mercoledì 16 marzo 2011

ANTICHE ESPRESSIONI

ANTICHE ESPRESSIONI
Questa volta il destro per la stesura di queste paginette me l’offre la richiesta dell’amica M.P.F. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche), amica che mi à proposto un congruo ventaglio di espressioni partenopee antiche ed in parte desuete, chiedendomi di illustrale e chiosarle. Provvedo augurandomi di interessare anche qualcuno dei miei consueti ventiquattro lettori.
Cominciamo.
1.Nce verimmo a Ffelippo
Letteralmente: Ci vediamo a Filippo.
Espressione ancóra usata quale minaccioso ammonimento equivalente a: "Bada! Al momento opportuno te la farò pagare"; minaccia cioè di tirare definitivamente le somme di una contesa in tempi piú propizî a chi stia minacciando.L’espressione scimmiotta attraverso un’assonanza corruttiva (Filippi/Felippo) quella minacciosa: Ci rivedremo a Filippi . Queste parole secondo una leggenda riportata anche da Plutarco furono rivolte a Bruto dalla suo medesimo cattivo démone (coscienza) o dallo spettro di Giulio Cesare apparsogli in sogno alcune notti prima della battaglia di Filippi del 42 a.C., che terminò con la vittoria di Ottaviano e Antonio su Bruto e Cassio, i quali vi morirono.
L’espressione italiana, come quella corruttiva napoletana, à altresí – oltre il significato cui ò accennato -, pure un significato rivendicativo del male ricevuto in quanto, com' è noto, Cesare era stato vigliaccamente pugnalato da Bruto che era stato da lui tanto amato. Narrò lo storico Plutarco che, dopo l'uccisione di Cesare (44 a.C.), Bruto riparò con Cassio Longino e con l'esercito dei repubblicani in Macedonia, dove lo inseguirono Marco Antonio e il giovane Ottaviano. Una notte apparve a Bruto, nella sua tenda, un'ombra gigantesca che gli disse: "Io sono il tuo cattivo genio, o Bruto, e mi rivedrai dopo Filippi". Arditamente, Bruto replicò che non sarebbe mancato all'appuntamento, e l'ombra disparve. Proprio nella piana di Filippi, presso Cavalla, sull'Egeo, gli eserciti rivali si affrontarono, nel 42 a.C., per la battaglia decisiva. I primi scontri volsero a favore di Bruto, ma per la seconda volta il gigante riapparve, muto, all'assassino di Cesare. L'indomani si riaccese la mischia, che si concluse con la disfatta dei repubblicani e col suicidio di Bruto. A margine di tutto ciò rammento che il nome proprio Felippo ricorre in un’altra nota locuzione partenopea che suona:
2.Avimmo perduto a Felippo e ‘o panaro
Ad litteram: abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi.Nel caso di questa locuzione ancóra in uso, affatto diversa dalla precedente il nome Felippo non è una corruzione di Filippi, ma è il nome proprio Filippo rammentato in una non meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie , perché la portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute nella cesta, e temendo poi le reazioni del padrone, evitò di tornare a casa lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe.
Nota linguistica
In questa ’espressione il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il nome proprio Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto dalla preposizione a, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene introdotto da ô (crasi di a +’o(lo/il)), ma viene introdotto dal semplice art. determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano la preposizione A è usata talvolta per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a pàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare A segnacaso del complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, per il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferí porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto piú verosimile l’idea che tale particolare A segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’A come segnacaso del complemento oggetto.

3.Tène 'na varva comm' a Salardo! Letteralmente: Avere una barba come Salandra. Espressione desueta da intendersi in senso antifrastico; in realtà: essere sbarbato Id est: Avere inclinazioni del tutto diverse da Salandra e avere un comportamento opposto a quello tenuto dal Salandra; piú esattamente: mantenersi neutrali davanti a situazioni o faccende in cui per codardia, timore o pusillanimità non si voglia prender partito. L’espressione abbastanza moderna (1914 ca) fu coniata prendendo a riferimento il comportamento di Antonio Salandra (Troia, 13 agosto 1853 –†Roma, 9 dicembre 1931), politico italiano, presidente del consiglio dei ministri dal 21 marzo 1914 al 18 giugno 1916; costui conservatore, divenne primo ministro dopo la caduta del governo di Giovanni Giolitti (Mondoví, 27 ottobre 1842 – †Cavour, 17 luglio 1928) politico italiano, piú volte presidente del Consiglio dei ministri.Fu uno dei politici liberali piú efficacemente impegnati nell'estensione della base democratica del giovane Stato unitario; Salandra fu scelto dallo stesso Giolitti che ancora guidava la maggioranza in parlamento. Comunque, egli si distaccò ben presto da Giolitti sulla questione della partecipazione italiana alla prima guerra mondiale. Mentre Giolitti era schierato a favore della neutralità, Salandra e il suo ministro degli esteri, Sidney Sonnino, appoggiavano l'intervento a fianco della Triplice Intesa(un'intesa politica raggiunta da tre grandi potenze, cioè Francia, Regno Unito ed Impero russo all'inizio del XX secolo), e si assicurò l'entrata in guerra dell'Italia, nonostante l'opposizione della maggioranza del parlamento (Neutralità italiana (1914-1915)). Chiarito che l’atteggiamento del Salandra fu improntato all’interventismo, se ne ricava che intendere in senso antifrastico l’espressione in esame, equivale a mantenersi neutrali nelle occasioni pericolose o compromettenti. Da notare nell’espressione napoletana la corruzione del cognome Salandra adattato in Salardo.
4.Va' 'o piglia’ a Agnano! o piú semplicemente piglial’ a Agnano Letteralmente: Va’ a pigliarlo in Agnano o piú semplicemente: piglialo ad Agnano Eufemistica, ma icastica, graziosa, divertente espressione ancóra usata al posto delle becere Vallo a pigliarlo in culo o piglialo in culo oppure Vallo a pigliarlo in ano/piglialo in ano ; le becere espressioni valgono ad litteram: va’ a prenderlo nel culo/prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) l’espressione in esame è una rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in esame è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).La graziosità dell’espressione va riscontrata nell’adattamento eufemistico fatto delle voci in ano trasformate nell’assonante Agnano che di per sé attualmente corrisponde ad una zona di Napoli compresa nella decima municipalità ed in origine fu un vulcano estinto dei Campi Flegrei che formò una conca e dalle sorgenti di acqua termale che vi sgorgano copiose, nel XI secolo la conca si trasformò in un lago prosciugato poi con una bonifica nel 1870: dei canali a raggiera convogliano le acque in una vasca centrale dalla quale si diparte un emissario che, passando sotto il Monte Spina, sfocia a mare a Bagnoli.Interessantissima l’etimologia del nome Agnano: Secondo Benedetto di Falco, il nome della località sarebbe derivato, a metà del '500, dal termine Anguignano, per la moltitudine di serpi che si annidavano tra le felci che contornavano il lago (dal latino anguis, "serpente"). In effetti nell'opera di Pietro da Eboli (Eboli1170? –† ivi 1220 ca) chierico che fu cronista, poeta e miniaturista, vicino alla corte sveva), la miniatura che illustra la sorgente termale di Agnano, chiamata Balneum Sudatorium, mostra il lago pieno di rane e di serpenti. Una tale etimologia, però, non à basi linguisticamente probanti. Tralasciando numerose altre ipotesi, parimenti poco credibili, formulate tra il '600 e l'800, risale al 1931 il primo lavoro in cui l'etimologia del toponimo Agnano viene trattata in maniera scientifica. L'autore, Raimondo Annecchino, dopo un'attenta disamina delle fonti, fa risalire il toponimo Agnano ad un ipotetico praedium Annianum, cioè ad un fondo di proprietà di esponenti della gens Annia, attestata a Pozzuoli in epoca romana. Cita, infatti, vari documenti medioevali in cui compare il toponimo Anianum o Annianum. La teoria è stata di recente criticata da Gaetano Barbarulo in un saggio in cui evidenzia come il toponimo originario fosse Angulanum (luogo a forma di angolo) e traesse origine dalle caratteristiche geomorfologiche del luogo. Da Angulanum (attestato già in una fonte del VI secolo), attraverso le forme intermedie Anglanum e Agnanum, si sarebbe giunti alla moderna forma Agnano. Tutte queste ipotesi etimologiche sono riportati par pari in un famoso saggio di toponomastica di Gino Doria (Napoli1888-†ivi1975) singolare figura di storico, personalità eclettica, dai molteplici interessi culturali (letteratura, musica, arte, bibliografia, giornalismo, storia patria etc.).Nota linguistica Nella corretta scrizione napoletana dell’espressione in esame l’infinito pigliare è scritto in maniera apocopata piglia’ con il segno diacritico (‘) che indica l’avvenuta apocope della sillaba finale re, ma lascia invariato come è giusto che sia l’accento tonico della parola per cui il piglia’ di va’ ‘o piglia’etc. va lètto piglia ; si volesse spostare l’accento tonico della parola come nella frase corrispondente vallo a ppiglià etc. dove il pronome lo è enclitico di va si dovrebbe usare per indicare l’avvenuta apocope non l’apostrofo, ma l’accento ed ottenere piglià. In effetti bisogna tener presente che il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia operare un taglio ad un termine mantenendone però il primitivo accento tonico ; per esempio il verbo èssere può essere apocopato (soprattutto in poesia, per particolari esigenze metriche e/o espressive) in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancora ad es. il verbo tégnere, può, per particolari esigenze espressive o metriche, essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si deve leggere càde e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono giustamente resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.
A margine e completamento di tutto quanto fin qui detto rammento che – checché ne dicano taluni pedestri vocabolaristi i quali (poggiandosi sul fatto che la voce apocope in greco indica appunto il troncamento) confondono l’apocope con il troncamento; quest’ultimo è infatti la caduta di un suono in fine di parola: es. fior per fiore o anche pur per pure, qual per quale, tal per tale etc.; l’apocope ( cfr. nel napoletano si’ che sta per si(gnore) è pur essa la caduta di uno o piú suoni in fine di parola, ma tale caduta è, nella stragrande maggioranza dei casi, caduta di una o piú sillabi finali ad es. nell’italiano: san per santo e (almeno per ciò che riguarda il napoletano (nell’italiano tale esigenza non è contemplata salvo che per talune parole come fra’ che è da fra(te), po’che è da po(co)) l’apocope (caduta di suoni rappresentati da una o piú sillabe finali, non di una sola consonante; infatti come si ricava dalla medesima parola la consonante non è titolare d’un suono proprio che le viene offerto da una vocale d’accompagnamento... ) dev’essere indicata con un segno diacritico (‘) quando la caduta della sillaba non esiga addirittura l’accento come ad es.in tutti gli infiniti dei verbi dove la caduta della sillaba finale (re) lascia una parola terminante per vocale che va accentata tonicamente (cfr. parlà che è da parla(re) – capÍ che è da capi(re) e cosí via; in questo caso mettere il segno dell’apocope (‘) porterebbe ad avere parla’ – capi’ che non consentirebbero l’esatta pronuncia di parlà o capí, ma andrebbero pronunciati parla e capi; l’accento in luogo dell’apocope mette le cose a posto e pertanto è inutile e pleonastico scrivere (come pure inopinatamente (cfr. A.Altamura) m’è occorso di trovare scritto parlà’ e capí’ abbondando in pletorici segni diacriti quali i due apostrofi accanto a vocali già accentate.
In napoletano i monosillabi apocopati di una o piú consonanti (che come visto non è/son rappresentativa/e da sola/e di un suono) non necessitano di alcun segno diacritico (ad. es. mo =ora, adesso (che è da mox), cu= con (da cum),pe=per (da per)po= poi (da post) etc.)
.5.Vederse pigliato dê turche Ad litteram Vedersi preso dai Turchi Id est: essere assalito da terrore, orrore, spavento, panico, sgomento, disperazione davanti ad avvenimenti spiacevoli sgradevoli, seccanti, urtanti, tristi quando non forieri di rischio, insidia, azzardo, incognita o di conclamato pericolo anche letale e tutto ciò in ricordo delle antiche, cruente scorribande, incursioni, razzie operate sulle coste campane dalle bande turche e/o saracene (onnicomprensivamente détti Turchi), saccheggi che diedero vita ad espressioni esclamatorie e di sgomento quali Mamma lli Turche! oppure All’arme, all’arme la campana sona lli Turche so’ sbarcate alla Marina! Rammento che il timore delle incursioni turchesche fu tale che di esse si fe’ menzione nella famosa canzone Michelemmà (titolo sulla cui interpretazione scrissi alibi e vi rimando).
6.Voglio sapé tutto dall'a nfino ô rumme Antica icastica espressione purtroppo desueta che letteralmente si può rendere con Intendo esser messo al corrente di ogni cosa dalla a sino al rum. Id est: Voglio saper vita, morte e miracolo (di qualcosa)Lo si dice di chi indiscreto, ficcanaso, invadente, impiccione di un accadimento voglia essere informato particolareggiatamente, messo a conoscenza minutamente, in tutti i particolari, soprattutto quando dell’avvenimento in questione dovrebbe mantenersi all’oscuro in quanto non di sua pertinenza.
Tutta l’espressione è incentrata sul termine rumme s.vo m.le che è etimologicamente la lettura popolare della sillaba -rum,poi che come alibi ricordo il napoletano per solito aborre da voci terminanti per consonanti e li rende con l’aggiunta d’una sillaba finale con vocale evanescente e con il raddoppiamento della consonante (cfr. tramme←tram, bisse←bis, barre←bar,gasse←gas, autobbusso←autobus con la sola eccezione della negazione nun talvolta attestata però anche come nune insieme a none che vale no ed a sine= sí ); rummo è dunque il nome dell’abbreviazione con cui si rappresentava, nel Medioevo e nel Rinascimento, la desinen-za latina -rum, e anche altri gruppi finali comincianti con r- (per es., illorum, coram, notarius, feria potevano essere scritti: illorumme coramme notoriumme, feriamme etc. ). Nella tavola dell’alfabeto il segno era posto dopo la zeta, donde la locuz. dall’a ô (=al) rumme, in uso un tempo con lo stesso sign. di «dall’a alla zeta».
Rammento in coda che nel napoletano esistono almeno altre due voci omofone (per il fenomeno della evanescenza della sillaba finale), ma non omografe della voce rumme con la quale esse non vanno confuse ; e sono 1)rummo= rombo s. m. (zool.) nome comune di alcuni pesci marini teleostei, commestibili, affini alla sogliola con corpo appiattito romboidale ed entrambi gli occhi sul lato sinistro (ord. Pleuronettiformi) (dal lat. rhōmbu(m)→rumbu(m)→rummu(m)→rummo, che è dal gr. rhómbos, propr. 'trottola', poi nome del pesce, per la forma simile a quella di una trottola schiacciata; 2) rumma = rum acquavite ottenuta per lo piú dalla distillazione della melassa di canna da zucchero fermentata.la voce inglese rum è derivata da rum- bustious 'chiassoso, violento', con allusione al comportamento degli ubriachi bevitori della suddetta acquavite; la voce napoletana rumma è coniata su quella inglese con una tipica paragoge, ma qui di una piena a finale (invece della consueta e semimuta) e raddoppiamemento espressivo della m etimologica fino a formare la seconda sillaba ma della voce rumma, come altrove tramme←tram,barre←bar etc.
nfino prep.ed avv. =sino voce che con derivazione dal lat. fine, abl. di finis 'limite', con il significato preposizionale di 'fino a' si adopera davanti ad un avv., ad un sostantivo o ad un'altra prep. e può essere preceduta da una n eufonica che, come tale, non necessita di segno diacritico d’aferesi, necessario invece nel caso si fosse trattato di una ‘n illativa derivata da in→(i)n→’n; introduce il termine ultimo di una distanza spaziale o temporale: nfino a cquanno?(sino a quando?); nfino addó?;nfino a ttanno(fin dove?; fino ad allora); nfino a ‘ncimma(fin in cima);nfino â casa (sino a casa); nfino a ll’urdemu (fino all'ultimo); nfino a cche(sino a che),
come avv. (lett.) persino, pure, anche: ce stevano tutte quante, nfino a ‘e cchiú luntane pariente(c'erano tutti, fino i piú lontani congiunti.


7.À ‘ngrassato ‘a capa ‘a cepolla!... locuzione eufemistica usata per à ‘ngrussato ‘a capa ‘a cepolla! Letteralmente la prima è la cipolla à ingrassato la testa, la seconda è la cipolla à ingrossato la testa; ambedue le espressioni sono da intendersi in senso giocoso/furbesco per significare: Ci siamo, il glande è gonfio e pronto alla tenzone amorosa! Come si evince in ambedue le espressioni con il termine cipolla si intende eufemisticamente quella parte del sesso maschile che allorché è in erezione, si presenta gonfia e dura a mo’ d’una cipolla o rapa; infatti rammento che a proposito di eccitazione sessuale maschile, che accanto ad arrezzà/arrizzà (denominale del lat. ad+rectus) spesso s’usa o il verbo ‘ncepullirse (denominale di in + cepolla= farsi duro come una cipolla) oppure piú spesso il verbo arrapà/arraparse etimologicamente denominale di ad+rapa→arrapa/re semanticamente spiegato tenendo presente che nell’eccitazione sessuale maschile il membro eretto può esser duro tal quale una rapa ortaggio molto compatto, sodo, saldo, rigido. Cepolla = s. f.
1 pianta erbacea coltivata per il bulbo commestibile, composto di varie tuniche carnose (fam. Liliacee) | il bulbo stesso e, per estens., il bulbo di altre piante: cipolla bianca, rossa; frittata con le cipolle; togliere il velo alle cipolle, la prima squama sottilissima che ricopre il bulbo; la cipolla del giglio, del tulipano ' mangiare pane e cipolla, (fig.) pochissimo e male; essere molto povero. DIM. cipolletta, cipollina ACCR. cipollona, cipollone (m.) PEGG. cipollaccia
2 (estens.) qualsiasi oggetto o sua parte a forma di cipolla: la cipolla del lume a petrolio, la parte inferiore, sferica, che contiene il liquido; la cipolla dell'annaffiatoio, la parte terminale del collo, rotondeggiante e a buchi, da cui esce l'acqua
3 (scherz.) orologio da tasca di foggia antiquata
4 (scherz.) colpo radente assestato con la mano aperta e diretto alla testa etimologicamente richiamata nella caepa d’avvio;infatti in latino caepulla da cui la nostra cepolla ma pure l’italiana cipolla, è il diminutivo di caepa= testa. Con la voce a margine alibi in senso furbesco si intende
5(scherz. come nel caso che ci occupa) il glande di un membro in istato erettivo.


8.Jette pe se fà 'a croce e se cecaje n'uocchio Letteralmente: Si accinse per segnarsi con la croce e finí per mettersi un dito in un occhio.Détto sarcasticamente di chi cosí tanto sfortunato, sventurato à un ritorno negativo da qualsiasi cosa si disponga a fare, persino da pie pratiche religiose!
jette voce verbale (3ª pers. sg. pass. rem.) dell’infinito jí/ghí (dal lat. ire).
pe = per preposizione semplice derivata come il per dell’italiano dal lat. pe(r) ed al proposito rammento che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola o piú consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum per pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia consonante ( x - m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’ che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st) comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può.
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)
Qualcuno, fautore della derivazione del napoletano mo dal lat. modo, mi à fatto notare, e lo dico per incidens, che il termine mo non potrebbe derivare, come invece l’amico Renato de Falco ed io sosteniamo, da mox, in quanto –pare - che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).
fà = fare ( apocope del lat. facere) che preferisco scrivere accentato (come tutti gli infiniti in are→à(cfr. magnare→magnà)ere→é(cfr. cadere→cadé) ire→í (cfr.murire→murí)piuttosto che apocopato, evitando di scrivere – come invece propone qualcuno fa’ o alibi da’ per dare che potrebbero esser confusi con gli imperativi fa’= fai o da’= dai.
se cecaje voce verbale (3ª pers. sg. pass. rem. dell’infinito riflessivo cecar/se (dal lat. caecare+ se)
uocchio s.vo m.le = occhio (dal lat. ŏculu(m)→ ŏclu(m)→uocchio con dittongazione della ŏ e risoluzione in chi del gruppo cl seguito da vocale come in clausu(m)→cl(a)usu(m)→chiuso,clavu(m)→chiuovo etc.
9.JIrse a spilà 'e rrecchie a san Pascale Letteralmente: andarsi a sturare le orecchie a san Pasquale. Espressione usata sarcasticamente nei confronti di chi faccia le viste di essere improvvisamente insordito e perciò non sentire un invito o un comando per non metterlo in pratica. In realtà tutto ciò avviene perché manca nel finto sordo la volontà di accettare l’invito o di sottostare al comando; ebbene a costui si consiglia di provvedere a farsi curare la sordità recandosi presso il monastero dei monaci( in origine Alcantarini di Lecce)di san Pasquale a Chiaia che conducevano un piccolo ospedale annesso al loro monastero e vi curavano piccole o grosse affezioni otorino-laringotatriche; tra le pratiche piú comuni v’era quella si liberare gli orecchi dall’eccesso di cerume (causa talora di temporanea ipoacusia) servendosi di un olio medicamentoso prodotto dagli stessi monaci con le mandorle raccolte nel proprio orto/giardino. Il monastero di san Pasquale era adiacente all’omonima chiesa edificata per volontà di Carlo di Borbone nel 1750 ca ed affidata ai monaci Alcantarini, famiglia francescana nell'Ordine dei Frati Minori (O.F.M.); l'Ordine degli Alcantarini, nacque con San Pietro d'Alcàntara nel 1555, come riforma all'interno del grande Ordine dei Francescani Minori.
10. Jírsene ‘nzuocolo Letteralmente: Andarsene in dondolo, farsi sospingere come in altalena, lasciandosi dolcemente ciondolare; per traslato l’espressione vale: godere beatamente e con voluttà
dei piaceri dei sensi ed il collegamento semantico si coglie tenendo presente l’apparentamento tra il piacere che procura l’abbandonarsi al festoso dondolio in altalena e quello che procura l’abbandonarsi al godimento dei sensi;
jírsene = andarsene forma verbale formata dall unione dell’’infinito jí (dal lat. ire) con in posizione enclitica i pronomi atoni se (pron. pers. m.le e f.le di terza pers. sg. e pl. si usa in luogo della forma pronominale atona se davanti ai pron. pers. lo, la, li, le e alla particella ne, in posizione sia enclitica sia proclitica: s’ ‘o lassaje scappà (se lo lasciò scappare); s’ ‘a vedette brutta(se la vide brutta); s’ ‘e mmettette dint’â sacca(se li intascò); gudersela (godersela); se ne jette(se ne andò); jennosene (andandosene),
e ne (pron. m.le e f.le , sg. e pl. [forma atona che si usa in posizione sia enclitica sia proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni e si può elidere davanti a vocale: es. jírsen’ ‘e capa]).
‘nzuocolo = in dondolo, in altalena e per traslato in godimento, in sollucchero; etimologicamente la voce è per la maggior parte degli addetti ai lavori ritenuta di etimo sconosciuto; ma a mio avviso è formata da un in→’n + il s.vo zuocolo (dondolo, altalena e per traslato godimento dal lat. jŏculu(m)→zuocolo (giuoco, scherzo, facezia).
11.Ll’accio senz’acqua se secca
Letteralmente : il sedano privato dell’acqua si secca. Espressione da intendersi sia nel normale senso letterale, sia in un giocoso, furbesco senso traslato ; nel normale senso letterale è da intendersi quale consiglio pratico per la coltura del sedano (dal greco selinon), pianta erbacea con foglie aromatiche, dalle grosse costole commestibili bisognosa per la sua crescita rigogliosa di abbondante acqua; nel giocoso, furbesco senso traslato l’espressione, messa sulla bocca di un uomo, è usata quando costui intenda in maniera non esplicita, ma furbesca chiedere ad una donna prestazioni sessuali e comunque ben si comprende cosa si nasconda dietro il sedano titolare dell’espressione e quale sia l’acqua richiesta.
accio s.vo neutro = sedano (ma – per traslato furbesco - nell’espressione membro maschile) la voce accio etimologicamente è dal tardo lat. apiu(m) con normale evoluzione fono-morfologica di sapio→saccio.
12.Dicette ‘a vipera ‘nfacci’ ô voje : pure si m'accire sempe curnuto rummane!
Ad litteram: disse la vipera al bue: anche se mi uccidi comunque rimani provvisto di corna. Id est: Tu bue potrai anche uccidermi, ma resterai comunque macchiato dal fatto d’esser cornuto, cioè tradito (da quella vacca della tua compagna!). Antica, desueta espressione a carattere proverbiale che in maniera icastica fotografa una deplorevole situazione nella quale si vedono messi l’un contro l’altro un soggetto piccolo, inferiore sia fisicamente che socialmente ancorché pericoloso (rappresentato dalla vipera) opposto ad un soggetto piú grosso, piú valente, superiore sia fisicamente che socialmente (rappresentato dal bue), situazione nella quale il soggetto inferiore presso ad essere travolto da quello superiore se ne vendica rammentandogli che in ogni caso il fatto che esso sia piú grosso e piú valente non lo salva dal fatto di esser provvisto di corna, ovverosia di essere stato tradito. Magra vendetta atteso che finire tra le zampe d’un bue ed esserne schiacciato è ben peggiore che l’essere tradito dalla propria compagna! Solo alla morte non v’è rimedio!
vipera s. f. genere di rettili squamati ovovivipari diffusi nelle regioni temperate del Mediterraneo (tranne che in Sardegna), in Asia Minore e in India, con corpo cilindrico lungo da 30 fino a 140 cm, secondo le specie, testa triangolare, coda corta e sottile, lingua bifida e bocca armata di due denti; hanno morso velenosissimo, spesso mortale anche per l'uomo (fam. Viperidi): vipera del, dal corno, ammodite; vipera comune, aspide | essere una vipera, avere una lingua di vipera, (fig.ma non nel caso che ci occupa) si dice di persona maligna, perfida o, anche, irascibile e aggressiva; etimologicamente è voce dal lat. vipera(m), forma aplologica (l’aplologia è la caduta di una sillaba all'interno di una parola che dovrebbe presentare, in base alla sua etimologia, due sillabe consecutive identiche o simili (p. e. mineralogia per mineralologia).di *vivipara(m), comp. di vivus 'vivo' e un deriv. di parere 'partorire'; propr. 'che partorisce prole viva';
‘nfacci’ ô locuzione prepositiva articolata: ad litteram in faccia ad il/lo ma piú in breve al. Al proposito rammento che nel napoletano, cosí come nell’italiano, le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso annoto altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni semplici, ànno una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per una o due preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa mantenendo cioè separati gli articoli dalle preposizioni.
Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí come rese in italiano e poi in napoletano:
con la preposizione a in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+ le agli = a+ gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli la forma scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le);
con la preposizione di in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle = di+ le, degli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e; con la preposizione da in italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una preposizione articolata di forma normalmente scissa e spessa apostrofata: da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata (quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni articolate formate con la preposizione de (=di), e d’acchito è impossibile distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò dunque proposto d’usare una forma affatto diversa per le preposizione napoletane da + ‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma che eliminando l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione usata per le preposizioni articolate formate con la preposizione a consente di evitare la deprecabile confusione cui accennavo precedentemente. . Rammento che nel napoletano è usata spessissimo una locuzione articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo – dalla – dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa generalmente fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei suoi elementi costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e es.: è gghiuto add’ ‘o zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna, add’ ‘e pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; francamente non si capisce da cosa sia generato quel add’ né si comprenderebbe il motivo dell’agglutinazione della preposizione a con la successiva da→dd’; a mio avviso è piú corretta e qui la propugno: a ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es. avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; rammento tuttavia di non confondere
a ddô con l’omofono addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong. subord. che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette ed indirette.
Nel nostro caso la locuzione prepositiva è formata da un sostativo (faccia) con protesi agglutinata di un in→’n (illativo) sino ad ottenere un ‘nfaccia che unito alle crasi â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le) dà volta a volta ‘nfacci’ ô, ‘nfacci’ â‘nfacci’ ê e cioè in faccia al/allo oppure soltanto asl/allo, oppure in faccia alla oppure soltanto alla, oppure in faccia alle/ a gli.
vojo s.vo m.le = bue
1 il maschio adulto castrato dei bovini domestici | bue muschiato, grosso mammifero ruminante delle regioni artiche, con corna larghe, pelo lungo e scuro, folta criniera (ord. Artiodattili) | bue grugnente, yak | lavorare, faticare come un bue, (fig.) molto, senza tregua, duramente | chiudere la stalla quando sono fuggiti i buoi, (fig.) provvedere tardivamente | mettere il carro davanti ai buoi, (fig.) parlare o agire in modo prematuro, dando per scontato un risultato ancora non conseguito
2 (fig.) uomo ottuso, ignorante, grossolano;
3 (per traslato volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge, persona cornuta.
accire voce verbale (2ª, ma alibi anche 3ª pers. sg.) dell’ind. pres. dell’infinito accidere (dal lat. volg. *accidere,per il cl. occidere comp. di ob-→oc 'contro' e caedere 'tagliare, abbattere'; da notare nella coniugazione la rotacizzazione osco-mediterranea della d di accidere che s’alterna con la r ottenendo accirere;
curnuto agg.vo m.le
1 provvisto di corna: animale curnuto ' facenna curnuta(argomento cornuto), (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni

2 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge || Usato anche come s. m.le [f. -a] (volg.) persona cornuta;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
A proposito del s.vo corna annoto che
ccorna = corna, sost. femm. plur. del maschile sg. cuorno
prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente cilindro-conica ed incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏ→uo nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi rispettivamente dalla propria compagna, o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o i piccoli o grossi amuleti di corallo rosso o altro materiale (piú spesso corneo) usati come portafortuna;ugualmente infatti come gli amuleti di corallo rosso, con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati, opportunamente tinti di rosso tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea - a precisi requisiti, dovendo necessariamente il corno essere russo, tuosto, stuorto e (se non di corallo) vacante pena la sua inutilità come porte-bonheur.
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso), cioè di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tŏstu(m), part. pass. di torríre 'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo;
stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato del lat. tŏrtu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquìre con prostesi di una s intensiva e tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo;
vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di; a margine rammenterò che esiste un altro tipico cuorno quello de ‘o carnacuttaro (il girovago venditore di trippe bovine che lavate, sbiancate e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di sughero; tale cuorno viene portato pendulo sul davanti del corpo, legato in vita con un lungo spago, in modo che nel suo pendere insista su di una bene identificata zona anatomica maschile; ciò è rammentato nell’espressione: Mo t’’o ppiglio ‘a faccia ô cuorno d’’a carnacotta! (Adesso te lo procuro, prendendolo dal corno della trippa) nella quale ‘o cuorno è usato eufemisticamente in luogo d’altro termine becero, facilmente intuibile se si tiene presente la zona anatomica maschile su cui insiste il pendulo corno del sale… l’espressione è usata con una sorta di risentimento da chi venga richiesto di azioni o cose che sia impossibilitato a portare a compimento o a procurare, non essendo le une o le altre nelle sue capacità e/o possibilità.
rummane voce verbale (2ª, ma alibi anche 3ª pers. sg.) dell’ind. pres. dell’infinito rummané = restare, rimanere, trattenersi, stare; soffermarsi, sostare (dal lat. L remaníre→remmaníre→rummanire→rummané, comp. di re-, che indica continuità, e maníre 'stare' con raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale (m).


13.Munzú,munzú è gghijuta ‘a zòccola ‘int’ô rraú Letteralmente: signor cuoco, signor cuoco è finito il ratto nel ragú! Antica, ma ancóra usata espressione sarcastica usata per prendersi giuoco delle persone meno esperte che incorrono, per imperizia, incapacità, disattenzione colpevole in errori macroscopici nel tentativo di portare avanti le faccende che intraprendono, come un inesperto, disattento incapace cuoco che consentisse ad un ratto di finire nella pentola dove avesse in cottura il ragú da anmmannire ai clienti. L’espressione canzonatoria nacque sfruttando la rima tra i s.vi rraú= ragú ed il s.vo munzú.
Con il s.vo munzú (etimologicamente corruzione del francese monsieur) in origine si indicarono i cuochi francesi chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutì d’un colpo. L’intento di Maria Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea e da quel momento non ci fu cuoco napoletano che non ambisse ad ottenere dalla propria clientela il titolo onorifico di munzú. Rammento che l’invasione dei cuochi d’oltralpe forní il destro per la nascita d’un’altra icastica voce napoletana: zoza. Con il sostantivo in epigrafe in napoletano si indicano varie cose: il sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati come autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui siano ammanniti, vengon da costoro rifiutati e definiti tout court zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante, una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche, dal nausebondo sapore, approntate - contro tossi e febbri - da volenterosi semplicisti : farmacisti/ erboristi cosí chiamati in quanto venditori di preparati per i quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed infine estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera raffazzonata di talché il risultato risulti essere scadente, riprovevole e non confacente; fino a giungere all’offensivo: sî ‘na zòza totalizzante offesa rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e ributtante.
Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato primo stette ad indicare una miscela di liquori scadenti e successivamente tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere un’alterazione popolare della parola suzzacchera (forgiata sul greco:oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente, terminazione diminutiva.
Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la tentazione che zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta in napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua, a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto - sucidus donde per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata neutra, poi sentita femminile sucia =cose sporche, sudice.
In realtà la parola napoletana è molto piú recente rispetto al basso latino sucia o alla voce toscana zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani, corrompendo il termine monsieur dissero munzú - chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutì d’un colpo. L’intento di Maria Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato però non fu quello sperato: i munzú d’oltralpe e le loro raffinate preparazioni culinarie mal si sposarono (con la sola eccezione del sartú (dal francese surtout ) tronfio e saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana dapprima di corte e della nobiltà, poi della borghesia ed infine del popolo minuto) mal si sposarono, dicevo con i gusti dei partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono le salse galliche storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte le estensioni summenzionate, e trattandosi di un sostantivo fu e viene usato nel napoletano quale apposizione di molti altri sostantivi.Ciò non pertanto, il titolo di monzú come ò anticipato,attecchí fino a diventare la denominazione che spettava solo ai grandi cuochi.Divenne e mi ripeto quasi come un titolo onorifico, tanto ambíto che - cosí come riportato da Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo.
zoccola s.vo f.le 1 in primiscome nel caso che ci occupa indica il grosso topo di fogna ;
2 estensivamente e per traslato indica la prostituta che come quel topo frequenta nottetempo i marciapiedi;
etimologicamente zoccola è da sorcula diminutivo latino femm. di sorex-ricis;
‘int’ô oppure dint’ô locuzione prepositiva articolata che vale nel/nella; per illustrarla rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – in dal lat. dí intro→dint(r)o→dinto 'da dentro'); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle.
rraú s.vo neutro = ragú,tipico condimento della cucina napoletana per paste asciutte, risotti e sim. che si ottiene facendo cuocere a fuoco lento in olio e strutto uno o piú pezzi di carne o alibi (ragú alla bolognese) della carne tritata con aggiunta di cipolla, erbe aromatiche ed altri ingredienti quanto all’ etimo risulta essere un adattamento del fr. ragoût, deriv. di ragoûter 'stuzzicare l'appetito' (da goût 'gusto');
14.T' aggi’ ‘a vedé 'ncopp’ ê grare 'e 'na chiesia cu 'a mana schijata
Letteralmente: Devo vederti sui gradini d’una chiesa con la mano aperta. Id est: devo avere la soddisfazione di vederti ridotto in miseria, tanto da esser costretto ad elemosinare innanzi ad una chiesa. Maliziosa, cattiva, malevola, malvagia, velenosa, acida, perfida espressione ancóra in uso che si suole rivolgere molto poco caritatevolmente a persona verso la quale si nutra tanto astio, acrimonia, avversione, odio, ostilità, inimicizia, malevolenza, livore, rancore da desiderarne ed augurargli tutto il male possibile e cioé quello di esser ridotto alla estrema povertà, cosa che dopo la perdita della salute è quanto di peggio possa capitare ad un essere vivente!
T' aggi’ ‘a espressione verbale che letteralmente è Ti ò da etc. ed è il modo napoletano di rendere il verbo dovere; in effetti con aggi’ ‘a seguíto da un verbo all’infinito si raffigura l’espressione italiana devo da o anche semplicemente devo; nell’espressione in esame ad es. T' aggi’ ‘a vedé va tradotta Ò da vederti ossia Devo da vederti oppure piú semplicemente Devo vederti; altrove con l’espressione aggi’ ‘a (=ò da) si rende in napoletano l’idea di un’ azione futura; ad es.: Dimane aggi’ ‘a jí a pavà ‘e ttasse (Domani andrò a pagare le tasse) e ciò perché nel napoletano il verbo dovere manca ed è supplito dalla costruzione con il verbo avere seguito dalla preposizione ‘a (da) e dall’infinito connotante l’azione dovuta: ad es. aggio ‘a purtà ‘sta lettera (devo portare questa lettera), hê ‘a cammenà cchiú chiano! (devi camminare piú lentamente!); la medesima costruzione è usata pure, come ò anticipato in funzione di futuro che benché sia un tempo esistente nelle coniugazioni dei verbi napoletani è pochissimo usato, per cui ad es. la frase dell’italiano: domani andrò dal barbiere è resa in napoletano con dimane aggi’’a jí a d’’o barbiere piuttosto che con dimane jarraggio a d’’o barbiere e talvolta altrove con il presente in funzione di futuro dimane vaco a d’’o barbiere.
'ncopp’ ê locuzione prepositiva articolata = sulle Rammento qui che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto alibi e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle.
grare s.vo f.le pl. e solo plurale = gradoni,brevi, ma ampi ripiani costruiti o scavati per superare un dislivello; rammento che nel napoletano oltre il f.le grara = gradone, à pure il s.vo m.le graro→(g)raro che indica il gradino cioè un breve e contenuto ripiano atto a far superare un dislivello; l’esistenza di due vocaboli uno maschile ed uno femminile per indicare quasi la medesima cosa si spiega con il fatto che in napoletano un oggetto (o una cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella ; va da sé che nella fattispecie la voce femminile ‘e ggrare (i gradoni) indichi un tipo di scalino piú ampio da quello rappresentato dalla corrispondente voce maschile ‘e rare (i gradini) ;
etimologicamente ambedue le voci graro→(g)raro e grare derivano dal lat. gradu(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r 'passo, gradino, grado', dalla stessa radice di gradi 'muovere il passo, camminare';
chiesia s.vo f.le = chiesa, basilica, luogo di culto la chiesa intesa cioè non come comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane: chiesa cattolica, ortodossa, anglicana, luterana, calvinista ma piú semplicemente come l’edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane, quell’edificio detto casa del Signore accostato di solito da un campanile dal quale squillanti campane chiamano a raccolta i fedeli, quell’edificio intorno al quale, soprattutto nei giorni festivi, gravitano una pletora di poverelli che a mano aperta e tesa son soliti chiedere l’elemosina a fedeli impietositi che si recano ad assistere alle funzioni religiose. . Etimologicamente la parola chiesia/chiesa è dal lat. ecclesia(m)→(ec)clesia(m)→chiesia/chiesa,che è dal gr. ekklísía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'; tipica l’evoluzione del nesso cl in chi (cfr. clausu(m)→chiuso, clavu(m)→chiuovo etc.).
schijata = aperta, tesa, allargata part. pass. f.le agg.vato dell’infinito schijare = aprire, tendere, allargare, distendere, allungare; etimologicamente dal lat. explicare; tipica l’evoluzione del nesso pl in chi (cfr.plica(m)→chieja, platea(m)→chiazza etc.).




15.T'aggi' 'a fà cacà oppure piscià dint' a 'n 'agliaro
Letteramente: Ti devo far defecare oppure mingere nel bricco dell’olio. Id est Ti devo costringere all’impossibile (vessandoti o facendoti violenza). Questa iperbolica icastica espressione desueta, un tempo fu in uso nel linguaggio del popolo basso soprattutto sulla bocca di mamme a mo’ di minaccia per ridurli all’obbedienza verso i proprî figlioli irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. figliuoli che per ridurre alla ragione occorreva minacciare di cosí tante e violente percosse tali da levigare ed affinare il fondoschiena ed altre parti del corpo al segno che il figliolo destinatario della minaccia in epigrafe non avesse piú necessità, per le sue funzioni defecatorie,o alternativamente per la minzione di servirsi di unalto e vasto càntaro, ma gli bastasse, iperbolicamente, il bricco dell’olio (agliaro) contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare oppure ovale ampia, collo stretto e bocca appena appena svasata atta a far defluire l’olio; va da sé che nella realtà, nessuno (per quanto fisicamente minuto o ... levigato dalle percosse) potrebbe usare un bricco dell’olio per espletare le proprie funzioni fisiologiche, ma si sa e non fa meraviglia che l’iperbole la fa da padrona nell’eloquio popolare partenopeo ed i ragazzi minacciati cosí come in epigrafe, prendendo per vere le parole usate, spesso recedevano dal loro comportamento irrequieto.
cacà/cacare = defecare dritto per dritto dal lat. cacare
pisciare = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
càntaro = alto vaso cilindrico di comodo, pitale derivato dal lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos; da non confondere con la voce
cantàro voce derivata dall’arabo qintar= quintale
agliàro s.m. = contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare o ovale ampia, collo stretto e bocca (con coperchietto incernierato) appena appena svasata atta a far defluire l’olio; ne esiste anche un tipo con coperchio ad incastro e cannello erogatore; tale tipo però non è d’uso domestico, ma viene usato per solito dai pizzaiuoli che devono stare attenti a non eccedere nel consumo d’olio ed il cannello a beccuccio si presta meglio della bocca svasata a contenere l’erogazione dell’olio; l’etimo della voce a margine è dal lat. oleariu(m)→*uogliaro→ogliaro→agliaro.

16.T'aggi' 'a fà abballà 'ncopp ô cerasiello Letteralmente: Devo farti ballare su di una (pianta di) peperoncino.
Id est: devo costringerti all’impossibile, e ciò perché la pianta del peperoncino è bassa,di poca o nulla consistenza e flessibile al segno di non consentire che qualcuno vi possa montarvi sopra e ballarci sostenuto dai rami della pianta di montarvici su per potervi ballare. L’espressione antica, ma ancóra in uso à all’incirca la medesima valenza della precedente utilizzata come è sulla bocca di genitrici di figlioli irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. a mo’ di iperbolica minaccia repressiva, minaccia consistente nella costrizione a suon di percosse, a fare qualcosa di palesemente impossibile.
L’espressione viene usata, sempre a mo’ di iperbolica, ma divertita minaccia pure nei confronti di chiunque, anche adulto, si mostri restio a fare il proprio dovere.
T'aggi' 'a cfr. antea sub 15.
fà = fare
Comincerò con il precisare che nel napoletano l’infinito dell’italiano fare è fà/ffà infinito che io contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata fa’) preferisco rendere con la à accentata (fà/ffà ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2° p.sg. dell’imperativo: da’= dai, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà in luogo dei pur corretti sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte.
abballà =ballare,per estensione semantica dimenarsi, per traslato vacillare ;
etimologicamente dal tardo lat. ad +ballare→abballare ;
'ncopp ô = sul/sullo vedi antea sub 14.
cerasiello s.vo neutro (pianta e frutto del) peperoncino piccante dalla tipica forma sferica simile a quella di una ciliegia (in nap. cerasa); etimologicamente voce dal tardo lat. cerasia, neutro pl. di cerasium 'ciliegia' con suffisso diminutivo maschile iello.

17.Tanto lampeja nfi’ ca trona; tanto trona nfi’ ca chiove; tanto chiove nfi’ ca schiove Letteralmente: Tanto lampeggia finché tuona; tanto tuona finché piove, tanto piove finché spiove. Antica ma desueta espressione di tipo didascalico che vuole evidenziare l’esistenza in ogni cosa di un rapporto di causa ed effetto e per ammonire i discenti che natura non facit saltum e cioè che partendo da una medesima premessa non si può non perviene sempre ad una medesima conclusione; nella fattispecie il baleno è sempre un prodromo del tuono a sua volta indizio certo di pioggia che per quanto intensa e durevole sia finirà per scemare ed arrestarsi del tutto.
lampeja voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito lampijà = (in primis come nel caso che ci occupa) lampeggiare,scoccar baleni; (poi per estensione semantica anche) sfolgorare, sfavillare, brillare, risplendere;etimologicamente lampijà è un denominale di lampo che è un deverbale lat. tardo lampare, dal gr. lámpein 'splendere';
nfi’/nfino ca = sino a che (cfr. antea sub 6.);
trona voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito trunà = tuonare etimologicamente trunà è un denominale metatetico del lat. tonitru(m)→tronitu(m);
chiove voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito chiòvere = piovere etimologicamente chiòvere è dal lat. pluere con normale evoluzione del nesso pl in chi (cfr. antea sub 14.);
schiove voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito schiòvere = spiovere, cessar di piovere; etimologicamente schiòvere è dal lat. pluere con protesi di una s distrattiva con normale evoluzione del nesso pl in chi.

18.Te puozze sazzià 'e turreno 'e campusanto! Letteralmente: possa saziarti di terreno da camposanto. Icastica,iperbolica antica ancorché desueta maledizione lanciata con acredine nei confronti di chi si voglia veder deceduto e seppellito sotto una spessa coltre di terreno; si tratta di un’espressione un tempo in uso tra il popolino della città bassa che sostanzia una maledizione cosí tanto maligna , cattiva, malevola, malvagia,velenosa da lasciare addirittura inorriditi poi che ci si augura che il deceduto o creduto tale venga seppellito addirittura da vivo per modo che possa iperbolicamente mangiare tanto di quel terreno da camposanto da addirittura saziarsene!
puozze = possa voce verbale servile (2ª pers. sg. cong. pres.ottativo in quanto esprime desiderio o possibilità) dell’infinito puté= potere; etimologicamente puté è da un lat. volg.pōtere per il class. posse:
pōtere →putere/puté;
sazzià = saziare,
1 soddisfare l'appetito, la fame di qualcuno; rendere sazio (anche assol.): sazzià a cchi tène famma (saziare gli affamati);’a pasta sazzia( la pasta sazia);
2 (fig.) appagare, soddisfare pienamente (desideri, aspirazioni, inclinazioni): sazzià ll’allanca, ll’autanza( (saziare l'ambizione, l'orgoglio);
3 (fig.) annoiare (anche assol.): sazzià ‘a ggente cu predeche esaggerate(saziare la gente con lunghe prediche); ‘nu tipo ‘e museca ca à sazziato(un tipo di musica che à saziato) ||| sazziarsi v. rifl.
1 sfamarsi completamente, mangiare a sazietà: tène sempe famma, nun se sazzia maje; sazziarse ‘e sfugliatelle, ‘e maccarune(è sempre affamato, non si sazia mai; saziarsi disfogliate, di maccheroni);
2 (fig.) appagarsi, soddisfarsi; stancarsi: nun se sazziava maje d’ ‘a guardà ( non si saziava mai di guardarla). Etimologicamente sazzià è da un lat. satiare, deriv. di satis 'abbastanza'; normale l’evoluzione del nesso ti intervocalico in zzi;
turreno s.vo neutro = terreno, porzione di terra piú o meno estesa, coltivata o coltivabile o destinata ad altri usi come nel caso che ci occupa. Etimologicamente dal lat. terrínu(m), neutro sost. dell’agg.vo terrínus;
campusanto s.vo m.le = terreno consacrato, cinto da mura, dove si seppelliscono i morti; cimitero. Etimologicamente agglutinazione del s.vo lat. campu(m) 'luogo aperto, campagna', poi 'campo di battaglia' con l’agg.vo lat. sanctu(m), propr. part. pass. di sancire 'sancire'.
19.Tené 'na mana a ffà zeppole, e n’ata a ffà pezzelle Letteralmente Avere una mano (impiegata) a confezionare zeppole ed un’altra a confezionare frittelle. Antica,ma non desueta ironica espressione usata, soprattuto nei confronti di una donna per bollarla di avidità,di avarizia ma pure poltronaggine atteso che la si giudica persona che tende ad ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo e piú precisamente un doppio favorevole risultato positivo con il risicato impegno della metà dei mezzi predisposti dalla natura!
tené voce verbale infinito tenére, possedere, afferrare etc. sinonimo di avere ma non come ausiliare; etimologicamente dal verbo lat. teníre corradicale di tendere ;
zeppole s.vo neutro pl. di zeppola. Sulla voce zeppola è necessario ch’io mi dilunghi alquanto; La voce zeppola, che in italiano, (con ogni probabilità con derivazione dal napoletano) indica esclusivamente quale sost. femm. (spec. pl.) una ciambella o frittella dolce tipica di alcune regioni dell'Italia meridionale, è presente nel lessico della parlata napoletana dove indica oltre che una tipica ciambella o frittella dolce (zeppola di san Giuseppe), anche una frittella rustica (‘a zeppulella) ed estensivamente un particolare difetto di pronuncia, una sorta di balbuzie che impedisce di esprimersi correttamente e chiaramente (tené ‘a zeppula ‘mmocca= avere la zeppola in bocca, come chi parlasse masticando un pezzo di quella frittella(zeppola) dolce.
Chiarito però che con l’originaria voce zeppola deve intendersi la ciambella dolce, e che, a mio sommesso, ma deciso avviso, l’uso di zeppola per la frittella rustica è un semplice adattamento di comodo, e che per tale frittella rustica sarebbe piú esatto (come si vedrà alibi trattando della preparazione di tale frittella) parlare di pasta cresciuta o pastacrisciuta come mi sembra piú acconcio scrivere agglutinando sostantivo ed aggettivo, dirò che quanto all’etimologia di zeppola (ciambella dolce) una non confermata scuola di pensiero fa riferimento ad un tardo latino *zipula(m) peraltro(si noti l’asterisco) non attestato, laddove io reputo invece che zeppula (letteralmente zeppola) sia voce che abbia una derivazione dal latino serpula e debba indicare innanzi tutto e quasi esclusivamente un caratteristico dolce partenopeo, in uso per la festività di san Giuseppe(19 marzo) , di pasta bigné disposta, con un sac a poche, a mo’ di ciambella, poi fritta due volte: la prima in olio bollente e profondo, la seconda nello strutto o (meno spesso) cotta al forno, spolverizzata di zucchero e variamente guarnita con crema pasticciera ed amarene candite; il dolce à origini antichissime quando intorno al 500 a.C. si celebravano a Roma le Liberalia, che erano le feste delle divinità dispensatrici del 'vino e del grano nel giorno del 17 marzo. In onore di Sileno, compagno di bagordi e precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino addizionato di miele e spezie e si friggevano profumate frittelle di frumento; le origini del dolce dicevo furon dunque antichissime , anche se pare che la ricetta attuale delle napoletane zeppole di san Giuseppe (peraltro già riportata in un suo famoso manuale di cucina da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino(2 settembre 1787 † 5 marzo 1859)) sia opera di quel tal P. Pintauro(1815 ca) che fu anche, come vedemmo alibi, l’ideatore della sfogliatella, il quale rivisitando le antichissime frittelle romane di semplice fior di frumento,ed ispirandosi ai consigli del Cavalcanti diede vita alle attuali zeppole arricchendo l’impasto di uova, burro ed aromi varî e procedendo poi ad una doppia frittura prima in olio profondo e poi nello strutto; la tipica forma a ciambella della zeppola rammenta – ò detto - la forma di un serpentello (serpula) quando si attorciglia su se stesso da ciò è quasi certo che sia derivato il nome di zeppola ( morfologicamente è normale il passaggio di s a z e l’assimilazione regressiva rp→pp).Nell’espressione in esame le zeppole richiamate non sono i dolci ideati da Pasquale Pintauro, ma le frittelle rustiche (quelle che come ò chiarito sarebbe piú opportuno chiamare pastecrisciute) e tanto si evince dal fatto che le zeppole di san Giuseppe sono un prodotto di pasticceria, mentre sia zeppole/pastecrisciute che le successive pezzelle sono un prodotto di friggitoria/rosticceria e si prestano ad una confezione contemporanea.
pezzelle s.vo f.le pl.di pezzella =pizzetta, frittella rustica di pasta di pane spesso farcita di ricotta ovina, salumi, uova ed aromi; la voce pizza di cui pezzella è il diminutivo (cfr. il suff. dim. f.le élla) piú che dal longob. bizzo 'morso, focaccia', penso sia un deverbale del latino pinsere= pestare, schiacciare: il part. pass. pinsa à dato pinza donde pizza.
20.Tené ‘na meza lengua Ad litteram : Avere una mezza lingua Id est : non parlar correttamente o chiaramente come chi non fosse provvisto di un’intera lingua ma solo della metà ; antica espressione ancóra utilizzata in primis per celiare bonariamente ed affettuosamente gli infanti che tardino a parlare e lo facciano stentatamente ; espressione usata altresí per dileggiare gli adulti che balbuzienti non riescono a parlar correttamente o chiaramente risultando ridicoli, comici, buffi.
meza agg.vo f.le = mezza,metà di qualcosa, poco meno di, quasi; etimologicamente voce dal lat. media(m)
lengua s.vo f.le = lingua, organo mobile della bocca, che compie i movimenti necessari alla masticazione, alla deglutizione e (come nel caso che ci occupa) all'articolazione della voce; etimologicamente voce dal lat. língua(m)→lengua.
21.Va facenno pile pile... 'a fessa d'a madre badessa Ad litteram: Va facendo pelo per pelo (id est: va spulciando minutamente) la vulva della madre badessa.Id est: indagare anche nei piú riposti fatti altrui. Becera sarcastica antica e desueta espressione usata per indicare e porre alla berlina il fastidioso e spiacevole comportamento di chi – soprattutto donna – metta naso e con manifesto piacere si impegoli, impelaghi, invischi nelle altrui faccende cercando di venire a capo minutamente di accadimenti che normalmente non sarebbero di sua competenza e perduri in tale atteggiamento seccante, noioso, irritante, sgradevole, spiacevole.L’espressione che furbescamente chiama in causa una madre badessa e la sua vulva non è da intendersi in senso reale, ma solo come icastica cioè significativa rappresentazione di un comportamento disdicevole quale è quello di chi tenti di indagare (per proprio gusto e senza essere autorizzato) minutamente fin nei piú segreti recessi del prossimo e non mette conto se questo sia un popolano o una persona di riguardo; in effetti la voce badessa è usata solo perché rimante acconciamente con fessa!
fessa s.vo f.le il più comune dei termini usati volgarmente per indicare la vulva femminile; fessura, apertura con etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano; per tutti gli altri termini usati nel napoletano per indicar la vulva rimando alibi sotto la voce sciuscia e altre.
badessa s.vo f.le: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
22.Vène, appizza 'o culo e se ne va 'o mmunnezzaro Letteralmente:Lo spazzino viene,si accovaccia e va via.Détto risentitamente di chi è abituato a non compiere mai per intiero il proprio dovere come uno spazzino che venuto per raccogliere le immondizie, si limiti ad accovacciarsi per prelevare il secchio che le contenga, lo vuoti in un gran sacco di juta atto al prelievo e tiri via senza curarsi se nell’operazione si sia imbrattato anche parzialmente il pavimento. Espressione ormai desueta e superata atteso che sono decenni che non esiste piú la raccolta delle immondizie uscio per uscio, ma ogni famiglia pur pagando una congrua tassa per la raccolta dei rifiuti urbani, deve approntare uno o piú sacchetti dei proprî rifiuti e depositarli in istrada in grandi contenitori metallici augurandosi che poi nottetempo la ditta deputata al ritiro ed al trasferimento alle discariche e/o termovalorizzatori lo faccia per davvero.
Vène voce verbale (3ª pers. sg.ind. pr.)dell’infinito vení =venire, giungere, sopraggiungere, comparire, spuntare, piombare ed in senso furbesco godere; etimologicamente il termine venire è dal lat. veníre ; preciso che la voce a margine va pronunciata con la è aperta, atteso che pronunciata con la é chiusa significherebbe tutt’altro essendo véne il pl. di véna vaso o canale membranoso che porta il sangue dalla periferia al cuore; per estens., vaso sanguigno in genere; con etimo dal lat. vína(m).
appizza voce verbale (3ª pers. sg.ind. pr.)dell’infinito appezzà = in primis appuntare, tendere, appuntire; per traslato furbesco rimetterci; aliquando come nel caso che ci occupa(in unione alla voce culo) accovacciarsi; tuttavia in tale accezione si usa piú spesso il verbo accuvà (dal lat. accubare).
culo s.vo m.le
1 deretano, sedere, fondo schiena | essere culo e cammisa,: stare sempre insieme, andare molto d'accordo.
2 fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia ' culi di bicchiere, (scherz.) brillanti falsi, di vetro.
Voce dal lat. culu(m) marcato sul greco koilos;
‘mmunnezzaro s.vo m.le
spazzino, netturbino, operaio addetto alla raccolta e smaltimento dei rifiuti
voce denominale di ‘mmunnezza con l’aggiunta del suffisso di competenza aro suffisso che, come l’taliano aio, continua il lat. -arius; compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in napoletano o in italiano, che indicano mestiere (rilurgiaro/orologiaio) oppure luogo, ambiente pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa (lutammaro/letamaio, etc.).

23.'O gallo/vallo ncopp' â ‘mmunnezza.
Letteralmente: il gallo sull'immondizia. Cosí, a buona ragione, viene definito dalla cultura popolare partenopea, il presuntuoso, il millantatore, colui che - senza particolari meriti, ma per mera fortuna o per naturale fluire del tempo - abbia raggiunto una piccola posizione di preminenza, e di lassú intenda fare il buono e cattivo tempo, magari pretendendo di far valere il proprio punto di vista, proprio come un galletto che, asceso un cumulo di rifiuti, ci si sia posto come su di un trono e, pettoruto, faccia udire i suoi chicchirichí.
gallo/vallo s.vo m.le in doppia forma morfologica: uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci ; voce etimologicamente dal lat. gallu(m)sebbene non gli sia estranea la radice centroeuropea kar,kal (risuonare); qualcuno poi à supposto un latino *gannus donde gannulus→ gan’lus→gallus che troverebbe un suo parallelo nell’ant. tedesco *hano da un verbo *hanan (= lat. canere(cantare)) con riferimento al canto mattutino del gallo; a mio avviso questa di *gannus è tesi veramente interessante e forse perseguibile;
per il passaggio metaplasmatico di g a v cfr. gunnella/vunnella – golpe/volpe – gallina/vallina etc.) ;
‘mmunnezza. s.vo f.le = immondiza, rifiuto, sporcizia, roba sudicia; in partic., spazzatura; voce dal lat. immunditia(m)→’mmunnitia(m)→’mmunnezza, deriv. di immundus.

24.Votta 'a pretélla e annasconne 'a manella Letteralmente: Lancia la pietra e nasconde la mano. Détto di chi pusillanime e privo di personalità non intende prendere le responsabilità dei proprî comportamenti e dopo d’avere proditoriamente arrecato un danno vero o figurato, fisico o morale cela la mano nel tentativo di non lasciarsi cogliere in flagranza, per non render ragione delle proprie azioni, o per evitare talora la giusta punizione o la naturale ritorsione.
votta voce verbale (3ª pers. sg.ind. pr.)dell’infinito vuttà = buttare, lanciare, scagliare, tirare, scaraventare; voce dal fr. ant. bouter, provenz. botar, di orig. germ con normale alternanza b→v (cfr. barca→varca, bocca→vocca etc.);
pretélla s.vo f.le dim.di preta = pietruzza, piccola pietra; etimologicamente lettura metatica del lat. petra(m), che è dal gr. pétra; da petra(m)→ preta(m) con l’aggiunta del suff. diminutivo élla;
annasconne voce verbale (3ª pers. sg.ind. pr.)dell’infinito annasconnere = nascondere, coprire, infrattare, mettere in luogo riposto, in modo che altri non veda o non trovi; celare, occultare; etimologicamente deriv. dal lat. volg. ab-nascondere→annasconnere per il class. abscondere , comp. di ab 'via, lontano da' e condere 'riporre, celare' nella formazione di annasconnere si è verificata una doppia assimilazione: una regressiva ab→an ed una progressiva nd→nn;
manélla s.vo f.le dim.di mana = manina, piccola mano ; etimologicamente la voce mana da cui manella con l’aggiunta del suff. diminutivo élla, deriva da un accusativo latino manu(m) reso femminile mana(m); anche nel toscano anticamente la mano fu mana. Da notare che nell’espressione in esame è usato il diminutivo manella che indica una mano piccola o di bambino, non solo per rimare con la voce petrella ma pure per sottolineare che chi si comporta da pusillanime e privo di personalità anche se è un adulto in realtà si comporta come un bambino!
25.Comme sî bbona, comme sî bbella, e 'a spicula s'ammuccaje 'a sardella Letteralmente Come sei buona, come sei bella e la sigola divorò la sardina. Icastica, antica espressione ancóra in uso, di tipo proverbiale se non addirittura didascalico. In effetti l’espressione viene pronunciata ad ammonimento dei piú giovani che da sprovveduti si fidano troppo delle apparenze e prendono per sincere le blandizie dei furbi che invece con i loro comportamenti falsi, finti, ipocriti, inattendibili, infidi, ingannevoli, illusorî ànno mire ben diverse da quelle che mettono in mostra; nella fattispecie la grossa vorace spigola tenendo un atteggiamento ricco di allettamento, smanceria, adulazione mira a conquistare la fiducia della piccola sardina per poi divorarla; è buona norma dunque, trasportando l’esempio nella vita quotidiana, che i piú giovani, meno esperti e piú sprovveduti, per non restare vittime della loro stessa inesperienza, credulità, ingenuità, semplicità non facciano affidamento sulle carezze, lusinghe, moine dei piú vecchi che ànno maggiore esperienza della vita e son pronti egoisticamente a ricavarne il maggior utile possibile!
comme avv. cong.e s.vo = come (dal lat. quomodo→q(u)omo(do)→como→comme con raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale (m)).
1 in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje?; comme è gghiuto viaggio? (come stai?; come è andato il viaggio?); dimme comme staje; comme maje?, (dimmi come stai; come mai?), perché mai, per quale ragione: comme maje nun è cchiú partuto? (come mai non è piú partito?) | comm'è ca...?, comme va ca...?, (com'è che...?, come va che...?), qual è il motivo per cui... | ma comme?!(ma come?!), per esprimere sdegno o meraviglia | comme dice?, comme hê ditto?, (come dici?, come ài detto?), per chiedere che si ripeta qualcosa | comme fósse a ddicere?(come sarebbe a dire?), per chiedere una spiegazione | comm'è, comme nun è, (com'è, come non è), (fam.) per introdurre un fatto che si è verificato all'improvviso | comme no?!, (come no?!), certamente | comme se permette?!, (come si permette?!), si guardi bene dal permettersi
2 quanto (in prop. esclamative, come nel caso che ci occupa): comme chiove!; comme sî bbuono!; comme me dispiace! (come piove!; come sei buono!; come mi dispiace!) | e comme! serve ad affermare o confermare energicamente: «Te sî stancato?» «E ccomme!»; «Ti sei stancato?» «Eccome!»; è overo, e ccome si è vero! (è vero, eccome se è vero!)..
3 il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa): lle raccuntaje comme ll’amico fosse partuto; nun t’ adduone comme sî fesso?! (gli raccontò come l'amico sarebbe partito; non ti accorgi come sei stupido?!) | preceduto da ecco, con lo stesso significato e funzione: ecco comme jettero ‘e ccose; ecco comme ce se po’ arruvinà (ecco come andarono le cose; ecco come ci si può rovinare).
4 nel modo in cui, quanto (introduce una prop. comparativa): è cchiúbbello ‘e comme credevo; arrivarrà cchiú ttarde ‘e comme aveva ditto; 6 sta a 3 comme 10 sta a 5 (è piú bello di come credevo; arriverà piú tardi di come aveva détto; 6 sta a 3 come 10 sta a 5) | in frasi comparative ellittiche del verbo stabilisce una relazione di somiglianza o di identità: janco comme â latte; ‘a figlia è àveta comme â mamma; poche so’ sfaticate comme a tte; ‘e juorno comme ‘e notte (bianco come il latte; la figlia è alta come la madre; pochi sono pigri come te; di giorno come di notte) | in espressioni rafforzative o enfatiche: io comme a io, nun accettasse, (io come io, non accetterei), per quanto mi riguarda, per conto mio; mo comme a mmo, oje comme a oje, (ora come ora, oggi come oggi), al momento attuale | con il sign. di nella condizione, in qualità di, introduce un'apposizione o un compl. predicativo ed è seguíta sempre da una a segnacaso: tu, comme a arbitro,hê ‘a essere ‘mparziale devi essere imparziale (tu, come arbitro, devi essere imparziale); fuje sciveto comme a testimmonio; tutte ‘a vulevano comme a mmugliera(fu scelto come testimone; tutti la richiedevano come moglie) 5 nel modo in cui, in quella maniera che (introduce una prop. modale): aggiu fatto come tu hê voluto (ò fatto come tu ài voluto; tutto è succieso comme speràvamo (tutto è accaduto come speravàmo) | preceduto da accussí: lassa ‘e ccose accussí comme so’ (lascia le cose cosí come sono) | in correlazione con accussí o con tanto (in luogo di quanto): non è accussí tarde comme penzavo;(non è cosí tardi come pensavo); tanto ll’une comme ll’ ate ( tanto gli uni come gli altri) ' comme (si), nello stesso modo che, quasi che: rispettalo comme (si) fosse pàteto (rispettalo come (se) fosse tuo padre) | comme non l’êsse ditto come non l’avessi detto, per ritirare una precedente affermazione.
come cong.
1 appena, non appena; quando (introduce una prop. temporale): comme ‘o sapette, telefonaje (come lo seppe, telefonò) | a mano a mano che: ‘e nutizzie erano passate comme arrivavano (le notizie venivano comunicate come arrivavano)
2 (lett.) giacché, siccome (introduce una prop. causale): e comme n’effetto s’aveva avé… ( e siccome un effetto bisognava ottenere…)
come s. m. invar. il modo, la maniera; la causa, il mezzo, spec. nelle loc.’o ccomme e ‘o ppecché( il come ed il perché), ‘o ccomme e ‘o cquanno( il come ed il quando) e sim.: spiegà ‘o ccomme e ‘o cquanno; stabbilí‘o ccomme e ‘o cquanno; mo mm’hê ‘a dicere ‘o ccomme e ‘o cche! mi dirai il che e il come. (spiegare il come e il quando; stabilire il come e il quanto; ora mi dirai il come ed il che).
sî corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî forse derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologica per distinguere la voce verbale a margine da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente qui di sèguito illustrando questa frase ad uso didascalico : Si si tu ‘o si’ prevete ca ce a beneditto quanno dicettemo ‘e si, pecche mo te ll’annieje?
Letteramente Se sei tu il signor prete che ci à benedetti quando dicemmo di sí (quando sposammo) perché ora lo neghi?
Questa frasetta c non à alcun recondito significato traslato e/o nascosto e la riporto solo per illustrare alcuni vocaboli partenopei tra i quali ben quattro differenti SI che avendo ognuno un ben preciso, differente significato necessitano di quattro diverse scritture che indichino d’acchito e precisamente la diversa funzione grammaticale dei quattro omofoni si. Cominciamo:
il primo Si scritto senza alcun segno diacritico (accento o apostrofo) corrisponde all’italiano se nei significati e funzioni che seguono:

1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jrce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano.
Andiamo oltre :
si’ è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo finale; viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento del/al proprio idioma, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto zi’ (zio) apocope appunto di zio che è dal lat. thiu(m).

Proseguiamo dicendo che
sî corrispondente all’italiano sei voce verbale (2ª p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî forse derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologica per distinguere la voce verbale a margine, come abbiamo visto, da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente;

--sí avverbio affermativo derivato dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'
1 si usa nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Hê capito?" "Sí"; "Venarranno pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Sí overamente!", "Ma sí!" | facette segno ‘e sí, annuire ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, credere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' si è ssí, in caso affermativo: si è ssí, te telefono/' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2 spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; ‘nu juorno íì e uno no, a giorni alterni ' sí e no, a malapena, quasi ' te muove sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú sí ca no, probabilmente sí
3 con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ch’ è bbella!; chesta sí che è ‘na nuvità!
come s.vo
1 risposta affermativa, positiva: m’ aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu bbelul sí; ‘e spuse ànno ggià ditto sí; stare tra ‘o sí e ‘o no, essere incerto;
2 pl. voti favorevoli: se so’ avuti tre ssí e quattro no || Usato come agg. invar. (fam.) positivo, favorevole: ‘na jurnata sí.
bbella e bbona agg.vi f.li = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace; oppure détto di cosa: utile, efficace, efficiente ma - pur mantenendo l’etimo dal lat. *bonam=buona – questa voce per solito sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione formata apparentemente da due agg.vi m.li, ma chè è invece un’espressione avverbiale temporale; l’espressione è bbello e bbuono che non si riferisce a persona o cosa di genere maschile, esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma è, come ò anticipato un’ espressione avverbiale con valenza temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso, senza che niente lo lasciasse presagire, in maniera negativa es.: bbello e bbuono s’è miso a chiovere
spicula s.vo f.le = spigola, pesce di mare piuttosto grosso, vorace e velocissimo, dal corpo allungato di colore grigio argenteo e dalle carni pregiate; noto alibi in Italia anche con il nome di branzino; etimologicamente voce dal lat. spica 'punta', per via delle spine presenti sulle pinne dorsali; spica è addizionata del suff. diminutivo lat. olus/ola→ulo/ula.
s’ ammuccaje verbale (3ª pers. sg. pass. rem.) dell’infinito riflessivo ammuccarse=imboccarsi, mangiare,divorare, mettersi in bocca (da un lat.parlato *ad+muccare→ammuccare con ass. regressiva; ).
sardella s.vo f.le sardina, piccolo pesce marino di colore azzurro argenteo che vive in banchi; si consuma fresco o conservato sott'olio; la voce a margine è il diminutivo (suff. ella) di sarda che è dal lat. sarda(m)
26.Viato chi tene ‘a cacarella senza freva
Ad litteram: Beato chi soffra di diarrea senza che sia accompagnata da febbre.
Antica espressione ancóra in uso, di complessa spiegazione. Per venire a capo di questa locuzione e superare la pedissequa interpretazione letteraria che sottende l’autentico significato, bisogna por mente súbito ad alcune cose: a) la diarrea se accompagnata da febbre è sintomo di grave infezione intestinale e può essere prodromica di malattie ben piú gravi: tifo, colera etc.;b) un’improvvisa, ma breve diarrea non accompagnata da febbre, specie nei bambini, è procurata spesso da un grave spavento; c) in napoletano il s.vo cacarella è da intendersia sia come diarrea che ( figuratamente e piú spesso) come spavento che della diarrea è ritenuto esser causa; d) in napoletano il s.vo freva è da intendersi sia come febbre, ipotermia che come brama, passione, smania, collera , stizza, indignazione Tanto premesso, l’espressione è da intendersi o nel senso di Beato chi pur spaventato e perciò colpito da transitoria cacaiola non sia febbricitante perché non colpito da ben piú gravi malattie che non un semplice spavento; o anche Beato chi pure spaventato o impaurito non abbia atteggiamenti di smania,collera, stizza, indignazione.
viato/a agg.vo m.le o f.le = beato, gioioso, felice, appagato, tranquillo, lieto, sereno, contento; voce che è part. pass. del lat. beare con normale alternanza b→v (cfr. bucca(m)→vocca – barca(m)→varca – bibere→vevere etc.)
cacarella s.vo f.le (in primis) cacherella, diarrea, emissione di feci liquide o semiliquide. (figurate) spavento, paura; voce deverbale del lat. cacare
senza prep.
1 indica mancanza, esclusione, privazione;
2 seguita da un infinito o da che e il verbo al congiunt., introduce una proposizione con valore modale: ascette senza pavà(uscì senza pagare)
voce dal lat. absentia→(ab)sentia→senza, che all'ablativo significa 'in mancanza di';
freva s.vo f.le (in primis) febbre, piressia, ipertermia, temperatura;
(figurate) brama, passione, smania,collera, stizza, indignazione; voce lettura metatetica del lat. febre( m)→frebe(m)→freva con normale alternanza b→v.

27.Âmmo fatto zímmare e crapette una ‘mbulletta
Ad litteram: Abbiamo sommato in un’unica fattura (i prezzi) di agnelloni e capretti. Id est: Abbiamo operato una colpevole confusione di qualità e/o meriti. Antichissima, ma ancóra usatissima espressione pronunciata con risentimento da superiori e rivolta ad inferiori che nel loro espletamento dei compiti loro assegnati operino, per disattenzione, incompetenza e/o cattiva volontà, confusioni sesquipedali producendo spesso gravi danni a gli utili attesi e non ottenuti per scambi, errori, sbaglî loro imputabili.
âmmo fatto/îmmo fatto/avimmo fatto voce verbale (1ª pers. pl. pass. pross. dell’infinito fà, formata con l’indicativo del verbo avere ed il part. pass. di fà) ; da notare che l’ausiliare avere coniugato alla1ª pers. pl. in una triplice morfologia avimmo/ âmmo/îmmo (di cui la seconda e terza âmmo/îmmo sono crasi della prima avimmo) non dev’essere inteso come indicante una compartecipazione all’azione espressa dal verbo fare, ma va inteso come voce impersonale atteso che i superiori sulla cui bocca vive l’espressione in esame e da loro rivolta quale rampogna a gli inferiori, non intendono esser ritenuti corresponsabili della colpevole confusione di qualità e/o meriti da addebitare esclusivamente ai loro inferiori che ànno operato scambi, errori,e/o sbaglî .
zímmare s.vo m.le pl. di zímmaro =
(in primis)1maschio della pecora, agnellone, capro,becco;
(figurate, alibi) 2 persona rozza, villana, scorbutica; voce etimologicamente dal greco khímaros con raddoppiamento della consonante nasale bilabiale (m) propiziato dal tipo di parola sdrucciolo; rammento che in napoletano in senso dispregiativo nei medesimi significati indicati sub 1 s’usa la voce curdisco s.vo m.le = maschio della pecora, agnellone, capro,becco che abbia superato l’anno di vita, agnello dalla carne meno tenera in quanto nato dopo la Pasqua dell’anno precedente; voce dal lat. cordus = nato in ritardo con l’aggiunta della voce pleonastica isco, lettura metatica di hircus→(h)iscu(r)→isco = capro, caprone.
crapette s.vo m.le pl. di crapetto = capretto,piccolo della capra dalla carne morbida e di sapore delicato ancorché sui generis; la carne del capretto macellato prima che compia l’anno di vita, è usata in alternativa alla carne di agnello (zímmaro o curdisco) nella cucina tipica delle festività pasquali; la voce crapetto etimologicamente è una lettura metatetica del lat. capr(am) con l’aggiunta del suffisso diminutivo etto.
mbulletta s.vo f.le bolletta, fattura, scontrino, polizza, contrassegno, contromarca voce etimologicamente dal lat. bŭlla che in età tarda assunse anche il sign. di «sigillo» con l’aggiunta del suffisso diminutivo etta f.le di etto, suffisso che altera in senso diminutivo, e spesso vezzeggiativo, sostantivi o aggettivi;la voce a margine è addizionata in posizione protetica di una n eufonica che non necessita di segno diacritico d’aferesi , non essendo un residuo di un in illativo che invece risolve in una n aferizzata: in →(i)n→’n (cfr. nc’è per c’è, mente in caso→’ncaso); nella fattispecie in esame la n eufonica protetica di un vocabolo che inizia con una consonante occlusiva bilabiale sonora (b) o sorda (p) si muta in m (cfr. in→(i)n→’n +braccio→’mbraccio - in→(i)n→’n +paraviso→’mparaviso etc.)
28.Aità, sciósciame ‘mmocca ca ‘a patana me coce!
Letteralmente: Gaetano!Soffiami nella bocca ché la patata mi scotta!Détto sarcasticamente soprattutto di donna inetta e svogliata ed incapace di qualsiasi attività che invoca l’aiuto anche in situazioni irrilevanti; nella fattispecie, un’ anonima donna incapace, buona a nulla. invoca l’aiuto del suo uomo (Aitano cioè Gaetano) affinché la soccorra soffiandole in bocca per impedire che il cibo da lei assunto, ma ancóra troppo caldo (patata) le ustioni la bocca! Va da sé che la medesima locuzione la si possa attagliare con maggior ironia, irrisione, scherno, ludibrio, dileggio e/o pesante sarcasmo ad adulto o ragazzo di sesso maschile che ugualmente si mostri incapace, inetto, inabile, dappoco, maldestro, pasticcione, disadatto, inesperto.
Aità vocativo del nome proprio Aitano,che è sistemazione nel napoletano di Gaetano→(G)aetano→Aitano→Aita(no)→Aità; l’apocope è resa graficamente con l’accento Aità piuttosto che con il segno d’apocope(‘)Aita’ per mantenere l’accento tonico della parola ed evitare un’erronea lettura Aíta’; Non meravigli la scelta del nome Gaetàno; il popolo napoletano nel cui àmbito nacque l’espressione fu ed ancóra è molto devoto di San Gaetàno da Thiene, notissimo sacerdote che operò in Napoli nella seconda metà del 1500 ; nato a Vicenza dalla nobile famiglia dei Thiene nel 1480, fu battezzato con il nome di Gaetàno, in ricordo di un suo celebre zio, il quale si chiamava cosí perché era nato a Gaeta.Protontario apostolico di Giulio II, lasciò sotto Leone X la corte pontificia maturando, specie nell'Oratorio del Divino Amore, l'esperienza congiunta di preghiera e di servizio ai poveri e agli esclusi. Fu restauratore della vita sacerdotale e religiosa, ispirata al modello della Chiesa apostolica. ed al discorso della montagna (un sermone di Gesú ai suoi discepoli e ad una grande folla riportato nel Vangelo secondo Matteo 5,1-7,28. Tradizionalmente si pensa che Gesù abbia rivolto questo discorso su una montagna al nord del mar di Galilea, vicino a Cafarnao. Tale discorso della montagna sè una specie di commentario al tema dei dieci comandamenti. e per molti pensatori, tra i quali Lev Tolstoj(Jasnaja Poljana, 28 agosto 1828 –† Astapovo, 20 novembre 1910), ]Martin Luther King(Atlanta, 15 gennaio 1929 – †Memphis, 4 aprile 1968) ed il Mahatma Gandhi(Porbandar, 2 ottobre 1869 –† Nuova Delhi, 30 gennaio 1948), questo discorso contiene i principali valori della fede cristiana. Devoto del presepe e della passione del Signore, fondò (1524) con Gian Pietro Carafa (Capriglia/Sant’Angelo della Scala AV1476 -†Roma 1559), vescovo di Chieti (Teate), poi Paolo IV (1555-1559), i Chierici Regolari Teatini per il rinnovamento della Chiesa, rimettendo ai suoi discepoli il dovere di osservare l’antico stile di vita degli Apostoli. Per la sua illimitata fiducia in Dio è venerato come il santo della provvidenza. A Napoli, dove è ancóra molto venerato si dedicò a pie opere di carità, in particolare adoperandosi per i malati incurabili, promosse associazioni per la formazione religiosa dei laici.
sciosciame = soffiami voce verbale formata da scioscia (2ªpers. sg.imperativo, ma alibi anche ind. pres.)dell’infinito sciuscià= soffiare con agglutinazione in posizione enclitica della voce pronominale me per mi= a me; sciuscià= soffiare etimologicamente è dal lat. sufflare→suflare→sciusciare con normale palatizzazione (sci) della s seguita da vocale e normale evoluzione del gruppo lat. fl in sci (cfr. flos→sciore – flumen→sciummo – flacces→scioccele etc.);
‘mmocca = in bocca; la voce a margine è formata da un in illativo protetico del lat. bucca(m); questo il percoso: in+bucca(m)→ (i)n+bocca(m)→’nbocca(m) poi ‘mbocca (perché è normale il passaggio della n a m davanti a parole che principiano per consonante occlusiva bilabiale sonora o sorda (b o p)ed infine ‘mmocca per assimilazione progressiva;
ca congiunzione che corrisponde all’italiano che
1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?
2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;
3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà
4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;
5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;
6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;
8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;
9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;
10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;
11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto o ca chiove o ca nun chiove...;
12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje;
13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.
L’etimo di questa congiunzione di cui forse ò già detto, ma nel dubbio ribadisco è dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca sub che come mi pare d’aver forse parlato del pronome ca = che à il medesimo etimo del ca cong. ; rammento e preciso che la cong. a margine non va confuso con l’avv. di luogo cca (qua, qui) --cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come avviene in italiano per il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto sempre senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana, come abbiamo visto , esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti, , ma pure affermati scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico ! Come per il sí ed il no anche questo avverbio a margine nell’eloquio familiare soprattutto delle parlate provinciali dei paesi rivieraschi e/o dell’entroterra (dove – mi ripeto! - il napoletano viene usato con un colpevole imbarbarimento locale) diventa, in prosa, patentemente bisillabo per la paragoge di un ne con valore rafforzativo, paragoge che trasforma il cca in uno strano ccane ed addirittura nel napoletano d’uso corrente in ambito cittadino talvolta il monosillabo cca si trasforma in un rafforzato bissillabo ccanno nelle tipiche espressioni ‘a ‘í ccanno= vedila qua, proprio qua -, ‘o ‘í ccanno= vedilo qua, proprio qua - ‘e vví ccanno= vedili qua, proprio qua;
-- lla/(llà) avverbio di luogo corrispondente all’italiano là
1) in quel luogo (indica un luogo genericamente lontano da chi parla e da chi ascolta): puosalo lla; sta senz'altro lla ; venimmo nuje lla ; nun sta cchiú lla, va’ lla | talvolta si unisce a gli agg.vi o pron. chillo/u – chellu - chella o ad un sostantivo preceduto dai medesimi aggettivi , per determinare meglio la posizione di una persona o di una cosa: chillu guaglione lla; chillu libro lla; damme chellu ppane lla; piglia chella cosa lla;
2) con valore rafforzativo o enfatico: siente lla che casino! | chi è lla?, chi va lla?, fermo lla, usati da chi è di guardia o in ispezione ' arri lla (in questo caso però piú spesso il lla si semplifica in a per cui si à arri,a! !, per incitare bestie da soma o da tiro;
3) unito a un avverbio o a una determinazione di luogo: lla dinto; lla fora; lla attuorno; lla ssotto; lla’ncoppa; lla ‘ncopp’ a chella seggia; lla dint’ â casa; lla addó m’hê ditto | ‘a lla, da quel luogo: è partuto‘a lla ajeressera; curre‘a lla a cca ; pe gghí ‘a lla nfino â cimma nc'è vo’ n'ora bbona ‘e scarpinetto; | essere ‘a lla essere cchiú ‘a lla ca a cca, essere vicino a morire; ‘o spitale è assaje cchiú a lla; essere
4) in correlazione con qua e qui, per indicare luogo indeterminato: jí (andare) ‘nu poco cca, ‘nu poco lla; correre ‘a cca e’a lla;qui e là cca e lla; guardà cca e lla.
L’ etimologia di questo avverbio di luogo, cosí come per il là dell’italiano è dal lat. (i)lla(c); in italiano si è stati costretti ad accentare l’avverbio per evitarne la confusione con il la art. determ. femm. sg;in napoletano invece non vi è altro monosillabo la con cui l’avverbio a margine ingeneri confusione, per cui in napoletano non v’à ragione per accentare questo la avverbio come invece purtroppo fanno tutti gli autori partenopei buoni o meno buoni che siano che si lasciano frastornare dal là accentato della lingua italiana e dimenticano che i segni diacritici vanno usati per marcare differenze di voci omofone, ma appartenenti al medesimo àmbito linguistico! Per cui l’avverbio di luogo la in napoletano va reso senza alcun accento, ma con la geminazione della consonante (che del resto ripete la doppia l etimologica e soddisfa l’attento udito partenopeo che avverte l’avverbio a margine con il suono forte d’avvio; e dunque lla e non llà con un inutile, pletorico accento che fa corona sulla a e tantomeno lla’ come qualche sedicente autore partenopeo à avuto il pessimo gusto di fare), non esistendo alcuna sillaba apocopata nell’ illac di partenza ed al solito la caduta di una consonante non può comportare segno diacritico!
patana s.vo f.le = patata, noto tubero edule rammento che in napoletano per traslato furbesco la voce a margine è uno dei numerosi sinonimi della vulva e ciò perché la patata è preso semanticamente a riferimento poiché come essa vive nascosta e protetta sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento dallo sp. patata, sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana);
coce = scottavoce verbale (3ª pers. sg.ind.pr.)dell’infinito còcere=cuocere,scottare, bruciare
còcere è dal lat. volg. *cocere, per il class. coquere.



29.Addó ceca e addó foca Letteralmente : Dove acceca e dove strangola! Détto sarcasticamente di chi arrogante e presuntuoso, tracotante, protervo, ma vigliacco e pusillanime inceda dandosi le arie di prepotente, con atteggiamento insolente, impudente, sfrontato e teoricamente minaccioso, dando ad intendere di volere usar violenza chi accecando e chi strangolando. addó = avverbio di luogo e cong. usato in primis in proposizioni interrogative, ma anche in relative etc.,
1 in quale luogo (in prop. interrogative dirette e indirette, e talora in prop. esclamative): addó vaje?(dove vai?); addó s’è ‘mpurtusato?(dove si è cacciato?); chi sa’ addó sta a chest’ora!(chissà dove sarà a quest'ora!); dimme addó staje ‘e casa(dimmi dove abiti);sta ‘e casa nun saccio addó( abita non so dove) | di, da dove, di, da quale luogo: ‘e addó sî?(di dove sei?);
2 nel luogo in cui (in prop. relative): stongo ‘e casa addó tu stive ‘e casa ‘na vota(abito dove tu abitavi un tempo); rieste addó staje!(resta dove sei!); jate addó ve pare e ppiace(andate dove vi pare ed aggrada);
3 il luogo in cui (in prop. relative): ‘o vvi’ cca addó ce simmo ‘ncuntrate(ecco dove ci siamo incontrati); cca è addó è succieso ‘o ‘mpiccio(qui è dove è accaduto l'incidente) |
4 preceduto da un sostantivo equivale a in cui, nel quale, nella quale ecc.: ‘a pultrona addó t’assiette solitamente(la poltrona dove siedi di solito); ‘a casa addó sta ‘e casa(la casa dove abita); ‘o paese addó stammo jenno(il paese dove siamo diretti); ripigliammo dô punto addó ero rummaso(riprendiamo dal punto dove ero rimasto);
5 (lett.) seguito da ca equivale a dovunque, in qualunque luogo: addó ca vaje vaje(dove che tu vada vada); addó ca fosse(dove che fosse);
come cong. (lett.)
1 nel caso che, qualora, ove (con valore ipotetico-condizionale): Addó po ca nun fosse overo chello ca avimmo ditto, cagnammo pruggetto(Nel caso che poi non fosse vero ciò che abbiamo détto, cambieremo il progetto)addó nun te piacesse ‘e vení cca, vengo i’ addu te!(qualora non ti picesse di venire qui, verrò io da te!);
2 mentre, laddove (con valore avversativo): ‘E guagliune tenevano ‘na speranza ‘e jí a mmare, addó ca ‘o pate aveva deciso n’ata cosa…(I ragazzi avevano una speranza di andare al mare, mentre il padre aveva deciso diversamente.)
comes.vo m.le (raro) luogo: nun saccio né addó, né ‘o cquanno (non so né il dove né il quando);
etimologicamente addó→addove è da un latino de ubi→du(bi) con successivo rafforzamento espressivo attraverso un ad del de/du d’avvio secondo il percorso de ubi→du(bi)→du→ad du→addu→addó; rammento altresí che esistono tre locuzioni prepositive locative che seguono (indicanti rispettivamente provenienza, moto da luogo, moto per luogo) ; esse non sono costruite con addó, ma son costruite con l’avv.dove→ do’/ro’ e le preposizioni semplici ‘e←de (di), ‘a←da (da), pe (per), e sono:
‘e do’/’e ro’, ’a ro’, pe ddo’ di, da dove, per dove di, da quale luogo: ‘e ro’ site?(di dove siete?); ‘a ro’ me staje telefonanno?(da dove mi telefoni?); ‘a ro’ è trasuto(da (o di) dove sarà entrato?) ' per dove, per quale luogo: pe ddo’sî ppassato?( per dove sei passato?) | per dove, per il luogo per il quale: sî ppassato pe ddo’ so’ passato i’? (sei passato per dove sono passato io?).
ceca = accecavoce verbale (3ª pers. sg.ind.pr.)dell’infinito cecà= accecare; cecà è un denominale del lat. caecu(m)

foca = soffoca voce verbale (3ª pers. sg.ind.pr.)dell’infinito fucà= soffocare, strangolare,strozzare; fucà è dal lat. suffocare→(suf)focare→focare corradicale di faux faucis 'gola'; preciso che l’espressione a margine non va confusa con quella che recita
30.Addó vede e addó ceca che ad litteram è Dove vede e dove acceca che à significato del tutto diverso dalla precedente ed è riferita all’ingiusto malevolo atteggiamento di taluni che mostrano di porrela giusta necessaria attenzione e serenità di giudizio verso alcuni avvenimenti e/o persona, mentre per una ingiustificata avversione, malevolenza, ostilità, insofferenza, intolleranza, repulsione verso altri avvenimenti e/o persone, mostrano di non volere usare la giusta attenzione e/o serenità di giudizio giungendo talora bocciatura e/o alla stroncatura di tali avvenimenti e/o persone.Piú chiaramente l’espressione in esame per solito viene riferita a caustico commento delle azioni di taluni individui proclivi ai facili entusiasmi e ad immotivate antipatie in forza dei quali esprimono giudizi e/o sentenze tali da o elevar agli onori degli altari i giudicati o, viceversa ridurli nella polvere. Il piú famoso a Napoli esponente storico di questa categoria di persone fu il filosofo don Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – †Napoli, 20 novembre 1952) di cui ancóra oggi si dice che dove vedeva e dove cecava e che, a mo’ d’esempio, se da un lato, elevò alla gloria Salvatore Di Giacomo (Napoli, 12 marzo 1860 – †Napoli, 4 aprile 1934), facendone, a suo dire (ed io dissento !), il massimo poeta partenopeo, d’altro canto, immotivatamente stroncò Ferdinando Russo (Napoli, 25 novembre 1866 – †Napoli, 30 gennaio 1927) (questo sí, a mio avviso il vero significativo poeta autenticamente napoletano !!), né mai rivide il suo pensiero malato di malevola partigianeria, che tanto piú è deleteria, quanto piú è altisonante il nome del soggetto da cui promana.
vere/vede= vede voce verbale (3ª pers. sg.ind.pr.)dell’infinito veré/vedé= vedere ( dal lat. vidíre).
31.'A carna tosta e 'o curtiello scugnato
Ad litteram: la carne dura ed il coltello senza taglio. Icastica locuzione che si usa a dolente commento di situazioni dove concorrano due o piú elementi negativi tali da prospettare un sicuro insuccesso delle operazioni intraprese.
Nella fattispecie i due elementi negativi che concorrono al fiasco di ciò che s’è iniziato. Altrove per significare la medesima cosa s’usa l’espressione
32.‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe ovvero: si sono uniti, in un fallimentare connubio, una cordicella troppo corta per poter imprimere con forza la necessaria spinta al movimento rotatorio dello strummolo a sua volta scentrato o con la punta malamente inclinata tale da conferire un movimento non esatto per cui la trottolina s’inclina e si muove ballonzolando e producendo un suono del tipo tirití-tirité donde per onomatopea il napoletano tiriteppeto;
carna s.vo f.le= carne (dal lat. carne(m)) ;
tosta agg.vo f.le= dura, soda, resistente derivato del lat. tŏsta(m), part. pass.f.le di torríre 'disseccare, tostare' ma senza la tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo che è nel maschile tuosto;
curtiello s.vo m.le= coltello (dal lat.cultĕllu(m), dim. di culter 'coltello' con tipica dittongazione partenopea della ĕ→ie e rotacizzazione osco-mediterranea della l→r ;
scugnato part. pass.agg.vato m.le= in primis trebbiato (détto di messi) poi con i denti rotti o mancanti (détto di persona) infine come nel ns. caso (détto con riferimento alla lama) privo o insufficiente di affilatura ; etimologicamente dal lat. ex-cuneare ;
funicella s.vo f.le= piccola fune, spago etimologicamente diminutivo del lat. funi(s) con aggiunta del suff.ella f.le di ellosuffisso alterativo di sostantivi e aggettivi, con valore diminutivo e spesso vezzeggiativo ed epentesi del suono eufonico c;
corta agg.vo f.le= corta, breve, insufficiente, di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale (voce dal lat. curtu(m)/a(m) 'accorciato/a, troncato/a');
tiriteppe agg.vo m.le e f.le = scentrato/a, fuori asse come nella fattispecie la punta della trottolina; voce onomatopeica che riproduce il suono ballonzolante della trottolina scentrata.
strummolo s.vo m.le trottolina lignea in forma di piccola pigna, con scanalature incise lungo tutta la superficie, disposte parallelamente dal fondo alla punta nella quale è infissa una punta metallica; per azionare la trottolina e farla prillare vorticosamente si arrotola strettamente sulla trottolina una cordicella, facendole seguire il percorso delle scanalature dalla base al vertice; si lancia verso terra la trottolina e si dà un deciso, rapido strappo alla cordicella che se è sufficientemente lunga riesce ad imprimere un duraturo moto rotatorio alla trottolina che se à la punta ben centrata e non inclinata rispetto all’asse della trottolina, regge il moto adeguatamente; nel caso invece che la punta metallica sia infissa in maniera scentrata rispetto l’asse maggiore della trottolina, quest’ultima prillerà in maniera non consona, traballando ed alla fine crollando miseramente in terra adagiandovisi e mettendo fine al movimento.
la voce strummolo à un’etimologia greca derivando dritto per dritto dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus con consueta assimilazione progressiva mb→mm per cui strumbus→ strummus da cui con l’aggiunta del suffisso diminutivo olus il napoletano à ricavato strummolo con il suo esatto significato di piccola trottola. E giunto a questo punto mi pare d’avere adeguatamente commentate e chiosate le espressioni propostemi dall’amica M.P.F.,d’averla accontentata ed interessato forse qualcuno dei miei consueti ventiquattro lettori.
Satis est.
Raffaele Bracale

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