe la contrazione del dittongo uo di puó; ma chi indicasse questa via non mi convincerebbe atteso che sotto sotto vorrebbe far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano non è mai, proprio mai!, tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato; VO’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato. PUÓ – VUÓ / BBUÓ rispettivamente puoi e vuoi (2ª pers. sg. ind. pres.) degli infiniti puté e vulé/bulé degli etimi ò detto precedentemente sub po’ e vo’; qui mi preme sottolineare la mia scelta di accentare i tre monosillabi in luogo di apocoparli puo’ – vuo’ / bbuo’ come suggerisce e fa qualcuno, operando una scelta che non mi convince poi che . come ò detto alibi – l’apostrofe dell’apocope non può indicare su quale delle vocali del dittongo deve cadere l’accento per una corretta pronuncia! Non tutti son tenuti a sapere che uò è un dittongo ascendente con la vocale accentata che segue la semivocale...., meglio indicare la precisa pronuncia accentando la vocale tonica! Esaurite, o almeno considerate molte voci verbali monosillabiche (le prime che mi son venute in mente...) passiamo oltre e trattiamo i pronomi: cominciamo con I’ apocope di io (sempre proclitico), pron. pers. m. e f. di prima pers. sing. indica la persona che parla; si impiega solo in funzione di soggetto o come predicativo quando il soggetto è ugualmente di prima persona singolare (nelle altre funzioni è sostituito dalla forma tonica me o dalla forma atona me); come soggetto può essere sottinteso, ma è sempre espresso quando possono sorgere dubbi sulla persona del verbo, quando si stabilisce una contrapposizione, quando è coordinato con un altro soggetto, quando lo si vuole sottolineare enfaticamente: (i’) nun crero a cchello ca se dice; quanno parlo (io) nun voglio essere interrotto; si (i’) nun facessi accussí, nun fosse o sarria cchiú io; forze è mmeglio ca i’ me ne vaco ; fallo tu, i’ nun ce riesco; i’ e isso continuammo a faticà ‘nzieme; ‘o faccio io!; io,a dicere ‘na cosa ‘e chesta? | si rafforza se è seguito da stesso o preceduto da anche, neanche, nemmeno, proprio, appunto ecc. : vengo i’ stesso; neanch'io so’ stato ‘nfurmato; sono stato proprio io a dicerlo ; l’etimo è dal lat. volg. eo per il class. ego. ‘O promome maschile o neutro proclitico che vale lo è usato come compl. ogg. e comporta, nel caso sia riferito al neutro, la geminazione della consonte d’avvio del verbo; riferito al maschile non lo esige; ess.: Chellu ppane? ‘O ffacette Nunziatina - Chillu ‘mpiccio ‘o facette isso! ‘A promome femminile proclitico che vale la ed è usato come compl. ogg. per solito innanzi a consonanti; innanzi a vocali si usa nella forma lla apostrofato →ll’ ess.: ‘a purtaje isso fino â casa.- ‘a sentettemo ‘a vascio ê scale! ll’âmmo (avimmo) sagliuta fino a ‘ncoppa! – ll’îmmo (avimmo)’ntisa ‘a vascio ê scale; CE/NCE corrisponde all’italiano ce o ci ed è pron. pers. di prima persona pl. atono; usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce ‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene tale ce/nce è usato anche come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje; mettimmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie; l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’. SÉ particella pronominale tonica corrispondente a quella dell’italiano sé= se stesso/a/i/e particella di cui forse non metterebbe conto di parlare, perché poco usata nel napoletano se non in particolari costrutti; ad ogni buon conto dirò che si tratta d’un pron. pers. rifl. m. e f. di terza pers. sing. e pl. si usa solo quando si riferisce al soggetto della proposizione, altrimenti è sostituito da isso, essa, lloro; è sempre sostituito da lloro quando vi sia reciprocità d'azione (parlavano tra lloro e non tra sé); si usa talvolta nei complementi retti da preposizione, spesso rafforzato da stesso o medesimo quantunque nel’uso gli si preferiscano i pronomi isso, essa, lloro;: se preoccupano solo ‘e lloro stessi; è suddisfatto d’isso; à fatto molto parlare ‘d’essa ; attirare a ssé; | come compl. oggetto, in luogo della forma atona se, acquista particolare risalto, soprattutto nelle contrapposizioni (e per lo piú seguito da stesso o medesimo): invece di se cunsidera cchiú ‘e ll’ate si può avere cunsidera sé stessocchiú ‘e ll’ate; aggenno accussí danneggia sé stesso e nun giova all’ate; ma meglio: aggenno accussí se danneggia e nun giova all’ate | | penzà sultanto a ssé, comportarsi egoisticamente | dinto di sé, fra sé e sé, nel proprio intimo: pensare qualcosa dentro d’isso, tra sé e ssé | ‘nzé =in sé, ‘nzé stesso = in sé stesso, ‘nzé e nzé e ppe ssé, si dice di cosa che viene considerata soltanto nella sua essenza, nella sua singolarità: ‘a cosa nzé tene poco valore; è ‘na risposta nzé e ppe ssé abbastanza nzipeta | a ssé, a parte, separatamente: è ‘nu caso a ssé; va cunsiderato a ssé | ‘a sé =da solo, senza l'aiuto di altri, senza che altri intervengano: vo’ fà tutto ‘a sé; ma meglio: vo’ fà tutto ‘a ppe isso;l’etimo di questo sé è il lat. sí. e passiamo ora altre varie particolari voci monosillabiche prima di affrontare avverbi, congiunzioni ed altro; OJ/O’ = ohi, fonema esclamativo che si premette ad un vocativo ad es.: oj ne’ (ragazza!) oj ni’ (ragazzo); esprime, secondo il tono con cui è pronunciata ed a seconda del soggetto cui è diretto, o un semplice richiamo o dolore, piacere, meraviglia, sdegno, dubbio, sospetto, compassione, paura o altro. Trattandosi di un fonema esclamativo à un’origine quasi certamente espressiva/onomatopeica e non è possibile azzardarne una qualche etimologia; rammento che ò trovato (anche in grandi scrittori (o intesi tali) partenopei la voce a margine oj riportata come oje e tutti costoro ànno inteso con tale oje, formulare il richiamo esclamativo, ma tutti sono incorsi nel medesimo errore poi che in pretto e corretto napoletano la voce oje non è un’esclamazione, ma un sostantivo che con derivazione dal lat. volg. hodie→(h)oje significa oggi: la forma apocopata o’ è usata in espressioni esclamative del tipo o’ fra’ (fratello!)te ll’aggiu ditto – o’ no’ (nonno!)lassàteme fà! Talora questo fonema è riportato nella morfologia oi con la vocale chiusa palatale (i) piuttosto che con la semiconsonante palatale (j) e di per sé non sarebbe una morfologia scorretta in quanto fu la medesima usata anche nell’italiano antico al posto di ohi, ma proprio per il fatto d’essere anche voce dell’italiano, perché nel napoletano non appaia un prestito della lingua nazionale, preferisco e consiglio d’usare la morfologia oj con la semiconsonante palatale (j) tipica del napoletano. QUA’ forma apocopata dell’agg.vo interrogativo o esclamativo qua(le) ‘a qua’ parte sî venuto? – qua’ giacchetta t’ hê miso! l’etimo è dal lat. quale(m). rammento che contrariamente a ciò che avviene nella lingua nazionale, in napoletano quale oltre che apocopato può essere tranquillamente eliso davanti a vocoli non esistendo in napoletano la forma tronca qual; NO avv. olofrastico come il corrispondente no dell’italiano è negazione equivalente ad una intera frase negativa, usata specialmente nelle risposte (si contrappone a sí): «ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane!» («l’ài visto?» «No»; «Parte oggi?» «No, domani!»). PO avv. di tempo = poi voce dal lat. post→po(st)→po, avverbio che in napoletano non esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua,ed invece mo (ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)). NU avv. negativo apocope non sillabica di nun corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette; nu pparlaje pe tutt’’a jurnata parlò ; nun c'è verzo d’’o fà capace! ; nun c'è prubblema; nu nce sta nisciuno; nun esiste ‘o riesto ‘e niente come il precedente l’etimo è nel lat. non. per la voce a margine, trattandosi di un’apocope non sillabica (con la sola caduta di una consonante (n) non è necessaria l’apposizione di alcun segno diacritico cosí come è avvenuto per il precedente pe←per e come avverrà quando si parlerà dell’avverbio mo e ciò a malgrado di qualcuno che consiglia la grafia nu’ forse nel timore che il nu potesse confondersi con l’articolo indeterminativo nu che taluno invece di vergar ‘nu à il gusto di scrivere privo del necessario segno distintivo d’aferesi... ‘UN avv. negativo aferesi non sillabica di nun corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase negativa: ‘un ‘o vedette e ‘un ce parlaje; è usato soprattutto in poesia per ragioni metriche. NE particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano e come per l’italiano è pron. m. e f. , sing. e pl. [forma atona che si usa in posizione sia enclitica sia proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni e si può elidere davanti a vocale] 1) riferito a persona o a persone già nominate in precedenza, di lui, di lei, di loro (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione e d'argomento): mancavano ‘e ggiuvane: a chella festa nun ce ne steva nisciuno; appena ‘o cunuscette,addivintajene amice; ne parlano comme ‘e ‘na perzona capace | in usi pleonastici:n’aggi’ntiso pure troppe! 2) riferito a cosa nominata precedentemente, di questo, di questa, di questi, di queste o di quello, di quella, di quelli, di quelle (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione, d'argomento, di causa e, nell'uso ant. o lett., anche di mezzo): damme ‘na caramella, io nun ne tengo cchiú ; aggio avuto ‘nu libbro libro e ggià n’asggiu liggiuto parecchie paggine; è ‘na cosa troppo/a delicata, preferisco nun parlarne; | in usi pleonastici: ne avimmo mangiate troppo/e assaje ‘e sfugliatelle!; nun ne tenesse, pe fatte mieje ‘e guaje! | in espressioni ellittiche: farne ‘e tutt’’e culure; sapernecchiú ‘e ll’ate; ce ne à ditto ‘nu sacco e ‘na sporta; 3) con valore neutro, riferito a un'intera frase o a un concetto già espressi in precedenza, equivale a 'di ciò': è proprio accussí, ma tu nun ne sî cunvinto; chesta è ‘a verità: è ‘na perzona scustumata, è impossibile nun tenerne cunto | in usi rafforzativi: nun avertene a mmale!; nun ne vale ‘a pena! 4) da ciò, da questo, da quello (indica derivazione, provenienza; in senso fig., conseguenza logica): s’ avvicinaje all'albero e ne spezzaje parecchi ffronne;nun putarria tirarne ata cuncrusione; pígliate ‘e responsabbilità tojele cu tutto chello ca ne dipende | riferito a persona, da lui, da parte sua, da loro, da parte loro: è stata sempe gentile cu tte , ma nun ne à avuto ca malazzione!;avimmo presentato a lloro ‘a richiesta nosta cchiú ‘e ‘na vota , ma non ne avimmo maje ricavato niente!: Questo ne è usato anche come avverbio ed à i medesimi usi sintattici del pron.: di lí, di là, di qui, di qua (indica allontanamento da un luogo, in senso proprio o fig.): «Sî stato a Napule?» «Sí, mo ne sto’ turnanno »; ‘na vota trasuto dint’ â ‘rotta, nun fuje cchiú capace ‘e ascirne; era ‘na situazzione difficile, ma ne venette fora cu ‘a bbona sciorta | in usi pleonastici: me ne vaco subbeto; se ne fujette ‘e corza | in taluni usi verbali ( jirsene, venirsene, starsene ecc.) è una semplice componente fraseologica: se ne veneva tinco tinco; se ne steva là sulo sulo. L’etimo della voce a margine è dal lat. inde. Procediamo oltre: NE’ è un’apocope sillabica in funzione vocativa del sostantivo nenna cfr. antea oj ne’ l’etimo di nenna = fanciulla, ragazza è forse dal greco neanías ma qualcuno prospetta (forse a ragione) lo spagnolo niña o il catalano nina→ninna→nenna; NI’ che è un’apocope sillabica in funzione vocativa del sostantivo ninno cfr. antea oj ne’ l’etimo di ninno è il medesimo di nenna di cui è maschilizzazione; ME/ MME pron. pers. m. e f. di prima persona sing. 1) forma complementare tonica del pron. pers. io; si usa come compl. ogg., quando gli si vuole dare particolare rilievo, e nei complementi introdotti da preposizioni: cercano proprio a mme; parlavano ‘e me; ll’ànno cunzignato a mme; a mme nun/’un me ne ‘mporta; è vvenuto addu me ajere; l'à fatto pe mme; nun pigliartela cu mme ; tra me e tte non c'è stato nisciuna putecarella; raramente è anche rafforzato da stesso o medesimo: me metto scuorno ‘e me stesso | da me, da solo, senza l'aiuto altrui: ll’aggiu fatto ‘a ppe mme | per me, per quel che mi riguarda: pe mme, puó ffà chello ca vuó | secondo me, a mio parere: , pe mme è tutto sbagliato | quanto a mme, per quanto mi riguarda: quanto a mme puó stà dint’ ê tranquille | ‘nfra me (o ‘nfra me e mme), dentro di me, nel mio intimo: parlavo ‘nfra me e mme; | nun saccio niente né ‘e me né ‘e te, 2) si usa quasi sempre preceduto dalla preposizione a come soggetto nelle esclamazioni e nelle comparazioni dopo come e quanto: povero a mme!; niru me !; nun sî comme a mme; ne sapevano quanto a mme | non è quasi mai usato come predicato nominale dopo i verbi essere, parere, sembrare, 3) si usa come compl. di termine in luogo del pron. pers. mi in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, sia in posizione enclitica sia proclitica: m’’o dicette; me ll’à date n’ata vota; me ne à fatte tante e ttante; mannàtemelo; pàrlamene. L’etimo della voce a margine è dal lat. me. MA’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo mamma cfr.ad es.: oj ma’ l’etimo della voce mamma è dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' e nel linguaggio infantile 'mamma, mammà’ E andiamo oltre; abbiamo i pronomi CHE pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca 1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje tu hai visto; ‘o ggiurnale che staje liggenno è chillo d’ajere 2) talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje ausanze che truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune: (nun) tene ‘e che se lamentà, (non) ne ha motivo; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che dicere, espressione di consenso 3) la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.): te sî miso a sturià, il che te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, dal che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a che pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che ti lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | ma che!, lo stesso che macché ||| come pron. indef. indica qualcosa di indeterminato (solo in partic. locuzioni): ‘nu che, nun saccio che, ‘nu certo che, ‘nu certo nun saccio che, | (‘nu) gran che, (una) gran cosa: oje nun aggiu cunchiuso (‘nu) gran che; ne parlano tutti buono, ma pe mme nun è (‘nu) gran che | un, ogni minimo che, un, ogni nonnulla: ‘ncazzarse p’ ògne minimu che come agg. interr. invar. quale, quali: che tipo è?; a che ora venarrà?; che llibre liegge ‘e solito?; nun saccio ch’ idee tene p’’a capa ||| come agg. escl. invar. quale, quali: ma che idee!; che bbella jurnata!; che perzone antipatiche! | (fam.) molto diffuso l'uso dell'agg. escl. in unione a un semplice agg., senza altra specificazione, in frasi del tipo: che bello!, che bellezza, com'è bello; che strano!, che stranezza, com'è strano | diffusa anche l'anteposizione dell'agg. qualificativo: scemo ca sî!, sei proprio stupido! rarissimamente è s. m. anzi è usato solo nell'espressione il che e il come e sue varianti, nel senso di 'ogni cosa, tutto': voglio sapé bbuono ‘o cche e ‘o ccomme; t’addimannarrà ‘o cche, ‘o ccome e ’o quanno. L’etimo del che è dal lat. quid mentre la forma ca è forse un prestito di comodo della congiunzione di cui qui di seguito, congiunzione per la quale qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí! Proseguiamo CA congiunzione che corrisponde all’italiano che 1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive? 2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bbevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje; 3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà 4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male; 5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe; 6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse 7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia; 8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato; 9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa; 10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno; 11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...; 12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje; 13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim. Dell’etimo di questa congiunzione ò già detto sub che come sempre sub che ò parlato del pronome ca = che. Procediamo oltre. Un’ altra congiunzione molto usata nel napoletano è la congiunzione SI corrispondente all’italiano se 1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste i truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jirce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te; 2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma! 3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto? 4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno 5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è! 6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc. Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano. Lasciando da parte altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione si per illustrare l’omofono, ma non omografo SI’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano. Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto ZI’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) ed usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si ottenengono gli scorretti zi’prevete o zi’ Giuanne. Per restare nel tema suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo: SIÉ che è usato per indicare la voce signora; per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come e pertanto esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." infece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa. - se = si pron. pers. rifl. m.le e f.le di terza pers. sg. e pl. 1 forma complementare atona del pron. pers. sé; si usa, in posizione sia enclitica sia proclitica, come compl. ogg. con i verbi riflessivi e con i verbi riflessivi reciproci: se veste cu ggusto; se ‘ncontrajeno tiempo fa; armatose ‘e ribbotta; aiutarse ll’uno cu ll’ato; vistosi scoperto; (si veste con gusto; si incontrarono tempo fa; armatosi di fucile; aiutarsi a vicenda;) ' come compl. di termine con i verbi riflessivi apparenti: s’è accattato ‘nu cappotto nuovo; se ‘nfilaje ‘a giacchetta; farse ‘na pusizziona(si è comprato un cappotto nuovo; si infilò la giacca; farsi una posizione) | nella coniugazione dei verbi intransitivi pronominali: se pentette amaramente;s’accurgette ‘e avé sbagliato; (si pentí amaramente; si accorse di aver sbagliato;) vergognarse, scurdarse ‘e di quaccosa; s’ allamenta ‘e tutto; riferennose a quanto aveva ditto (vergognarsi, dimenticarsi di qualcosa; si lamenta di tutto; riferendosi a quanto aveva detto) | 2 unito a un verbo di terza pers. sing. dà a esso valore impers.; se si accompagna ad altro pron. atono, lo segue: se dice, se raccumanna ca; ê vvote nun se sape chello ca se dice; se parte tra poco; nun ce se capisce niente; me s’addimanna troppo (si dice, si raccomanda che; talvolta non si sa ciò che si dice; si parte tra poco; non ci si capisce nulla; mi si chiede troppo) | nell'uso ant., a inizio di periodo, sempre in posizione enclitica: vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole 3 unito a un verbo transitivo attivo di terza pers. sg. o pl., gli conferisce valore passivo (è il cosiddetto si passivante):’a mostra s’ è ‘ncignata ô mese passato; se vennono quatre; (la mostra si è inaugurata il mese scorso; si vendono quadri;) 4 con valore intensivo e/o con sfumatura affettiva: s’è magnato ‘nu pullasto sano! Se facesse ‘e ccorna soje!(si è mangiato un pollo intero!; si faccia gli affari suoi!) Ciò detto passiamo agli avverbi monosillabici, cominciando con il SÍ avverbio olofrastico affermativo corrispondente all’italiano sí 1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?" "Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente ", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca = e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no 2) spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni ' sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca no, probabilmente sì ; 3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità! talvolta è usato come s. m. invar. 1) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa ' 2) pl. voti favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no. L’etimo di questo sí è dal lat. sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si congiunzione o dal si’ apocope di signore. Di... segno opposto l’avverbio olofrastico negativo NO scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no.

CCA( e non ca)avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua;  etimologicamente dal lat. (e)cc(um) (h)a(c); da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine  va scritto senza alcun segno diacritico  trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel  napoletano esistono , per vero,anche  una congiunzione ca = (giacché, poiché, perché)  ed un pronome ca = (che); la congiunzione ca è derivato del francese car→ca(r)→ca di uguale significato mentre il pronome ca = (che)  è  dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; ora  sia la congiunzione che il pronome     si rendono con la c iniziale scempia (ca), laddove l’avverbio a margine(cca) è scritto sempre con la  c iniziale geminata   e basta ciò ad evitar confusione tra i tre monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento   un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto,  non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però  aggiungere un’ultima osservazione:  è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel  registrare puntigliosamente  i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra   che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare  registrò  sí l’avverbio a margine  con la  c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal  registrato dai suoi  omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra   la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare  a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli  e ad altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche! 

 

 

  (segue)R.Bracale

 

 

 

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