60 DATATISSIME LOCUZIONI NAPOLETANE
1.‘ A
PRIMMA SCHIAVUTTELLA, ‘A SICONNA SIGNURINELLA Letteralmente: La prima
(considerata) serva, la seconda (considerata) signorinella, cioè padroncina.
Locuzione usata per sottolineare l’ingiusto comportamento di chi (soprattutto
genitore) usi due pesi e due misure nei confronti dei proprî sottoposti (piú
spesso) figlioli, considerandone uno alla stregua di servo/a ed un altro/a alla
stregua di padroncino/a meritevole d’essere esentato da ogni lavoro, e d’essere
anzi addirittura fatto oggetto di riverenza,ossequio,riguardo;
schiavuttella s.vo f.le diminutivo (cfr. il suff. ella) di schiavotta = serva,
ragazza di servizio; ragazza di carnagione scura; voce denominale di schiavo
dal lat. mediev. sclavu(m), slavu(m), propr. '(prigioniero di guerra) slavo';
semanticamente da riferirsi al fatto che gli schiavi erano spesso in genere di
carnagione scura; da sottolineare che nell’espressione in esame esiste il
voluto contrasto tra una ragazza di carnagione scura intesa perciò serva,
ragazza di servizio ed una ragazza probabilmente di incarnato chiaro intesa
perciò piú delicata, garbata, educata, sensibile, signorile insomma piú
padrona, che serva!
2.ADDÓ VAJE CU ‘O SCIARABBALLO, DICETTE ‘O CICENIELLO ‘NFACCI’ Ô SCUNCIGLIO.
Letteralmente: Disse l’avannotto al murice: Dove vai con il (tuo)carretto?!
Espressione usata per contestare al prepotente la sua azione fatta di
sopraffazione, abuso, sopruso, angheria, ingiustizia, violenza e rammentargli
che neppure all’arrogante è consentito eccedere ad libitum nel suo improprio
vessatorio comportamento, senza aspettarsi una reazione (per piccola che sia)
da parte del vessato tanto è vero che persino il piccolissimo avannotto
redarguí lo spinoso murice (che intendeva, con la sua mole, sottrargli spazio
vitale...);
addó/aró
= cong. ed avverbio di luogo che usato genericamente vale dove oppure mentre, invece (con valore avversativo); usato nelle interrogative vale dove, in quale luogo? usato
nelle esclamative vale proprio là dove! ; etimologicamente da un latino de ubi
con successivo rafforzamento popolare attraverso un ad del de d’avvio;
la forma aró con rotacizzazione osco-mediterranea della l'occlusiva dentale
sonora (d) e passaggio a scempia dell’originaria doppia ( derivante dall’
ad+de), è forma popolare del parlato, mentre la forma addó è d’uso letterario;
vaje
voce verbale (2ª persona sg. ind. pr.) dell’infinito jí (dal lat. ire) mentre
per le forme a margine dell’ind. presente ci si serve del basso latino
*vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) e si ottiene : i’ vaco,tu
vaje, isso va, mentre per 1ª e
2ª pers. pl. si usa il tema di
ji –re e si ànno nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª ps. pl che è lloro vanno.
cu
preposizione semplice che corrisponde all’italiano con in
tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) esprime relazione di compagnia, se è
seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme):
è partito cu ‘o pato ; à magnato cu
ll’ amice; campa (‘nzieme)
cu ‘a sora; 2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce
una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie
nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè
con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare
guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta
cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno;
casa cu ‘o ciardino; 4) introduce una
determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se
fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí
cu ll’acqua!; 6) può avere valore concessivo
o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu
tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà,
ma è proprio impossibbile. L’etimo
della preposizione a margine è dal lat. cum. Faccio notare che questo cu comporta sempre per assimilazione regressiva
il raddoppiamento dell’iniziale consonante scempia della parola
successiva; es.: cu(-m) te→cu tte =
“con te” - cu(-m) piacere→cu ppiacere; ovviamente ciò non vale quando la parola
che segue il cu sia già provvista di suo di una doppia consonante; es.: cu(-m)
stanchezza etc.
Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le
parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella
parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il
segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo
graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel
caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso
mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, sedicenti
esperti della parlata napoletana.
sciarabballo
s.vo m.le = carro rustico aperto con
sedili per trasporto di passeggieri, usato soprattutto in provincia in
sostituzione delle carrozze (vetture passeggieri riparate da un soffitto e da
cortine di stoffa) ; qui iperbolicamente riferito alla grossa spinosa
conchiglia del murice ; voce dal fr. char a bancs ;
‘nfacci’
ô locuzione prepositiva articolata: ad litteram in faccia ad il/lo ma
piú in breve al. Al proposito rammento che nel napoletano, cosí come
nell’italiano, le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno
tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e
mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo
articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il
solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione
semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si
esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi
mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso annoto
altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni articolate
formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni semplici, ànno
una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per una o due
preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa mantenendo
cioè separati gli articoli dalle preposizioni.
Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí come rese in
italiano e poi in napoletano:
con la preposizione a in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+
le agli = a+ gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli
la forma scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni
articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le)
con la preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo
agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte (crasi): â = a+
‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le);
con la preposizione di in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle
= di+ le, degli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli
articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di),
produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú
apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e; con la preposizione da in
italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+
gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il),
‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una
preposizione articolata di forma normalmente scissa e spessa apostrofata: da
‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata
(quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni
articolate formate con la preposizione de (=di), e d’acchito è impossibile
distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da
‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò dunque
proposto d’usare una forma affatto diversa per le preposizione napoletane da +
‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma che eliminando
l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione (crasi) usata per le preposizioni articolate
formate con la preposizione a consente di evitare la deprecabile confusione cui
accennavo precedentemente. . Rammento che nel napoletano è usata spessissimo
una locuzione articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo
– dalla – dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa
generalmente fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei
suoi elementi costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e es.: è gghiuto add’ ‘o
zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna, add’ ‘e pariente (è andata
dalla nonna, dai parenti);; francamente non si capisce da cosa sia generato
quel add’ né si comprenderebbe il motivo dell’agglutinazione della preposizione
a con la successiva da→dd’; a mio avviso è piú corretta e qui la propugno: a
ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es. avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato
dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai
parenti);; rammento tuttavia di non confondere
a ddô con l’omofono addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong.
subord. che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette
ed indirette.
Nel nostro caso la locuzione prepositiva è formata da un sostativo (faccia) con
protesi agglutinata di un in→’n (illativo) sino ad ottenere un ‘nfaccia che
unito alle crasi â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a +
i/gli oppure a+ le) dà volta a volta ‘nfacci’ ô, ‘nfacci’ â‘nfacci’ ê e cioè in
faccia al/allo oppure soltanto asl/allo, oppure in faccia alla oppure soltanto
alla, oppure in faccia alle/ a gli.
scunciglio/sconciglio.
s.vo m.le in primis disordine,
guasto, confusione ; per traslato uomo piccolo e deforme ed infine come nel
caso che ci occupa voce regionale campana usata per indicare il murice, mollusco
gasteropodo marino con grossa conchiglia spinosa avvolta a spira, da cui gli
antichi estraevano la porpora. Etimologicamente deverbale di
sconciglià/scunciglià = confondere,disordinare (dal lat.
ex-conciliare→sconciliareú→sconciglià/scunciglià).Il collegamento semantico tra
il verbo ed il s.vo inteso murice si coglie osservando che la grossa conchiglia
spinosa avvolta a spira del mollusco à forma disordinata, imprevista, fortuita,
casuale.
ciceniello
s.vo m.le voce regionale campana
usata per indicare il novellame dei pesci (bianchetti/avannotti) ; quanto all’
etimo penso che esso vada cercato piú che nel latino “caecella” = anguillina,
come per un certo tempo pensai, ma altrove e cioè che si tratti molto
probabilmente di un diminutivo (eniello/e) derivato dal lat. caec(um) atteso
che il novellame che è molto piccolo si presume cieco.
3. VECCHIA ‘A PANZA S’ARREPECCHIA : ‘A CHITARRA ‘UN SONA CCHIÚ. Letteralmente:
alla vecchia la pancia le si affloscia e raggrinzisce e la (sua) chitarra non
suona piú. Id est: una donna vecchia perde l’avvenenza delle forme; la pancia,
(come il seno) pèrdono di tonicità, afflosciandosi e conseguenzialmente le
vengono rifiutati ed a mancare i piaceri del sesso (che ad una persona vecchia,
non piú formosa od attraente, si negano). Nell’espressione in esame la voce
chitarra (dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára. che normalmente indica un
noto strumento musicale a corde,provvisto di cassa armonica formata da due
tavole (di cui la superiore con foro centrale, détto rosa) unite da una fascia,
di paletta con meccanica per tender le corde) è usata per indicare
furbescamente la vulva femminile, semanticamente richiamata dalla rosa/foro
centrale, ed inteso quale strumento di piacere ;
in tale medesima accezione la voce chitarra la si ritrova nella smorfia
napoletana che al numero 67 fa corrispondere l’espressione ‘o totaro dint’ â chitarra letteralmente: il totano nella chitarra,
e ci si trova davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e
furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che
è dal lat. coitu(m), deriv. di coire 'andare insieme') in effetti è molto
semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa
adombri la chitarra con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo:
totaro deriv. del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di mollusco
simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano
attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro.
arrepecchia voce verbale 3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito arrepicchià = in
primis rappezzare, accomodare alla meglio, estensivamente come nel caso che ci
occupa aggrinzare,afflosciare; voce denominale di ad+ repecchia→arrepecchia
rafforzativo di repecchia attestata altresí con lettura metatetica rechieppa
s.vo f.le = grinza, piega,ruga (dal lat. rappicula→rapicla →repecchia).
4.SI 'O GALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA.
Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La
locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione
di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma
continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.Va da sé che
nella fattispecie dell’espressione in esame non vi sia, né possa esservi alcun
nesso di relazione tra il fatto che se il gallo avesse defecato, Cocò non
sarebbe morto ; e ciò perché chi sia sia o fosse fosse quel non meglio
identificato Cocò, la sua vita non può dipedere dalle funzioni fisiologiche di un
gallo a meno che quel Cocò non fosse il nome del gallo medesimo affetto da una
pericolosa stipsi. Ma in queste icastiche espressioni non v’è mai una
razionalità tanto stringata !
5.CAMMENÀ CU ‘A CARROZZA D’ ’O SCARPARIELLO Letteralmente: Incedere con la
carrozza del ciabattino; id est: usare come carrozza quella fornita dal
ciabattino, e cioè le proprie scarpe, marciando a piedi. Espressione usata a
divertita chiosa del comportamento di chi non perché salutista, ma perché
parsimonioso al massimo,quasi avaro, pur di risparmiare i pochi soldi per
servirsi di una carrozza per il trasporto pubblico, si rassegni a marciar a
piedi.
carrozza s.vo f.le
1 vettura a quattro ruote, con chiusura a cabina o a mantice, trainata da uno o
piú cavalli, per il trasporto di persone. DIM. carrozzella/carruzzella,
2 vagone ferroviario per il trasporto di persone: carrozza di prima, di seconda
classe | carrozza letto, provvista di cuccette | carrozza ristorante, dove si
servono i pasti | carrozza ristoro, dove si fa servizio di bar
3 mozzarella ‘ncarrozza, specialità della cucina napoletana costituita da due
fette di pane senza crosta ripiene di mozzarella,bagnate nel latte, infarinate,
intinte nell'uovo e poi fritte. etimologicamente voce dallo spagnolo carroza
marcata su di un lat. barbarico *carrocea affine al cl. carrus;
scarpariello s.vo m.le diminutivo (cfr. suff. iello) di scarparo s.vo m.le
letteralmente non è il ciabattino, colui che accomoda le scarpe rotte (costui,
in corretto napoletano è ‘o solachianiello ), ma è il fabbricante di scarpe,in
linea con l’etimologia del termine scarparo che è dal portoghese-spagnolo
escarpa con l’aggiunta di un suffisso di attinenza arius→ aro di reminescenza
latina; da quanto détto se ne ricava che la locuzione piú acconciamente potrebbe
esser resa con Cammenà cu ‘a carrozza d’ ’o solachianiello (ciabattino) e non
Cammenà cu ‘a carrozza d’ ’o scarpariello il (giovane fabbricante di scarpe).
6.CARNEVALE MIO, SI SAPEVO CA MURIVE, T’ABBUFFAVO ‘E SSCORZE ‘E LUPINE
Lettaralmente: Carnevale mio, se avessi saputo che saresti morto ti avrei
nutrito di cocce di lupini (piuttosto che di gustose e costose pietanze, quali
lasagne ripiene,polpette e/o brasciole di manzo o di cotiche di maiale al ragú
(che sono i tipici cibi con cui si imbandiscono le tavole prima dell’inizio
della quaresima) che non ài apprezzato sino in fondo e di cui non m’ài
ringraziato!). Espressione sarcastica usata nei confronti di chi beneficiato di
gratuiti aiuti e/o provvidenze dal proprio prossimo,non li apprezzi a sufficienza
o addirittura si mostri ingrato ed irriconoscente; a siffatti individui ci si
riferisce con la frase in esame per bollarli di ingratitudine, irriconoscenza e
d’essere volutamente immemori, dimentici, tal quale il Carnevale che nutricato
di costose e gustose pietanze nell’ultimo dí delle sue feste (martedí grasso),
mostra di non giovarsene appieno ed ugualmente decede per dare spazio alla
quaresima (mercoledí delle ceneri);
Carnevale s.vo m.le
1 periodo dell'anno che va dall'epifania all'inizio della quaresima; in
partic., l'ultima settimana di questo periodo, dedicata tradizionalmente ai
divertimenti e alle feste mascherate: veglione di carnevale | bruciare il
carnevale, dar fuoco al fantoccio che lo rappresenta; (fig.) terminare la festa
| prov. : a, di carnevale ogni scherzo vale, durante il carnevale tutto è
lecito
2 (estens.) l'insieme delle feste, delle manifestazioni organizzate durante il
carnevale: il carnevale di Venezia, di Viareggio. DIM. carnevaletto,
carnevalino ACCR. carnevalone
3(estens.) la maschera che rappresenta quelle feste;
4 (fig.) tempo di spasso e di allegria; chiasso, confusione | carnevalata,
pagliacciata.
voce derivata a mio avviso piú che (come opinano i piú) da carne levare, perché
dopo tale periodo cominciava l'astinenza quaresimale, dall’espressione
esclamativa latina carne(m) vale! = ti saluto carne! e ciò sempre perché dopo
tale periodo cominciava quello quaresimale e la carne per quaranta giorni era
bandita dalla mensa;
abbuffavo voce verbale (1ª pers. sg. imperf. ind.)dell’infinito abbuffà =
gonfiare, dilatare, ingrossare, allargare, enfiare satollare; etimologicamente
deriva quale denominale da un latino ad +bufo→adbufo→abbufo→abbuffo= farsi
gonfio come un rospo (lat. bufo/onis).
scorze s.vo f.le pl. di scorza = buccia, guscio, baccello, involucro, tegumento
ma anche corteccia d’albero, pelle, spoglia di serpente e nel caso che ci
occupa valva vuota di mitili e/o molluschi ; etimologicamente dal
lat. scortea(m) 'veste di pelle', s.vo dell'agg. scorteus, deriv. di scortum
'pelle';
lupine s.vo m.le pl. di lupino nome regionale (alibi longone) d’ un tipo di
mollusco bivalve affine alla vongola verace, ma piú piccolo, di colore piú
chiaro e sprovvisto di sifoni ; il nome gli deriva dall’esser simile per forma
al seme del lupino (dal lat. lupinu(m), agg. deriv. di lupus 'lupo'; propr.
'erba dei lupi') pianta erbacea che produce semi gialli che bolliti e salati
sono commestibili, (fam. Leguminose).
7. CAZZE, CAZZILLE E SS’ ’O TRUVAJE PICCIRILLO
Détto di chi eternamente indeciso/a, incerto/a, dubbioso/a, esitante,
tentennante, irresoluto/a,insicuro/a procrastini indefinitamente le sue scelte
o decisioni finendo per fare o prendere quelle meno esatte o utili; nella
fattispecie lo si dice sarcasticamente di una donna che incerta o
incontentabile, dopo d’aver indagato lungamente fra varî tipi di uomini finí
per scegliere il meno provvisto di quell’attributo maschile inteso come emblema
di forza, intelligenza e capacità.
cazze s.vo m.le pl. di cazzo s.vo m.le
1 (come nel caso che ci occupa)membro virile, pene;
2 (fig.) imbecille, persona sciocca, minchiona. testa di cazzo, accr. cazzone
3 (fig.) nulla, niente: nun valé, nun capí, nun cumbinà ‘nu cazzo (non valere,
non capire, non combinarenulla) | usato come rafforzativo spreg. in locuzioni
negative: sono guarito... in grazia dell'aver fatto a modo mio, cioè non aver
usato un cazzo di medicamenti (LEOPARDI Lettere)
4 pl. (fig.) casi, fatti propri di qualcuno: nun se fa maje ‘e cazze suĵe( non
si fa mai i fatti suoi) ||
5 Usato come inter. per esprimere stupore, ira, dispetto e sim.
etimologicamente da una voce gergale marinaresca greca akatiòn→(a)katiòn→cazzo=
albero della nave;
cazzille s.vo m.le pl diminutivo della voce precedente (cfr. il suff. ille pl.
di illo)
truvaje voce verbale (3ªpers. sg. pass. remoto)dell’infinito truvà =trovare, ma
anche e qui imbattersi in;forse da un lat. volg. *tropare,(esprimersi per
tropi, che fu il modo tipico dei trovatori) dal class. tropus 'tropo'(qualsiasi
uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio ad un
altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia, la sineddoche,
l'antifrasi, l'iperbole sono tropi ); ma preferisco pensare che l'etimo sia dal
lat. volg. *truare propriamente rimestare in un brodo quasi andando alla
ricerca di qualcosa; tipico del napoletano la epentesi eufonica di una
consonante (qui v) donde *truare→truvare ;
piccerillo/rella s.vo ed agg.vo m.le o f.le piccolino, minuto scarso, esiguo;
sparuto limitato, leggero,modesto; etimologicamente voce derivata da un lemma
fonosimbolico pikk (donde anche l’italiano: piccino) con ampliamento della base
attraverso rillo/rella(piccerillo/piccerella) o altrove reniello/renella
(piccereniello/piccerenella).
8.CCA SOTTO NUN CE CHIOVE! (JEVANO DICENNO ‘E PISCE SOTT’ACQUA...) Ad litteram:
Qui sotto non ci piove(dicevano i pesci sott’acqua)
L’espressione, pronunciata tenendo puntato il dito indice della mano destra ben
teso contro il palmo rovesciato della mano sinistra, viene usata, a mo’ di
risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto
o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso; e ciò
nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile
mancanza di parola data e, per converso, si è pronti secondo un noto principio
partenopeo che statuisce: fa’ comme t’è ffatto ca nun è peccato (comportati con
gli altri come gli altri si sono comportati con te, ché non peccherai…) a
restituire pan per focaccia; rammento che l’espressione originaria è quella
fuori parentesi, espressione che da sola è significativa e sostanzia
l’intendimento vendicativo di chi la pronuncia ; la parte tra parentesi è
aggiunta a mo’ di spiegazione che però non dà,ed è perciò inutile e pletorica e
non significativa ed infatti nell’uso comune non viene pronunciata! In effetti
sott’acqua è ben difficile cogliere gli effetti di una eventuale semplice
pioggia che non sia uragano o temporale violento ed è del tutto ovvio che un
pesce che nuoti sott’acqua possa affermare che lí sotto non ci piova, ma ciò
non offre il destro di cogliere il significato dell’avvertimento lanciato
stringatamente con il semplice Cca sotto nun ce chiove! (Qui sotto non ci
piove!).
cca cca ( e non ca)avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua;
etimologicamente dal lat. (e)cc(um) (h)a(c); da notare che nell’idioma
napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va
scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non
ingenera confusione con altri; nel napoletano esistono , per vero, una
congiunzione ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione (ambedue dal lat.
quia→q(ui)a→qa→ca che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove
l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta
ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare
l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di
taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno
addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno
d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura
ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già
inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è
alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno
diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere
un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R.
Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dai due
omofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea,
giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica
era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo
tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata
napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi
vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele
D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò
sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un
inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi
omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la
linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi
sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri talune
imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni spocchiosi
sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno
addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di regole
linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a
fantasiose, erronee soluzioni grafiche!
sotto avv. di luogo (dal lat. subtus, avv. deriv. di suªb 'sotto');
nun avv. di negazione(dal lat. non) = non ; talvolta viene aferizzato in ‘un o
apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu
(un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a
troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è
improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo
maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo
indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi
che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran
dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non
segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore
(si chiami pure Di Giacomo, Eduardo,Nicolardi etc.)Del resto non è inutile
ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi
non poterono avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del
napoletano, supporti che erano inesistenti del tutto ed i pochissimi esistenti
(Galiani, Oliva) erano malamente diffusi, né potevano far testo, vergati
com’erano da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso
imprecisi e impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono
istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica
(cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano
adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc.
spessissimo usarono maldestramente adattare le nozioni grammaticali-sintattiche
dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano
essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
chiove = piove voce verbale impersonale ind.pr. dell’infinito chiovere =
piovere ; (dal lat. tardo plovere, per il class. pluere) normale il passaggio
del digramma latino pl seguito da vocale al napoletano chi (cfr.
chiummo←plumbeu(m) - chiazza←platea – chieja← plica(m)).
9.CHESTA È ‘A SCÒLA ‘E DONNA PEPPA
Letteralmente:questa è la scuola di donna Peppa! Id est: questo è un luogo dove
regna il caos, il chiasso, l’insubordinazione, il disordine, l’eccesso,
l’intemperanza e la sfrenatezza rumorose; détto ironicamente di luoghi e/o
situazioni dove regnino frastuono, fracasso, baccano, rumore, trambusto,
putiferio, schiamazzo, strepito, canizza, chiassata, gazzarra quasi che fosse
stato preso a modello il comportamento rumoroso, chiassoso normalmente tenuto
dal pubblico plebeo volgare, grossolano, rozzo, incivile di quel teatro
popolare sito in via Marina nei pressi
della Chiesa del Carmine di piazza
Mercato , comunemente chiamato ‘a puteca ‘e Donna Peppa ( che era la famosa
donna Maria Giuseppa Errico (Napoli, 1792-† ivi 1867), , moglie di Salvatore
Petito e mamma del famosissimo Antonio – Totonno Petito),teatro dove il
pubblico dei lazzaroni notoriamente interloquiva con rumorosa sfrenatezza di
gesti e di gergo con gli attori nel corso della rappresentazione.Nella
espressione in esame quel teatro/puteca (bottega) è détto ironicamente scòla
(scuola) in quanto modello, fonte di cattivo insegnamento.
9. Bis La medesima Donna Peppa ( cioè la famosissima donna
Maria Giuseppa Errico (Napoli, 1792-† ivi 1867), , moglie di Salvatore Petito e
mamma del celeberrimo Antonio – Totonno Petito), accreditata di essere donna insofferente,
intollerante e nervosa per i modi spicci
e sbrigativi con cui affrontava il facinoroso pubblico di adulti e di minori
del suo teatro/puteca, viene chiamata in causa nelle icastiche espressioni 1)
DONNA PEPPA, TUTTO LLE FÈTE SOTT’Ô
NASO o alternativamente 2) DONNA PEPPA,LLE DÀNNO ‘MPICCIO ‘E PILE ‘INT’Ô NASO, espressioni che ad litteram
valgono 1)Donna Peppa, le pute tutto sotto il naso!, 2)Donna Peppa, le sono di
fastidio i peli nel naso!, espressioni alternativamente usate a dileggio,soprattutto
di donne, ma talora anche di uomini, che
si mostrino intolleranti, insofferenti, impazienti, smaniose/i anche in presenza delle piú lievi seccature o di risibili
intralci, tal quali la mamma di Totonno Petito.
10. DICETTE 'A SIÉ CHICHIERCHIA: 'A PRUDENZIA NUN È MMAJE SUPERCHIA!
Disse la signora Chichierchia: la prudenza non è mai eccessiva
Id est: è buona norma usare sempre molta prudenza.
Con il termine chichierchia , normalmente,nell’idioma napoletano (con etimo da
un acc.vo latino cicercula(m) dim.vo di cicer) si identifica la cicerchia,
povero, ma gustoso legume cosí povero da essere usato spesso quale mangime del
bestiame; qui se ne è fatto, per rimare con la parola superchia, un nome
proprio e lo si è assegnato ad una fantomatica signora sulla cui bocca è posto
il wellerismo.
prudenzia s.vo f.le astr. = prudenza Dal lat. prudentia(m), deriv. di prudens
-entis 'prudente'; del latino la voce napoletana conserva piú acconciamente
rispetto alla corrispondente voce italiana, la i etimologica della sillaba
finale;
superchia agg. femm. metafonetico del masch. supierchio = eccessivo, eccedente
con etimo dal lat. *superculum; rammenterò che il masch. supierchio diventa
neutro nella forma ‘o ssupierchio usato per indicare tutto ciò che eccede o
sopravanza.
sié = signora forma apocopata, (ma accentata per indicare l’esatta pronuncia)
di una ricostruita voce francese femminilizzata e metatetica da seigneur→
sei-gneuse→sie(gneuse).
11.CHI ‘NFRUCE, NUN LUCE!
Chi conserva,affastella, mette via e da parte,non riluce. Détto di chi troppo
parsimonioso quando non avaro è abituato a conservare piuttosto che a spendere
ed a far cicolare il proprio danaro; di costui si afferma che con il suo
comportamento non può risplendere cioè fare bella figura e farsi notare,
restando nell’anonimato dell’avarizia, nel buio della tirchieria, taccagneria,
pitoccheria: va da sé infatti che anche l’oro, se nascosto, non può splendere!
‘nfruce voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito ‘nfrúcere =
stipare, calcare,conservare, ammassare, stivare, assembrare, metter da parte,
ammucchiare;
luce voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito lúcere = in primis
splendere, emanar luce; per traslato risaltare, imporsi, emergere,
distinguersi, eccellere, primeggiare
12.CHI STENNERE SE VO’ CCHIÙ ‘E CHELLO CH’È LUONGO ‘O LENZÚLO, MOSTA APPRIMMA
‘E PIERE E DOPPO PURE ‘O CULO.
Chi vuole distendersi piú di quanto sia lungo il lenzuolo, finisce per scoprir
dapprima i piedi e poi anche il sedere.
Id est: Chi improvvidamente vuol fare il passo piú lungo della gamba è
destinato a fine ingloriosa; chi eccede le proprie possibilità operative, vuoi
per ridotte capacità mentali e/o fisiche, vuoi per insufficienza di mezzi è
destinato all’insuccesso anche vergognoso.
lenzúlo s.vo m.le s. m. [pl.m.le ‘e lenzule con riferimento a piú teli, che si
stendono sul letto e fra i quali si giace; anche pl.f.le ‘e llenzòla, con
riferimento al paio che si stende sul letto] = lenzuolo; la voce in esame è
etimologicamente dal lat. linteolu(m) 'pannolino', dim. di linteum, neutro
sost. dell'agg. linteus 'di lino'; linteolu(m)→
lint(e)olu(m)→lentulu(m)→lenzulo
mosta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito mustà = 1 far
vedere, sottoporre alla vista o all'attenzione di altri,esibire;
etimologicamente dal lat. monstrare, deriv. di monstrum; propr. 'indicare il volere
divino'; monstrare→ mo(n)strare→ mo(n)st(r)are→ mustare/mustà.
13.CHI TÈNE ‘A LENGUA VA ‘NSARDEGNA.
Ad litteram: a)chi à lingua (cioè sa parlare) arriva in Sardegna, ma anche
b)chi parla troppo finisce in Sardegna.
Locuzione, come si vede,che può avere una doppia valenza o interpretazione:
quella sub a) fa riferimento al comportamento di chi abbia padronanza di
eloquio e non disdegni di richiedere informazioni che possano aiutarlo a
raggiungere la Sardegna , regione ritenuta, temporibus illis, molto lontana e
difficile da raggiungere; la valenza sub b) si riferisce invece a chi sia
troppo linguacciuto al segno di mancare di rispetto, a mo’ di esempio, ad un
suo superiore, che può punirlo trasferendolo in Sardegna , terra ritenuta
inospitale oltreché lontana.
léngua/lénga s.vo f.le in doppia morfologia = lingua ; rammento che la voce a
margine (dal lat. lingua(m)→lengua(m) e poi per semplificazione espressiva del
dittongo ua→a lenga) à prodottodalla forma lenga il s.vo f.le lengorïata ampia
sgridata,estesa rampogna, durevole strigliata, verbosa paternale con finalità
educative ; si tratta d’un’ antica e desueta voce derivata come ò détto dal
s.vo lenga/lengua con riferimento semantico alla lunga articolazione della
lingua di chi procedesse a tale ampia sgridata,estesa rampogna, durevole
strigliata, verbosa paternale.
14.CUMMÒGLIAME ‘STU PIETTO CA ‘STU CULO ME STA SCUPIERTO
Coprimi il petto poiché ò il sedere scoperto....
Espressione sarcastica messa sulla bocca di una donna svampita ed irrazionale
che benché iperbolicamente inceda con il fondoschiena scoperto chiede che le si
copra il seno. Con la medesima espressione si commenta ironicamente il
comportamento irragionevole di chiunque sciocco , presuntuoso e sprovveduto
invece di occuparsi in maniera corretta conseguente e logica di un bisogno (non
rendendosi conto delle reali necessità derivanti da una situazione in corso
d’opera) attende a problemi succedanei o incongruenti con il bisogno de quo.
pietto s.vo m.le = petto, le mammelle della donna, il seno, la parte anteriore
del tronco umano, compresa tra il collo e l'addome; voce dal lat. pectŭ(s) con
dittongazione della e intesa breve ed assimilazione regressiva ct→tt;
scupierto part. pass. aggettivato dell’infinito scuprí = scoprire, denudare,
mostrare, esporre ( dal lat.s (distrattiva) +cooperire, comp. di cum 'con' e
operire 'coprire, occultare'.
15.DALLE E DALLE ‘O CUCUZZIELLO ADDEVENTA TALLO.
Letteralmente: Dagli e dagli la zucchina diventa tallo.Id est: ad insistere
sempre sulla medesima questione si finisce male come a cogliere zucchine
continuamente, della pianta non ne restano che le foglie. Il tallo è la foglia
commestibile delle cucurbitacee, ma pure essendo edibile è sempre meno pregiata
della zucchina che già di suo non è molto saporita.
cucuzziello s.vo m.le
tallo s.vo m.le in generale complesso dellefoglie degli ortaggi, corpo delle
piante inferiori, non differenziato in radice, fusto e foglie, germoglio,talea
qui segnatamente della pianta di zucchine; voce dal lat. thallu(m), dal gr.
thallós 'germoglio', deriv. di thállein 'fiorire'.
16.D’ ’E DENARE D’ ’O CARUCCHIARO SE NE VEDE BBENE ‘O SCIAMPAGNONE
Del danaro (messo da parte e lasciato in eredità) dall’avaro, ne gode(l’erede)
scialacquatore.
Icastica espressione che fotografa una realtà incontrovertibile quella cioé che
un soggetto parsimonioso, risparmiatore, economo, parco, misurato,semplice,
sobrio, frugale per non dire avaro, il piú delle volte à come erede e
beneficiario delle fortune accantonate uno sciupone, sprecone, spendaccione,
dissipatore che provvederà a dilapidare i beni accumulati dal suo dante causa.
Estensivamente l’espressione si attaglia a tutte quelle situazioni in cui
esista un soggetto prudente, lungimirante, avveduto, cauto, accorto, sagace,
preveggente che veda le sue fatiche rese vane dal comportamento imprevidente,
imprudente, avventato, sconsiderato, incauto, malaccorto d’un suo
collaboratore, sodale, amico, figlio o parente. carucchiaro/a agg.vo e s.vo
m.le o f.le tirchio/a, spilorcio/a, taccagno/a,avaro/a, pitocco/a;
voce etimologicamente derivata dal s.vo carocchia addizionato del suff. di
pertinenza aro/a dal lat arius/ara→arus/ara;
la carocchia s.vo f.le di per sé è il nocchino,un piccolo colpo secco, ma
doloroso assestato al capo e portato con movimento veloce dall’alto verso il
basso con le nocche maggiori delle dita della mano serrata a pugno.
Etimologicamente non dal lat. crotalum che indica la nacchera, strumento
musicale e non tipo di percossa…,ma dal greco karà=testa attraverso un lat.
regionale *caròclu(m) ed il plurale reso femm. caròcla (tipica la mutazione cl
in ch come in clausu(m) che diventa chiuso) ; questo s.vo si collega
semanticamente alla voce che identifica il/la tirchio/a, spilorcio/a,
taccagno/a,avaro/a, pitocco/a perché questi ultimi fanno le proprie fortune
mettendo da parte soldo a soldo quasi a piccoli colpetti consecutivi quali sono
i nocchini/carocchie.
sciampagnone/a agg.vo e s.vo m.le o f.le generoso/a, prodigo/a, munifico/a;
spendaccione/a sciupone/a, sprecone/a, spendaccione/a, dissipatore/trice;
17.DICETTE ‘A FIGLIOLA QUANN’’O VEDETTE : “’AZZÓ, E CCHE BBELLU CAPITONE SENZA
RECCHIE!”
La ragazza che lo vide (la prima volta)disse: “Accidenti che bel capitone privo
d’orecchie!” Espressione icastica e furbesca che però non à alcuno intento né
proverbiale, né didascalico come invece molte delle locuzioni popolari
napoletane. Questa si limita a riportare un salace accostamento messo sulla
bocca di un’ignota ragazza che vedendo la prima volta un membro maschile in
erezione lo paragonò ad un capitone, cioè alla famosa anguilla femmina di
grosse dimensioni, pregiata per le sue carni, che è cibo tradizionale delle
feste di Natale, ma precisò che si trattava di un capitone privo d’orecchie; in
effetti il capitone e cioè la grossa anguilla femmina, regina delle napoletane
tavole di magro della vigilia di Natale, allorché viene ammannito arrostito
alla brace, in carpione, in umido, all’agro o fritto à una morfologia
particolare e la sua grossa testa appare fornita di due minuscole appendici
laterali traslucide, volgarmente détte orecchie ; rammento che la voce capitone
etimologicamente è dall’accusativo latino capitone(m) da capito/onis
collaterale di caput/tis in quanto oltre il corpo à una testa molto
pronunciata; rammenterò che nelle tombole familiari quando si estraesse il num.
32 chi lo estraeva annunciava trionfante: trentaroje ‘o capitone!,ma súbito
chiosava: cu ‘e rrecchie volendo significare che si intendeva riferire proprio
alla grossa anguilla provvista ai lati del capo di due piccole, trasparenti
appendici ritenute orecchie, e non intendeva, col dire capitone, riferirsi ad
altro furbesco richiamo non ittico, di appendice maschile spesso ricordata con
la voce: ‘o capitone senza recchie (il capitone privo d’orecchie).
‘azzó! esclamazione costituita attraverso l’uso aferizzato e con spostamento
d’accento sulla seconda sillaba(per marcarne il tono esclamativo) del s.vo
cazzo→’azzó ; come ò già ricordato (cfr. antea sub 7.) il s.vo cazzo è usato
come inter., come in questo caso, per esprimere stupore, ira, dispetto e sim.
Talora ed alibi sempre come esclamazione si usa la morfologia ‘azze!, ma trovo
piú corposo e forse eufemistico l’uso di ‘azzó!
Etimologicamente da una voce gergale marinaresca greca akatiòn→(a)katiòn→cazzo=
albero della nave.
18.È ACQUA CA NUN LEVA SETE!
È acqua che non disseta! Lo si dice in senso di malcelato rammarico quando si
ricevano provvidenze sia materiali (paga, salario, compenso, rimunerazione,...
eredità) che morali ( dimostrazioni di affetto,bene, attaccamento, affezione,
amore) notevolmente inferiori a quelle attese e/o sperate.
19.FARNE TUTTE CICERENNAMMUOLLO
Farne soltanto moine smancerie, vezzi, leziosaggini
Lo si dice con profondo senso di amarezza a commento delle azioni prive di
risultati pratici di coloro che chiesti o invitati a conferire il loro fattivo
contributo ad una causa comune si limitano a blandizie e smancerie (tipiche
degli innamorati) che riempiono gli occhi di fumo , ma non ànno sostanza! In
effetti con il s.vo m.le pl. cicerennammuolle si intendono le svenevolezze, i
vezzi, le leziosaggini proprie degli innamorati tutte cose che mancano di
essenza, fondamento, nocciolo, succo, sugo, in uno di consistenza reale e pratica;
etimologicamente il termine cicerennammuolle è l’incrocio tra cicerefuoglio e
l’aggettivo muolle con epentesi sillabica di raccordo nna; rammento che il
cerfoglio(lat. caerefolium) in nap. cerefuoglio o cecerefuoglio→ cicerefuoglio
indica oltre che la pianta delle ombrellifere anche gli sgorbi fatti a caso con
penne e/o matite sui fogli di carta ed ancóra i vezzi, le moine, le
sdolcinature, tutte cose che semanticamente posson ricondursi anche alle
bizzarríe,alle stranezze bizzose nonché alle minuzie e/o sciocchezze;
20. ‘E FFÉMMENE ‘E CASANOVA PISCIANO ‘NTERRA E DÍCENO CA CHIOVE
Le meretrici orinano in terra e dicono che piove.
Icastica antica espressione che fotografa una realtà incontrovertibile quale
quella delle meretrici che ànno l’abitudine (dettata da necessità) di mingere
per istrada (sul ... posto di lavoro) e di scusarsi (con chi dovesse
redarguirle di questa pratica invetereta) accampando scuse e dicendo che esse
non ànno colpa in quanto il bagnato della strada lo si deve alla pioggia e non
al loro orinare. L’espressione è usata in senso esteso per sarcasticamente
commentare il vigliacco comportamento di chi codardo , ignobile, abietto,
sistematicamente evita di assumersi le responsabilità delle proprie azioni e la
scarica su altri o sulla fatalità dell’esistenza umana.
‘e ffémmene ‘e Casanova =ad litteram le donne di Casanova ma da leggersi come:
le sacerdotesse d’amore è locuzione nominale usata in luogo di uno dei tanti
sinonimi napoletani di prostitute, meretrici, etc. (cfr. alibi sub Meretricio):
fémmene s.vo f.le pl. di fémmena s.vo. f.le1 nome generico di ogni individuo
umano o animale portatore di gameti femminili atti a essere fecondati da quelli
maschili, e quindi caratterizzato dalla capacità di partorire figli o deporre
uova; 2 essere umano di sesso femminile; donna, bambina ( vocedall’acc. latino
foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo popolare della
postonica m in parole sdrucciole).
Casanova Giovanni Giacomo. – Dissoluto avventuriero, donnaiolo, gran tombeur de
femmes (Venezia 1725 -† Dux, Boemia, 1798); figlio di attori, presto orfano di
padre ed affidato dalla madre (Giovanna Maria C., detta Zanetta) alla nonna
materna, fu studente a Padova, chierico a Venezia e in Calabria, segretario del
cardinale P. Acquaviva a Roma, soldato dell'armata veneta in Oriente,
violinista dal 1746 nel teatro S. Samuele a Venezia. Accolto come figlio dal
senatore M. G. Bragadin, nel 1750 riprese la sua vita randagia attraverso la
Francia, Dresda, Praga e Vienna, finché, tornato a Venezia nel luglio 1755, fu
rinchiuso nei Piombi sotto l'accusa d'aver tentato di diffondere la massoneria.
Evaso, tornò in Francia, ove introdusse il gioco del lotto nel 1757, e, sotto
il nome di cavaliere di Seingalt, fu in Olanda, Germania, Svizzera, Italia,
Polonia, Russia, seducendo donne, giocando, battendosi a duello, esercitando la
magia, speculando sui valori pubblici e facendo perfino il confidente degli
inquisitori di stato di Venezia. Finí la sua vita come segretario e
bibliotecario del conte C. G. di Waldstein. Attivo, energico, intraprendente,
il C. fu un avventuriero anche della penna e scrisse, tra l'altro, la
Confutazione della storia del governo veneto di A. de la Houssaie (1769), la
Storia delle turbolenze della Polonia (1774), una traduzione, incompleta, in
ottava rima dell'Iliade (1775), l'opuscolo Scrutinio del libro: Eloges de M. de
Voltaire par differens auteurs (1779), il romanzo Icosameron (1788); ma la sua
notorietà è dovuta soprattutto alla drammatica narrazione dell'evasione dai
Piombi (Histoire de ma fuite, 1788) e ai fantasiosi e licenziosi Mémoires,
sostanzialmente veridici quanto alla rappresentazione della società di gaudenti
e intriganti del Settecento. Stucchevole, ma forse veritiera, invece, la
rappresentazione di sé stesso quale genio della seduzione.
pisciano = mingono, orinano voce verbale (3ª pers.pl. ind. pres.)dell’infinito
piscià = orinare, mingere (dal latino
pitissare→pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscia(re)→piscià.
21.È UNO CA NUN FA CARTE
È uno che (non intende) fare le carte; È uno che (non intende) distribuire le
carte; Espressione che prendendo il la dai giochi fatti con le carte in cui per
regola è previsto che ciscun giocatore distribuisca le carte cominciando la
distribuzione secondo i tipi di giochi o dalla sua dritta o dalla mancina e
finendo per essere l’ultimo a calare in tavolo le sue carte. Nel caso dell’espressione
ci si riferisce a chi per arroganza, prepotenza e/o – ma meno spesso – per
semplice indolenza non intende in alcun modo distribuire le carte e cioè non
vuole assumersi le proprie responsabilità tentando in ogni modo di sfruttare le
situazioni traendone i benefici senza aver conferito la propria fattiva
partecipazione all’azione comune.
22.È PROPETO ‘NA SCOLA CAVAJOLA
È proprio una scuola cavajola! Con tale icastica espressione esclamativa, della
medesima portata di quella precedente che chiamava in causa la bottega di donna
Peppa ormai non ci si riferisce ad una vera e propria scuola, ma a tutte quelle
situazioni caotiche dove regnino chiasso,insubordinazione,disordine, frastuono,
fracasso, baccano addizionati di negligenza, svogliatezza, menefreghismo,
sciatteria, indolenza, noncuranza L’espressione molto datata nacque prendendo
spunto e modello da alcune particolari opere teatrali, détte Farse cavaiole:
farse nate nel Napoletano sulla fine del sec. XV e fiorite nel XVI; erano
scritte in versi, in una lingua piena di espressioni dialettali, e
rappresentava scene di vita popolare; fu insomma un genere drammatico popolare,
caratterizzato dal ricorso a frottole o gliuommeri di endecasillabi, per lo piú
con rima al mezzo.Furono denominate farse cavaiole per il loro prendere ad
oggetto di beffa l’ingenuità e/o la rozzezza degli abitanti di Cava dei
Tirreni.; scaturirono dalla penna d’ un tal prolifico Vincenzo Braca (Salerno
1566 - †Cava dei Tirreni, dopo il 1614), autore teatrale che raccolse e redasse
per iscritto, sceneggiandole e aggiungendone di proprie, le satire che
tradizionalmente erano diffuse, fra i salernitani, contro i vicini abitanti di
Cava; cosa che rese ancor piú sentiti e profondi i vecchi rancori fra le due
città, esponendo personalmente il Braca, per questo feroce accanimento
denigratorio, all’odio dei cavesi. E pare che proprio da cavesi, o per loro
istigazione, il Braca venne assassinato.
La sua opera, comunque, ci pervenne in due manoscritti, di cui il piú
interessante è, senza dubbio quello dal titolo“La farsa cavajola de la scola” o
“de lo mastro de scola”. E, facendo riferimento a questa farsa, Benedetto Croce
ebbe a scrivere: «Anche ora, si chiama a Napoli “scola cavajola” una scuola in
cui tutto va alla peggio, con maestri inetti e scolari asini e
indisciplinati».Dunque in origine con il termine “scola cavajola” ci si intese
riferire ad un’autentica scuola come nell’opera del Braca; successivamente il
termine “scola cavajola” fu inteso in senso estensivo con riferimento, come ò detto,
ad ogni ambiente e situazione non solo caotici, ma improntati al peggior
funzionamento per demerito di persone incapaci, incompetenti, inesperte nonché
svogliate pigre, negligenti, sfaticate, e scansafatiche.
gliuommere/i s.vom.le plurale metafonetico di gliommero che di per sé è il
gomitolo con etimo dall’acc. latino glomere(m) con probabile metaplasmo nel
passaggio da un originario neutro glomus al maschile glomere(m); il significato
originario di gomitolo si è poi esteso ed è traslato a quello di peculio, come
di ricchezze accumulate; in chiave letteraria come nel caso che ci occupa la
voce gliommero fu usata per indicare alcuni endecasillabi non particolarmente
fluidi e/o scorrevoli con complesse rime al mezzo; sempre in chiave letteraria,
la voce venne pure usata per intitolare alcuni suoi componimenti poetici, non
aulici, ma popolareschi da Jacopo Sannazaro ( nacque a Napoli nel 1456 e,
tranne una breve parentesi in cui seguì nell'esilio l'amico Federico III
d'Aragona, lì visse fino alla morte, avvenuta nei 1530.
Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la
fanciullezza e l’adolescenza a San Cipriano Piacentino, portando poi a lungo in
sé la suggestione bucolica ed agreste di quell’ambiente. Entrato nell’Accademia
pontaniana, dove assunse lo pseudonimo diActius Syncerus, si legò d’amicizia
col Pontano (Cerreto di Spoleto [Perugia] 1429 † Napoli 1503), che a lui
intitolò il dialogo Actius, sulla poesia.
Il Sannazaro fu colto umanista e poeta raffinato. Ci à lasciato numerose opere
in lingua latina ed in volgare. Fra le prime ricorderò le
"Bucoliche", di ispirazione virgiliana, le "Eclogae
piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le
"Elegie" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis";
fra quelle in volgare ricordo, appunto, gli "Gliommeri" (=
"gomitoli",componimenti poetici di origine popolare in napoletano e
destinato alla recitazione in forma di monologo; costituito di endecasillabi a
rima interna, intrecciava motti, frizzi e argomenti vari tra cui filastrocche
di proverbi napoletani ed altri varî argomenti popolari), le "Farse"
e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca));
23.È RRUMMASO ‘O ZUCO D’ ’E VALLÈNE
È avanzato (solo) la broda delle castagne lesse. Icastica espressione usata
figuratamente a rammaricato commento di situazioni in cui regni la massima
penuria di mezzi e/o miseria. Fu espressione esclamativa rivolta dai genitori
ai loro figlioli perché recedessero da esose, continue richieste di beni e/o
danaro e si rendessero conto che era inutile insistere con petizioni di
provvidenze in quanto con i mezzi familiarî ridotti al lumicino non era
possibile aderire alle loro pretese. Il concreto zuco d’ ‘e vallene (broda
delle castagne lesse) (qui figuratamente usato per indicare le ultime sostanze
nella disponibilità d’ una famiglia) è l’acqua di bollitura (addizionata di
foglie d’alloro, semi di finocchi e sale) delle castagne che private del riccio
e della prima corteccia vengon lessate in un grosso paiolo, portato in giro su
di un trespolo (montato su di un piccolo pianale di legno provvisto di ruote),
trespolo che insiste su di un fornello a carbone che tiene a lento continuo
bollore la broda; le castagne lesse vengon poi vendute al minuto in numero
contato raccolte in cartoccetti conici (cuoppe) sino ad un primo esaurimento
(infatti spesso il/venditore/trice di queste castagne lesse, esaurita la prima
quantità di castagne provvede illico et immediate alla bollitura di altre
castagne versandole nel medesimo brodo residuo riutilizzato per non eleminare
con l’acqua anche gli odori); queste castagne bollite che una volta private
della pellicina vengon consumate addizionate di zucchero o poco sale, vengon
détte in napoletano alternativamente allesse o vallene:
allesse
s.vo f.le plur. di allessa= castagna privata del riccio e della dura
scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di
finocchio ; voce derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far
cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non
ne vedo la necessità in quanto nulla osta al passaggio che riporto
elixare→alissare→allissare→allessare e da quest’ultimo il part. pass allessato/a→allessa(to/a)→allessa;
vàllene/vàllane
s.vo f.le plur. del m.le
vàlleno/vàllano= marrone, varietà di castagna piú grossa e pregiata
della normale castagna ; come questa privata del riccio e della dura scorza esterna e lessata in acqua
con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dall’acc.vo
lat. bàlanu(m), con tipica alternanza partenopea b/v e raddoppiamento
espressivo della consonante laterale alveolare (l), tipico nel tipo di parole
sdrucciole (cfr. còllera←cholera(m); quando le castagne siano bollite private
del riccio, ma non della buccia dura vengon piú acconciamente détte bballuotte (voce derivata con gran
probabilità dall'ar. ballut 'ghianda');a margine della voce in esame
rammento una gustosa, antica espressione popolare usata sarcasticamente quando
ci si voglia riferire alla pochezza di mezzi economici conferiti per il
raggiungimento di uno scopo; quando quei mezzi siano molto esigui s’usa dire: Aeh, ce accatte ‘o ssale p’’e vallane! (Eh,ci
copri il sale per le castagne bollite);
cuoppo s.vo m.le questa voce napoletana cuoppo non può esser
resa con un solo vocabolo nella lingua nazionale e ciò per il motivo che
nell’idioma napoletano la voce cuoppo indica piú cose e queste nell’italiano
ànno volta a volta nomi del tutto differenti tra di loro. In primis nel
napoletano con la voce cuoppo s.vo m.le si indica una particolare piccola rete
da pesca a forma di cono, legata a un cerchio di legno o di ferro sostenuto da
una lunga asta con cui viene manovrata; tale rete è detta in italiano, quale
adattamento della voce napoletana, coppo; con la medesima voce cuoppo s.vo m.le
si indica una piccola tegola curva, leggermente conica, usata, in disposizione
a file parallele, per coperture di tetti; anche tale tegola è detta in
italiano, ancóra per adattamento della voce napoletana, coppo; con la medesima
voce cuoppo s.vo m.le in napoletano si indica uno dei due piatti della
bilancia, segnatamente quello di forma concava, in cui di solito vien messa la
merce da pesare; in questo caso però l’italiano non accoglie il suggerimento
napoletano e preferisce usare il s,vo piattello; ugualmente la voce napoletana
non viene piú accolta per adattamento nell’italiano allorché si tratti di
indicare, come nel caso che ci occupa, un involucro, un cartoccio, piú o meno
grosso di forma conica atto a contenere alcunché; in effetti quello che nel
napoletano è pur sempre ‘o cuoppo e – se piccolo - cuppetiello in italiano
diventa volta a volta: involucro, cartoccio, involto, pacco, pacchetto, fagotto
tutte voci che non fanno alcun riferimento, come sarebbe giusto che fosse, alla
forma dell’involucro (cosa che invece è espressa dal napoletano cuoppo= involto
di forma conica ), ma si riferisce spesso al materiale dell’involto:
cartoccio←carta , pacco←olandese pak(balla di lana) etc.
Giunti a questo punto conviene fare un piccolo riepilogo e dire che il s.vo
m.le napoletano cuoppo può indicare:
una rete da pesca, un embrice semicilindrico, un piatto di bilancia ed un
cartoccio conico; quanto all’etimo cuoppo è da un lat. *cŏppu(m)→cuoppo forma
resa maschile e dittongata del tardo lat. f.le *cŏppa(m)→cupa(m) per il class.
cupa(m)= botte,semanticamente raccostati per la comunanza funzionale, sebbene
non di forma, del concetto di capienza e ricezione;al proposito rammento che
nel napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú
piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula
(piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto
a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro
piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo );
fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de
‘a caccavella. Nella fattispecie la cuppa(m) è certamente piú grande d’un
cartoccio per cui cŏppa(m)f.le deve divenire *cŏppu(m)→cuoppo maschile.
A margine di tutto quanto fin qui détto mi piace rammentare alcune icastiche
espressioni del napoletano dove la fa da protagonista il s.vo cuoppo; e
comincio con l’epiteto
cuoppo ‘allesse! (cartoccio di castagne lesse!); inteso tale cartoccio bagnato
e macchiato (la buccia interna delle castagne lesse tinge di scuro la carta con
cui si confeziona il cartoccio!) lo si pensa quindi lercio, sporco e tali sono
ritenute le donnaccole cui è riferito l’epiteto; allesse plur. di allessa=
castagna privata della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di
foglie d’alloro e semi di finocchio derivata dal part. pass. femm. del tardo
lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat.
*ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità; e rammentiamo l’espressione
cuoppo d’acene ‘e pepe anzi piú precisamente cuppetiello d’acene ‘e pepe
(cartoccetto di pepe) espressione usata in riferimento ad uomini di statura
eccessivamente minuta e di corporatura esile, come piccoli e contenuti erano i
cartoccetti usati dai droghieri per vendere al minuto le piccole bacche
sferiche, nere, di forte aroma,della pianta del pepe, bacche usate intere o
macinate come condimento; trattandosi di una spezie d’importazione ed
abbastanza costosa, non erano ipotizzabili – per la sua vendita al minuto –
cartocci grossi, cuoppi voluminosi (come quelli usati per vendere castagne lesse
o altre merci commestibili quali frutta, pesce fresco etc.), ma solo
cartoccetti piccoli; per cui non cuoppi, ma cuppetielle! Rammento adesso un
significativo proverbio/scioglilingua che è: A cuoppo cupo pocu ppepe cape.che
tradotto è: Nel cartoccetto conico stretto entra poco pepe. in realtà piú che
di un proverbio si tratta di uno scioglilingua giocato sulle assonanze delle
varie parole, ma che nasconde un’osservazione disincantata della realtà e cioè
che chi è stretto perché pieno, sazio non può riempirsi di piú(e ciò sia in
senso positivo che negativo posto che chi sia già tanto pieno, saziato di doti
positive morali e/o di cultura, difficilmente potrà migliorarsi, come per
converso chi sia cosí tanto sprovvisto di moralità e/o cultura difficilmente potrà
aver modo di evolversi in meglio stante le ristrettezze morali del suo io che
non gli consentiranno l’aggiunta d’alcunché);
l’agg.vo m.le napoletano cupo non corrisponde all’italiano cupo che vale 1
profondo, molto incassato: pozzo cupo; valle cupa ' (region.) fondo, concavo:
piatto cupo
2 (fig.) riferito a stati d'animo o sentimenti negativi, profondo, radicato:
odio, rancore cupo; un cupo dolore | impenetrabile, tetro, malinconico:
carattere, volto cupo | sinistramente ambiguo, misterioso: cupe minacce; ma in
napoletano vale in primis: stretto, angusto, limitato e solo estensivamente
buio, tenebroso, e detto di suono: cupo, basso, sordo. Ed in chiusura rammento
un’altra icastica locuzione partenopea che suona: Piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o
campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il
campanile del Carmine Maggiore),locuzione usata per prendersi sarcasticamente
beffe di qualcuno incorso in un madornale quiproquò, la medesima d’un non
meglio identificato individuo macchiatosi della confusione iperbolica ed
impensabile di scambiare un contenuto cartoccio con un campanile, non potendosi
mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e
massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica
napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di
Baviera (Landshut, 1227 –† Greifenburg, 9 ottobre 1273), madre di Corradino di
Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna (Eudes di Borgogna 1250 -
†Tonnere 4 settembre 1308) , seconda moglie di Carlo I d’Angiò (21 marzo 1226
–† Foggia, 7 gennaio 1285); il campanile tirato su dall’architetto Giovan
Giacomo di Conforto (Napoli, 1569 – †Napoli, 1630) e dal frate domenicano
fra’Vincenzo Nuvolo(al secolo Giuseppe Nuvolo:Napoli, 70– †Napoli,43) che lo
coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei
monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea.
24.FÀ ‘NA REVERENZIA CU ‘A PALA. soprattutto nell’espressione Te faccio ‘na
reverenzia cu ‘a pala!
Fare una riverenza con la pala Espressione minacciosa ed ironica nata in ambito
contadino allorché i lavoranti la terra del signorotto erano soliti inchinarsi
al passaggio di costui stringendo sempre nelle mani lo strumento del loro
lavoro, nella fattispecie una vanga, quasi a significare che essi erano sempre
pronti a servirsene come mezzo d’offesa vendicativa qualora quel loro padrone
li avesse maltrattati o vessati. Dall’àmbito rurale l’espressione passò poi ad
avere una valenza piú generale e venne usata ad avvertimento e monito nei
confronti di chiunque si comportasse in maniera oppressiva per significargli
che si era pronti alla ritorsione.
reverenzia s.vo f.le in primis riverenza, inchino
(per traslato) deferenza, ossequio, riguardo; voce dritto per dritto dal lat.
reverentia(m), deriv. di reverens -entis 'riverente'
cu preposizione semplice che corrisponde all’italiano con in tutte le sue
funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere
animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu
ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora; se ne jeva passianno cu ‘o cane ;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi
relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu
tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione
quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta
chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o
bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà
s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí
cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu
ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non
ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu
tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a
margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte
le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che
nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto
il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo
graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel
caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare
negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente
a torto) d’essere esperti della lingua napoletana, autori che invece ànno
spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica
dell’italiano Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente
cioè
pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue
funzioni ed accezioni.
pala s.vo f.le 1in primis pala, vanga;
2 (per traslato) qualsiasi attrezzo d’uso contadino;
3 (per ampiamento semantico) utensile di legno di varie dimensioni usato da
fornai e/o pizzaioli per infornare e poi prelevar dal forno pane e/o pizze;
rammento che dal s.vo pala in questa terza accezione se ne ricavarono i nomi
indicanti alcune pezzature di pane: palatone, palata e palatella: ‘o palatone è
il grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una
famiglia numerosa, il suo nome gli derivò dal fatto che un tempo, al momento di
infornarlo, detto filone occupava quasi per intero la lunga pala usata alla
bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg.(ma in
origine fu di 28 once cioè ca 680 grammi e poi al tempo della rivoluzione di
Masaniello(7 - 16 luglio 1647), fu portata a 36 once di poco superiore cioè al
peso di 1 kg.) ed occupava la metà della pala per infornare; un quarto o meno
della pala occupano le cosiddette palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250
gr.); altri nomi della pezzatura del pane esulano dal riferimento alla pala :
‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di
genere iello o ella ); per ambedue si tratta di un’ampia pagnotta
rotondeggiante di ca 1 kg.; cocchia che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia),
sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato da due palatelle
accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in
seguito pur mantenendo la pezzatura di 1 kg. corrispondente al peso di due
palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma diversa: un po’ piú larga,
piú schiacciata e meno lunga della palata. Un’ altra pezzatura ormai scomparsa,
ma che fu prodotta sino alla fine del 1600 fu la cosiddetta ciampetella ( voce
diminutiva di cianfa/ciampa varianti di zampa tutte dal long. zanka)ed il nome
derivò a questa pezzatura di pane croccante di circa 4 etti per il fatto
d’avere la forma d’ un ferro di cavallo (in nap. cianfa).
25.FÀ ‘O SECUTASORICE
Fare il perseguita-sorci, comportarsi da gatto.
Détto sarcasticamente di chi sleale, falso ed infido sia incline al tradimento,
alla fellonía,mostrandosi in ogni occasione votato al voltafaccia,
all’infedeltà, all’inganno, all’imbroglio, alla slealtà, falsità, doppiezza,
ipocrisia comportandosi ad un dipresso cosí come il gatto che degli animali
domestici al contrario del cane, è quello che offre minori garanzie di fedeltà,
attaccamento, lealtà ed è pronto a tradire ed ingannare anche il padrone che lo
abbia benificato.Il s.vo m.le e f.le secutasorice è stato coniato per rendere
icasticamente la voce gatto aduso ad inseguire i topi per catturali;
secutasorice s.vo m.le e f.le = gatto; la voce è etimologicamente il risultato
dell’agglutinazione del s.vo m.le sorice con la voce verbale secuta:
secuta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito secutà = inseguire,
rincorrere; seguire, incalzare, braccare, ma anche tallonare, pedinare
etimologicamente da un lat. volg. *secutare frequentativo di sequi;
sorice s.vo m.le = sorcio, topo domestico etimologicamente da un acc.vo lat.
sorice(m) di sorex-soricis.
26.FÀ N’ ASCIUTA ‘E QUARTA
Antica icastica espressione che si traduce ad litteram:Fare un’uscita di quarta
ma che sarebbe piú opportuno rendere (e chiarirò il perché) con Fare un’uscita
da quarta. Si tratta in ogni caso di un’espressione che può avere una doppia
valenza a seconda del significato che si attribuisce al sostantivo sottinteso
di quarta. E mi spiego;nel caso che con il termine quarta si intenda: quarta
fila di palchi, l’espressione significa assumere un atteggiamento esagerato
eccedente, enorme, spropositato commisurato alle situazioni in cui ci si trovi
coinvolti ; in questo caso l’espressione trae origine dal linguaggio teatrale;
quando infatti, in una rappresentazione teatrale, un attore sortito dalle
quinte fa il suo ingresso in iscena in maniera eclatante, senza controllare il
proprio volume di voce, anzi quasi gridando al segno di poter essere
tranquillamente percepito sin nei palchi di quarta fila(situati molto lontano
dal palcoscenico ed in alto appena al di sotto del loggione che è la parte piú
elevata del teatro, sopra gli ordini dei palchi, dove sono i posti di minor
prezzo); in tal caso si dice che l’attore à fatto un’uscita di quarta. Nel caso
invece che con il termine quarta si intenda: quarta posizione, l’espressione
significa assumere un atteggiamento adirato, arrabbiato, sovraeccitato quasi
avvertendo una pericolosa tensione dei nervi,prodromica di reazioni anche
violente.; in questo caso l’espressione trae origine dal linguaggio sportivo e
precisamente da quello della scherma; infatti nel linguaggio dello schermidore
chi si trovi o si ponga in quarta posizione è in una posizione di difesa, ma
tesa ed irritata, premonitrice di un possibile attacco con tutte le conseguenze
che ne derivano.Piú comunemente, in questa seconda accezione s’usa
l’espressione stà ‘nquartato stare inquartato cioè in quarta posizione che è di
difesa, ma di preparazione ad un attacco.
asciuta s.vo f.le uscita, sortita, (di un attore sulla scena) apparizione,
comparsa; etimologicamente part. pass. f.le sostantivato dell’infinito
ascire/ascí = uscire che è dal tardo lat. abexire→*a-(be)xire→assire→ascire;
quarta s.vo o agg.vo f.le
1 la quarta classe di un corso di studi: la quarta elementare
2 la quarta parte della circonferenza dell'orizzonte
3 (mar.) la trentaduesima parte della rosa dei venti, pari a 11ª 15'
4 (mus.) intervallo di quattro gradi della scala diatonica
5 nei cambi di velocità di autoveicoli e motoveicoli, la quarta marcia: ‘ngranà
‘a quarta(innestare la quarta) | partí ‘nquarta(partire in quarta), (fig.)
intraprendere qualcosa con baldanza, con irruenza
6 la quarta fila delle poltrone o dei palchi in teatro,
7una delle posizioni di guardia della scherma; anche, una posizione della danza
classica,
8 (dir.) nel diritto romano, quarta parte dell'eredità del marito che spettava
alla vedova priva di dote;
voce marcata al femminile dal lat. quartu(m), corradicale di quattuor 'quattro'
27. ASCÍ 'A VOCCA Ê CANE E FERNÍ 'MMOCCA Ê LUPE
Ad litteram: scampare alla bocca dei cani e finire in quella dei lupi. Maniera
un po' piú drammatica di rendere l'italiano: cader dalla padella nella brace:
essere azzannati da un cane è cosa bruttissima, ma finire nella bocca ben piú
vorace di un lupo, è cosa ben peggiore.
28.JÍ ASCIANNO PAGLIA PE CIENTO CAVALLE
Volere paglia per cento cavalli Id est Accampare pretese enormi, fare richieste
esorbitanti che con tutta probabilità non potranno mai essere soddisfatte;
Espressione di contrarietà estrema riferita a commento del comportamento di
persone esose, avide, ingorde quando non voraci o insaziabili; l’espressione è
usata a fronte di una richiesta evidentemente spropositata ; l’origine di détta
locuzione risale a diversi secoli addietro, quando il possesso di un cavallo era
simbolo di notevole abbienza economica, sia per il costo dell’animale che per
la dispendiosità delle quotidiane cure che il quadrupede necessitava ; va da sé
ed è evidentissimo quindi che, se già il mantenimento di un solo cavallo era un
onere che pochissimi potevano affrontare, pensare di mantenerne cento era
assolutamente impensabile, tanto elevato era il patrimonio che sarebbe
necessitato, ed ancóra piú impensabile il fare richiesta a terzi di procurare
gratuitamente la paglia bastevole a cento bestie. Ovviamente l’espressione è
usata estensivamente in tutti i casi di richieste spropositate, esagerate,
sproporzionate, smisurate che con tutta probabilità non potranno mai essere
soddisfatte.
jí ascianno espressione verbale andar cercando cioè volere, pretendere;
jí
= andare infinito del verbo jí/jire dal latino ire;
ascianno = cercando ; voce verbale (gerundio) dell’infinito asciare/
ascià= cercare con impegno, quasi affannosamente con etimo dal lat.
volgare adflare→afflare =annusare con il normale esito fl→sci;
29.LL’ È GGHIUTO A ALLICCHETTO oppure A LLICCHETTO o anche LL’ È GGHIUTO A
CCIAMMIELLO.
Letteralmente in ambedue i casi :Gli è andata alla perfezione; locuzione
riferita a tutte quelle cose che evolvono positivamente, quasi perfettamente
con riferimento al loro stato di tenuta richiamante quello di un valido
lucchetto, oppure con riferimento al riuscito stato di forma che richiama una
ben costrutta ciambella.
allicchetto/a llicchetto avverbio modale a mo’ di lucchetto cioè perfettamente
Da notare come l’espressione a licchetto (a mo’ di lucchetto) si sia fusa in
allicchetto trasformandosi in un avverbio modale (alla perfezione) ;
licchetto s.vo m.le lucchetto, catenaccio, chiavistello, chiavaccio (dal fr.
loquet, dim. del fr. ant. loc 'catenaccio')
ciammiello s.vo m.le ciambella, focaccina in forma di corona circolare,
berlingozzo ; l’espressione a ciammiello vale alla perfezione poiché la
focaccina per esser détta ciambella deve necessariamente aver la forma di una
corona circolare cioé la pasta che sostanzia la focaccia deve esser diposta
circolarmente intorno ad un buco centrale ; quando questo manchi ( cfr. non
tutte le ciambelle riescono con il buco!) ecco che il dolcetto non può
arrogarsi il nome di ciambella ; viceversa quando il buco esista il dolce
risulta bene acciambellato, riusulta cioé esser fatto alla perfezione, a
ciammiello. etimologicamente ciammiello è voce che - a mio avviso – è un
prestito del dialetto abruzzese ciambelle→ciammelle→ciammiello (focaccina di
farina di frumento cotta alla brace) piú che un derivato dal lat. *cymbellu(m)
diminutivo di cýmbalum = cembalo, antico strumento a percussione, simile ai
moderni piatti, usato dai coribanti nei baccanali, tamburello; strumento che
semanticamente non à nulla da spartire con il dolce a forma d’anello qual è il
ciammiello/ciammella.
30. FURIA FRANGESE E RETIRATA SPAGNOLA!
Impetuosità francese e ritirata spagnola! Lo si dice di tutte le cose fatte con
eccessiva veemenza e/o premura; l’espressione la si riferisce a chi tenga
atteggiamenti comportanti pressappochismo, approssimazione, faciloneria,
superficialità; va da sé che le azioni di costoro son destinate all’insuccesso
o implicano un grave, ma inconferente dispendio d’energie. La locuzione molto
datata (metà del XVI sec.) prende a divertito modello due consueti
atteggiamenti, l’uno (attacchi forsennati, furiosi e spesso scriteriati)
dell’esercito francese, l’altro (ritirate repentine, impreviste, inaspettate
lasciandosi alle spalle terra bruciata) dell’esercito spagnolo. Da questa
consuetudine iberica nacque anche l’espressione
30.bis ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE. Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far
terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di
voler procure a colui cui è rivolta un grave anche se non specificato danno; la
locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in
ispecie quelli spagnoli che, nell’abbondonare repentinamente l’accampamento
fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito
sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la
locuzione in epigrafe è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; epperò
in senso traslato e furbesco l’espressione è usata anche – contrariamente a
quanto ò or oa détto – per minacciare un ben preciso, oltraggioso danno cioè
quello di sodomizzare il minacciato: infatti in quest’ultimo senso il termine paglione
in luogo di pagliericcio vale furbescamente: culo, sedere, fondoschiena.
abbruscià= ardere, bruciare, tendere al bruciore; etimologicamente da un tardo
latino *ad-brusiare→abbrusiare→abbrusciare = bruciare, tendere al bruciore, con
tipica palatalizzazione di si→sci come per simia→ scimmia;
paglione =
1.pagliericcio, materasso della truppa, ma anche
2.saccone contenente le c.d. sbreglie: scartocciatura delle pannocchie (la voce
sbreglia è un derivato, per successivi adattamenti del prov. sbregar=
frammentare, in quanto la scartocciatura delle pannocchie è una sorta di
frammentazione delle foglie.);
3. per traslato furbesco) culo, sedere, fondoschiena ;
la voce paglione deriva da paglia (lat. palea) in quanto quegli antichi
materassi per la truppa erano riempiti non di lana ma di paglia; come ò
precedentemente accennato la voce a margine oltre che nel senso di pagliericcio,
materasso della truppa, saccone viene usata nel linguaggio gergale e furbesco
per indicare il culo,il sedere, il fondoschiena che se sottoposto ad una
oltraggiosa pratica sodomitica,finirebbe figuratamente per ardere, sottoposto
ad una sensazione dolorosa causata da calore, scottatura, infiammazione,
insomma da un bruciore tanto da giustificare l’espressione abbruscià ‘o
paglione!
30 ter TENÉ ‘A CÓRA ‘E PAGLIA.
Ad litteram: Avere la coda di paglia. Id est Avere un comportamento tale da indurre i terzi a sospettare di trovarsi ad avere a che fare con persona che non abbia la la coscienza pulita,in quanto ci si allarmara alla prima allusione sfavorevole, ci si discolpa senza essere stati accusati, reagendo con eccessiva ed inusitata velocità o violenza verbale a critiche od osservazioni, quasi si prenda celermente fuoco", proprio come la paglia. Si raccontava, in un’antica favola contadina che una giovane volpe fósse caduta disgraziatamente in una tagliola; pur riuscendo a fuggire, gran parte della coda le rimase presa e l’animale la cui bellezza stava tutta nella coda si vergognava di farsi vedere in giro con quell’antiestetico brutto mozzicone. Gli animali amici che la conoscevano e sapevano del suo disagio ne ebbero pietà e le costruirono una coda di paglia. Pare che tutti mantenessero il segreto tranne un galletto che disse la cosa in confidenza a qualcuno e, di confidenza in confidenza, la cosa fu saputa dai padroni dei pollai, i quali accesero un po' di fuoco davanti ad ogni stia. La volpe, per paura di bruciarsi la coda, evitò di avvicinarsi alle stie. Da quel momento si usò dire che avesse la coda di paglia chiunque,commessa una qualche birbonata, temesse di essere scoperto e si comportasse guardingamente.
31. RROBBA 'E MANGIATORIO, NUN SE PORTA A CUNFESSORIO
Ad litteram: faccende inerenti il cibarsi, non vanno riferite in confessione.
Id est: il peccato di gola... non è da ritenersi un vero peccato da confessare
; a malgrado che la gola sia uno dei vizi capitali, per il popolo napoletano,
atavicamente perseguitato dalla fame, non si riesce a comprendere come sia
possibile ritenere peccato lo sfamarsi anche lautamente... ed in maniera
eccessiva.
32.ME PARE ‘O PUORCO CU ‘A SPICA ‘MMOCCA Sembra un maiale con una pannocchia in
bocca
Icastica espressione usata per sarcastico dileggio di persona (uomo o piú
spesso donna) panciuta, corpacciuta, ma paciosa appaiata per la sua pinguedine
ad un maialetto cucinato e servito in tavola tutt’intero con in bocca infilata
una pannocchia di granturco bollita salata ed unta di grasso;
me
pron. pers. di prima pers. sg.corrispondente all’italiano mi
1 me, a me; forma complementare atona del pron. pers. io, si usa come compl.
ogg. e come compl. di termine (come nel caso che ci occupa) quando non si vuol
dare loro particolare rilievo, in posizione sia enclitica sia proclitica: tu me
cazzie sempe!(tu mi rimproveri sempre); m’à scritto ajere(mi à scritto ieri);
eccume arrivato (eccomi giunto); vedennome arrivà (vedendomi arrivare);
diciteme si è overo(ditemi se è vero) | è anche usato in presenza delle forme
pronominali atone la, lo, li, le e della particella ne(nn’): me ll’à cuntato
(me lo à raccontato); me nn’ à parlato(me ne à parlato) | si usa nella
coniugazione dei verbi pronominali: me vesto, me lavo ‘e mmane, me ne pento(mi
vesto,mi lavo le mani,mi pento di ciò); m’ero scurdato(mi ero dimenticato);
2 esprime intensa partecipazione affettiva di chi parla all'azione espressa nel
discorso (cosiddetto «dativo etico»): che mme dice maje?(che mi dici mai?);
stàmmete bbuono(stammi(ti) bene)
3 con valore rafforzativo: A mme me pare ca (a me mi pare che)ma in italiano è
forma che i puristi bocciano...
pare
= sembra, pare, è simile a; voce verbale
(3ªpers. sg. ind. pres.)dell’infinito paré sembrare,parere, apparire, figurare;
somigliare, assomigliare; etimologicamente deriva dal latino volg.
*paríre→parere = apparire,manifestarsi come ;
puorco
s.vo m.le 1. in primis porco, maiale, suino ; 2 (non com.) carne di maiale:
sacicce ‘e puorco(salsicce di maiale);
3 (figuratamente ) persona che fa o dice cose oscene.
spica
s.vo f.le spiga (segnatamente quella di granturco), ma anche spiga di
grano,orzo, avena ed altri cereali voce dal lat. spica(m), propr. 'punta';
‘mmocca
= in bocca locuzione di stato in luogo formata dalla preposizione in + il s.vo
vocca/bocca ; rammento che nel napoletano la preposizione in usata in posizione
protetica di sostantivi e/o avverbi viene agglutinata con essi assumendo la
forma aferetica di ‘n (ad es.: in terra→’nterra, in cielo→’ncielo, in
sopra→’ncoppa, in giú→’nsotto) e talora di ‘m davanti alla consonante
consonante occlusiva bilabiale sorda (p) (cfr. ‘mparaviso = in paraviso ) o
davanti all’ occlusiva bilabiale sonora (b) davanti alla quale dà luogo ad
assimilazione progressiva (cfr. ad es.in bocca→ ‘mbocca→’mmocca ).
33. QUANNO ‘A MUGLIERA È BBELLA E BBONA O ‘NCANNACCATA E ‘O MARITO È
CHIACHIELLO, SPONTANO SEMPE ‘E CCORNE
Quando una moglie è procace e piacente o (troppo)ingioiellata ed il marito è
sciocco o bonaccione, spuntano sempre le corna
Id est:la moglie procace e sfrontata o eccessivamente provvista di gioielli
vistosi d’un marito fesso e credulone, prima o poi lo tradirà.
bbella
e bbona = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal
tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto
significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita
ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel
significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva,
che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace;
oppure détto di cosa: utile, efficace, efficiente ma - pur mantenendo l’etimo
dal lat. *bonam=buona – sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da
rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione formata apparentemente
da due agg.vi m.li, ma chè è invece un’espressione avverbiale temporale; l’espressione
è bbello
e bbuono che non si riferisce a persona o cosa di genere maschile,
esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma è, come ò anticipato un’
espressione avverbiale con valenza temporale e sta per all’improvviso con
riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia
mutata d’improvviso in maniera negativa es.: bbello e bbuono s’è miso a
chiovere(d’improvviso è cominciato a piovere); ‘ncannaccata = ingioiellata;part. pass. f.le agg.vato dell’infinito
‘ncannaccà= provvedere di collane denominale da in→’n + cannacca (dall’arabo
hannaqa= monile, collana);
chiachiello
agg.vo e sost. m voce quasi desueta che indicò in primis un uomo di bassa
statura e poi per estensione semantica lo sciocco credulone, il babbeo di nessuna
personalità,l’inetto, l’incapace, il mancator di parola, il bonaccione, il
banderuola aduso a mutar continuamente parere ed intenti e pertanto un essere
inetto,spregevole, persona di scarsa serietà; quanto all’etimo si può supporre
una base lat. cloac(u)la + il suff.masch. iello oppure, ma meno
probabilmente,da collegarsi al greco kophòs=babbeo voce che però già diede il
seguente chiafèo morfologicamente piú rispondente alla derivazione dalla voce
greca;
chiafeo: antichissima voce, quasi desueta che indica lo sciocco, il grullo, il
melenso etimologicamente da collegarsi al greco kophòs = babbeo, attreverso
l’aggettivo kophàîos;
34. DDOJE FEMMENE E 'NA PAPERA ARREVUTAJENO NAPULE.alibi anche ‘NAFEMMENA E 'NA PAPERA ARREVUTAJENO NAPULE.
Ad litteram: Due donne ed un'oca misero a soqquadro Napoli. Alibi anche: Una
donna ed un’oca misero a soqquadro Napoli
Uno dei consueti motti antimuliebri (presentato in duplice versione di
cui la seconda molto piú
sarcastica) dell' antica cultura
partenopea, motto nel quale si pogono in ridicolo le donne ritenute cosí
eccessivamente rumorose e/o ciarliere al segno che bastano due donne o
addirittura una sola donna ed una starnazzante oca per scatenare un putiferio
che può giungere addirittura a coinvolgere un'intera città.Non dimentichiamo
che le starnazzanti oche (qui papere) del Campidoglio difesero la città di Roma
quando nel 390 a.C.
[ o per alcuni, nel 387 a.C.]
con il loro starnazzare destarono il valoroso Marco Manlio che lanciò l’allarme
come rammentato nell’episodio dell’assedio della città da parte dei Galli
comandati da Brenno; nè è dato sapere con certezza, anche se è ipotizzabile, se le oche sacre a Giunone
fossero governate da donne che gridando si unirono alle oche.
ddoje = due agg.vo f.le al m.le duje/dduje ( dal lat. m.le duo, f.le duae)
fémmene s.vo f.le pl. di fémmena
1 nome generico di ogni individuo umano o animale portatore di gameti femminili
atti a essere fecondati da quelli maschili, e quindi caratterizzato dalla
capacità di partorire figli o deporre uova
2essere umano di sesso femminile; donna, bambina;
3 parte di un congegno destinata a riceverne un'altra nel suo interno
( voce dal lat. femina(m), voce connessa con fecundus 'fecondo' con
raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale (m) postonica
tipico nello parole sdrucciole)
papera s.vo f.le
1 oca giovane e pingue | (fig.) donna sciocca e ciarliera
2 (fam.) errore commesso parlando in pubblico o recitando; anche, lapsus: fà,
piglià ‘na papera (fare, prendere una papera); la voce etimologicamente è la
femminilizzazione del s.vo papero (che piú che voce onomatopeica penso sia
dallo spagnolo papero da collegarsi al tardo latino paparu(m).
A proposito della necessità di avere due termini simili, ma di genere diverso,
rammento che in napoletano un oggetto (o cosa, animale etc. quale che sia) è
inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile;
abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a
tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú
grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a
‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú
piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo
piú grande de ‘a caccavella. Nella fattispecie ‘o papero è animale
morfologicamente piú piccolo o meno pasciuto de ‘a papera che è più grossa e/o
pasciuta.
arrevutajeno = misero a soqquadro voce verbale 3ª pers. pl. pass. rem.)
dell’infinito arrevutà = rivoltare, mettere a soqquadro, mettere in gran
disordine; etimologicamente deverbale del lat. volg. *volutare→ad+revolutare→arrevolutà→arrev(ol)utà→arrevutà,
intensivo di volvere 'volgere'
Napule nome della città partenopea (dal greco Neapolis = città nuova, nome che
fece seguito a quello di Palepoli = città vecchia che fu quella fondata tra il
IX e l'VIII secolo a.C. da coloni greci sulle pendici del monte Echia).
35.PARE ‘A MUSECA D’ ’A BARRA OPPURE ‘A MUSECA CIAPPUNESA
Sembra la musica di Barra o la musica giapponese. Cosí i napoletani - abituati
a ben altre armoniche melodie – sogliono sarcatimente riferirsi a riunioni piú
o meno rumorose e fastidiose ed altresí definire quelle accozzaglie di suoni e
rumori in cui vengon coivolti strumenti musicali, ma che con la vera musica
ànno ben poco da spartire. Quando ancóra
esisteva la magnifica festa di Piedigrotta, spesso a Napoli per la strada si
potevano incontrare gruppetti di ragazzi che producevano una dissonante musica,
détta: musica giapponese, servendosi di particolari strumenti musicali popolari
quali: scetavajasse, triccabballacche, tamburelli,trombette,zufoli, zerrizzerre
e caccavelle/putipú ; uno dei gruppetti piú noti fu quello proveniente dal
popoloso e popolare quartiere di Barra(un quartiere di Napoli, situato nella
zona orientale della città, sulle pendici occidentali del Vesuvio.); il
gruppetto numerosissimo e rumorosissimo, formato da monelli forniti di quei
strumenti or ora elencati, soleva recarsi a piedi e suonando , quasi in
processione, alla festa di Piedigrotta che si svolgeva in zona opposta a quella
del loro quartiere di provenienza;
scetavajasse, s.vo m.le tipicissimo strumento musicale popolare napoletano, che
per il modo con cui è sonato fa pensare ad una sorta di violino, sebbene non
abbia corde o cassa armonica di risonanza; esso è essenzialmente formato da due
congrue aste lignee di cui una fornita di ampi denti ricavati per incisione
lungo tutta la faccia superiore dell’asta corredata altresí di numerosi
piattelli metallici infissi, ma non fissati e lasciati invece liberi di
ondulare, con chiodini lungo le facce laterali della medesima asta; l’altra
asta usata dal sonatore a mo’ di archetto viene fatta scorrere contro i denti
della prima asta (tenuta poggiata ,quasi a mo’ di violino, contro la clavicola)
per ottenerne uno stridente suono, facendo altresí vibrare ritmicamente i piattelli
nel tipico onomatopeico nfrunfrú.
Lo strepitío di detto strumento gli à fatto ottenere il nome di scetavajasse
che ad litteram suonerebbe: desta-fantesche.
Non mette conto illustrare l’origine del verbo scetà che troppo facilmente è
riconducibile al latino excitare; piú interessante è dire di vajassa che è la
serva, la fantesca;voce che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese
bajasse da cui in toscano : bagascia= meretrice. Rammenterò ancóra che con
termine vajassa il napoletano designa anche qualsiasi donna sciatta,
scostumata, sporca, quando non laida ed addirittura affetta di contagiose
malattie come è nell’espressione: Sî ‘na vajassa d’’o rre ‘e Franza che è
letteralmente: Sei una serva del re di Francia. La frase è un’offesa gravissima
che si può rivolgere ad una donna e con essa frase non solo si intende dare
della puttana alla donna, ma accusarla anche di essere affetta dalla sifilide o
lue .
Tale malattia è stata nei corso dei secoli chiamata dai napoletani mal
francese, morbo gallico o celtico; i napoletani sostenevano infatti che detto
morbo fosse stato importato in Napoli dai soldati al seguito di Carlo
VIII(assedio di Napoli 1494). Per converso il morbo era detto dai francesi mal
napolitano poiché affermavano che il morbo era stato diffuso tra i soldati
francesi di Carlo VIII dalle prostitute partenopee.
A margine di questa voce voglio ricordare una parola che, di per sé non
entrerebbe nella trattazione, come che estranea agli strumenti musicali; essa
parola è bardascia che una vaga assonanza con bagascia potrebbe indurre i meno
esperti della parlata napoletana a collegarla al termine vajassa; in realtà i
due termini non ànno nulla da spartire fra di loro; abbiamo visto quale sia la
portata di vajassa: serva, donna sciatta o addirittura puttana; la bardascia è
invece null’altro che la ragazza e spesso la si poteva incontrare nel simpatico
diminutivo – vezzeggiativo bardascella.
L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’
arabo: bardağ che è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed
estensivamente la ragazza cosí come nell’ idioma napoletano.
triccabballacche, s.vo m.le tipico strumento musicale popolare usato in quasi
tutta l’Italia centro –meridionale e non solo dai piccoli concertini rionali
popolari, ma anche da piú vaste formazioni addirittura di tipo bandistico, sia
pure – in questo caso - surdimensionato; esso è costituito da un’ asta lignea
fissa alla cui sommità insiste una testa a forma di parallelepipedo, contro di
essa vengono ritimicamente spinte analoghe teste di due aste mobili
incerneriate alla base di quella fissa; le teste per aumentare il clangore
dello strumento sono provviste dei soliti piattelli metallici.
Per ciò che concerne l’etimologia propendo per un’origine onomatopeica (lo
strumento è molto rumoroso…), poco convincendomi una derivazione per
adattamento dal turco tümbelek; troppo tortuosa mi pare la strada semantica e
quella morfologica da percorre per giungere a triccabballacche, partendo da un
tümbelek che comunque è un tamburo di rame, molto piú simile ad un timpano
(strumento musicale e casseruola di rame stagnato in cui si approntavano
timballi o timpani di pasta farcita) che ad un triccabballacche.
caccavella s.vo f.le conosciuta anche con il nome onomatopeico di putipú. Tale
strumento in origine era formato essenzialmente da una pentola di coccio,
pentola non eccessivamente alta, ma di ampia imboccatura sulla quale era
distesa una pelle d’ovino, pelle che debordando dalla bocca era fermata con
stretti giri di spago, per modo che si opportunamente tendesse; al centro di
detta pelle in un piccolo foro è infissa verticalmente un’assicella cilindrica
(originariamente una sottile canna) che soffregata dall’alto in basso e
viceversa con una pezzuola o una spugnetta bagnate permette di trasmettere le
vibrazioni alla pelle che, è tesa sulla pentolina che fa da cassa di risonanza
per modo che se ne ottenga il caratteristico suono ( put-pù,put-pù), vagamente
somigliante a quello prodotto dal contrabbasso, suono che per via onomatopeica
conduce al putipú che, come ò detto, è l’altro nome con cui è conosciuta la
caccavella che come tale, quanto all’etimologia, è latina:
caccabella(m)=pentolina, quale diminutivo di caccabus = grossa pentola da cui i
napoletani trassero caccavo il pentolone della minestra e segnatamente quello
usato dai monaci di taluni monasteri per distribuire la zuppa giornaliera ai
poveri che la mendicassero; ò parlato di originaria pentola di coccio, giacché
attualmente la caccavella, pur usurpando il nome antico, è costruita usando in
luogo della pentolina di coccio, tristissime scatole cilindriche di latta e la
pelle non è piú ovina, ma squallidamente sintetica di tal che è piú opportuno
chiamare questo indegno strumento putipú lasciando l’originaria caccavella al
degnissimo strumento d’antan!
putipú s.vo m.le
zerrizzerre s.vo m.le = raganella, strumento/giocattolo che produce un suono
particolarmente stridulo (voce onomatopeica);
36.S’È ARAPUTA ‘A PRUFUMMARIA ‘E BERTELLE
Si è aperta la profumeria di Bertelli
Espressione sarcastica da intendersi un senso antifrastico e cioè per
significare che si avverte un gran cattivo odore, espressione usata per
commentare negativamente l’apparire di persona (uomo o piú spesso donna) che
per mancanza di igiene personale lasci attorno a sé una scia di cattivo odore.
In realtà la profumeria di Bertelli fu nel tardo ‘800 – primi ‘900 una
rivendita di ottimi profumi prodotti dall’industria di Achille Bertelli(Brescia
1855 -† ivi 1925).Costui fu un i ndustriale
e pioniere dell'aeronautica italiano e fondò (1884) la società A. Bertelli e
Co., produttrice di profumi e cosmetici. In campo aeronautico, ideò e costruì
un tipo di elicottero; con V. Cordero di Montezemolo ideò (1905-06) un
aeromobile a sostentazione mista (statica e dinamica), détto aerostave, che non
ebbe però sviluppi pratici. Fu nella seconda metà dell’Ottocento -nel 1888- che
Achille Bertelli, reduce da un viaggio in America che si era pagato lavorando a
bordo della nave che lo trasportava, diede inizio alla sua attività
imprenditoriale. Laureato in farmacia, sperimentò e produsse con grande
successo un nuovo rivoluzionario cerotto medicamentoso che per decenni alleviò
i dolori alla schiena di milioni di pazienti in tutto il mondo. Rapido fu il
passaggio alla cosmesi, con la produzione di saponi profumati e della crema
Venus, nome che venne in sèguito attribuito a tutta una serie di prodotti
Bertelli; ma fu il fratello Vittorio a dare impulso alla linea cosmetica,
subito dopo la prima guerra mondiale, iniziando la produzione di profumi,
ciprie e creme per la donna moderna, e aprendo negozi di profumeria nelle
maggiori città italiane per la vendita al minuto di prodotti farmaceutici (il
famosissimo cerotto Bertelli antinfiammatorio) e successivamente anche dei
prodotti di profumeria e cosmesi. Tra i prodotti di cosmesi e profumeria di
maggior successo Bertelli sono da ricordare La Rosa, Asso Di Cuori, Ebbrezza
Marina e Come Tu Mi Vuoi,che oltre a vincere un premio all’Esposizione di Parigi
del 1937 -fatto piú unico che raro per un profumo italiano, in terra di Francia
- aveva come testimonial la famosissima attrice Greta Garbo, nome d'arte
dell'attrice cinematografica Greta Louisa Gustafsson (Stoccolma 1905 -† New
York 1990).
prufummaria s.vo f.le 1 l'arte di preparare profumi; il laboratorio in cui si
preparano
2 assortimento di profumi e cosmetici; il negozio in cui essi vengono venduti.
voce denominale di prufummo [derivazione di fummo (fumo), in quanto in origine,
la parola indicò l’effluvio, il suffumigio con sostanze odorose].
37.SE MAGNA ‘A FRONNA ‘E LAURO E ‘O FECATIELLO
Si mangia (inghiotte) la foglia d’alloro ed il fegatello.
Icastica espressione usata per irridire chi ingordo, smodato nel mangiare e
bere, ma anche figuratamente bramoso, avido di qualcosa, abbia un atteggiamento
vorace, insaziabile o smodatamente assetato, desideroso, cupido al segno che
nella fattispecie dell’espressioni divori con il fegatello, anche la foglia
d’alloro usata per aromatizzarlo, ma che normalmente, dopo la cottura va
scartata!
fronna s.vo f.le foglia, frasca
( voce dal lat.fronde(m)→fronne(m)→fronna con assimilazione progressiva
(nd→nn),
lauro s.vo neutro alloro, 1 albero alto fino a dieci metri, con frutti neri e
foglie coriacee aromatiche; per le sue foglie sempreverdi è simbolo della fama
e della gloria
2 le fronde e le foglie stesse dell'albero usate come aromatizzante. ( voce dal
lat.laure(m)→lauro)
fecatiello s.vo neutro fegatello, pezzetto di fegato di maiale, avvolto nella
sua stessa rete (peritoneo), guarnito con una foglia d’alloro e cucinato in
padella o allo spiedo. ( voce diminutiva (cfr. il suff. iello) dal
lat.ficatu(m)=fegato; da ficatu(m)→ fécato e poi fecatiello).
38.S’È ‘MMARETATA CU ‘NU SCIORE ‘MMOCCA
Ad litteram: Si è sposata con un fiore in bocca Id est: à fatto ricorso a nozze
riparatrici, nozze celebrate dopo che la donna fosse stata piú o meno
consenzientemente violata: insomma nozze celebrate in extremis. L’espressione
decisamente irridente è usata per dir male di donna sulla cui onestà prematrimoniale
ci sia di che dubitare, prende comunque le mosse da un’antichissima usanza
d’epoca viceregnale(XV-XVI sec.) allorché quando decedesse una ragazza in età
da marito le veniva posto una rosa fra i denti. Il rapporto semantico tra
quest’usanza ed il significato dell’espressione in esame è da cogliersi nel
fatto che le nozze celebrate a riparazione sostanziano una sorta di morte
morale della donna che vi debba ricorrere; mentre il rapporto semantico ironico
si coglie tenendo presente che la rosa posta tra i denti di una ragazza morta
indicava ch’ella era in età da marito, mentre un’eventuale rosa posta tra i
denti di una donna violata indicherebbe non la sua giovane età, ma la sua
scostumatezza!
‘mmaretata della voce verbale s’è ‘mmaretata è il part. pass. f.le di
‘mmaretà(rse)= sposarsi, prender marito ; a proposito del verbo toscano sposare
rammento che essa voce toscana è voce (etimologicamente dal lat. sponsare
'fidanzarsi', deriv. di sponsus, part. pass. di spondíre 'promettere') che,
nell’italiano, può essere usata indifferentemente riferita sia all’uomo che
alla donna, mentre nella parlata napoletana, d’uso corrente, abbiamo due verbi
che traducono lo sposare italiano e sono:
‘nzurà/’nzurarse che si usa riferito all’uomo, mentre riferito alla donna
occorre usare ‘mmaretarse.
Analizziamo le singole voci;
‘nzurà/’nzurarse esattamente è prendere in moglie e dunque sposare/sposarsi; il
verbo a margine infatti quanto all’etimo è dal latino in + uxorare = prendere
in moglie;
‘mmaretà/’mmaretarse è invece prendere marito; va quindi riferito alla donna
che sposandosi prende marito; quanto all’etimo è dal latino in + maritus
'marito'; e già il latino ebbe maritare, derivato di maritus 'marito';
Rammenterò ora che nel napoletano, oltre alle voci indicate vi fu un tempo una
voce (peraltro non piú in uso, né nel parlato, né nello scritto) che ebbe
carattere generico (simile allo sposare toscano ) tanto da fare usare la voce
sia riferita all’uomo che alla donna; tale voce fu ‘nguardià/’nguardiarse che
significò esattamente prometter nozze ed estensivamente sposare, prender marito
o prender moglie.
Di non facile lettura l’etimologia della voce ‘nguardià; la tesi piú
convincente è quella che prevede un inguadiare con successiva aferesi dell’ i
nella sillaba d’avvio, ed epentesi di una r eufonica; a sua volta inguadiare
che è da collegarsi ad inguadalía (promessa di nozze) pare che derivi da un
latino in + guadius che è promessa, pegno, fideiussione; taluni traducono l’
inguadiare: porre l’anello all’anulare della mano destra.Non penso che si possa
accettare la tesi peregrina di chi volle leggere inguadiare non come derivato
da in + guadius , ma da un non perseguibile in + gaudium letto metateticamente
gadium forse volendo lasciare intendere che lo sposarsi fosse quasi un
pervenire al gaudio; c’è molto poco di scientifico in tale congettura; mi pare
piú una paretimologia, che un’etimologia; dissento.
sciore s.vo m.le fiore (voce dal lat. flore(m) con normale evoluzione del lat.
fl seguíto da vocale in sci come in flumen→sciummo, flacces→scioccele etc.).
‘mmocca ne ò già detto antea sub 32.
39.SE SO’ APPARATE ‘E VEPPETE E NN’À AVUTA UNA PE BBEVERE E UNA PE SCIACQUÀ!
Ad litteram: Si è provveduto a render pari le bevute e ne à avuto una per bere
ed una per sciacquare! Id est: si è impartita una solenne lezione, non
lasciando le cose a mezzo, ma redarguendo a fondo ed anche violentemente chi lo
meritasse; rammento che nel gergo malavitoso dà ‘na veppeta (dare una bevuta)
sta per battere, percuotere, colpire, malmenare, pestare, lisciare con
riferimento semantico al cosiddetto giuoco del tuocco/padrone e ssotto o
altrove passatella incentrato su bevute collettive di vino che spesso
sfociavano in risse con percosse ed accoltellamenti tra i giocatori; la
successiva specificazione: una per bere ed una per sciacquare sempre con
riferimento a successive percosse fa riferimento ad un’ipotetica situazione in
cui sia in atto una deleteria gara di bevute reali tra due persone di cui uno
si continua a satollarsi di vino magari accontendandosi di una sciacquatura
ossia di vino addizionato d’acqua, o anche di vino puro usato però a mo’ di
risciacquo della bocca da una precedente bevuta, e l’altro lo faccia ancóra di
piú bevendo senza ritegno come nell’antico giuoco del padrone e sotto (gioco
derivato da quello détto tuocco) che si svolgeva nelle bettole tra due
giocatori di cui uno – il padrone – poteva imporre o negare all’altro – il
sotto – innumerevoli bevute di vino con l’aggravio di dover in ogni caso pagare
il vino bevuto.
apparate appaiate, rese pari voce verbale part. pass. f.le dell’infinito
apparà= appaiare, render pari; voce denominale di paio/paro che è dal lat.
paria, neutro pl. di par paris 'pari';
véppete s.vo fle pl. di véppeta 1 il bere; la quantità di liquido bevuta in una
volta:farse ‘na bbella véppeta (fare una bella bevuta), bere abbondantemente;
anche iron., quando si nuota.
2 riunione in cui si beve, spec. vino o altri alcolici: Piero ci ha invitato a
una bevuta in casa sua.
3 (ironico e gergalecome nel caso che ci occupa) sonora, dura percossa; per
soffermarci sull’etimologia converrà dire di
vippeto = bevuto, ubriaco ; è il part. pass. collaterale di vevuto
dell’infinito vevere← lat. bibere che diede direttamente vevere con consueta
alternanza partenopea di b/v (cfr.barca →varca, botte →vótta, basiu(m)→vaso”
ecc.), ma forní anche come deverbale il s.vo f.le veppeta= bevuta attraverso un
acc.vo tardo latino bíbita(m)→*bíbbita→bippta→vippta→veppeta; è ipotizzabile
che da questo s.vo si sia ricavato il p.pass. víppeto collaterale di vevuto.
Tuttavia si può comodamente ipotizzare anche una diretta provenienza da
"bíbere (→ vévere)", il cui regolare participio passato *bíbitum
→*bíbb(i)tum (col normale raddoppiamento espressivo di "-b- "
intervocalica in parole sdrucciole) → *vipptum (con "pt" per
omorganizzazione e poi con l'inserimento della vocale evanescente d'appoggio
nel nesso consonantico per ovvia facilitazione della pronunzia)...A meno che un
"bíbitu(m)→*vipeto di partenza non abbia subíto raddoppiamento nella consonante
della penultima sillaba "-p-" come avviene nelle parole sdrucciole di
sviluppo popolare nell’idioma napoletano e nel dialetto fiorentino-italiano:
cfr. "fémina(m) → fémmena/femmina, pàrochu(m)→parroco/parrucchiano,
hòmines→*hòmini→ uómmene, públicu(m)→pubblico" ecc. (senza dimenticare che
nel Medioevo anche la grafia di "Africa" sia risultata il
petrarchesco "Affrica").
bévere/vévere = bere, assumere liquidi (dal lat. bibere con alternanza b→v
nella seconda sillaba ed assimilazione regressiva nella morfologia vevere ;
sciacquà = sciacquare, lavare sommariamente con acqua; lavare con acqua una
cosa già lavata per toglierne i residui di detersivo o di sapone: sciacquà ‘e
piatte, ‘e panne(sciacquare i piatti, i panni) |sciacquarse ‘a vocca ( sciacquarsi
la bocca), fare sciacqui con acqua o con una soluzione medicamentosa; per
estens., bere una piccola quantità di qualcosa; ironicamente riferire i fatti
altrui.(dal tardo lat. (e)xacquare per il classico (e)xaquare) talora è usato
per significare impotenza, difettosità come nel caso che riferito ad es. ad un
uovo non del tutto sviluppato, ne indica la incompletezza e dunque sia un uovo
lento, molle e senza vigore; alla medesima stregua l’aggettivo sciacquo
riferito ad un uomo lo significa difettoso, impotente, privo di vigore tal
quale un vino allungato con troppa acqua, e come tale costretto ad un’azione
lenta, molle, senza vigore e/o decisione.
40 . TIRARSE ‘A CAUZETTA
Ad litteram: tirar su la calza Id est: estraniarsi da una vicenda, star sulle
proprie, disinteressandosi di ciò che avviene attorno; ma anche: lasciarsi
molto pregare o attendere prima di concedere alcunché; la locuzione richiama
l'abitudine che avevano le iberiche persone di medio-alto rango che negli anni
del 17ª secolo, erano usi indossare lunghe calze di seta, e per distinguersi da
quelli di piú basso ceto, che indossavano calze corte o cadenti, usavano
tirarle continuamente verso il ginocchio. Tali altolocati personaggi erano
quelli che, per abitudine evitavano di interessarsi a ciò che accedeva intorno
a loro sia per non lasciarsi coinvolgere sia per non esser fatti destinatari di
richieste o aiuti ai quali - comunque - avrebbero provveduto solo dopo molte
preghiere.
tirarse forma riflessiva del verbo tirà = tirare, imprimere a qualcosa o a
qualcuno un movimento per tenderlo, avvicinarlo a sé, trascinarlo nella propria
direzione (voce dal lat. volg. *tirare, alterazione del class. trahere
'trarre';
cauzetta s.vo f.le dim. di calza 1calza lunga da uomo | fà ‘a cauzetta (fare la
calzetta), lavorare a maglia; (figuratamente) si dice di donne che si dedicano
esclusivamente alle faccende domestiche;
2 calza di seta da donna;
3 meza cauzetta (mezza calzetta), (fig. spreg.) persona di scarse capacità, di
modesta levatura.
etimologicamente diminutivo (cfr. il suff. etta) del lat. mediev. calcea(m),
dal class. calceus 'scarpa, stivaletto';normale nel napoletano l’evoluzione del
nesso al + consonante in au (cfr. caldaia→caurara, gelsa→ceuza, altus→auto.
41.SE SCIÒVONO ‘E CANE SI S’ATTACCANO ‘E PPRETE
Ad litteram: Si liberano i cani se si uniscono le pietre.
L’espressione sostanzia una sorta di avveduta norma comportamentale e cioè che
in caso di necessità occorre premunirsi, ossia provvedersi di ciò che serva di
difesa; nella fattispecie, esemplificando, occorrerà sciogliere i cani ché
facciano buona guardia tenendo lontano da una casa in costruzione ladri e/o
malintenzionati (camorristi e simili adusi a estorcere alle ditte di
costruzioni somme di danaro).Va da sé che il consiglio contenuto
nell’espressione di sciogliere i cani cioé di fornirsi di adeguati mezzi di
protezione o di deterrenza, possa essere applicato in ogni occasione e non
soltanto in caso di costruzioni in atto.
sciòvono = sciolgono voce verbale(3ªpers. pl. ind. pres.)dell’infinito sciòvere
= sciogliere,liberare, slegare, slacciare, sbrogliare, dipanare etc.( dal Lat.
exsolvere→exso(l)vere→sciòvere, comp. di ex- 'via' e solvere 'sciogliere'
attaccano = (lett.) attaccare, unire fra loro due o piú cose per mezzo di
cuciture, legature, sostanze adesive o altro; farle aderire strettamente:...(in
unione al s.vo prete(pietre)), innalzare, metter su; voce verbale(3ªpers. pl.
ind. pres.)dell’infinito attaccà = attaccare, unire etc. (voce comp. di ad→at e
taccare 'apporre la 'tacca' il contrassegno che i mercanti fiorentini
apponevano sulle stoffe importate per indicarne prezzo d'origine e costo del
trasporto.
prete s.vo f.le pl. di preta = in gen. pietra,rif. alle costruzioni mattone,
blocco da costruzione; voce lettura metatetica del lat. . petra(m)→preta(m),
che è dal gr. pétra.
42.S’À PIGLIATO ‘E TTÀBBARE
Ad litteram: Si è preso le moine; id est: si è lasciato circuire. Détto
sarcasticamente di un/una innamorato/a che non à avuto modo di accorgesi
d’esser tradito dalla controparte, irretito/a com’era dalle moine e
svenevolezze usategli al fine di ingannarlo/a e tenergli/le celato il
tradimento.
tàbbare s.vo f.le pl. di tàbbara = moina, svenevolezza (dallo spagnolo tàbara=
filastrocca).
43. JÍ CU ‘O MUSSO DINT’Â MMERDA. variante
JÍ CU ‘A FACCIA DINT’Ô PANECUOTTO.
Ad litteram: Finire con il muso nello sterco
variante finire con la faccia nel pan cotto.
La locuzione in esame e la sua variante sono usate per significare lo stupido
comportamento di tutti coloro che per propria ingenuità o insipienza finiscono
per fare meschine figure al pari (cfr. variante) di un bimbo che si sia
imbrattato il volto mangiando del pan cotto; la prima parte molto piú dura ed
icastica prende a modello il comportamento del maiale che frugando nel porcile
alla ricerca di cibo, spesso affonda il muso nei suoi stessi escrementi, e tale
comportamento viene appaiato ai presuntuosi atteggiamenti di coloro che
abituati a fare i saccenti ed i supponenti spesso vedono le loro affermazioni,
se non le loro azioni vanificate queste e contraddette quelle, dalla chiara
realtà e finiscono per fare figure cosí meschine da esserne quasi insozzati
come un porco dal suo sterco.
jí/ghí = andare, finire etc.;è verbo che à la derivazione dal lat. ire, ed in
napoletano son numerose le locuzioni formate con détto infinito jí/ghí .Preciso
che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí
oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j
è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente
errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti
scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di
andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta
da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del
pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di
andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí
come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -†
ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il
verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici
dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo
di jí oppure [ove del caso] in luogo di ghí, li metteva decisamente alla porta
consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento
che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) si serve del
basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’
vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à
nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª ps. pl che è lloro
vanno.
musso s.vo m.le 1(lett.) muso degli animali, la parte anteriore della testa
degli animali: il muso del cavallo, del cane
2 (scherz. o spreg.) il viso dell' essereumano; 3 (per metinomia) le sue labbra
; voce dal lat. musu(m)→mussu(m) con raddoppiamento espressivo della fricativa
dentale (s);
dint’â = nella prep. art. formata da dinto per in e l’articolo ‘a(la) ;
rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a=
in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe
preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – in dal
lat. d(e) int(r)o→dinto); come ò già détto alibi e qui ripeto: le locuzioni
articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma
scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre
nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo,
nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria
non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione
semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si
esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi
mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni
articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e
(i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono
rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle. mmerda s.vo f.le =1 escremento,
sterco
2 (fig.) cosa che disgusta, persona spregevole, situazione ripugnante | nella
loc. agg. ‘e mmerda (di merda), pessimo, spregevole; voce dal lat. merda(m).
faccia s.vo f.le =
1 la parte anteriore della testa umana, dalla fronte al mento; viso, volto:
2(estens.) espressione, atteggiamento del volto;
3 (fig.) apparenza, aspetto;
4 (geom. , min.) ciascuno dei piani che costituiscono la superficie di un
poliedro o di un cristallo; voce dal lat. volg. *facia(m), per il class.
fací¸e(m) 'forma esteriore, aspetto, faccia', deriv. di facere 'fare'.
panecuotto s.vo neutro zuppa di pane bollito, condita con sale, olio o burro,
formaggio grattugiato ed eventualmente altri ingredienti (p. e. uovo o pomodoro
fresco) | tené ‘o ppanecuotto ô pizzo d’ ‘e cerevelle(avere il pancotto al
posto del cervello), (fig. fam.) essere sciocco. è voce formata per
agglutinazione di pane ←pane(m) e l’agg.vo cuotto (part. pass. m.le
dell’infinito còcere (dal lat. volg. *cocere, per il class. coquere.
44. SÎ ‘NA BBONA SCORZA ‘E CASO MULLESO
Sei una grossa scorza di formaggio molle
Icastica divertita espressione dalla doppia valenza: a) la si usa in senso
antifrastico ed ironico in riferimento a chi sia tanto taccagno ed avaro da non
lasciare scalfire neppure la buccia delle proprie sostanze; ò parlato di senso
ironico ed antifrastico poi che si sa che i formaggi molli ànno tutti una
scorza abbastanza tenera tale da potersi scalfire persino con un’unghia,
laddove le sostanze dell’avaro ànno una scorza (protezione) ben piú spessa e
dura che non quella tenera d’un formaggio molle. b) usata in senso piú diretto
e semanticamente esatto in riferimento a chi sia cosí ammantato di falsità e
doppiezza, slealtà, ambiguità che però inutilmente riesce a mascherare atteso
che la sua scorza figurata è cosí di poca consistenza da lasciar scorgere
facilmente quale sia il suo vero sostrato di individuo finto, ipocrita,
inattendibile, infido; delle due valenze, quella che trovo piú confacente alla
semantica dell’espressione, è chiaramente quella sub b).
bbona agg.vo f.le del m.le bbuono à un gran ventaglio di significati e può
valere conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore,
mansueta, bonaria ed ancóra abile, capace; oppure detto di cosa: utile,
efficace, efficiente ma pure (mantenendo l’etimo dal lat. bona(m)=buona – sta
per, come nel caso che ci occupa grossa, spessa ed infine nella locuzione
bbella e bbona (bella e buona) vale piacente, appetibile, che risveglia i
sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione che a tutta
prima parebbe maschile ed invece è neutra: bbello e bbuono che non si riferisce
a persona o cosa esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma à una
valenza quasi temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una
situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso
in maniera negativa peggiorando;
scorza s.vo f.le
1 rivestimento del fusto e delle radici degli alberi: staccare una scorza di
quercia | buccia grossa di alcuni frutti: ‘a scorza d’ ‘e castane; ‘na scorza
‘e limone(la scorza delle castagne; una scorza di limone).
2 (estens.) buccia grossa di formaggi duri
3 (estens.) pelle di alcuni animali, spec. di pesci e serpenti
4 (fig.) pelle dell'uomo (spec. in alcune loc. dell'uso fam.): tené ‘a scorza
tosta (avere la scorza dura), sopportare bene le fatiche, gli strapazzi, i
malanni
5 (fig.) aspetto esteriore, apparenza: nun guardate â scorza pecché tène ‘o
core bbuono!(non badate alla scorza perché à il cuore buono). Voce dal lat.
scortea(m) 'veste di pelle', f. sost. dell'agg. scorteus, deriv. di scortum
'pelle'.
casomulleso formaggio a scorza morbida ed a pasta tenera
voce formata dall’agglutinazione del s.vo caso con l’agg.vo mullese:
caso s.vo neutro cacio, formaggio ( dal lat. case(m)),
mullese agg.vo m.le e neutro (di cosa) morbido, molle, soffice, tenero, morbido
( per traslato di persona) debole, fiacco, moscio, imbelle, smidollato; voce
dal lat. molle(m) con allungamento espressivo ese (suffisso che continua il
lat. volg. esis ed indica appartenenza o qualità): molle(m)+
ese→mollese→mullese.
45.SÎ PPROPETO STRITTO ‘E PIETTO
Sei proprio di petto stretto Détto sarcasticamente di chi sia tanto avaro,
taccagno, spilorcio da lesinare persino sull’ampiezza dei vestiti ed indossarne
di striminziti piccoli, miseri, cuciti addosso, tali da fare apparire la figura
sottile, mingherlina, snella, minuta, delicata, debole come di colui che avesse
un petto privo di forme, rinsecchito e smagrito ; va da sé che l’espressione è
estensivamente applicabile a chi la propria avarizia e taccagneria la faccia
pesare anche in senso morale lesinando non solo gli aiuti materiali (danaro,
provvidenze), ma anche quelli spirituali e/o morali(consigli, parole buone,
suggerimenti, pareri, avvertimenti, esortazioni, incitamenti.
pròpeto avv.
1 proprio, veramente, davvero, precisamente, sí, per l'appunto (come risposta
affermativa o ironica per negare): «Site state vuje?» «Pròpeto!» («Siete stati
voi?» «Proprio») per dire di sí; «Site state vuje a pigliarve ‘o ppane?»
«Pròpeto comme dice»(«Siete stati voi?» «Proprio come dici» per negare.
2 assolutamente, affatto (come rafforzativo di una negazione): nun tengo
pròpeto suonno (non ò proprio sonno); nun è pròpeto overo! ( non è proprio
vero!); nun ne sapevo pròpeto niente (non ne sapevo proprio nulla);
voce adattamento popolaresco e regionale dell’espressione latina
pro-privo→prop(r)ivo→propivo→propito→pròpeto: 'a titolo privato'.
stritto = stretto part. pass. agg.vato m.le dell’infinito strégnere= stringere,
premere, comprimere, pressare;voce che è lettura metatetica del lat.
stringere→strignere→strégnere
pietto s.vo m.le = 1 la parte anteriore del tronco umano, compresa tra il collo
e l'addome | malatia ‘e pietto (malattia di petto), che riguarda i polmoni o i
bronchi; esseredebbulo ‘e pietto (essere debole di petto), delicato di polmoni
| voce ‘e pietto(voce di petto), quella piú naturale e limpida | do ‘e pietto
(do di petto), il piú acuto che può emettere un tenore | metterse ‘na mana
‘mpietto(mettersi una mano al/sul) petto, per attestare la propria onestà,
lealtà | vatterse ‘mpietto(battersi al petto), in segno di pentimento, di
contrizione piglià coccosa, quaccuno ‘e pietto( ' prendere qualcosa, qualcuno
di petto,)(fig.) affrontarlo decisamente, con irruenza stà a ppietto ' (stare a
petto), (fig. non com.) reggere al paragone | pietto a ppietto(petto a petto),
viso a viso, di fronte.
2 (fig.) cuore, animo: tènere ‘mpietto ‘na cosa, ‘na dicisione(avere in petto
un'idea, un proposito) prenderli a cuore
3 le mammelle della donna, il seno| tènere ‘nu criaturo ô pietto(avere un bimbo
al petto), allattarlo | tènere, nun tènere pietto(avere, non avere petto), nel
linguaggio corrente, avere il seno ben sviluppato o scarso; chella figliola era
forte ‘e pietto (quella ragazza era forte di petto), aveva un seno prosperoso
4 la parte del corpo degli animali corrispondente al petto umano | in
macelleria, taglio di carne bovina compresa tra il collo ed i lati; negli
uccelli, la parte carnosa sopra lo sterno: pietto ‘e pullasto, pietto ‘e vallerinio(petto
di pollo, di tacchino).
5 parte di un vestito che copre il petto: jeppone a unu pietto, a dduppie/dduje
piette(giacca ad un petto, a doppio petto o a due petti), quando le due metà
del davanti si sovrappongono sul petto. voce dal lat. pĕctu(s)→piectu(s)→piettu(s)→piétto.
46.STREGNE CCHIÚ ‘A CAMMISA CA ‘O JEPPONE
Ad litteram: Stringe piú la camicia che la giubba. Espressione che
icasticamente vale: Procura piú danno un parente prossimo che un vicino, un
amico, un sodale fortuito. L’espressione parte dalla considerazione che la
camicia è l’indumento che, indossandosi a pelle, è quello che piú costringe il
corpo e può risultare fastidioso, al contrario d’altri indumenti,come la
giubba, che indossati sulla camicia non devono essere necessariamente
costrittivi e fastidiosi;alla camicia son paragonati i parenti prossimi che, in
quanto tali stanno quasi a contatto a pelle viva con una persona e possono
arrecarle fastidio o danno, quelli che un vicino, un amico, un sodale fortuito
essendo meno congiunti direttamente ed avendo, con ogni probabilità, minori
rapporti e/o occasioni di coesistenza, è meno probabile che le possano nuocere
o la possano danneggiare al pari di una giubba che è meno a contatto con la
pelle dell’individuo; va da sé che nel novero dei parenti stretti siano da
considerarsi quegli amici e/o vicini che si comportino da parenti stretti,
essendo continuatamene a contatto di una persona.
cammisa s.vo f.le camicia indumento maschile e/o femminile di tessuto
generalmente leggero, abbottonato sul davanti, con colletto e maniche lunghe o
corte, che ricopre la parte superiore del corpo indossato il piú delle volte a
pelle nuda. voce dal lat. tardo camisia(m)→cammisia(m)→ cammisa(m) con
raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale (m);
Jeppone s.vo m.le giubba,giaccone, soprabito; voce dall’arabo ğubba→juppa→jeppa
addizionato del suff. accrescitivo one.
47. MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP'Ô MUOLO.
Letteralmente: Meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni
ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporti minor danno.
Temporibus illis in piazza san Francesco, a Napoli nell’edificio che era stato
un convento di francescani (i monaci di sant’Anna) e successivamente la
Pretura, erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il
patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa:
Meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
ducato detto a Napoli pure ‘o piezzo janco cioè d’argento o semplicemente pezza(
il pezzo bianco o semplicemente la pezza fu anticamente una grossa moneta che a
Napoli fu d’argento (scudo/ducato),altrove (Venezia, Milano etc) anche d’oro
anticamente detta appunta piezzo o pezza;rammento che tra il 1750 ed il 1865 il
ducato era moneta che valeva 436,5 lire it. mentre il grano/grana nome di una
moneta di modesto valore coniata nell'Italia meridionale, Sicilia, Malta ed in
Spagna.era corrispondente a 4,365 lire italiane ; la voce ducato è dalla parola
lat. ducatus, incisa sulle monete veneziane del sec. XIII raffiguranti il doge,
mentre il termine grano/grana è dal neutro lat. granu(m), pl. grana.
Non si ànno certezze circa l’indennità di quel tal mastu Francisco (mastro
Francesco), addetto alle pompe funebri ; si tratta probabilmente d’ un tale
Francesco Ingenito (i cui eredi ancóra conducono un’impresa di trasporti
funebri) che tra la fine dell’’800 ed i primi del ‘900 operò in provincia di
Napoli (Boscotrecase) nel campo delle onoranze funebri.
48.TENÉ ‘A CAPA A CURREDURO
Avere la testa a corridoio.Id est: essere dispersivo. Détto icasticamente e
sarcasticamente di chi in cento faccende affaccendato, non ne mena in porto
neppure una in quanto di indole oltre che disorganica,anche disordinata e
superficiale. La locuzione mette divertitamente in relazione una testa d’un
soggetto siffatto e cioè disorganico,dispersivo,disordinato, superficiale ed
indolente con un corridoio di appartamento che è quell’ambiente d’una casa su
cui si aprono gli usci di tutte le stanze, offrendo a chi frequenti la casa piú
possibilità di direzione e/o destinazione, ma quasi in modo anodino amorfo,
insulso, insignificante atteso che al corridoio è indifferente la direzione e/o
destinazione che uno prenda come è indifferente al soggetto provvisto di testa
a corridoio la direzione e/o destinazione che prendono le faccende di cui si
occupa senza menarne in porto neppure una!
curridore s.vo m.le corridoio, passaggio, generalmente lungo e stretto, che
mette in comunicazione locali diversi e sul quale si dischiudono le loro porte.
voce deverbale del lat. currere servendosi del suff. di attinenza ore che
continua il lat. ore(m).
49.TENÉ ‘A CIMMA ‘E SCEROCCO
Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso,
irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima
maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco.
cimma s.vo f.le cima, sommità, la parte piú alta, l'estremità, la punta, la
parte piú prestante o importante di qualcosa. voce dal lat. cyma(m) 'germoglio',
dal gr. kýma 'feto, germoglio'
con raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale (m);
scerocco s.vo m.le 1 vento caldo umido che spira da sud-est, tipico delle
regioni mediterranee,
2 il punto da cui spira questo vento: sud-est;
3 (per traslato come nel caso che ci occupa)nervosismo, irascibilità,
irritabilità, iracondia; voce dal magrebino shuluq→ shuruq→scerocco 'vento di
mezzogiorno'.
50.T’ÀGGI’ ‘A FÀ ‘A CAPA VROGNOLE VROGNOLE E N’ASTECO ARRETE Ê RINE!
Ad litteram: Devo farti una testa (piena di molti)bitorzoli ed un solaio dietro
le spalle. Id est : Devo picchiarti tanto violentemente da lasciarti sulla
testa numerosi e dolorosi piccoli rigonfiamenti o protuberanze e da conciarti
le spalle come se ci fossero stati compattati a suon di mazzuolo i lapilli
usati un tempo per rendere impermeabili i solai. Per comprendere appieno la
portata di queste gravi minacce contenute nella locuzione in esame , occorre
sapere che con il s.vo f.le vrognole pl. di vrognola (da un acc.vo lat. (pílula(m))
ebúrnea(m)=pallina biancastra;da eburnea→(e)burnea e per metatesi brunea con il
diminutivo *brunéola donde il lat. volg. *bruniola→brunjola e risoluzione di
nj→gn come in cumpagno←cumpanio/cumpanjo e ritrazione dell’accento tonico
oltreché l’alternanza tipica b/v (cfr. bocca→vocca – botte→votta –
basiu(m)→vaso etc.)si intende piccoli rigonfiamenti o protuberanze,
bernoccoli,procurati da colpi o percosse, mentre per asteco (dal greco óstrakon
= coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che
anticamente era formato con cocci di anfore e/o abbondante lapillo vulcanico
ammassati all'uopo e poi violentemente percossi con appositi martelli al fine
di grandemente compattarli e renderli impermeabili alle infiltrazioni di acqua
piovana.Va da sé che il termine vrognole=bernoccoli è da intendersi in senso
reale quale risultato di proditorie percosse dirette alla testa,
l’asteco/solaio è da intendersi in senso figurato come risultato di violenti
percosse indirizzate sulle spalle o la schiena in genere.
51. À TIRATO ‘A SCIAVECA oppure
STA TIRANNO ‘A SCIAVECA
Letteralmente: À tirato la sciabica oppure Sta tirando la sciabica
Ambedue le espressioni sono usate o posteriormente o nel durante ad ironico ed
antifrastico commento delle azioni di chi o reduce da o operante un leggero e/o
inconferente lavoro, faccia invece cialtronescamente le viste di aver condotto
a termine o di star facendo una faticosa incombenza;
la sciaveca è la grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali
sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della
battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che
per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a
mollo con il fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dint’ a
ll’acqua id est: star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star
lavorando faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia
pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia mai abbastanza remunerativo.
Etimologicamente la parola sciaveca pervenuta nel toscano come sciabica è
derivata al napoletano (attraverso lo spagnolo xabeca) dall’arabo shabaka da
cui anche il portoghesejabeca/ga.
Pacche s. f. pl. di pacca= natica e per traslato ognuna delle piú parti in cui
si può dividere longitudinalmente una mela o una pera; etimologicamente la voce
è dal lat. med. pacca marcato sul long. pakka.
52. STRUJERE 'E PPRETE
Ad litteram: consumare le pietre Riferito al comportamento di chi tenga
diuturnamente a piedi sempre il medesimo percorso e ne consumi quasi le pietre;
per traslato e sarcasticamente riferito a chi perda accidiosamente il suo
tempo, inutilmente bighellonando per istrada.
Tale comportamento viene altresí indicato con la locuzione:
jí 'ncasanno 'e vasule (andar pestando le pietre di copertura della strada).
53. -SUNNARSE 'O TRAMME ELETTRICO
Ad litteram: sognare il tram (a motore) elettrico id est: fantasticare, fare
castelli in aria illudendosi di poter raggiungere un improbabile traguardo.
Locuzione nata quando ancora le vetture tramviarie erano mosse dai cavalli e la
sperata elettrificazione del motore era di là da venire.
54. SUNÀ 'O PIANEFFORTE
Ad litteram:suonare il pianoforte ma il riferimento del modo di dire non
riguarda lo strumento musicale; attiene invece alla leggerezza di mano dei
borseggiatori che le usano con lieve maestria simile a quella dei suonatori di
piano.
55.T''A FAJE CU LL'OVA 'A TRIPPA.
Ad litteram: Te la fai con le uova la trippa Cosí, con ironia e sarcasmo , si
usa rivolgersi a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione
rischiosa, per salacemente commentare la sua ingrata necessità di adoperarsi
per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato; come se si
volesse consigliare chi fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, a renderlo
piú appetibile preparandolo con delle uova.
56.TENÉ 'O CUORIO A PPESONE
Ad litteram: avere le cuoia a pigione id est: essere costretti a vivere a
rischio continuo, in modo precario, nelle mani della malasorte, in un clima di
continua incertezza, come chi - non essendo proprietario di alloggio, sia
costretto a prenderne uno in pigione al rischio di vedersi improvvisamente
messo fuori dal proprietario. Con il s.vo cuorio (dal lat. cŏriu(m)→cuorio si
intende anche in italiano 1 pelle di animale conciata in fogli spessi e
semirigidi, per la confezione di oggetti d'uso: borsa, scarpe di cuoio
2 (estens.) pelle dell'uomo: cuoio capelluto; avere il cuoio duro, essere
resistente, duro a morire; tirare, stendere le cuoia, morire.
57 -TENÉ 'O FFRACETO 'NCUORPO
Ad litteram: avere il fradicio in corpo id est: portarsi dentro, tentando di
non appalesarle, ingenti carenze intellettive o morali, o - piú spesso -
pessime inclinazioni; va da sé che ci sia poco da fidarsi di chi abbia tali
carenze o inclinazioni.
58 -TENÉ 'O PIZZO SANO MA 'A SCELLA ROTTA
Ad litteram: avere il becco integro ma l'ala rotta Détto ironicamente di chi
sia sempre pronto a prendere, ma accampi scuse per esimersi dal dare. Al di là
del significato traslato, la locuzione si riferisce in primis a chi sia sempre
pronto a mangiare ma sia restío a lavorare adducendo il pretesto di avere un
arto fuori uso.
59 - TENÉ 'E PPEZZE
Ad litteram: avere le pezze id est: essere ricco, disporre di molto danaro,
atteso che qui il termine pezza non sta a significare: straccio, ma (come ò già
détto antea sub 16) appunto una moneta; rammenterò a completamento di quanto
goà détto, che al tempo dei Borbone, nel Reame di Napoli la pezza era il
ducato, ben identificata, grossa moneta d'argento detta anche piastra del
valore di ben 15 carlini; essere in possesso di tante piastre o pezze
significava essere ricco assai.
60. -TENÉ 'E FRUVOLE PAZZE 'INT' Ô MAZZO
Ad litteram: avere le folgori pazze nel sedere Riferito soprattutto a ragazzi
irrequieti e chiassosi, recalcitranti ai freni ritenuti titolari di folgori
pazze (tipo di fuochi artificiali)allocate nel sedere, che con il loro
scoppiettío, costringono i ragazzi a non stare fermi e ad agitarsi
continuamente. . Letteralmente 'e fruvole sono i fulmini, le folgori dal latino
fulgor con rotacizzazione e successiva metatesi della elle ed alternanza di g
con v come in gallo→vallo – volpe→golpe – gunnella→vunnella – gallina→vallina;
Brak
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