VECCHIE VOCI NAPOLETANE
Riporto qui il compito che tempo fa mi assegnò l’amico carissimo il prof. Carlo Iandolo che mi inviò un elenco di voci partenopee esortandomi ad illustrarle ed a fornirne, ove possibile, una eventuale ipotesi etimologica.
Non mi sottrassi all’invito, sperando di non dire troppe asinerie, portai a termine il compito così come di sèguito;
Ecco qui l’elenco delle voci:
ammagliecà (ammagliechïà),
, ammallà, arresedià, azzancà, jestariello, cataròzzola, chiuchiaro, cianculià (cianculïà), cernetura desfazzio, fecozza, felatiello, fesina, fúrgulo, mingria/mincria, ‘mpechera, ‘mperrarse, muniglia.
Devo cominciare con il dire che non si trattò di una passeggiata: ad un primo rapido esame a volo d’uccello m’accorsi che mi trovavo a competere con voci per la maggior parte desuete e non piú riscontrabili nel linguaggio comune della gente, voci che ormai son solo nelle opere degli antichi scrittori (Cortese, Basile, Stigliola ed altri) e non si trovano neppure in tutti i recenti calepini della parlata napoletana, ma solo in quelli d’antan; solo di due o tre delle voci elencate ò diretta memoria essendo voci che sessant’anni e più or sono – quando fui ragazzo – erano ancóra in uso nel parlato familiare e/o popolare; tutte le altre le ò conosciute solo per averle incontrate in talune antiche opere napoletane e mai piú usate o ritrovate nel linguaggio comune della gente, cioè nel parlato familiare e/o popolare.
Ciò precisato veniamo al dunque entrando in medias res.
1) ammagliecà (voce desueta) attestata pure come ammagliechïà (che à coniugazione diversa nella quale (per fare un esempio) all’ind. presente in luogo di ammaglieco- ammaglieche- ammaglieca etc che è l’ind. pres. di ammagliecà, dà ammagliechejo – ammagliechije – ammalgliecheja etc. cosí come impone l’infinito in chïà); è voce che valse: ruminare,gramolare, masticare lentamente alla meglio e per traslato ed estensione semantica anche biascicare (come chi nel parlare, non trovando d’acchito le parole esatte, muova la bocca nell’atto di rimasticar lentamente e reiteratamente, andandone alla... ricerca ). Ora atteso che la ruminazione non è altro che una rimasticazione con l’intento di assottigliare il piú possibile il cibo, come il gramolare è il far passare lino o canapa in una macchina allo scopo di separare le fibre tessili della canapa e del lino dalle fibre legnose, insomma di renderle il piú sottili possibile, il masticare lentamente allo scopo di assottigliare sia pure alla meglio il cibo è un’operazione che comporta il far sottostare il cibo ai ripetuti lenti colpi dei denti che assumono quasi la funzione di piccoli martelli/ magli e perciò per il verbo a margine reputo si possa tranquillamente pensare ad un denominale del latino malleus che nella bassa latinità fu mallius che poté dare magliecare/magliecà= mangiucchiare che rafforzato da una protesi ad diede ad-magliecà→ammagliecà e poi ammagliechïare/ ammagliechïà.
1) ammallà = ammollire (come càpita, sui banchetti dei mercatini ortofrutticoli, alla frutta improvvidamente passata per le mani di avventori scostumati) , ammaccare, mantrugiare, sgualcire e (con significati però desueti) percuotere,bastonare, uccidere. anche per questo verbo etimologicamente reputo che si possa far riferimento ad un ad+malleus→ ammallare/ammallà quantunque da qualcuno ci si attenderebbe un ammalliare/ammallià sempre che il qualcuno non stesse pensando al pregresso mallius.
2) arresedià (voce abbondantemente desueta) che un tempo valse rassettare, mettere in ordine; oggi il verbo è sostituito da arricettà ( da un ad+ receptum)= dar sistemazione, raccogliere e riporre (arricettà ‘a casa, ‘a stanza= rassettare la casa, la stanza mentre arricettà ‘e fierre sta per raccogliere i ferri usati per lavorare, riporli nella borsa dando loro ricetto= pace,ricovero, calma, tranquillità. Torniamo al verbo a margine: arresedià che come ò detto valse rassettare, mettere in ordine, sistemare; non tranquilla la lettura etimologica del verbo; qualcuno si trincera dietro un pilatesco etimo ignoto o incerto qualche altro (ad es. il fu D’Ascoli) opta per un lat. asseditare donde l’italiano assettare= mettere in assetto, ordinare, sistemare convenientemente e con cura; chi si trincera dietro l’etimo ignoto o incerto mi dà l’orticara, ma D’Ascoli non mi convince: se semanticamente asseditare potrebbe accontentarmi, non lo può morfologicamente: v’è, a mio avviso, troppa differenza tra asseditare ed arresediare. Direi anzi con il molisano on. Di Pietro: “Nun ce azzecca niente asseditare con arresediare. A mio sommesso, ma deciso avviso, anche con riferimento ai concetti di dar sistemazione, raccogliere e riporre dando ricetto ossia ricovero, calma, pace, tranquillità espressi dal verbo arricettà che nel parlato comune à sostituito il verbo a margine conservandone il significato, quanto all’etimo di arresedià dico che si possa con somma tranquillità farlo risalire ad un lat. ad + resedare= calmare (composto da un ad + re→arre ( doppia protesi intensiva) + sedare).
3) azzancà o pure azzangà anche per questo verbo voce antica attestata nello Stigliola, nel P.P. Volpe ed altri si deve parlare di voce abbondantemente desueta che un tempo valse, soprattutto nella forma riflessiva azzancarse/azzangarse, infangare/rsi, inzaccherare/rsi, lordare/rsi di fango, camminar nel fango; anche in questo caso occorre dire che è non tranquilla la lettura etimologica del verbo; qualcuno si trincera dietro il solito pilatesco etimo ignoto o incerto (cosa che come ò detto mi dà l’orticaria; qualche altro piú coraggiosamente (e sto parlando del fu D’Ascoli) opta, ma non mi pare lo faccia correttamente, per un longobardo zahhar= lacrima nell’idea semantica che a procurar la lordatura di chi si inzacchera siano gli schizzi (lacrime) di fango; siamo alle solite! Fatta salva la gran fantasia del defunto professore, mi pare proprio impercorribile il passaggio morfologico che porti da zahhar a zanco/go che à prodotto poi azzancà ←ad + zanco/go. Sommessamente azzardo che il napoletano zanco/go= fanghiglia che à dato il verbo a margine e che non à nulla a che spartire con l’omofono, omografo zanco del veneto e veneto-giuliano e triestino e dove da s(t)anco→zanco vale sinistro – mancino Penso che la voce napoletana possa esserci pervenuta forse attraverso una voce araba (ma quale sia, per ora non so) marcata sul sanscrito panka→zanca= lota, polvere intrisa d’acqua.
4) jestariello vocabolo ignoto (sia nella forma a margine che in quella semplificata di iestariello) a tutti i calepini della parlata napoletana, che ò potuto consultare, da quelli piú antichi: R. D’Ambra, P.P. Volpe, Andreoli a quelli piú recenti D’Ascoli, Altamura etc. Penso che con ogni probabilità debba trattarsi di voce del passato, abbondantemente desueta e neppure originaria; la morfologia del termine con quel suffisso diminutivo di sapore spregiativo: riello mi induce a pensare che debba trattarsi di una voce coniata ad usum delphini da un qualche antico scrittore:Basile(?), Cortese(?), Stigliola(?), Sgruttendio (?) etc ricavandola come diminutivo maschilizzato sulla voce jesta che ò trovato attestata nel D’AMBRA nel significato di sfilza di fichi secchi, per cui il jestariello sarebbe o potrebbe essere un sostantivo o aggettivo da riferirsi ad un uomo piccolo, minuto e rinsecchito tal quale una sfilza di fichi secchi; quanto all’etimo di jesta che penso abbia suggerito jestariello reputo che si possa collegarlo al portoghese aresta→(ar)esta→jesta con la voce arèsta trasformazione neolatina del lat. àrista
5) catarozzola anche per questa voce antica attestata nello Stigliola, nel P.P. Volpe ed in pochi altri si deve parlare di voce abbondantemente desueta e resistente nel parlato comune solo nel significato estensivo giocoso di testa, cranio con riferimento soprattutto a quello sventanto dei/delle ragazzi/e; originariamente il vocabolo a margine indicò un cantuccio (estremità del filone) di pane raffermo, un grumolo, la parte piú interna del cavolo cappuccio, il suo torsolo e solo estensivamente o per traslato il cranio, la testa quei soli significati che oggi si attagliano (come ò detto) alla voce a margine. Di non tranquilla lettura l’etimo della parola. Oltre numerosi etimo ignoto o incerto trovo solo un’ipotesi dell’Altamura, fatta propria – peraltro – anche dal D’Ascoli, ipotesi che fa riferimento ad un ebraico chatharoth= cranio. Trovo ben strano che un significato secondario o traslato abbia potuto produrre una parola i cui significati primi sono altri:(tozzo, gromolo, torsolo). No, questo ebraico chatharoth non mi convince affatto. Penso di dover e poter seguire altra strada.Cominciamo col dire che nei significati primi qui detti(tozzo, gromolo, torsolo), il napoletano odierno registra tozzola quantunque segnatamente con riferimento ad un cantuccio di pane raffermo; questa tozzola un tempo fu pure catozzola nella quale è riconoscibile una protesi intensiva ca che per alcuni però può corrispondere alla part. greca kata=sopra e probabilmente potrebbe indicare cosa che sta al di sopra, cosa rotonda, sporgente: orbene il napoletano catozzolo/a corrisponde ed è chiaramente marcato su un catorzolo/a derivato dal lat. torsus p.p. di torqueo secondo un percorso morfologico che può essere stato torsus + suff. diminutivo olus/ola + protesi intensiva ca = catorsolo/a→catorzolo/a→ catozzolo/a da cui con epentesi di una sillaba rafforzativa ar si giunge a catarozzolo/a nei significati di tozzo, gromolo, torsolo e solo estensivamente di capo, cranio (cosa rotonda, sporgente che sta al di sopra.
Il tutto con buona pace di Altamura e D’Ascoli e del loro ebraico chatharoth.
7) cernetura voce desueta, venuta meno con il venir meno di una tipica abitudine partenopea (quella di approntare nei mesi invernali il cosiddetto braciere(scaldino di fortuna) ormai sostituito in tutte le case napoletane da stufe e stufette elettriche, ad olio, a gas, talvolta a legna, quando non da eleganti camini alimentati con combustibili industriali o addirittura dai radiatori di un riscaldamento spesso centralizzato che massificando i bisogni toglie il gusto della autonoma indipendenza personale. Torniamo alla voce a margine che letteralmente fu un tipo di carbonella piuttosto spessa e consistente usata insieme alla cosiddetta muniglia ( cfr. porro) per accendere quello scaldino di fortuna che con il nome di rasiere (braciere) occupò, nei mesi invernali un angolo della cucina (la stanza dove si preparavano i pasti, spesso sormontato dall’asciuttapanne (una cupola fatta con listelli di midollo ligneo intrecciati ad hoc) su cui era appoggiata la biancheria lavata, ma non ancora asciugata del tutto, nella speranza che succhiando il calore emanato dal braciere acceso i panni cedessero la loro umidità in eccesso.
Ma sto divagando dilungandomi e perdendo di vista l’assunto. Torniamoci. Ordunque cernetura = tipo di carbonella piuttosto spessa e consistente usata per accendere il braciere; carbonella ricavata artigianalmente dalla combustione protratta fino a carbonizzazione dei tralci di vite potati negli ultimi mesi autunnali; questi tralci carbonizzati erano frantumati grossolanamente e posti, per essere con forza e velocemente agitati, in ampi stacci o crivi con tramatura di ferro piuttosto stretta; i pezzi di carbonella che restavano negli stacci al termine dell’operazione costituivano la cernetura i pezzetti di carbonella piú minuti, quasi polverosi che passavano i buchi della tramatura costituivano la muniglia. Va da sé che la voce cernetura è un deverbale di cernere dal lat. cernere 'vagliare, separare' mentre per la voce muniglia di cui avrei dovuto dire porro,ma che preferisco trattare ora trovandomi in argomento, chiarito che è voce pur’essa ormai desueta che un tempo serví per indicare un tipo carbonella piuttosto sottile e quasi inconsistente usata per accendere il braciere, trattandosi semanticamente quasi di una sorta di mondatura operata sui pezzi di tralci carbonizzati, si può ragionevolmente ipotizzare un *mundilia→mun(d)iglia (cfr. l’italiano mondiglia)deverbale del lat. mundare, deriv. dell'agg. mundus 'mondo, pulito'.
8)chiúchiaro ma meglio chiuchiàro (da non confondere comunque con chiòchiaro che è tutt’altra cosa e che con derivazione da chiòchia variante di ciocia vale zotico, villano (aduso a calzar le cioce) e per traslato sciocco, babbeo) è la voce usata per indicare un semplicissimo strumento a fiato d’uso pastorale, una sorta di zufolo bitonale il cui suono all’incirca riproduce il verso d’un uccello detto chiú o assiuolo (cfr. Pascoli Il chiú in Nuovi Poemetti ). Ed è questa – a mio avviso – la strada piú agevole e sicura per trovare l’etimo della voce a margine: si tratta abbastanza chiaramente, a mio modo di vedere, di una voce di tipo onomatopeico; ai due fonemi chiú e chià riproducenti il bitono dello strumentino si è aggiunto un consueto suffisso tonico di attinenza aro←areus ottenendo chiuchiàro.
9)cianculià attestata pure come cianculïà (con conseguente diversità di coniugazione come per il precedente ammagliecà ed ammagliechïà ), voce verbale ormai desueta che valse: divorare, strippare, mangiare avidamente, ingurgitare, trangugiare voracemente,avidamente quasi con la medesima furia devastatrice delle bestie feroci che assalgono le loro prede con ripetuti violenti colpi delle loro artigliate zanche (cianche), colpi tesi prima ad abbattere e poi a smembrare le vittime per farle infine finire tra le fauci.Ed è proprio questa la strada semantica da seguire per pervenire (a mio avviso) ad un attendibile etimo del verbo a margine che, letto cosí come ò fatto, risulta un denominale di cianca alternativo di zanca (= gamba, zampa) che è da un longobardo zanka=tenaglia.
10)desfazzio eccoci innanzi all’ennesima voce abbondantemente desueta e già poco usata nel passato: l’ò trovata attestata solo nel Basile e riportata nel dizionario di R.D’Ambra come locuzione avv.le: a desfazio (sic! con la zeta scempia) nel significato di benché, a malgrado, quantunque; nel P.P.Volpe la voce a margine non è riportata, ma vi ò trovato le voci Desfazjone Desfazejo, Sfazejo nei significati i primi due di dispetto – vendetta – mentre il terzo privato del negativo des=dis vale piena soddisfazione; orbene anche in lingua italiana è attestata la voce disfazione derivato da dis privativo + un composto di fare che vale disfacimento, rovina; ora tutto sta a convincersi che il malgrado della locuzione a malgrado può comodamente sostituirsi con le voci dispetto o rovina e dire benché, a dispetto,a rovina, quantunque, avremmo trovato la quadratura del cerchio relativa alla voce a margine che etimologicamente risulterebbe una sorta di apocope di desfazione→desfazio(ne) derivata come l’italiano disfazione = rovina da des o dis privativo + un composto di fare. Ma la voce a margine è voce brutta ch’io non userei neppure sotto minaccia di arma bianca, preferendo il piú tranquillo ed ovvio “cu tutto ca” del napoletano corrente.
11)felatiello questa è una voce chi temo mi darà certamente filo da torcere: troppo antica, desueta e scarsamente attestata ed i vecchi e nuovi calepini che la pigliano in considerazione ne danno troppi significati non sempre congruenti tra di loro; nel calepino di F. Galiani trovo registrata la voce a margine sotto l’espressione far felatiello con la seguente accezione: metter paura,mentre pigliare a felatiello sta per far dispettucci; idem dicasi per il P.P.Volpe che si accoda al Galiani, ma aggiunge come significato primo del vocabolo un fantasioso filatello che non so cosa sia, ignoto com’è ai maggiori dizionarii della lingua italiana; ancóra tra i vecchi lessicografi, R. Andreoli non se ne dà per inteso e non lo piglia in considerazione né come felatiello, né come filatiello. I moderni vocabolaristi si copiano l’un l’altro per modo che per tutti (Altamura, D’Ascoli etc.) felatiello vale paura, trepidazione, timore, ma anche raggiro, minaccia, intrigo che semanticamente non si comprende proprio come possan collegarsi a paura, trepidazione, timore. Dopo d’aver vagato in tale mare magnum impercorribile, mi son deciso a far ricorso all’antico vocabolario firmato dal prof. Raffaele D’Ambra, vocabolario per il quale appassionati e studiosi non finiranno mai abbastanza di ringraziare l’editore Forni di Bologna che ce ne à fornito un’accuratissima ristampa anastatica, per modo che anche noialtri di questo secolo informatico possiamo avidamente libare a quella fonte cartacea di sapere linguistico.
Ed infatti un’attenta indagine sul D’Ambra mi à permesso, forse, di venir fuori dai sargassi del Galiani,del P.P.Volpe ed ovviamente degli Altamura e D’Ascoli. È stato l’uovo di Colombo.
Il buon D’Ambra è vero non tratta felatiello come voce autonoma, ma ne lascia intendere il corretto significato e con esso una probabilissima esatta etimologia; egli infatti allude a questo felatiello che ci occupa sotto la voce felato= filato,tramato assegnandogli in quanto diminutivo di tale felato=filato,tramato, ordito il significato traslato di piccolo raggiro, contenuta macchinazione, facendo giustizia sommaria di ipotizzati inesatti significati come paura,dispetto,timore e mantenendo quelli esatti di raggiri,ed intrighi che son delle macchinazioni.Va da sé che cosí inquadrato il felatiello diminutivo di felato etimologicamente deriva dal verbo filare dal tardo lat. filare, deriv. di filum 'filo' ovviamente non nel significato maldestramente ipotizzato dal D’Ascoli di scappar via, telare, ma in quello di predisporre, ordinare che può dar luogo alle macchinazioni. Ovunque voi siate, grazie prof. D’Ambra!
12)fesina ecco un’altra parola antica e desueta che non tutti gli antichi calepini riportano (ad es. il Galiani ne registra solo un diminutivo fesinella sia pure negli stessi significati che qui di sèguito dirò); parola che non è in uso neppure nelle piú remote province dove ancóra si pratica l’agricoltura e/o la pastorizia.Ò parlato di agricoltura e/o pastorizia in quanto la voce a margine indicò un otre, un vaso di creta panciuto e dal collo stretto in cui si conservava vino, olio,aceto, sugna ed altro tutti prodotti di tipica competenza di contadini, allevatori etc. Quanto all’etimologia si brancola bellamente nel buio. E dirò che non mette neppure conto riferire l’idea di non so chi (ma riportata dal D’Ascoli) idea che per la voce a margine postula un greco phûsa= borsa forse perché i primi otri furono di pelle (come le borse...);a mio avviso non ci siamo! Sia semanticamente che morfologicamente... Come non mi piace l’idea originaria del D’Ascoli che si inventò un lat. regionale fesina= vaso ma non ci disse donde lo avesse tratto fuori ed - a maggior disdoro - ipotizzò che tale fesina fosse stato incrociato (a che scopo poi?) con fiscina= cesto. In alternativa il defunto prof. propose un lat. med. fessina= “instrumentum vimineum ad piscadum”una sorta di nassa cioè. Che pretese! Conservare vino, olio aceto in un cesto o in una nassa di vimini ! Non ci siamo! Abbandoniamo borse, cesti e nasse e tentiamo altre vie. Mio avviso è che, ragionevolmente questa fesina a margine possa essere derivato dal greco phûskon→ phûs(k)on = panciuto come panciuto è il vaso detto fesina.
13) fúrgolo questa è una parola che come la precedente cernetura non mi toccherà di andare a reperire in antichi testi e/o calepini in quanto è parola che era in uso in famiglia e fra il popolo al tempo della mia fanciullezza sia pure nella forma di fruvolo che come facilmente si può intendere è una lettura metatetica della voce al margine con il solo mutamento della g→v o alibi di v→g come capita ad es. con golpe al posto volpe, voccia per goccia vulio per gulio etc.Rammento ancóra l’espressione usata da una zia che redarguendo noi ragazzi un po’ troppo vivaci retoricamente e sarcasticamente ci chiedeva: Ma tenissive ‘e frúvole ‘int’ ô mazzo!? (Avete per caso dei razzi, dei fuochi artificiali allocati nel sedere!?)Espressione senza dubbio ironica, ma quanto icasticamente esatta... Letteralmente l’espressione: tené ‘e fruvole int’ ô mazzo va letta: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Divertente espressione con la quale si accreditano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti di essere titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente la voce a margine furgolo attestata nel parlato come fruvolo ed usata soprattutto al plurale furgole- fruvole vale fulmine/i, folgore/i e fuochi artificiali. Quanto all’etimo reputo che tranquillamente si possa pensare al lat. fulgor che con doppia dissimilazione abbia generato furgolo/i donde poi fruvolo/e cosí come nel parlato familiar-popolare degli anni ’50 del 20° sec.
14)mingria o mincria e qui si torna ad una voce antica ed abbondantemente desueta che, pure se accolta da calepini antichi e moderni, si dura fatica a comprendere nell’esatto significato atteso che ogni vocabolario ne dà piú di un significato e non sempre congruenti; la voce a margine è attestata nelle due forme mingria e mincria ed i significati spaziano impunemente da estro a fantasia da capriccio a grillo per la testa e non si riesce a capire se questa mingria o mincria (che qualcuno, ma inesattamente, come vedremo, vorrebbe pronunciare mingría e mincría) non si comprende – dicevo – se tale vocabolo abbia una valenza positiva ( estro – fantasia) o una negativa ( capriccio - grillo per la testa ).
Anche questa volta occorre rifarsi al D’Ambra che citando il seguente anonimo distico : Ca ‘ncapo a Ggiove po’ zompà la mingria/de zeffonnà ‘o monte... ci permette di evincere due cose:1° che la pronunzia esatta è míngria e non mingría giacché in questo secondo caso salterebbe l’endecasillabo ca ‘ncapo a Ggiove po’ zompà la mingria; 2° che la valenza del vocabolo è negativa, essendo chiaramente quello di Giove un capriccio, non un estro magari artistico.
Chiarito il significato essenzialmente negativo della voce a margine, affrontiamo – se possibile – il problema etimologico. La gran parte degli addetti ai lavori è costetta ad optare per un pilatesco etimo ignoto o incerto; il solo D’Ascoli propone e forse non a torto – partendo dalla considerazione semantica che il capriccio, l’alzata di mente è un moto del cervello – che è alla testa e ad un suo pulsare che ci si debba riferire nel tentativo di pescar nel mazzo l’asso etimologico; nella fattispecie si può tentar la via segnata da un tardo lat. hemicrania(m), dal gr. hímikranía secondo il seguente percorso morfologico: hemicrania(m)→(he)mincria con aferesi della prima sillaba ed una lettura metatetca della seconda parte della parola. Ciò naturalmente sempre che si voglia assolutamente trovare un etimo; ma si vive benissimo ugualmente senza trovarlo. Altro, all’attualità proprio non saprei dire!
15)‘mpechèra anche questa, per mia fortuna è una parola che come le precedenti cernetura e furgolo non mi toccherà di andare a reperire in antichi testi e/o calepini in quanto è parola che era in uso in famiglia e fra il popolo al tempo della mia fanciullezza ed ancóra oggi mi capita di ascoltare talvolta sulla bocca di amici o meglio di amiche riferita ad una donna intrigante, inframmettente, pettegola, che non disdegni – a maggior cordoglio – il raggiro, l’imbroglio nel tentativo di impicciarsi dei fatti altrui, impegolandovisi. La ricerca dell’etimo della voce a margine non mi appare complicatissima; io vi leggo molto chiaramente un deverbale del greco empleko=intratesso, intreccio addizionato dal solito suffisso tonico di competenza era; la caduta della e iniziale di empleko giustifica il segno d’aferesi con cui preferisco scrivere ‘mpechèra al posto del semplificato mpechèra dove la m d’avvio priva d’aferisi potrebbe indurre qualcuno a ritenerla non etimologica, ma mera aggiunta eufonica come càpita per la n di nc’è o nce.
16)‘mperrarseanche questa, per mia fortuna è una verbo che come le precedenti parole cernetura, furgolo, ‘mpechèra non mi toccherà di andare a reperire in antichi testi e/o calepini in quanto è parola che era in uso in famiglia e fra il popolo al tempo della mia fanciullezza ed ancóra oggi talvolta mi capita di ascoltare riferito a persona che nei rapporti interpersonali usi tenere un comportamento incontrollato,incollerendosi, montando in bestia, accanendosi, adirandosi, ostinandosi, puntando i piedi anche pretestuosamente, intestardendosi.Vale altresí, sia pure non nella forma riflessiva,ma transitiva aizzare È, questo a margine, un verbo presente anche in altra lingua regionale come il siciliano dove è mpirrari/’mperrare. Quanto all’etimo tranquillamente si può pensare ad un denominale dell’ iberico perro= cane con prostesi di un in illativo che à dato imperrarse donde ‘mperrarse ed anche ‘mperrare/’mperrà.
17 muniglia ne ò già parlato (cfr. antea infra cernetura). Qui mi piace ricordar solo che la lettura di questa parola mi rimanda indietro di cinquant’anni al tempo ch’io fui ragazzo e mi madre mi spediva dal carbonaio ad acquistare muniglia e cernetura (ma piú muniglia che cernetura (la muniglia costava meno!) per approntare il braciere e mi raccomandava di non dimenticare di chiedere al carbonaio l’aggiunta gratuita d’un pezzo di carbone che immesso al centro del braciere tra muniglia e cernetura, opportunamente acceso avrebbe mantenuto vivo il fuoco per piú tempo.
18) fecozza.Eccoci alla fine ed incontriamo una parola che dovette essere antica (attestata com’è in tutti i calepini d’antan), ma perdurava anche negli anni ’50-’60 del 1900 presente nei dizionarî che videro la luce negli anni ’70 ed ’80. È parola tuttavia che è poi inopinatamente sparita soprattutto nell’espressione Stanno facenno a fecozze cioè Stanno facendo a botte, a pugni (..per entrare - per ottenere e/o fare alcunché)...Stanno facendo ressa. L’espressione, dicevo, non si sente piú e non perché oggi talvolta per istrada non si faccia a pugni e/o botte o non vi siano resse, ma solo perché anche il nostro popolo si è dovuto ahimé adeguare ai linguaggi mediatici e della globalizzazione e non usa piú il nostro majateco linguaggio fatto di parole dotte o musicali e di icastiche voci o immagini come quella richiamata dalla voce a margine che di per sé vale percossa, o meglio pugno assestato di punta con le nocche di indice, medio ed anulare esposte a cuneo e con il pollice ripiegato all’interno delle tre dita a far da sostegno alle nocche protese, ma richiama alla mente un fico fiorone in quanto un deciso pugno portato con la mano chiusa cosí come ò descritto, e diretto a parti molli (ad es. il volto) può lasciare una ferita centrale, che può anche sanguinare, procurata dalla nocca del dito medio e tutt’intorno una tumefazione che tende a mano a mano ad illividirsi ripetendo ad un dipresso il vestito del fico fiorone, mentre la piccola ferita centrale, in ispecie se sanguinante ripete la boccuccia del fico. Dilungandomi nella descrizione ò anticipato la via semantica seguita per pervenire all’etimo della voce a margine; secondo tale via l’effetto (tumefazione simile ad un fico polputo) prodotto dal pugno (fecozza/ficozza= fico polputo) dicevo l’effetto à ceduto il nome alla causa (il pugno) ed il pugno è diventato fecozza/ficozza= fico polputo inteso però, sulle orme del Rohlfs, in senso spregiativo come si ricava dal suffisso ozza. E questo con buona pace di chi vorrebbe la voce a margine un deverbale (ma per quale strada morfologica?) del latino figere= colpire e con ancóra maggior buona pace di chi fantasiosamente postula un lat. figicare.
E fatto punto qui, raccolsi le cartuscelle e le girai all’amico prof. C. Iandolo che fu contento del mio dire accogliendolo nel suo vocabolario napoletano semantico-etimologico.
Raffaele Bracale
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