martedì 30 aprile 2013

PANZA CHIENA ETC.

PANZA CHIENA FA CANTÀ, NUN GGIÀ CAMMISA NOVA Ad litteram: Pancia piena fa cantare, non una camicia nuova. Id est: la soddisfazione di un bisogno primario, come quello del nutrimento, è ciò che mette di buonumore un individuo inducendolo a dimostrare con il canto il suo compiacimento, cosa che invece non gli deriva dall’indossare un nuovo capo d’abbigliamento, fatto ritenuto secondario in confronto al cibarsi. panza s.vo f.le = pancia, epa;talora ventre ingravidato; voce dal basso latino panticem con metaplasmo e sincope della sillaba ti donde pantice(m)→ *pan(ti)cja→*pancja→panza); chiena agg.vo f.le = piena, colma, zeppa; voce metafonetica del maschile chino/chieno = pieno che è dal latino plínu(m) con normale passaggio di pl→chi come in plaga→chiaia,plica→chieja, plus→cchiú,plumbeum→chiummo etc.;

DICETTE DONNA BISODÍA

DICETTE DONNA BISODÍA Dicette Donna Bisodía:Dàmmoce ‘nu pizzeco ‘ncopp’â panza e accussí sia! Ad litteram: Disse donna Bisodía: Diamoci un pizzico sulla pancia e cosí sia! La gustosa locuzione posta sulle labbra di una inesistente, concepita di sana pianta donna Bisodía viene usata con tono rassegnato davanti al verificarsi di accadimenti di situazioni, gravi ma ineludibili, cui bisogna inevitabilmente assoggettarsi obtorto collo, autoimponendosi una contenuta sofferenza [quale quella suggerita di pizzicarsi la pancia] che ci permetta di non sentirne un’altra maggiore. A completamento preciso che l’espressione: darse ‘nu pizzeco ‘ncopp’â panza per traslato e piú genericamente vale altresí sopportare con rassegnazione qualche sgradevole accadimento, nella speranza che ciò ce ne eviti di peggiori; a Napoli a qualcuno che si stia lamentando di dover sopportare alcunché si suole consigliare con la frase in epigrafe di pizzicarsi la pancia facendo buon viso a cattivo gioco. Talvolta però il darsi pizzichi sulla pancia è quasi un atto dovuto, non perché cosí facendo si pensi di evitar guai maggiori, ma perché chi ci sta comminando pene e/o sofferenze è persona cosí tanto importante o meritevole di rispetto che non gli si può opporre una reazione, ma solo rassegnazione. Come ò détto la locuzione/consiglio è posta sulle labbre di una inesistente, concepita di sana pianta donna Bisodía il cui nome altro non è che la corruzione della frase latina Da nobis hodie presente nel pater noster; tuttavia con tale inesistente donna Bisodía nell’inteso popolare si identificò la madre di san Giuseppe, la quale messa al corrente di quanto era accaduto al figlio gli consigliò una santa rassegnazione esprimendosi cosí come in epigrafe. La fantasia popolare non conosce limiti, anche a costo di diventare irriverente! Ed io mi limito ad esserne il notaio. pizzeco s.vo m.le 1 come nel caso che ci occupa lo stringere con il pollice e l'indice una parte molle del corpo; l'atto del pizzicare: dà ‘nu pizzeco a una(dare un pizzico ad una 2 (estens.) quantità di roba che si può prendere con i polpastrelli delle dita:’nu pizzeco ‘e sale, ‘e pepe(un pizzico di sale, di pepe) voce deverbale di pezzecà (Intens. del verbo ant. pizzare 'pungere', da avvicinare a pizzo 'punta'); ‘ncopp’â preposizione articolata = sulla, sopra la forgiata da un in→’n illativo e da coppa dal latino cuppa(m) la parte posteriore superiore del capo che è dunque quella posta sopra, addizionata di â (crasi di a +‘a=alla); panza s.vo f.le indica essenzialmente il ventre, l’addome dell’uomo(come nel caso che ci occupa) o della bestia, ed in senso figurato la parte centrale e tondeggiante di qualcosa: pancia del fiasco,pancia del vaso o ancora la forma tondeggiante di alcune lettere dell’alfabeto: la pancia della a, della p ; è forgiata sul latino pantice(m)→pan(ti)cja(m)→panza con metaplasmo e risoluzione di cj in z. accussí avverbio = 1cosí, in questo modo, in tal modo; 2tanto, talmente 3con valore di agg.vo siffatto, tale: è difficile campà ‘na vita accussí - è difficile vivere una vita cosí; 4 come cong. 1a in correlazione con come, introduce prop. comparative e modali (spesso è sottintesa): nun era accussí stanca comme diceva - non era così stanca come diceva 2a in correlazione con ca (che), con ‘a (da), introduce prop. consecutive: era accussí meravigliato ca nun riusceva a pparlà - ero così meravigliato che non riuscivo a parlare. 3 3a con valore conclusivo in prop. coordinate, dunque, perciò, pertanto: so’ stanco accussí resto â casasono stanco e così resterò a casa. 4a in correlazione con poiché, giacché, siccome, à valore rafforzativo (spesso sottintesa): giacché s’era fatto tarde (accussí)me nn’ avette ‘a jí poiché si era fatto tardi, (così) dovetti andare via 5a con valore desiderativo, magari: accussí vulesse ‘o Cielo!così volesse il Cielo!; |accussí sia - così sia, formula con cui terminano le orazioni; amen 6a con valore concessivo, quantunque, sebbene: accussí stanco, me facette trasícosì stanco, volle ricevermi voce dal lat. ad+ (ec)cu(m) si(c)→accussí 'ecco così'. Brak

VARIE 2351

1.'A CERA SE STRUJE E 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA. Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere che non portano a nulla di concreto. 2.‘O PATATERNO DÀ PANE A CCHI NUN TENE DIENTE! Dio dà spesso il pane a chi non à i denti per mangiarlo! Id est: a volte accade che iperbolicamente, persino l’Onnipotente erri concedendo benefici a chi non li meriti e non ne sappia godere. 3.TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO. Tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. La cosa è ancóra vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di esserne sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile. 4.È FERNUTA 'A ZEZZENELLA! Letteralmente: è terminata - cioè s'è svuotata - la mammella. Id est: è finito il tempo delle vacche grasse, si appressano tempi grami! La voce zezzenella è un s.vo f.le collaterale di zezzella s.vo f.le diminutivo di zizza= mammella (dal lat. titta(m)→zizza. 5.È MMUORTO 'ALIFANTE! Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussiego, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussiego , si ricollega ad un fatto accaduto nel 1742, sotto il regno di Re Carlo di Borbone[Madrid, 20/1/1716 –† Madrid, 14/12/1788)] al quale il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie... 6. FÀ A UNO ‘NZOGNA E PUMMAROLA. Ad litteram: fare (cucinare) uno con sugna e pomodoro Icastica espressione usata per indicare che si intende maltrattare qualcuno,percuotendolo violentemente, riducendolo a cattivo stato fino ad iperbolicamente cucinarlo in forno dopo averlo schiacciato a dovere come si farebbe con una pizza condita, a maggior disdoro, non con il tenue olio d’oliva, ma con la greve sugna e la classica salsa di pomodoro. ‘a pizza ‘nzogna e pummarola fu anticamente uno dei piú classici modi di approntare la pizza che veniva appunto condita con sugna, pomidoro ed abbondante pecorino prima d’esser cotta in forno; successivamente il condimento per questa pizza napoletana mutò e venne usato olio d’oliva, pomidoro aglio ed origano e la pizza cosí condita non ebbe piú il nome di napoletana, ma divenne â marenara. 7. FÀ ‘O MANTESENIELLO Letteralmente: fare il grembiulino. Id est: comportarsi come chi indossi il grembiulino; locuzione usata a dileggio di certi uomini che, dimenticando la loro (supposta) mascolinità, si comportino da donnetta mostrandosi pettegoli e linguacciuti, ciarlieri al punto di propalare notizie apprese: fatto di per sé disdicevole, ma che lo è ancora di piú quando le notizie (che ci si diverte a portare in giro) sono state apprese in “camera caritatis” per le pubbliche funzioni che svolge il manteseniello della locuzione. manteseniello= grembiulino s.vo m.le diminutivo (cfr. il suff. iello) di mantesino= grembiule, zinale; la voce mantesino è dal tardo lat. mantu(m)+ ante+ sinu(m)→mantesinu(m). 8. FÀ ‘O MASTO ‘E FESTA. Ad litteram: fare il maestro della festa Locuzione da intendersi sia in senso strettamente letterale che in senso figurato; intesa in senso letterale si fa riferimento a chi, sia pure dispoticamente, si impegna ad organizzare feste pubbliche o private conferendo spesso il proprio danaro oltre che il proprio tempo ed impegno;in senso traslato la locuzione si usa con dispetto nei confronti di chi, senza esserne né invitato, né delegato a farlo pretende di organizzare l’altrui esistenza; costui con incredibile faccia tosta si presenta non richiesto in casa altrui e disponendosi ad agire tamquam un fac-totum dispensa sgraditi consigli sul modo migliore di comportarsi ed agisce quasi alla medesima stregua del tipo detto spallettone o mastrisso(cfr. ultra). 9. FÀ ‘O GALLO ‘NCOPP’Â MMUNNEZZA Ad litteram: fare il gallo sull’immondizia Id est: assumere gratuitamente arie di superiorità, montare saccentemente in cattedra cercando di imporsi su tutti gli altri che però a ragion veduta non sono altro che un cumulo di rifiuti di talché, solamente messo al loro confronto, il gallo può primeggiare; altrove non conterebbe nulla, potendosi quasi definirlo: monoculo in terra coecorum. 10. FÀ ‘O NNACCHENNELLO Ad litteram: fare il cicisbeo Il vocabolo in epigrafe è oggi fra i napoletani piú giovani quasi sconosciuto, mentre persiste nella memoria e nell’uso di quelli piú avanti negli anni. Con tale vocabolo si indica il lezioso, lo svenevole, lo eccessivamente complimentoso, il vagheggino, il manierato cicisbeo; è chiaro che in un’epoca come la nostra che à statuito la parità dei sessi sarebbe impensabile un uomo che si comportasse verso il gentil sesso in maniera tale da esser paragonato a quei settecenteschi cavalier serventi che solevano portare lunghe capigliature spartite sulle fronte e portate sul volto a coprire un occhio, mentre con l’altro, attraverso un occhialetto,spesso colorato, sogguardavano le dame ; tale postura faceva pensare che i suddetti cavalieri non avessero che un occhio;in francese la cosa suonava: il n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el da cui i napoletani trassero nnacchennello. 11. FÀ ‘O PRUTUSENIELLO Ad litteram: fare il prezzemolino; id est: fare il ficcanaso, voler partecipare ad ogni conversazione esprimendo la propria opinione, specialmente se non sollecitata o richiesta; comportarsi cioè come fa il prezzemolo erba aromatica largamente presente nelle minestre della cucina partenopea; è chiaro che la locuzione in epigrafe si riferisce agli uomini ed è usata a mo’ di dileggio, ritenendosi che normalmente un uomo non debba tenere simili comportamenti, piú consoni alle donne. Prutuseniello = prezzemolino s.vo ed ag.vo m.le diminutivo (cfr. il suff. iello) di prutusino s.vo neutro = prezzemolo, come détto famosissima erba aromatica largamente presente nelle minestre della cucina partenopea; la voce prutusino è una lettura metatetica del tardo lat *petrosinu(m) che è dal gr. petrosélinon, comp. di pétra 'roccia, pietra' e sélinon 'sedano'; propr. 'sedano che cresce fra le pietre'. 12. FÀ ‘O PORTAPULLASTE. Ad litteram: fare il porta pollastri Id est: agire da mezzano, da ruffiano che rechi messaggi alternativamente all’ amoroso o all’amorosa; per traslato fare il propalatore di notizie, per il solo gusto di portarle in giro senza neppure riceverne alcun sia pure piccolo vantaggio quale ad es. una mancia che si è soliti dare ad un garzone di macellaio che rechi effettivamente dei polli acquistati e non bigliettini amorosi. Interessantissima l’etimologia del sostantivo ricavato con traduzione pedissequa dell’espressione francese porte-poulet (portapolletto) ma che in realtà non si riferiva a qualcuno che realmente portasse dei polli, bensí a chi favorisse,recandoli, lo scambio di bigliettini amorosi tra gli innamorati; la particolare piegatura dei foglietti li faceva assomigliare a dei piccoli polli con le alucce donde il nome di poulet (polletto) ed ovviamente chi recava quei bigliettini fu détto porte-poulet (portapolletto); originariamente tale scambio di bigliettini amorosi avveniva tra innamorati della medio-alta borghesia partenopea adusa alla lingua francese usata anche nella corte per cui il mediatore fra innamorati, piú che esser détto semplicemente portabigliettini, fu détto alla francese porte-poulet; quando poi la medesima abitudine passò tra gli innamorati del popolo che non avevano dimestichezza con la lingua d’oltralpe, ma solo con l’idioma partenopeo ecco che porte-poulet (portapolletto)diventò portapullaste restando acquisito come sostantivo per indicare il mezzano, il ruffiano etc. 13. FÀ ‘O PÍRETO CCHIÚ GGRUOSSO D’’O CULO. Ad litteram: fare il peto piú grande del culo. Versione piú prosaica, ma quanto piú icasticamente viva dell’algido italiano: fare il passo piú lungo della gamba; in effetti il massimo danno che potrebbe derivare dall’operare secondo la locuzione italiana sarebbe quello di dover sopportare il dolore di uno strappo muscolare; nel caso della locuzione napoletana i danni sarebbero ben piú gravi ed ignominosi. 14. FÀ ‘O VIAGGIO D’’O MISCHINO Ad litteram: fare il viaggio del Meschino Id est: impegnarsi in una faticosissima attività, un’improba impresa, ma totalmente inutile vuoi per le ragioni che la promuovono, vuoi per i risibili risultati che si raggiungono; la locuzione in epigrafe richiama le avventure di uno degli eroi del ciclo carolingio : Guerino detto il Meschino protagonista di numerose dure ma inutili avventure narrate dallo scrittore italiano Andrea da Barberino e riprese oltr’ alpi da narratori francesi. 15. FARNE CCHIÚ ‘E CATUCCIO. Ad litteram: farne piú di Catuccio Id est: comportarsi, per iperbole, in maniera piú truffaldina e delittuosa di quel tal Luigi Filippo Bourguignon celebre bandito parigino (La Courtille, Belleville, 1693 -† Parigi 1721); tale noto masnadiero francese fu soprannominato Cartouche corrotto nel napoletano Catuccio, e sin da giovanissimo operò in Francia e prima di finire i suoi giorni sulla forca ne combinò di tutti i colori, compiendo scelleratezze e nefandezze efferate. 16. FÀ ‘O PUCCHIACCHIELLO Espressione analoga a quella sub 7.(cfr. antea) da riferirsi per dileggio ad un uomo che si comporti come una donnetta quasi che fósse provvisto non del membro maschile, ma dell’organo riproduttivo femminile che nel napoletano, tra i tanti (cfr. alibi),è indicato con il s.vo purchiacca/pucchiacca donde l’improprio diminutivo maschile pucchiacchiello dell’epigrafe. il s.vo f.le purchiacca/pucchiacca è voce derivata dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il suff. dispreg. acca (femminilizzazione del maschile acco/accio suffisso che continua il lat. -aceu(m), usato per formare sostantivi e aggettivi alterati con valore peggiorativo . ),secondo un percorso morfologico che da koilos, attraverso un *koleaca porta a cljaca→chiaca e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→ puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc. Brak

AVVENTATO & dintorni

AVVENTATO & dintorni La quotidiana osservazione del comportamento di qualcuno che mi sta intorno, mi induce questa volta ad esaminare la voce in epigrafe ed i suoi sinonimi dapprima per ciò che riguarda l’italiano ed a seguire a trattare dei vocaboli corrispondenti nella parlata napoletana. Cominciamo con l’italiano dove abbiamo: avventato/a, agg.vo m.le o f.le 1 che agisce o parla senza riflettere: una ragazza avventata 2 che è fatto o détto senza riflettere: gesto, giudizio avventato; etimologicamente si tratta del p.p. dell’infinito avventare v.bo tr. = 1 (lett.) scagliare, gettare con violenza 2 (fig.) esprimere senza la dovuta ponderazione: avventare giudizi ||| v. intr. [aus. avere] (non com.) essere appariscente, colpire ||| avventarsi v. rifl. gettarsi con impeto contro qualcuno o qualcosa; il verbo avventare propriamente varrebbe: lanciare al vento ed è un denominale del s.vo vento con protesi di un ad→av; disordinato/a, agg.vo m.le o f.le 1 che non è in ordine: una casa disordinata | (fig.) confuso: discorso, racconto disordinato 2 che non tiene in ordine le sue cose; che lavora con poca precisione: un ragazzo disordinato, un’ impiegata disordinata 3 sregolato, privo di misura: un comportamento disordinato etimologicamente si tratta del p.p. dell’infinito disordinare= v. tr.: mettere in disordine, scompigliare: disordinare le carte | (fig.) confondere: disordinare le idee ||| v. intr. [aus. avere] (ant.) essere sregolato, eccedere: Caro figliuolo, governatevi, non disordinate. Ieri sera avete mangiato un poco troppo (GOLDONI) ||| disordinarsi v. intr. pron. 1 (non com.) confondersi; 2 (ant.) subire un danno, spec. Economico; disordinare è un denominale di disordine = 1 mancanza di ordine; confusione (anche fig.): regnava ovunque un gran disordine; disordine mentale ' in disordine, in scompiglio, in stato di confusione: mettere, lasciare tutto in disordine; avere le vesti, i capelli in disordine, scomposti 2 per estens.) disservizio, cattivo funzionamento; cattiva amministrazione: il disordine del servizio postale; il disordine degli affari pubblici 3 sregolatezza, mancanza di misura: disordine nel bere, nel mangiare 4 spec. pl. fatto che turba l'ordine pubblico; sommossa, tumulto. Etimologicamente disordine è dal lat. ordine(m) con protesi di un dis distrattivo. Inconsiderato/a, agg.vo m.le o f.le 1 (non com.) che non considera, che agisce in modo avventato: un ragazzo inconsiderato 2 che è detto o fatto senza riflessione, in modo sconsiderato: risposta inconsiderata; quanto all’etimo è dal lat. inconsideratu(m), comp. di in- 'in= non' e consideratus 'prudente', propr. part. pass. di considerare 'considerare= 1 esaminare con attenzione; tenere presente: considerare il pro e il contro di una proposta; tutto considerato, tenuto conto di tutto, valutando tutti gli aspetti della cosa; considerato che, visto che, dal momento che | (assol.) riflettere, ponderare: è un impulsivo e non considera mai abbastanza 2 reputare, ritenere; giudicare: considerare qualcuno come un fratello 3 apprezzare, avere stima di qualcuno: il professore lo considera molto 4 (dir.) prevedere, contemplare '; precipitoso/a, agg.vo m.le o f.le 1 che scende a precipizio; per estens., che si verifica o si muove con grande rapidità: torrente precipitoso; corsa, fuga precipitosa; attraversò precipitoso la strada 2 di persona, che agisce affrettatamente, senza riflettere; di cosa, che è detta o fatta con precipitazione, con fretta eccessiva: non essere precipitoso nel giudicare!; una decisione precipitosa 3 (lett.) detto di monte, che scende a precipizio; di pendio, assai scosceso; la voce precipitoso etimologicamente è derivata dall’agg.vo precipite( che è dal lat. praecipite(m) 'a testa in giù', comp. di prae- 'pre-' e caput -pitis 'testa') con l’aggiunta del suff. d’abbondanza oso←osus; sconsiderato/a, agg.vo e talvolta s.vo m.le o f.le 1 che agisce senza riflettere, senza discernimento: una ragazza sconsiderata 2 fatto o detto senza riflettere, senza prudenza: un atto, un gesto sconsiderato; parole, frasi sconsiderate ¶ s. m. [f. -a] persona sconsiderata, avventata: comportarsi da sconsiderata; la voce sconsiderato etimologicamente è derivata quale p. p. dall’infinito s (distrattiva) + considerare (dal lat. considerare, comp. di cum 'con' e un deriv. di sidus -eris 'astro'; propr. 'esaminare gli astri per trarne auspici' per cui sconsiderare varrebbe ' non esaminare gli astri etc.'. squinternato/a agg.vo e talvolta s.vo m.le o f.le 1 scompaginato, slegato: libro, fascicolo squinternato | (estens.) sconnesso: una vecchia baracca squinternata 2 (fig.) si dice di persona poco equilibrata, dalla vita e dal comportamento disordinati una donna squinternata; come s. m. [f. -a] persona squinternata; la voce squinternato etimologicamente è derivata quale p. p. dall’infinito squinternare = slegare,scombussolare, turbare formato da una s (distrattiva) + un derivato di quinterno = s. m. insieme di cinque fogli doppi di carta inseriti l'uno nell'altro, cosí da formare dieci carte o venti pagine; deriv. di quinto, sul modello di quaderno che è dal lat. quaterni, nom. pl., 'a quattro a quattro' (con allusione alla legatura dei fogli), deriv. di quattuor 'quattro'. Esaurite ad un dipresso tutte le voci sinonime di quella in epigrafe, passiamo alle voci napoletane che rendono quelle dell’italiano. Abbiamo: abbentato, agg.vo m.le o f.le corrisponde e per significato e per etimologia all’ avventato dell’italiano con la sola differenza dell’alternanza b/v v/b tipiche del napoletano(cfr. bocca→vocca – barca→varca – avvincere→abbencere etc.); ammorrone/a oppure ammurrone/a, agg.vi m.li o f.li aggettivi che corrispondono ad un dipresso a gli italiani precipitoso/a, imprudente, avventato/a, impulsivo/a, frettoloso/a, affrettato/a , ma che in realtà trovano il migliore corrispondente in abborracciatore/trice, impreciso/a, vago/a, approssimativo/a, superficiale, nessuno dei quali però ripete l’aggancio semantico della voce napoletana che, molto icasticamente mette in relazione un comportamento precipitoso, imprudente, avventato, impulsivo, frettoloso, affrettato, abborracciato, raffazzonato, sciatto, approssimativo, trasandato con quello tenuto dalle bestie di media o piccola taglia (bovini ed ovini) allorché raccolte in mandrie (mmorre dal fr. mourre) si muovono in maniera disordinata, scomposta, caotica; quanto all’etimo, come già accennato parlando dell’ l’aggancio semantico, gli aggettivi a margine son dei denominali del s.vo mmorra (che è dal greco myríos= gran moltitudine attraverso il fr. mourre). pazzuoteco/pazzoteca, agg.vo m.le o f.le f in primis bizzarro/a, cervellotico/a, bislacco/a, strano/a ma per estensione disordinato, abborracciato, raffazzonato, sciatto, approssimativo; per l’etimo è voce derivata dal sost. pazzo con il suff. otico→uoteco/oteca risalente al lat. (idi)òticus; pazzo a sua volta è riconducibile al greco pàthos=infermità dell’animo o del corpo, senza dimenticare che il s.vo greco patheía (da leggere pathîa) porta dritto per dritto a pazzía. Scialuorto/scialorta agg,vo m.le o f.le voci antiche, ma icastiche che valsero in primis sbadato/a, buono/a a nulla ed estensivamente sventato/a, sconsiderato/a; pasticcione/a, arruffone/a; per quanto riguarda l’ etimologia di questo antico scialuorto/scialorta escludo a priori la fantasiosa ipotesi di F.sco D’Ascoli che parlandone infra la voce che segue, propose di considerar la voce a margine una lettura metatetica di ciarlúotte (dal comico Charlot (sic!)) salvo poi a dovere ammettere che nel napoletano scialuorto/scialorta erano voci ben preesistenti all’attore inglese Charles Spencer Chaplin, in arte Charlot (Londra, 16 aprile 1889 –† Corsier-sur-Vevey, 25 dicembre 1977);a mio avviso la voce a margine meno fantasiosamente è da collegarsi al latino parlato *exadaptu(m)=disadatto secondo il seguente percorso morfologico exadaptu(m)→sciadattu(m) con successiva rotacizzazione osco-mediterranea d→r che diede sciarattu(m) e per assimilazione progressiva sciarartu(m) e definitiva alternanza espressiva popolare della prima consonante liquida vibrante (r) con la corrispondente consonante laterale alveolare (l) approdando a scialartu(m) donde il nostro scialuorto; sciaddeo/a,oppure sciardeo/a agg.vi m.li o f.li esattamente l’inetto l’incapace buono a nulla, il precipitoso, l’imprudente, l’avventato, l’impulsivo, ed estensivamente anche lo sciocco generico ; rammenterò qui che sciaddeo/sciardeo son la medesima parola: nella seconda si è verificato il fenomeno del parlato popolare della rotacizzazione osco – mediterranea che riguarda la prima d(cfr. ad es.: dito/rito – dinto/rinto – Madonna/Maronna etc.) , ma la parola è la stessa; per quanto riguarda l’ etimologia di sciaddeo escludo a priori che la si debba riferire al nome dell’apostolo Giuda Taddeo che con sciaddeo à solo una tenua assonanza, non risultando da nessuna sacra scrittura (vangeli – atti degli apostoli – lettere etc.) che il suddetto Giuda Taddeo fosse uno sprovveduto o un incapace, e propendo per il verbo greco skedao= comportarsi da sbandato e/o sprovveduto; sciardella, agg.vo o s.vo f.le e soltanto femminile; à il circoscritto significato di donna inetta, inidonea, inadatta, disadatta, inabile, inadeguata, colpevolmente incapace, incompetente, inesperta; si usa ad esempio per identificare una casalinga incapace di fare i donneschi lavori di casa con attenzione e secondo i crismi dovuti; a Napoli è 'na sciardella la casalinga che lavi le stoviglie, facendosele scappare di mano e rompendole, che lavi i pavimenti con poca acqua, che spolveri superficialmente, che riponga gli abiti in modo raffazzonato, cosí che riprendendoli uno li trovi stazzonati e gualciti al punto di non poterli indossare, una donna insomma inetta ed inaffidabile, una sbadata patentata che colpevolmente (e non per involontarie carenze fisiche o mentali) non pone attenzione o buona volontà in tutto ciò che fa. sciambrato/a, agg.vo m.le o f.le in primis riferito a gli abiti vale (con derivazione da un lat. reg. (e)xamplare= render ampio))vale: largo, ampio, comodo, in un significato secondario, riferito alle persone vale disordinato sregolato, privo di misura sciàscio/a agg.vo m.le o f.le = trasandato,disordinato, approssimativo, ma piú spesso, se non sempre, riferito ad una donna, quasi sinonimo della pregressa sciardella nei significati di donna precipitosa,incapace imprudente,avventata, impulsiva, inetta, inabile, dappoco, maldestra, pasticciona, disadatta, inesperta; quanto all’etimo è un deverbale dell’infinito sciascïà v. intr.=godersi a fondo qlcs, bearsi con gusto e pieno abbandono tutte cose che semanticamente giustificano la precipitosità, l’impulsività e l’avventatezza comportamentale: chi si bea o si gode qlcs. a fondo, con gusto e/o pieno abbandono, non può mettere attenzione o misura in quel che fa; a sua volta il verbo sciascïà appare derivare dal lat. iacére=giacere in riposo attraverso un frequentativo *iaciare che diede *ciacïà→ sciascïà. Sciazza/sciuazza agg.vi o s.vi f.li e soltanto femminili = maldestra, pasticciona, incapace, goffa, inetta, sprovveduta, inabile, buona a nulla, incompetente, inesperta agg.vi peggiorativi del termine sciardella; in realtà la voce sciuazza è morfologicamente un addolcimento – attraverso l’epentesi di una facoltativa u – dell’originaria sciazza (che è dal latino ex-apta=inadatta)inteso troppo duro o volgare. E penso d’avere esaurito l’argomento.Satis est. Raffaele Bracale

MALUPINO/MALUPINA

MALUPINO/MALUPINA Questa volta è stato l’amico L. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a chiedermi via e-mail di chiarirgli significato e portata dell’aggettivo partenopeo in epigrafe, atteso che sul web circolano, a suo dire, spiegazioni non esaurienti ed a volte contraddittorie. Penso di poter essere utile all’amico dicendogli súbito che il napoletano malupino/a è un agg.vo che rende tal quale l’italiano malpelo [in malupino è evidente infatti la corruzione del parlato di un originario malupilo ← malu(m)+pilu(m), adattamento dell’italiano malpelo; quanto al significato, malupino/a si dice di chi avendo i capelli rossi per questo, secondo una credenza popolare, è ritenuto ostinato/a e cattivo/a od anche furbo/a, malizioso/a, scaltro/a, monello/a, birba, birbante ; ricorre per lo piú nella loc. russo malupino/rossa malupina. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico L.G. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est. Raffaele Bracale

lunedì 29 aprile 2013

FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO.

FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO. Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che apparisse. accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare→accaptare→accattare intensivo di capere = prendere. Raffaele Bracale

'A CUCINA NAPULITANA

‘A CUCINA NAPULITANA Questa volta voglio invitare chi mi leggerà, a seguirmi ed accompagnarmi in quell’ ampia stanza della mia casa della fanciullezza e giovinezza, stanza dove si preparavano e, col favore dell’ampiezza del locale, si ammannivano – su l’apparecchiato desco – i cibi; sto parlando d’ ‘a cucina ( da un tardo latino: cocina(m), variante di coquina(m), deriv. di coquere 'cuocere'); il primo elemento che, entrando in cucina dal passetto pensile (dall’ aggettivo latino: prensile(m) con sincope della erre forse intesa inutile), si incontrava e saltava agli occhi era ‘o fuculare (dal tardo latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ). Esso non era, come generalmente altrove, la parte inferiore del camino, formata da un piano di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco (in casa mia infatti non v’erano camini (latino: caminu(m), dal gr. káminos 'forno, fornello'), ma era una sorta di grosso parallelepipedo di pietra, rivestito di policrome riggiole (da un latino volgare *rubjòla con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico àbeo diventato tardo latino àbjo e napoletano aggio;*rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana; quelle che rivestivano il focolare erano diverse le une dalle altre in quanto non acquistate ad òc, ma risultate avanzate ad altra primaria destinazione (per solito pavimentazione delle stanze di casa); sulla faccia superiore d’ ‘o fuculare erano ricavati degli ampi fori circolari in piccolissima parte chiusi da una sorta di crocicchio di ghisa saldamente infisso ai bordi dei fori, crocicchio che serviva di appoggio alle pentole e/o tegami usati per la cottura dei cibi; perpendicolarmente ai fori ad una distanza di circa 40 cm. c’era il piano interno del cavo focolare, piano in mattoni refrattari, piano su cui era acceso il fuoco alimentato attraverso due congrui accessi, protetti da sportellini metallici posti sul davanti della faccia anteriore del focolare, con adeguate immissioni di pezzi di legno e pampuglie (vedi altrove) o gravone ( metatesi del lat. carbone(m) )e gravunelle (evidente diminitivo del precedente); dopo la combustione la risultante cenere non veniva dismessa, ma conservata per essere usata nei giorni di culata (che dal verbo colare/culare indicò il bucato napoletano) sistemata nel c.d. cennerale = ampio telo a trama larga che accoglieva la cenere affinché questa cedesse ai panni, al momento della colatura dell’acqua bollente, i benefici effetti sbiancanti della soda caustica presente nella cenere, telo posto alla sommità del mastello o tina contenente la biancheria da lavare; Mi son soffermato a parlare della culata e del cennerale, atteso che nel passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata,terminata la quale, poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo (forgiato sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon) = lastrico solare, loggia, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni; ma torniamo in cucina: al centro della stanza troneggiava un gran tavolo rettangolare(reso, come spesso in napoletano,per la sua ampiezza, femminile e détto perciò ‘a tavula cfr. ad es. alibi ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo )etc. );il tavolo, meglio ‘a tavula era munita di quattro possenti zampe e di un piano in candido, ma qui e là venato di grigio, marmo: ‘o marmulo (dal greco mormylos); la vasta superficie in marmo risultava quasi essenziale alla preparazione degli impasti per cavarne pasta alimentare (tagliatelle,tagliolini, lasagne, cannelloni e/o impasti dolci: pan di Spagna, pasta frolla,pasta sfoglia etc.; se non ci fosse stato il marmo, sarebbe occorso ricorrere ad un laganaturo: capace, rettangolare tagliere ligneo ( che però una volta imbrattato, risultava difficile da pulire, al contrario del marmo); il tagliere da noi aveva il nome di laganaturo; piú chiaramente dirò che per il tagliere, i napoletani usano il generico termine di laganaturo (che deriva , come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se piú strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo a Napoli si indicò ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, sia il bastone cilindrico con cui si spiana la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello sono due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Quanto al tagliere dell’avellinese dirò che lí à il nome di tumpagno ed è, contrariamente al tagliere napoletano che è rettangolare, di forma circolare, né più, né meno cioè che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura). Il suddetto tavolo o meglio tavula, qualche piú anziano frequentatore di casa (nonni, vecchi zii) si ostinava a dirlo (dallo spagnolo bofeta) ‘a buffetta, ma era poco compreso da noi ragazzi che ritenevamo, sia pure errando, che il nonno o lo zio stesse confondendo, intendendosi riferire con quella loro buffetta non al tavolo, quanto al buffè altro mobile, di cui qui di sèguito parlerò. Nella cucina della mia casa d’antan, sulla parete opposta a quella su cui era ubicato ‘ ‘o fuculare (demolito assieme al lavaturo nel corso dell’ammodernamento cui ò accennato dianzi, per far posto ad una cucina a gas di città che, ad un certo punto invase appunto tutta la città, soppiantando ovunque il focolare con il suo corredo di legna, carbone e carbonelle; le prime lavatrici elettriche semiautomatiche frattanto avevan, per parte loro, giustiziato lavaturi e culate con il cennerale e non so proprio la nostra vecchia Nannina cosa dovette ingegnarsi a fare per lucrar qualche soldo…) era situata una bassa credenza (con due sportelli e due cassettini); tale mobile, come un suo simile détto contrabbuffè ( da contra =opposto + buffè: nella stanza da pranzo due mobili, sia pure di legno piú pregiato e di miglior fattura, portavano il medesimo nome di buffè e contrabbuffè ed erano posti su pareti dirimpettaie, l’uno opposto all’altro) collocato al centro della parete adiacente quella su cui insisteva il buffè ( mo vi dico…) era in un vile legno di abete ed era laccato, all’esterno, di un color azzurro scuro, mentre i ripiani interni erano di un bianco calcina ); tale credenza con voce mutuata dal francese buffet si diceva per l’appunto bbuffè; su codesto buffè era montato un alto riquadro a mo’ di quadro svedese, su cui erano avvitati numerosi grossi crocchi = uncini (dal francese croc) a vvite ai quali erano sospesi pentole, tegami ed ogni altro pentolame da cucina che qui appresso elencherò con i nomi partenopei; tali stoviglie (probabilmente da un lat. volg. testulia in quanto al principio prodotte esclusivamente in terracotta)in origine furono di luccicante rame adeguatamente stagnato sulla superficie che veniva a contatto con il cibo; poi a mano a mano le stoviglie di rame furono sostituite da quelle in alluminio, materiale che assicurava un ‘ottima conducibilità di calore, e che si puliva in maniera le mille volte piú rapida del rame che per esser pulito e poi reso lucente necessitava di gran lavoro ed il soccorso di scorze di limone e di rena ‘e vitrera cioè sabbia da vetrai ricca di silice atta al soffregamento abrasivo dei residui del cibo cucinato; vediamo dunque il pentolame(forse dal latino pendere in quanto in principio i vasi per cuocere i cibi, non erano poggiati, ma sospesi sul fuoco) in uso, olim, in un po’ tutte le cucine napoletane; avevamo: tiani/e e le piú piccole tianelle, oltre a ruoti e rutielle, caccavi e ccaccavelle ed ovviamente tielle piú o meno grandi; esaminiamo da vicino: tiano o tiana utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; in questo caso – contrariamente al solito, il maschile tiano indicava una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile; le tianelle diminutivo del precedente erano le piú piccole e maneggevoli pentoline, provviste di un unico lungo manico saldato al bordo della pentolina attraverso tre corti chiuvette,brevi ma larghi chiodi in lega metallica che passando attraverso appositi fori circolari posti sulle pentole e la piastrina concava finale del manico quando fossero ben ribattuti, rinsaldavano il manico al tegame ed impedivano che il manico ciurlasse, assicurando cosí una sicura presa all’operatore, piú spesso operatrice, ai fuochi; ruoti ed i diminutivi rutielle etimologicamente da un basso latino maschile: rot(l)u(m) , sincope di un rotulum forse da un classico femminile rota(m) furono i piú o meno ampi teglioni, che non avevano manici, ma un unico grosso anello metallico saldato con i soliti chiuvetti, teglioni (da non confondere con le teglie (tielle) che adesso vedremo) che potevano essere usati indifferentemente o sui fuochi o nel forno, e ce ne fu uno: ‘o ruoto niro che – per essere stato lungamente a contatto con le fiamme - si era estremamente brunito, acquistando la qualità di non fare attaccare i cibi, risultando l’involontario, ma esatto antesignano dell’antiaderenza chimica e perciò pericolosa! Esso ruoto niro quello usato per le lunghe fritture o rosolature di puparuole(=peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle(peperone basso e plurilobato: da un basso latino pipericella→piparicella→ paparicella→paparcella→ papaccella,nonché sacicce( = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare; e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frígere); caccavi e le diminutive, piú agevoli caccavelle; ‘o caccavo che è dal basso latino caccabu(m) era il piú grosso tiano che si potesse usare in cucina, ampia e larga pentola utile alla preparazione di ingenti quantitativi di minestre o brodi e dunque poco usato; in effetti a Napoli dicendo ‘o caccavo non ci si intendeva riferire a pentola domestica, quanto piuttosto ai grossi pentoloni in uso presso taluni monasteri che quotidianamente preparavano e distribuivano minestre per i poveri che le mendicassero; rammenterò il famosissimo gran caccavo ‘e Santa Maria ‘a Nova, monastero francescano posto in una centralissima piazza napoletana, monastero che cotidie era meta di poveri petenti; va da sé che con il termine caccavella si designò dal latino caccabella, neutro plurale, ma inteso femminile, di caccabellu(m) il diminutivo del pregresso caccavo, le pentoline piú piccole e maneggevoli, sinonimo delle pregresse tianelle; concludiamo con tielle che è il plurale di tiella , propriamente il tegame, la padella, la teglia in cui o si frigge in olio basso, sugna etc. o si preparano i fondi per non troppo elaborati sughi piuttosto veloci; quelli di piú elaborata e lunga preparazione, come il mitico rraú (= il famosissimo napoletano intingolo di carne di manzo e rosso pomodoro di cui quanto prima vorrò parlare; rraú: adattamento dal francese ragoût deverbale di ragoûter derivato da goût= gusto e dunque risvegliare il gusto! ), necessitano di un’adeguata tiana; torniamo a tiella la cui etimologia è dal latino tegella(m), diminutivo di tegula, con caduta della palatale g, suono di transizione j donde tejella →tjella e tiella; in origine quando ancora la tegella non era che una piccola tegula, altro non fu che una sorta di copertura di altri vasi in terracotta come i menzionati caccabum e caccabella anch’essi, come la tegella e la tegola in terracotta. Riprendiamo il racconto; nelle ante chiuse da sportelli del buffè e contrabbuffè trovavano posto innanzi tutto il vasellame da tavola: ‘e bbicchiere :etimologicamente da un latino: bacarium→ bicarium da un greco bíkos= piccolo vaso per bere, ed i vitrei contenitori dei liquidi quali: fiasche plurale di fiasco che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo→ vlasco→ flasco e fiasco, peretto ed il plurale’e perette: caraffe vitree senza manico di varia capacità (dai 2 litri al quarto di litro) in cui si versava e talvolta ancóra si versa il vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, e non prendo per buono quella che piú che una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, ed atteso che a mia memoria ‘e perette ch’io conobbi non somigliavano ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando invece essere dei cilindrici vasi vitrei (e solamente vitrei) che per tutta la loro altezza mantenevano il medesimo passo e solo verso l’alto presentavano una contenuta strozzatura che costringeva il vaso dapprina ad un modesto restringimento del passo e poi a slargarsi in una imboccatura svasata,ecco che quanto all’etimologia, penso che piú che alla forma ci si debba riferire al materiale ed al modo d’apparire d’essi perette che essendo (come ò detto) di terso e scintillante vetro (non esistono, né esistettero perette in coccio o porcellana…) penso ch’essi trassero il loro nome dall’antico alto tedesco peràt= chiaro, splendente, trasparente cosí come i perette furono e sono; carrafe : piú ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere e talora il vino : etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere; giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra. Tutti i recipienti usati nelle bettole e/o osteri, cantine etc, per servire a gli avventori il vino o altre bevande furono détti onnicomprensivamente ‘o bbrito letteralmente il vetro ma per metonimia bicchieri, caraffe,ed ogni altro contenitore usato per la mescita; la voce brito etimologicamente è una lettura metatetica con tipica alternanza partenopea v/b (cfr. bocca/vocca- varca/barca etc.) del lat.vitru(m)→vritu(m)→britu(m)→brito. ed ancora tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas, tazze dette anche chicchere con voce dallo spagnolo jicara, tutti (tazze o chicchere) piccoli o medi vasi, di porcellana o di maiolica, forniti di un unico manico laterale ed usati per bere caffè, cioccolata o altre bevande per lo piú calde; esistettero anche delle chicchere a doppia ansa o manico, ma venivano usate solo in quelle famiglie aduse a servire in dette chicchere sofisticati consommé o ristretti brodini magari arricchiti da uova fresche e dette famiglie queste chicchere non le conservavano nel buffè di cucina, ma nella cristalliera (di per sé il mobile per riporvi il vasellame di cristallo, etimologicamente forgiato sulla parola cristallo che è dal greco krystallos= ghiaccio) annessa al buffè della stanza da pranzo, cristalliera o argentiera dove facevano bella mostra di sé accanto al vasellame in pregiata porcellana bavarese ed accanto ai bicchieri in cristallo molato, qualche elegante pezzo in argento magari inglese o tedesco; nelle famiglie medio-piccolo borghese, per servire il brodo s’usavano delle fonde scodelle: etimologicamente dal catalano escudella o delle capaci ciotole ampie e profonde tazze prive di manico, etimologicamente da una latina còtyla affine ad una cyàtula femm. di un cyàtulus diminutivo di cyàtus (greco: kýatos = bicchiere) quelle stesse ciotole che venivano usate all’occorrenza per servire semplici, ma gustose zuppe ‘e latte consistenti in una congrua tazza, ciotola o scodella di latte caldo o freddo, parsimoniosamente zuccherato e macchiato con poco caffè in cui erano posti ad imbimbirsi adegatamente piccoli cubi ricavati da tronfie fette di palatone (grosso filone di pane di circa due kg. cosí chiamato in quanto da solo occupava quasi del tutto la pala usata per infornarlo, palatelle: filoncini che secondo il peso: 250 o 500 gr. occupavano la metà o la quarta parte della pala) o panielle(pagnotte di forma tondeggiante, da panis + suff. diminutivo iello di buon fragante pane napoletano o cafone: biscotti, cornetti, crostatine, merendine ed affini erano ancora in mente Dei e di là da venire… Torniamo al vasellame; nei mobili della cucina accanto a quello menzionato trovavano ancòra posto con qualche residuale pentolame in coccio o creta cotta, pentolame che essendo troppo fragile non poteva esser tenuto all’esterno di mobili, insieme a quello di rame o alluminio, e doveva esser messo al riparo nel buffè e contrabbuffè insieme alle stoviglie in ceramica o porcellana quali piatte schiane e piatte accuppute nei quali erano ammanniti minestre, primi piatti e pietanze; esaminiamo: piatte = plurale di piatto etimologicamente dal greco platýs= largo, ampio; schiano = piano, livellato dal latino: planu(m) dove pl> chj=chi come in plenu(m)/plena(m) che danno chino/chiena; accupputo = fondo, cavo da collegarsi etimologicamente alla voce tardo latina cuppa(m)= incavata per la classica cupa(m); vedi anche il greco kýpe = cavità. Prima di fare punto, un rapidissimo accenno alle grosse posate usate in cucina, sia per rimestare i cibi in cottura, che per servirli nei suddetti piatti; quelle posate erano essenzialmente di due tipi: in lega metallica o completamente di legno; tra le prime rammenterò: ‘o cuppino ed il diminutivo cuppeniello = ramaioli semisferici piú o meno grossi, con lungo manico usati per rimestare e servire brodi o minestre brodose o conferire liquidi a cibi in cottura che dessero segni d’essersi troppo prosciugati, quanto alla etimologia da far risalire alle medesime voci di cui al precedente accupputo; ‘o furchettone = evidente accrescitivo (stranamente maschile) della femminile furchetta dalla medesima etimologia dal francese fouchette con epentesi della erre e suffisso accrescitivo one = arnese a due o tre rebbi usato per rimestar verdure o infilzare e prelevare dai tegami pezzi di carne o altro; ‘a votapesce = schiumarola forata di foggia piatta o concava usata per rigirare i cibi in cottura (pesci o carni) sgrondandoli in contemporanea dei grassi o liquidi di preparazione; ovvia l’etimologia che è dall’addizione del verbo vutà/votà= girare da un basso latino volvitare intensivo di volvere + il sostantivo pisce(m); e giungiamo infine alle posate lignee che sono essenzialmente due: ‘a cucchiara ed il suo diminutivo cucchiarella che sono esattamente i piú o meno grossi cucchiai atti a rimestare i cibi in cottura ed a prelevarne volta a volta piccole quantità; l’etimologia è latina da cochleària neutro plurale inteso femminile di cochleàrium e questo a sua volta da collegarsi al greco kochliàrion forma diminutiva di kochlías = chiocciola o conchiglia in quanto strumento usato per prelevare e mangiare il frutto della chiocciola o conchiglia. Rammenterò, in chiusura, che un tempo le posate lignee cucchiare e cucchiarelle prodotte artigianalmente, venivano cortesemente fornite annualmente dagli zampognari abbruzzesi o avellinesi che, chiamati in casa, vi venivano a suonare la novena di Natale ed al momento del congedo solevano ricambiare con il dono di tali lignee cucchiaie, i dolci ed i liquori o casalinghi rosolî che venivano loro dati per sovrammercato del compenso pattuito per la novena; i rosolî casalinghi erano conservati o in bottiglie conservate ad òc, una volta che fossero state vuotate degli originarî liquori industriali, ma – piú spesso in scintillanti carrafine= panciutelle ampolline vitree o –meno spesso – di cristallo, fornite di manico, torto beccuccio e vitreo tappo, ampolline un po’ piú grandi, ma – per la forma - in tutto simili a quelle usate in chiesa durante la celebrazione della S.Messa, per contenervi acqua e vino; etimologicamente anche la carrafina come la precedente carrafa di cui è diminutivo, viene dall’arabo garafa. ‘a cucina – aggiunta Ò dimenticato di parlarvi di alcuni oggetti/utensili usati in cucina e conservati, accanto a quelli menzionati, nel bbuffè o nel contrabbuffè; provvedo ora col dirvene: cepugno intraducibile ad litteram che fu un antico vaso oleario in terracotta della capacità di piú litri, che derivò il suo nome con ogni probabilità per esser di forma simile ad una grossa cipolla (cepa o coepa) con collo stretto in tutto simile a quello della cipolla che panciutella nel corpo si restringe verso l’alto a mo’ di collo. In detto cepugno veniva conservato l’olio che una volta era acquistato senza lesinare sulle quantitatà; in prosieguo di tempo il cepugno fu sostituito con lo ziro ( dall’arabo zihr= orcio) anch’esso vaso oleario di gran capacità che poteva essere di terracotta come il cepugno ma piú spesso di banda stagnata. Avvicinandosi ai nostri dí anche nelle case piú facoltose son venuti meno e il cepugno e lo ziro sostituiti con micragnose bottiglie(butteglie) tra le quali appunto la unta e bisunta butteglia ‘e ll’uoglio da cui si preleva o meglio prelevava il prezioso condimento per il tramite di un minuscolo mesuriello ‘e ll’uoglio = misurino dalla contenuta capienza di circa 1,5 decilitri :almeno cosí ricordo; etimologie: butteglia = bottiglia : dal latino bu(t)ticula diminutivo di buttis= vaso, botte ma attraverso un francese bouteille, piú che uno spagnolo botilla uoglio: = olio: da un latino oleu(m) cfr. greco: élaion; il classico oleu(m) diede il volgare òliu(m) con li→gli donde oglio → uoglio; mesuriello= misurino graduato in alluminio, diminutivo del francese mésure che è dal latino mensura dal part. pass. mensus del verbo metíri= misurare; buccacce = congrui contenitori vitrei piú larghi che alti dall’ampia bocca, turata da adeguati tappi ‘e suvero = sughero dal latino: subere(m) cfr. il greco: sýpàr= pelle rugosa; in detti bbuccacce (il cui nome penso derivi dal fatto che fossero vasi, come detto, dall’ampia bocca e non, come qualcuno ritiene, dal latino baucale(m) che aveva dato il napoletano bucale in origine boccale per bere e poi sorta di portafiore ) erano opportunamente riposte paste secche dai minuscoli formati, (quali stelletelle, anellette, acene ‘e pepe, semmenze ‘e mellone, sturtine,rosamarina cosí chiamata in quanto formato di pasta avente la medesima forma degli aghi delle pianta di rosmarino etc.), nonché altri alimenti quali: ‘o zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar, ‘a farina dall’omonimo latino farina =farina che è da far = farro, grano janca = bianca dall’ ant. ted. blanch; detta farina bianca era detta anche ‘o sciore dal latino flos con consuento cambio fl→sci usando il medesimo termine che rende in napoletano il fiore (sciore) atteso che la farina bianca rapprenta appunto il fior fiore della macinazione dei cereali, ‘a farenella gialla = farina gialla di granturco (quella usata al nord per preparare polente) usata nella preparazione dei migliacci carnascialeschi che ebbero questo nome poi che in origine furono preparati usando una farina di miglio brillato (miglio in latino fu: mílium donde l’aggettivo miliaceus da cui migliaccio, in bbuccacce piú contenuti era conservato ‘o ccafè = il caffè, rigorosamente in chicchi che venivano , secondo l’occorrenza, frantumati e ridotti in polvere con un apposito utensile detto maceniello = maneggevole macinino meccanico, etimologicamente deverbale del latino machinare che è da machina = macína; talora il caffè era acquistato senza che fosse tostato, ma ancòra verde e la tostatura necessaria prima di procedere alla macinazione, occorreva farla in cucina con l’apposito abbrustulaturo cilindrico utensile di ferro nero provvisto di manovella, di un vano in cui si immetteva il caffè da abbrustolire, protetto da uno sportellino con nottolino di chiusura, alloggiamento inferiore per porvi le braci di combusta carbonella; l’utensile derivava il suo nome da un basso latino: ambustulare frequentativo di amburere = bruciare ai lati; ancòra in altri piú minuscoli bbuccaccielle (diminutivo dei pregressi bbuccacce) trovavano posto le spezie secche o in polvere, quali il pepe nero in grani che veniva ridotto in polvere con un altro deputato piccolo maceniello ovviamente diverso da quello usato per il caffè, ‘a cannella, la noce moscata, ‘e fenucchielle = semi di finocchio, ‘e chiuvetielle ‘e carofano (dal greco karyòphillon che dette prima carofalo e poi per dissimilazione l-r→ r-n carofano )= chiodini di garofano che venivano buoni per qualche noioso mal di denti, arecheta (= origano ) forse dal latino: origanon incrociato con nepeta, gli aghi di rosamarina (=rosmarino) dal latino: ros (rugiada)+ marina(marina) cosí detto per i fiori cerulei della pianta; ricorderò infine conservata in un suo bbuccacciello a chiusura ermetica ‘a póvera ‘e cacavo ( dallo spagnolo cacao con epentesi eufonica della v) = polvere di cacao che veniva usato poche volte all’anno per preparare calde, saporite tazze di cioccolata in occasioni dei genetliaci dei componenti la famiglia; in un ultimo capace bbuccaccio era conservato il sale che veniva acquistato rigorosamente grosso, venduto non in tabaccheria, ma in talune remote drogherie e prelevato dal droghiere, da bianchi sacchetti, marchiati col simbolo del monopolio di stato, con una sassuolina, prima di pesarlo in una dondolante stadera (lat. statíra(m), dal gr. statêra, acc. di statér -êros 'statere', denominazione di un peso e di una moneta) e consegnarlo all’acquirente, rinchiuso in un cuoppo (= cartoccetto conico di carta doppia per lo piú di color grigio chiaro) etimologicamente dalla già vista cuppa(m)← cupa(m) latina; il sale grosso cosí acquistato veniva usato al naturale per salare l’acqua in cui si lessava la pasta; per tutte le altre preparazioni (salvo talvolta per condire pesce e/o verdure (ed allora era addizionato di un congruo numero di erbette secche e/o spezie)) occorreva raffinarlo, renderlo cioè fino; tale operazione poteva avvenire in due maniere: una artigianale ed una piú crismatica; quella artigianale consisteva in: prelevare dal bbuccaccio di pertinenza il quantitativo di sale grosso che si intendeva raffinare, ammonticchiarlo sul tavolo di marmo ben netto, riempire di acqua una bottiglia di vetro doppio, tapparla benissimo, asciugarla accuratamente e con questa sorta di agevole randello, frangere il sale grosso, passando e ripassandovi sopra a lungo finché non lo si fosse raffinato a sufficienza, il sale fino cosí ottenuto veniva raccolto con un cucchiaio e sistemato in un’ampia salera (dal latino sal attraverso l’aggettivo salaria ) di coccio, provvista, per tentare di combattere la naturale igroscopicità del minerale, di un cupierchio (dal latino coperculum) da non confondere con ‘o cummuoglio che è la copertura non dei piccoli utensili, ma di piú ampie entità quali ad es. una scatola per le scarpe o altro, o anche la lignea copertura di macchine domestiche, come quella per cucire; cummuoglio (deverbale da un basso latino: cum+volvjare→cumvoljare→cummoljare→cummuljare→cummiglià fino a dare il nostro cummuoglio; torniamo alla salèra (che come altri utensili di cucina fu inizialmente in terracotta) ed al suo coperchio su cui a mo’ di pomello o maniglia si ergeva una caricaturale statuina riproducente un ridanciano omino: ll’ommo ‘ncopp’â salèra un omuncolo cioè simile ad un tal Tom Pouce, viaggiatore inglese, o secondo altra tesi: nanetto inglese che si esibiva in spettacoli circensi, venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo; fosse un viaggiatore o un pagliaccio, fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono per molti anni a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione paré ll’ommo ‘ncopp’â salèra venne riferita da allora, con tono di scherno, verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto. La maniera piú crismatica di raffinare in casa il sale grosso era quella che prevedeva l’uso d’ ‘o murtale (= mortaio dal latino mortariu(m) con dissimilazione r –l ampio vaso concavo di legno o ferro o ghisa, ma piú spesso di marmo, dalle spesse pareti in cui si frantumano erbe o spezie e qui il sale grosso da raffinare, usando quel che in toscano è detto pestello ed in napoletano pesaturo con evidente sincope di una t di un originario pestaturo deverbale di pestare ( tardo latino pistare iterativo di pínsere con aggiunta del suffisso di scopo turo o alibi tore ). Voglio rammentare – tra gli utensili conservati nel bbuffè o contrabbuffè – per ultimi, ma non ultimi ‘e vasette (dal latino vas con aggiunta del diminutivo etto)contenitori cilindrici in terracotta smaltata o invetriata, di diverse dimensioni, usati per conservare varî alimenti; detti vasi erano sempre privi di coperchio; una volta che fossero stati pieni, la copertura veniva assicurata da uno o piú fogli di carta oleata o paraffinata, fogli poggiati sull’imboccatura, fatti debordare gli angoli con misura e trattenuti con uno o piú giri di spago; per i vasetti piú piccoli in luogo dello spago erano usati dei cedevoli elastici; avevamo ordunque ‘o vasetto d’’a ‘nzogna(= il vaso per la sugna, il gustosissimo condimento che per talune preparazioni veniva usato con o in sostituzione dell’olio; Preciso súbito che la voce napoletana a margine (‘nzogna) che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto. Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns>nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso. Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna. Ordunque la sugna ( che era essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso sottocutaneo della pancia del maiale ed era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo della macellazione dei maiali, in larghe falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una fiamma dolce in un’ampia tiana, con poco sale fino, in compagnia di un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs =quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta ridotta allo stato liquido la sugna veniva fatta intiepidire un poco prima di esser versata in uno o piú vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il tutto con i consueti fogli di carta oleata; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un tempo chi non provvedesse a prepararla in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica (dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú spesso a peso. Procediamo. In altri vasetti piú piccoli si conservavano sotto olio: filetti di alici salate opportunamente dissalati, eviscerati, lavati, ed asciugati superficialmente;in vasetti un po’ piú grandi, ugualmente sotto olio, ma previa bollitura in aceto aromatizzato, si conservavano fette di melanzane condite con aglio affettato sottilmente, origano, pezzetti di peperoncino piccante; con il medesimo condimento e previa identica bollitura in aceto, sempre sotto olio, in un abbastanza grande vasetto si conservava la c.d. cumposta (dal latino: composita p.p. femm. dal verbo componere: mettere insieme, unire) gustosissima miscellanea di piccole falde di peperoni, tocchetti di melanzane,carote tagliate a rondelle, ciuffi di cavolfiore, olive bianche e nere ed altri ortaggi come pezzetti di sedano, in napoletano accio (dal latino: apiu-m con il medesimo evolversi morfologico che à dato il napoletano saccio (so) dal latino: sapio. Tale cumposta prelevata, secondo le necessità con una piccola schiumarola bucata, per manter costante il livello dell’olio nel vasetto, era usata o da sola come stimolante contorno a pietanze di carne o pesce, o come gustoso arricchimento di fresche insalate verdi! E qui penso di poter far punto, non sovvenendomi altro da raccontarvi. Raffaele Bracale

ABBUFFÀ 'A GUALLERA

ABBUFFÀ 'A GUALLERA nella locuzione me staje abbuffanno 'a guallera. Ad litteram: enfiare l'ernia nella locuzione mi stai gonfiando l'ernia id est: mi stai tediando, mi stai oltremodo infastidendo, procurandomi una figurata enfiagione dell'ernia; locuzione che si ritrova con gran risentimento sulla bocca di chi, già tediato di suo, veda aumentare a dismisura il proprio fastidio, per l'azione di un rompiscatole che insista nel suo disdicevole atteggiamento. Ricorderò che il termine guallera (ernia) è mutuato dall'arabo wadara di pari significato e con esso termine il napoletano indica la vera e propria affezione erniale dove che sia ubicata, ma anche per traslato, il sacco scrotale ed è a quest'ultimo che con ogni probabilità si riferisce la locuzione, prestandosi, data la sua sfericità, ad essere sia pure figuratamente gonfiato; la voce verbale abbuffanno= gonfiando, è il gerundio dell’infinito abbuffà che etimologicamente deriva da un latino ad +bufo→adbufo→abbufo→abbuffo= farsi gonfio come un rospo (lat. bufo/onis). Segnalo ora, qui di sèguito altre icastiche locuzioni di medesima portata di quella in epigrafe, locuzioni che vengono usate a secondo il grado del tedio che si prova; la prima, mutuata dall'àmbito culinario, proclama: me staje facenno oppure m’ hê fatto ‘a guallera â pezzaiuola(mi stai facendo oppure mi hai fatto l'ernia alla pizzaiola)pezzaiuola ( e cioè alla maniera del pizzaiolo che in napoletano è pezzaiuolo con derivazione, attraverso i suffissi di pertinenza iuolo/iuola,della voce pizza che etimologicamente qualcuno vuole dal longob. bizzo 'morso, focaccia', ma che io, sulle orme di più moderni studiosi, penso sia piú esatto far derivare dal latino pinsere= schiacciare) quasi che l'ernia fosse possibile cucinarla con olio, pomodoro, aglio, sale, pepe ed origano a mo' di una fettina di carne o altre preparazioni culinarie come pesce e/o verdure ; altra locuzione usata è quella che mutuata dal linguaggio del lavoro d'ebanisteria, proclama: me staje scartavetranno 'a guallera ( mi stai levigando l'ernia con la carta vetrata)dove la voce verbale scartavetranno è il gerundio dell’infinito scartavetrà = carteggiare, denominale di carta vetrata con una consueta protesi di una s intensiva; infine esisite una locuzione che- mutuata dall'ambito sartoriale -nella sua espressività barocca, se non rococò, afferma: me staje facenno 'a guallera a plissé (mi stai facendo l'ernia pieghettata) quasi che fosse possibile trattare l'ernia come una gonna, pieghettandola longitudinalmente in modo minutissimo. plissé è voce fr.; propr. part. pass. di plisser 'pieghettare', deriv. di pli 'piega' ed è entrata tal quale nella lingua napoletana con il medesimo significato di pieghettatura. Raffaele Bracale

‘A VERITÀ È COMME A LL’UOGLIO etc.

‘A VERITÀ È COMME A LL’UOGLIO ASSOMMA SEMPE! Ad litteram: La verità è come l’olio: viene sempre a galla! Affermazione popolare quasi assiomatica,tesa a ricordare che, nella vita,è inutile tentar di nasconderla, giacché per quanto si cerchi di celarla con bugie, falsità, bubbole, balle, sotterfugi, favole, fandonie, frottole, panzane, fole,volontarie o involontarie, la verità affiora sempre, appalesandosi quasi che avesse il medesimo leggero peso specifico dell’olio che versato in un bicchiere d’acqua rimane in superficie e non precipita mai. verità= verità, ciò che è conforme al vero (dal nom. lat. veritas piuttosto che dall’acc. veritate(m) dal quale invece scaturisce l’italiano verità che in origine fu appunto latinamente veritate, il tutto deriv. di vìrus 'vero'; comme= come, alla stessa maniera di, derivato del lat.quomo abbreviazione di quomodo 'in qual modo' con tipico raddoppiamento popolare della m (vedi alibi: ommo←homo,nomme←nomen etc.) e semplificazione del dittongo mobile uo→o cosí come capita nella lingua italiana: buono→bontà, suono→sonata etc.;altre volte invece tale dittongo si semplifica in u (muorto→murticiello, buono→bunariello etc.);rammenterò la particolarità della parlata napoletana che relativamente all’avverbio a margine e ad altri avverbi e preposizioni improprie quali ‘ncoppa (sopra), sotto, ‘mmiezo (in mezzo) richiede sempre l’aggiunta della preposizione semplice a (che comporta la geminazione della consonante iniziale della parola successiva) o delle sue composte â(alla), ô (allo) ê (a gli, alle) per cui si avrà in italiano come te ed in napoletano comme a tte (notasi, come detto la geminazione della consonante t), sopra te o sopra di te ed in napoletano ‘ncoppa a tte, ancóra: in italiano sotto il tavolo ed in napoletano sott’ô tavulo etc. ‘uoglio= olio; in napoletano il sostantivo a margine è neutro (si tratta di un alimento! cfr. Damme chest’uoglio= dammi quest’olio. fosse stato masch. avremmo avuto Damme chist’uoglio); etimo dal lat.tardo *oliu(m) per il classico oleu(m) che è dal gr. élaion con tipica dittongazione popolare d’avvio o>uo e consueto passaggio di l a gl come figlio

'A VARCA CAMMINA E 'A FAVA SE COCE

'A varca cammina e 'a fava se coce. Letteralmente: la barca cammina e la fava si cuoce; id est: gli affari progrediscono ed il sostentamento è assicurato. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica, con il riferimento al cibo in cottura, la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della barca, ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre: se la barca va, la fava cuoce. Il proverbio, che fa riferimento all’attività marinaresca-commerciale, nacque, quasi certamente in paesi della zona costiera lí dove parecchi traevano i loro guadagni o dalla pesca o dai commerci marinareschi. varca= barca ed estensivamente ogni natante più o meno grande adibito al lavoro o al diporto; sost. femm. derivato da un tardo latino barca(m) con consueta alternanza partenopea b/v. cammina = cammina, progredisce ma qui naviga, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cammenà= camminare muoversi, spostarsi da un punto a un altro a piedi; per estens., passeggiare muoversi, avanzare, detto di veicoli, imbarcazioni etc. denominale di cammino che è dal lat. volg. *camminu(m), di orig. celtica; fava = fava pianta erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) (estens.) il seme commestibile della pianta; sost. femm. derivato dal at. faba(m); coce= cuoce, viene a cottura voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito còcere sottoporre al calore del fuoco gli alimenti per renderli mangiabili e digeribili, o sostanze quali vetro, argilla ecc. per renderle adatte a determinati usi: bruciare, ustionare; per estens., seccare, inaridire con derivazione da un basso latino cocere per il class. coquere. Raffaele Bracale

domenica 28 aprile 2013

CAZZABBUBBOLE* CU ‘O PRUSUTTO

CAZZABBUBBOLE* CU ‘O PRUSUTTO (involtini con il prosciutto) Gustosissima preparazione da servire o come antipasto o rompidigiuno o anche come secondo piatto accompagnata da verdure (bietole, cime di broccoli baresi, frijarielle lessate al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, succo di limone o aceto, sale e pepe). *il neologismo (frutto della mia fantasia) cazzabbubbole plurale di cazzabbubbolo nasce, come si può facilmente intendere, (in riferimento alla forma dell’involtino) dall’unione di due voci furbesche di cui la prima: cazza è ovviamente un adattamento divertito del maschile cazzo (che è dal greco marinaresco (a)kation= albero della nave)adattamento resosi necessario essendomi apparso cacofonico cazzobbubbolo, mentre la seconda bubbolo/e è maschilizzazione voluta della voce femminile bubbola/e dall’omonimo fungo (e segnatamente dal suo gambo di cui l’involtino ripete la forma); tale voce cazzabbubbolo è usata però nel mio linguaggio familiare ed in quello di alcuni amici cui l’ò data in... gratuito comodato d’uso non solo per indicare questo gustoso involtino di provola e prosciutto, ma molto piú estesamente e genericamente per indicare un qualsiasi oggetto (che anche non abbia forma di fuso) oggetto che càpiti fra le mani e di cui non si conosca o non si rammenti il nome esatto o la destinazione d’uso. cfr.: Ma ched’è ‘stu cazzabbubbolo? – A che serve ‘stu cazzo ‘e cazzabbubolo? ** la voce presutto traduce l’italiano prosciutto pop. presciutto, s. m. coscia di maiale salata e parzialmente prosciugata perché si conservi a lungo; la voce napoletana deriva da un *pro-suctu(m) modellato su ex-suctu(m)= asciutto. E passiamo dunque alla ricetta: ingredienti e dosi per 6 persone 1 kg di provola fresca(da latte di bufala) affumicata tenuta in frigo per 12 ore e poi tagliata in pezzi rettangolari di circa 80 - 100 g. cadauno di cm. 8 x 3 x 2; 4 etti di prosciutto crudo affettato sottilmente; 6 uova; 1 etto di pangrattato; 1 etto di pecorino grattugiato; 1 etto di farina; abbondante olio per friggere (semi vari o arachidi o mais o girasole); sale fino e pepe nero q.s. procedimento Dopo d’aver tagliato la provola in pezzi della grandezza ricordata , avvolgere attorno ad ognuno di essi una o due fette di prosciutto, ripetendo l’operazione fino ad esaurimento della provola e del prosciutto; aprire in una terrina le uova e sbatterle a spuma aggiungendo due o piú cucchiai di pecorino, pochissimo sale e due pizzichi di pepe; versare l’olio in una padella di ferro nero e portarlo su fiamma sostenuta ad altissima temperatura; nel frattempo rollare nella farina i cazzabbubbole (involtini) approntati, intingerli nelle uova, passarli nel pangrattato addizionato del pecorino residuo e friggerli fino a che siano ben dorati nell’olio ormai bollente; prelevarli con una schiumarola e porli in un piatto su cui avremo steso della carta assorbente da cucina. I cazzabbubbole vanno serviti (come ò detto) o come antipasto o come rompidigiuno, ma anche come secondo piatto (accompagnatI da verdure (bietole, cime di broccoli baresi,frijarielle) lessate al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, succo di limone o aceto , sale e pepe)), pur che siano caldi di fornello! Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo ) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! E, si ve piaceno, diciteme grazzie! ! raffaele bracale

CASTAGNACCIO SALATO O DOLCE ALLA MANIERA CAMPANA

CASTAGNACCIO SALATO O DOLCE ALLA MANIERA CAMPANA Il castagnaccio, è una torta, salata o dolce, di farina di castagne, insaporita a seconda degli usi locali. Si può mangiare caldo o freddo; quello salato si consuma da solo oppure, a preferenza con ricotta o formaggi freschi. Versione salata Ingredienti e dosi per 6 – 8 porzioni: 1 kg di farina di castagna, 1 litro e mezzo di acqua, un cucchiaino di sale fino, 1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f., 1 cucchiaio di strutto, 1 etto di pinoli, 1 etto di gherigli di noci, una cucchiaiata di aghi di rosmarino, pan grattato q.s. procedimento La seguente è la ricetta base più semplice ed antica per ottenere una teglia di castagnaccio di 30x30 cm (36 cm di diametro per una teglia tonda): prendere 1 kg di farina e aggiungere a poco a poco acqua (circa un litro e mezzo) fino ad ottenere una pastella non troppo densa che ancora riesca a colare e ad autolivellarsi. Aggiungere un cucchiaino di sale,mezzo bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f., un cucchiaio di strutto, un etto di pinoli, mescolare bene e versare nella teglia preventivamente unta con un po' d'olio e rivestita di pangrattato. Lo spessore della pastella non dovrà superare i 2 cm. Spargere sulla pastella circa due etti di noci a pezzetti (che in gran parte affonderanno), una cucchiaiata di aghi di rosmarino, un filo di olio e poi mettere al forno a circa 200 gradi per 30-60 minuti; il tempo di cottura varia con la densità della pastella e con il suo spessore. Sarà pronto quando avrà assunto un bel colore marrone scuro e l'impasto, provato con uno stuzzicadenti, risulterà asciutto. La superficie risulterà tutta screpolata.Servire calde o fredde le fette di castagnaccio accompagnate da fette di ricotta o altro formaggio fresco . Versione dolce Ingredienti e dosi per 6 – 8 porzioni: 1 kg di farina di castagna, 1 litro e mezzo di acqua, un cucchiaino di sale fino, 1 etto di zucchero 1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f., 1 cucchiaio di strutto, 1 etto di pinoli, 1 etto di gherigli di noci tritati, 2 etti di uva passita ammollata in acqua tiepida o in del vino dolce (marsala o moscato), 1 etto di cedro candito ridotto a dadini da ½ cm di spigolo, la scorza grattugiata di un arancio sorrentino, la scorza grattugiata di un limone amalfitano o sorrentino un cucchiaio di semi di finocchio, pan grattato q.s. procedimento prendere 1 kg di farina e aggiungere a poco a poco acqua (circa un litro e mezzo) fino ad ottenere una pastella non troppo densa che ancora riesca a colare e ad autolivellarsi. Aggiungere un cucchiaino di sale,lo zucchero, mezzo bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f., un cucchiaio di strutto, un etto di pinoli,i gherigli di noce tritati, la scorza grattugiata di arancio e limone, mescolare bene e versare nella teglia preventivamente unta con un po' d'olio e rivestita di pangrattato. Lo spessore della pastella non dovrà superare i 2 cm. Spargere sulla pastella la dadolata di cedro candito ed i semi di finocchio, un filo di olio e poi mettere al forno a circa 200 gradi per 30-60 minuti; il tempo di cottura varia con la densità della pastella e con il suo spessore. Sarà pronto quando avrà assunto un bel colore marrone scuro e l'impasto, provato con uno stuzzicadenti, risulterà asciutto. La superficie risulterà tutta screpolata.Servire calde o fredde le fette di castagnaccio accompagnate da fette di ricotta. Sia per la versione salata che per quella dolce servire vini bianchi dolci e profumati o rossi giovani. Mangia Napoli, facítene salute! Raffaele Bracale

CARCIOFI DORATI E FRITTI ETC.

CARCIOFI DORATI E FRITTI E/O PARMIGIANA DI CARCIOFI Le due ricette che qui di sèguito illustro sono due dei piú gustosi modi napoletani di preparare i carciofi da servire come antipasto o come contorno;delle due la prima è quella base, mentre la seconda è un ampliamento piú goloso della prima. 1° CARCIOFI DORATI E FRITTI Ingredienti e dosi per 6 persone: 12 carciofi verde-violetto napoletani, 6 uova, 1 etto di pecorino grattugiato, 1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente, farina q.s., abbondante olio per friggere (semi varii,arachidi,girasole, mais), sale fino e pepe bianco q.s.. procedimento Togliere ai carciofi le foglie esterne piú dure e troncare via la parte superiore spinosa. mondare il calice ed il gambo della parte esterna, infine troncare i carciofi dell’eccesso di gambi,dividerle i carciofi in due lungo l’asse maggiore eliminando con uno scavino o un coltellino affilatissimo la barba; indi affettare i carciofi longitudinalmente in fettine dello spessore di ½ cm. rsciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente e scolarli bene; a questo punto sbattere in una ciotola tutte le uova con il pecorino, sale e pepe e trito di prezzemolo; in un tegame a bordi alti mandare a temperatura a fiamma viva abbondante olio per friggere e nel frattempo infarinare abbondantemente le fettine di carciofi, intingerle nelle uove e friggerle poche per volta prelevandole con una schiumarola appena saranno ben dorate ed adagiandole su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso d’unto. Aggiustare di sale e servire, quale contorno o parte d’antipasto questi carciofi caldi di fornello. 2° PARMIGIANA DI CARCIOFI Questa seconda ricetta altro non è che un goloso ampliamento dlla prima, per cui oltre gli ingredienti della prima occorreranno anche i seguenti: ½ litro di passata (fresca o in bottiglia) di pomidoro, 1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p. s. a f., 1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente, sale fino e pepe nero q.s., alcune foglie di basilico, 3 etti di provola affumicata affettata sottilmente (1/2 cm. di spessore) e tenuta in frigo per 12 ore, 1 etto di pecorino grattugiato. Procedimento Una volta dorati e fritti i carciofi cosí come indicato nella prima ricetta, tenerli da parte in caldo; nel frattempo in un tegame a bordi alti approntare a fiamma moderata con l’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,la cipolla mondata ed affettata sottilmente, sale fino e pepe nero uno spesso sugo di pomidoro in circa 15 minuti; al termine prelevare con un mestolino quasi tutto il sugo, lasciandone poco meno di un centimetro sul fondo del tegame, su questo letto di salsa adagiare uno strato di carciofi dorati e fritti, sullo strato di carciofi sistemare delle fettine di provola, del formaggio, del basilico ed altro sugo e continuare con un altro strato fino ad esaurimento degli ingredienti: lo strato superiore dovrà risultare di carciofi e salsa; incoperchiare e passare il tegame a mezza fiamma di fornello, per circa 10 minuti prima di impiatare e servire questa parmigiana come contorno o sostanziosa pietanza. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazzie! raffaele bracale

BRUSCHETTE SAPORITE AL DOPPIO GUSTO

BRUSCHETTE SAPORITE AL DOPPIO GUSTO ingredienti e dosi per 6 persone 12 fettine di pane casareccio bruscate al forno, 2 spicchi d’aglio mondati, ½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f., 1 etto di filetti d’acciuga sott’olio, pepe decorticato macinato a fresco q.s. crema di mozzarella macchiata q.s. per la crema di mozzarella ingredienti e dosi per 6 persone 3 cucchiai di doppio concentrato di pomidoro, 1 bicchiere di olio d’ oliva e.v.p.s. a f. ½ cipolla dorata mondata e tritata, 6 etti di (autentica!) mozzarella di bufala, un gran ciuffo di basilico fresco lavato, asciugato e spezzettato a mano, sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s. procedimento Si comincia approntando la crema di mozzarella nel modo che segue: versare in una padella antiaderente tutto l’olio, aggiungere il trito di cipolla ed a fuoco sostenuto farlo dorare, indi unire il concentrato di pomidoro, scioglierlo con un bicchiere d’acqua bollente, salare e pepare ad libitum e portare a cottura in circa 15 minuti sempre a fuoco sostenuto; mantenere in caldo e nel frattempo cubettare grossolanamente la mozzarella e porre i cubetti ottenuti in un mixer a lame da umido, aggiungere il sugo caldo, il basilico fresco lavato, asciugato e spezzettato a mano e frullare il tutto a mezza velocità sino ad ottenere una spumosa crema. A seguire si bruscano in forno caldissimo (220°) le fettine di pane casareccio e si dispongono su di un piatto di portata, verniciandole velocemente di olio; sempre velocemente si dividono idealmente in due parti tracciando un’ipotetica linea lungo l’asse minore delle fette e su di una metà si dispongono due filetti d’acciuga arrotolati, mentre sull’altra metà si spalma una cucchiaiata di crema di mozzarella servendole poi in tavola calde di forno, cospargendo il tutto di pepe decorticato macimnato a fresco. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve! raffaele bracale

PESCARA - NAPOLI 27/04/13 0 A 3’A VEDETTE ACCUSSÍ

PESCARA - NAPOLI 27/04/13 0 A 3 ’A VEDETTE ACCUSSÍ Missione cumpiuta pure ajeressera guagliú! Missione cumpiuta pecché s’êva vencere pe custringere ‘o Milàn(no) a ccorrerce appriesso e pe nun permettere â rubbentus(sa) ‘e festiggià primma d’ ‘o tiempo n’atu scutetto, ma soprattutto pe cunfermarce ô siconno posto ‘ncrassifica, e mantenercelo ‘stu beneditto posto ca mo comme a mmo è ‘o mmassimo ca se po’ uttené visto ca tenimmo ‘mpanca a Wallerettino Erode Mazzarri e soprattutto visto ca De Chiacchiaroniis cuntinua a ccuntà dint’ ô Palazzo quanto ô doje ‘e coppe a bbriscula, quanno ‘o triunfo è a mmazze!’Nzomma ajere, pure si se scennette ‘ncampo orfane ‘e Cavani e soprattutto ‘e Behrami, s’êva vencere e se vincette anze se stravincette espallanno (dilagando) e facenno ‘e valle ‘ncopp’â mmunnezza contr’ â scuatra urdema ‘ncrassifica e se trattaje cumplessivamente ‘e ‘na vittoria senza se e senza ma; però ‘o Napule se pigliaje tutto ‘nu primmo ajone, dicimmo, ‘e studio, ‘nu primmo ajone,dicimmola comm’è, ‘nu poco ammurbante primma ‘e riuscí a ppiazzà ‘a stuccata bbona e pprimma ‘e po fà ‘a sbrasata nfi’ ô finale ‘e fullé nchiudennolo ‘ncopp’ ô tre a zzero purtannose â casa tre punte senza discussione, accussí comme ’nu siconno posto,ca pare sempe cchiú sicuro. Passammo ê ppaggelle: DE SANCTIS 6,5 Justo ‘nu paro ‘e liturgíe (interventi) ‘a tené a mmente, ma servettono a mantené ‘a porta nchiusa!. CAMPAGNARO 6,5 ‘O solito Toro ‘nfase difenziva se facette apprezzà pure ‘nfase prupusitiva facenno spazzio ‘ncopp’â curzia ‘e dritta. CANNAVARO 6 Fullé senza prubbleme e senza preoccupazzione;avette a cche ffà cu ‘na meza cazetta comme Sforzini e riuscette a metterle ‘a musarola. BRITOS 5,5 Dinto a ‘nu fullé bastantamente plàceto (tranquillo) riuscette a sse fà ammuní e a arresecà ‘e fà signà a cCaprari e ppe cchesto nun pozzo darle ‘e cchiú! MAGGIO 5,5 Manco ajeressera contro ê si’-nisciuno d’ ‘o Pescara turnaje a essere ‘o jucatore ‘e ‘na vota e ssulo ‘na grama vota lle riuscette ‘e fà ‘na cosa bbona favurenno ‘a rredda ‘e Pandev(vo).Troppo tarde Mazzarri ‘o levaje. (dô 77° MESTO sv) DZEMAILI 7,5 Finalmente ‘nu jucatore ca ce crede,ca sape chello ca vo’, ca se fa apprezzà e rispettà; ‘nu primmo ajone ‘e granne spessore tecnico-tattico e ppo ‘a cerasella ‘ncopp’ô gattòmariaggio cu ‘na cagliosa ca fuje ‘nu punto ammirativo e nchiudette ‘o fullé. INLER 7 ‘A panca lle facette bbuono; assenziale, ma priciso e mmesurato stanno largo a ddritta ammenestaje pallune assaje periculuse a ccentro, ma nun truvajeno furtuna; allora decidette ‘e penzarece a ppe isso cu ‘nu puràulo (missile) ‘a vinte metre deviato chellu ttanto pe ffottere a pPelizzoli. lLe fa bbene pure ‘o Pescara: cumplessivamente tre rredde contro ‘e guagliune ‘e Bucchi. ZUNIGA 6,5 Pe sta a ssèntere a mMazzarri ‘e cuane jucajeno ‘o primmo ajone inutilmente ‘ncopp’â curzia ‘e Maggio, ma Zuzzú sinamparco (comunque) ogni vvota ca fuje chiammato ‘ncausa s’ ‘a vedette ‘e bbello. gGià dô principio n’ato trainer(ro) ll’êsse fatto jucà a ddritta ô posto ‘e Maggio mettenno ‘ncampo a mmancina a Armero;Mazzarri, ca nun se sente ‘e fà ‘e ccorna a Christian nun ‘o facette. (dô 62° ARMERO 6,5 Trasette troppo tarde, ma se facette subbeto apprezzà mettennoce ‘o suĵo cchiú ‘e ‘na vota puntanno ‘a porta e soprattutto facenno ‘nu pulitelico (prezioso) velo ca libberaje a dDzemaili p’ ‘o tiro d’ ‘a terza rredda). HAMSIK 6,5 Esaltaje ‘o pubblico cu ‘na rasulata a mmità ‘e primmo ajone e pPelizzoli ce mettette ‘na granna pezza. Po cuntinuaje a dispenzà juoco comme sape fà isso cu ‘ntelliggenza e perzunalità; è oramaje pronto p’addiventà ‘o masto (leader) ‘ncuntrastato ‘e chesta scuadra. Sperammo sulo ca mo De Chiacchiaroniis doppo ‘e Cavani nun se leva pure a mMarekiaro. PANDEV 7 Êss’ ‘a metterce ‘o marchio ‘e fraveca a cchella rredda soja o depositarla a ll’ufficio brevette: stuppaje,se ggiraje a strummolo e futtette a pPellizzoli cu ‘nu diacunale priciso e tassuso (veloce).Tutto into a mmanco ‘nu metro cuatrato! (Dô 79° CALAIÒ sv) INSIGNE 6 ‘A rredda ‘a signaje pure, ma partette ‘nnúrzo ‘e cóse (in fuorigioco) ‘e ‘nu paro ‘e metre e ll'arbitro, ca nun se nn’era addunato, cunzigliato dô segnalinee, giustamente annullaje. Po ‘o guaglione cuntinuaje a cce pruvà, ma cu scarsza furtuna: retissante (clamorosa) ‘na ‘ncurnata ‘a pochi metre cuntrarrestata ‘e bbrutto (neutralizzata alla grande) ‘a Pelizzoli. ALL. MAZZARRI 6- Vittoria êva ‘a essere e vittoria fuje, ma che fatica, soprattutto pecché se ‘nfessette cu mMaggio a ddritta , tenenno ‘mpanca a Armero, addó êsse pututo mettere Zuniuga a dritta e Armero a mancina e forze ggià dô primmo ajone [ca ‘o Pescara jucaje nchiuso a rriccio] se fósse sbluccato ‘o fullé senza aspettà ca Inler(ro) se decidesse a ccentrà ‘a porta cu ‘na cagliosa preputente.è overo ca doppo d’ ‘a rredda d’ ‘o turco-napulitano tutto fuje cchiú facile, ma no pe bravura ‘e Mazzarri!’Nzomma nun fuje proprio ‘na passiata, ma cu uno comme Mazzarri ‘e cchiú nun se po’ sperà.Ringrazziammo ô Cielo pure si ‘ncampiunato ce avimmo accuntentà d’ ‘o siconno posto. Purtroppo! Arbitro ROMEO 5,5 ‘E primmu lanzo, cosa ‘a nun credere!, cunvalidaje ‘na rredda ‘e Insigne partuto ‘nnúrzo ‘e cóse (in fuorigioco) ‘e ‘nu paro ‘e metre, ma po cunzigliato (a maleparole) dô segnalinee, giustamente annullaje, ma ‘a brutta fijura ggià ll’êva fatta! P’ ‘o riesto urdinaria amministrazione. E cu cchesto ve saluto e ssi dDi’ vo’ ce sentimmo llunnerí ca vène. Staveti bbe’! R.Bracale Brak

sabato 27 aprile 2013

MERENDA & dintorni.

MERENDA & dintorni. Con la voce merenda, in lingua italiana si intende un piccolo asciolvere, uno spuntino che si fa nel pomeriggio, fra il pranzo e la cena e che – di solito – è di pertinenza di bambini e ragazzi ; con lo stesso termine si intende poi anche, il cibo che si mangia in tale occasione; in generale tale contenuto desinare resta circoscritto a poche fette di pane, magari tostato spalmate di burro, marmellate o creme dolci o accompagnate da modesto sbrigativo companatico come affettati misti o formaggi; talvolta la merenda dei bambini è costituita da una fetta di torta dolce o di focaccia salata; al proposito mi piace di ricordare un’espressione d’uso familiare che suona: entrarci come i cavoli a merenda, riferito a cosa o argomento che non à nulla a che vedere con le cose o gli argomenti di cui si stia parlando in un determinato momento; da tale espressione si evince che un ortaggio come il cavolo (broccolo) dal sapore intenso ed alimento di laboriosa digestione mal si concilia con il contenuto desinare di una merenda che – come ò detto – di solito è costituita da fette di pane (magari tostato) ed ingredienti graditi al palato ed appetibili come burro, creme dolci, marmellate e/o affettati misti. Il termine merenda deriva dal lat. merenda, propr. neutro pl. del gerundivo di meríre 'meritare'; propr. 'cose da meritare' quasi che quel modesto desinare fatto tra pranzo o cena non fosse dovuto, ma bisognerebbe meritarlo!... E tutto questo riguarda la lingua italiana. Passiamo ora al piú pregnante idioma napoletano dove la parola merenda , pur presente nella morfologia di marenna (che etimologicamente è l’adattamento partenopeo del gerundivo lat. neutro pl. merenda→marenna inteso femm. sg. con tipica assimilazione progressiva nd→nn),pur presente nell’idioma napoletano non indica il piccolo asciolvere, lo spuntino che si fa nel pomeriggio, fra il pranzo e la cena e che – di solito – è di pertinenza di bambini e ragazzi spuntino circoscritto a poche fette di pane, magari tostato spalmate di burro, marmellate o creme dolci o accompagnate da modesto companatico come affettati o formaggi misti, o talvolta costituito da una fetta di torta dolce o di focaccia salata, non indica – dicevo – tutto ciò, ma altro di cui qui di seguito dirò.In pretto napoletano infatti il contenuto, piccolo asciolvere e/o spuntino fatto da adulti o ragazzi prende il nome di ‘mpustarella soprattutto quando lo spuntino si sostanzi in due semplici fette di pane con del companatico ad esse inframmezzato; la voce ‘mpustarella è derivante da un in (illativo)+ il latino positam con un doppio suffisso femm. r +ella che sostantivizza il part. pass. positam che è da ponere= porre, mentre l’in d’avvio, che davanti all’esplosiva p si aferizza in ‘m,indica appunto che il companatico è posto dentro il pane; torniamo alla voce marenna con la quale in napoletano non si indica lo spuntino, ma - come già riportato nell’antico D’Ambra che parlò di reficiamento (inteso come ristorazione) degli opranti - identifica un sostanzioso, spesso pletorico pasto da asporto consumato dagli artieri e/o operai, pasto consistente in un pezzo di pane ( a preferenza ricavato dal palatone che è il grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, ed il cui nome di palatone gli deriva dal fatto che al momento di infornarlo, detto filone occupa per intero la lunga pala usata alla bisogna), pezzo di pane abbondantemente farcito spesso con companatico opportunamente ricco di sugo (salse o condimenti) per far sí che il pane si ammorbidisca e sia facilmente addentabile anche dai piú anziani senza dover far ricorso ad un coltelluccio a serramanico con il quale tagliare via via piccoli bocconi di cui cibarsi; in pratica la marenna era ed ancóra è talvolta costituita da un cono ( cioè una delle due punte di un palatone, palata (il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare) o cocchia ( che sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato da due palatelle(piccoli filoncini da 500 o 250 gr.) accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito pur mantenendo la pezzatura di 1 kg. corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma distintiva un po’ piú larga ma meno lunga della palata (etimologicamente cocchia è dall’acc.vo lat. cop(u)la(m)→copla(m)→cocchia)) dicevo che in pratica la marenna era ed ancóra è talvolta costituita da un cono scavato della mollica per ottenerne un foro in cui alloggiare carni in umido o polpette al sugo,sasicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frígere);,baccalà in cassuola oppure peperoni imbottiti o altri ortaggi (peperoncini verdi, melanzane a spaccatella, puparuole quadrilobati o pipere conici (puparuole←peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle (la papaccella è un peperone semipiccante basso e plurilobato: voce da un basso latino pipericella→piparicella→ paparicella→paparcella→ papaccella) dint’â tiella (peperoni quadrilobati o conici semplicemente fritti in padella, ma spesso ( cfr. peperoncini e melanzane) conditi o con una salsa di pomidoro o fondo di frittura che ammorbidisca ad hoc il pane;il cono di mollica estratta veniva/viene intriso di sugo e posto a mo’ di tappo del foro; talora, ma ciò avveniva/avviene quasi sempre per la marenna degli artieri piú giovani il pezzo di pane invece d’essere una delle due punte di palatone, di palata o di cocchia scavata della mollica, era/è una contenuta barchetta ricavata dalla parte centrale del filone, privata di un po’ di mollica e farcita con frittate di semplici uova o con affettati poveri: mortadella, prosciutto cotto, pancetta arrotolata spesso in coppia con provolone piú o meno piccante; il fatto che i companatici fossero o siano piú asciutti, senza sughi o condimenti eccessivi si confaceva e confà alle migliori dentature dei giovani artieri che potevano/possono piú facilmente addentare pezzi di pane crocchianti.Oggidí però che anche la produzione del pane è notevolmente peggiorata ed è difficile trovare dei fornai capaci di produrre buoni palatoni, o palate o cocchie, i pochi artieri (che ancóra ànno la sana abitudine di portarsi da casa il loro pasto da asporto quotidiano senza far ricorso ai costosi panini farciti venduti in salumeria o in attrezzati bar),si contentano per la loro marenna di infimi panini(rosette) , marsigliesi e/o ciabatte che sono tutti formati di pane molto contenuti, monoporzioni adatti ad essere consumati farciti di salumi o formaggi o, al massimo di frittate, ma non più di carni o polpette in umido, peperoni e/o altri ortaggi; alla luce di tale impoverimento del companatico rammenterò una icastica locuzione partenopea che suona:À fatto marenna a sarachielle. Cioè: À fatto merenda con piccole salacche affumicate – riferito a quelle situazioni incresciose in cui qualcuno in luogo di avere un congruo, atteso ritorno del proprio solerte operare si è dovuto accontentare di ben poca cosa; in effetti una merenda (quale pranzo da asporto) che fosse costituita da un po’ di pane con qualche filetto di salacca affumicata anche se accompagnati da anelli di cipolla ed irrorati d’olio d’oliva e.v.p. s. a f. sarebbe veramente una povera cosa; sarachielle s.vo m.le pl. di sarachiello che è il diminutivo maschilizzato (per significare la contenutezza dell’oggetto di riferimento: in napoletano infatti un oggetto che sia femminile diventa maschile se diminuisce di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo);fanno eccezione caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo)), dicevo che sarachiello è il diminutivo (vedi i suff. i+ ello maschilizzato di sàraca= salacca, aringa affumicata; la voce sàraca etimologicamente è da collegarsi ad un tardo greco sàrax (all’acc.vo sàraka) che trova riscontri anche nel calabrese sàrica e nel salentino zàrica. Ed a questo punto penso di poter dire il fatidico satis est e mettere il punto fermo. Raffaele Bracale