sabato 31 agosto 2013

BASTONARE, PERCUOTERE

BASTONARE, PERCUOTERE Questa volta faccio sèguito ad una richiesta dell’amico G.S. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) che, soddisfatto di quanto alibi scrissi sui termini che rendevano in napoletano le voci percosse,bastonature etc. mi à chiesto di occuparmi delle voci italiane in epigrafe, di indicargli altri eventuali sinonimi ed ovviamente i verbi che nel napoletano,li rendono. L’accontento illico et immediate cominciando a parlare del verbo bastonare e dei sinonimi percuotere, colpire, pestare, menare cui farò seguire i verbi napoletani cominciando da vattere per passare poi ai tanti sinonimi che mi son noti dicendo sia di quelli vivi e vegeti che di quelli antichi e desueti. Cominciamo dunque con bastonare v. trans. in primis 1. Percuotere con il bastone; fam.2. picchiare in genere: bastonare di santa ragione, picchiare sodo, con energia; bastonare alla cieca, dare colpi forti senza badare dove né su chi cadono; ant. scherz.3. andare a bastonare i pesci, essere condannato al remo, nelle galere. 4.anche rifl. con valore reciproco: si sono bastonati a sangue. 5. figurato, non comune maltrattare a parole: bastona tutti con quella sua linguaccia. Con altri sign.: bastonare il pianoforte, suonarlo male e in modo sgraziato; bastonare una cosa, farla male, come viene viene. il part. pass. bastonato, usato anche come agg., spec. in alcune frasi: sentirsi bastonato o come bastonato, con le ossa e i muscoli indolenziti, oppure anche avvilito, mortificato; stare mogio mogio come un cane bastonato. voce etimologicamente denominale di bastone (dal lat. bastome-m); percuotere, v. trans. 1. Con soggetto di persona, battere, colpire un’altra persona con la mano, con i piedi o con un oggetto qualsiasi, con l’intenzione piú o meno cosciente di far male, o per altro scopo: percuotere qualcuno con un potente manrovescio, con un pugno, con una serie di calci, con un bastone, con un sasso, con una spranga di ferro; con uso assol., picchiare, malmenare: il malcapitato fu percosso duramente. 1.a Con riferimento a oggetti, a superfici varie, colpire battendo: percuotere il tavolo con un martello (o con una serie di martellate); percuotere l’acqua con i remi; percuotere il tamburo, il timpano, il tam tam, con la mazza, le bacchette, o con le palme delle mani, per trarne suoni; anche di altri strumenti musicali, in cui le corde siano messe in vibrazione mediante percussione: percuotere con poca grazia i tasti del pianoforte; percuotere col plettro le corde della lira; calpestare, battendo con forza i piedi sul terreno; piú genericam., come sinonimo, (meno comune o letterario) di battere: percuotersi il petto, in segno di dolore, di pentimento, o come pratica devozionale; 1.bfig., letter., percuotere l’aria, farla risuonare con voci, grida e sim., oppure metterla in vibrazione sferzandola con violento e rapido movimento di oggetti; 2. In esempî ant., anche con il compl. oggetto del mezzo con cui si colpisce: passeggiando tra le teste, Forte percossi ’l piè nel viso a una (Dante). 3. estens., letter. Ferire, uccidere: 4. a. Riferito a soggetto inanimato, colpire con forza un altro oggetto, o, in genere, andare a urtare un altro corpo: la punta del percussore percuotendo la capsula ne provoca l’esplosione; la quercia fu percossa dal fulmine; le onde che ritmicamente percuotono gli scogli. Con altra costruzione, mandare a battere qualche cosa contro un’altra, spingere o gettare contro: si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barbaria la percosse [la galea] (Boccaccio). b. Per estensione, di suono o altra sensazione che impressioni in modo piuttosto violento un organo di senso, in partic. l’udito: percuotere le orecchie di qualcuno (meno com., percuotere qualcuno nell’orecchio), con urla, suoni sgraziati, ecc.; son venuto Là dove molto pianto mi percuote (Dante) 5. fig., letter. a. Colpire, cioè affliggere, duramente con disgrazie, malattie o altri gravi danni materiali o morali, o anche turbare con fenomeni, fatti o notizie di avvenimenti atti a determinare improvviso abbattimento o smarrimento: la popolazione era stata percossa da molteplici sciagure; il flagello del colera à nuovamente percosso la regione; [Giove] contristò di modo le menti degli uomini e percossele di cosí fatto orrore, che eglino ... ricusarono di adorarlo (Leopardi); spesso con aggiunta all’idea della gravità la connotazione della repentinità e della sorpresa: è stato percosso da improvvisa pazzia; o quella della punizione severa: la giustizia umana à percosso in questo mondo; la giustizia divina percoterà, se crede, nell’altro (Guerrazzi). b. Provocare in qualcuno una forte emozione, un vivo turbamento, un sentimento intenso, di sorpresa, meraviglia, paura, ecc.: Ecco il roveto che Mosè percosse D’alto stupor (Chiabrera); percosso il Califfo da questa verità, di nuovo ricevette nella sua grazia l’uomo giusto (G. Gozzi); il qual gastigo percosse di spavento i partigiani dei Normanni (Amari); nel Paradiso Terrestre Dante è percosso dalla vista improvvisa di Beatrice (Papini). 4. Nel linguaggio finanz., assoggettare a tassazione; quasi esclusivam. nell’espressione contribuente percosso da un’imposta, il cittadino che, trovandosi nelle condizioni previste dalla legge fiscale relativa, è tenuto a pagare l’imposta al fisco, anche se attraverso la traslazione riuscirà poi a farne rimbalzare l’onere su altri, che diventeranno i contribuenti di fatto. 5. letter. Con uso intr. (aus. avere), andare a battere, urtare, cozzare: In questa altezza ch’è tutta disciolta Ne l’aere vivo, tal moto percuote (Dante); con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia [la cocca] percosse in una secca (Boccaccio); la fanciulla ... cadde percotendo di roccia in roccia (Tarchetti). Per estens., con riferimento al Sole o ad altre sorgenti luminose: Percuote il sol nel colle, e fa ritorno (Ariosto); il rossore della fiamma insistentemente percoteva su una gran brocca (D’Annunzio). Il part. pres. percotènte, raro, è talora sostituito dal latinismo percuziènte voce etimologicamente dal lat. percŭtĕrecomp. di per-e quatĕre «scuotere»; colpire v. trans.e intrans. 1. Percuotere, battere, ferire con uno o piú colpi: colpire con la spada, con un bastone, con un pugno; fu colpito in fronte da un sasso; la tegola l’à colpito sulla testa; una palla nemica lo colpí al cuore;colpire, non colpire il bersaglio; nel calcio, colpire il pallone di piede, di testa, al volo. Anche con uso intr. o assol.: colpire nel segno; colpire dove càpita. 2. figurato a. Recare grave danno, materiale o morale: le loro calunnie miravano a colpire soprattutto i dirigenti dell’istituto (o la loro onorabilità); ricorrevano ad ogni mezzo per colpire i loro avversarî politici; o ferire nell’intimo, provocare grave dolore: il suo comportamento mi colpisce profondamente; essere colpito nei proprî affetti piú cari (per es., per la morte di un congiunto); colpire uno con un’allusione, con un discorso, mirare a danneggiarlo, o a irritarlo, riuscendo a ottenere l’effetto voluto; colpire uno nel vivo, in ciò in cui è piú suscettibile: quella frase l’à colpito nel vivo (è piú che toccato nel vivo, perché chi è toccato è soltanto irritato e si rivolta, chi è colpito si riconosce sconfitto). b. Di un tributo, gravare: l’imposta colpisce soprattutto i piccoli proprietarî; i profitti di guerra furono colpiti da una forte imposta. c. Di una disposizione di legge e sim., essere rivolta contro qualcuno o qualche cosa: provvedimento che colpisce soprattutto il contrabbando, o i contrabbandieri. d. Sottoporre a pene, infierire su qualcuno: il governo oppressore colpiva duramente chiunque fosse sospetto di cospirazione. 3. Con altro uso fig., fare profonda impressione: rimase colpito dalla stranezza del racconto; mi colpí profondamente la notizia della sua morte; fui colpito da tanta audacia; egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca (Manzoni). voce etimologicamente denominale di colpo (basso lat. colpu-s, per il class. colăphus «pugno, percossa», gr. κόλαϕος ); pestare v. trans. 1. battere qualcosa con un attrezzo in modo da triturarla o ridurla in polvere: pestare il sale, il pepe; pestare la carne, per ridurne lo spessore ' pestare l'acqua nel mortaio, (fig.) compiere uno sforzo inutile 2. schiacciare col piede, calpestare: pestare un mozzicone acceso; pestare l'uva, pigiarla ' pestare i piedi, i calli a qualcuno, (fig.) agire in modo da disturbarlo o danneggiarlo ' pestare i piedi (in terra), batterli ripetutamente contro il terreno per scaldarli o in segno di stizza | pestare le orme di qualcuno, (fig.) seguirne l'esempio 3 (estensivamente come nel caso che ci occupa) picchiare, riempire di percosse: l'ànno pestato sodo | pestare il pianoforte, (scherz.) suonarlo male voce etimologicamente dal lat. tardo pistare, iterativo di pinsere 'battere'; menare v. trans. 1. (lett. o region.) condurre, portare: menare il cavallo per la cavezza; questa strada mena alla stazione | menare il can per l'aia, (fig.) tirare le cose in lungo, senza concluderle | menare qualcosa per le lunghe, (fig.) rinviarla nel tempo, spesso con malafede | menare qualcuno per il naso, (fig.) ingannarlo, prenderlo in giro, fargli fare o credere quel che si vuole | menare vanto di qualcosa, (fig.) vantarsene | menare rumore, (fig.) far parlare di sé | menare buono, (fig.) portar fortuna | menare a capo, a effetto un lavoro, (lett.) condurre a termine | menare la danza, guidarla; (fig.) farla da padrone in una situazione 2. trascorrere, passare, vivere: menare una vita, un'esistenza modesta 3 muovere rapidamente, agitare: menare la coda, scodinzolare | menare le mani, picchiare | menare la lingua, (fig.) sparlare 4 assestare, dare con forza: menare un colpo, un ceffone 5 (fam. come nel caso che ci occupa) picchiare: se non la smetti, ti meno menarsi v. rifl. reciproco (fam.) picchiarsi: si sono menati di santa ragione. Esauriti, o quasi, con queste voci la trattazione dei verbi italiani sinonimi di bastonare, passiamo al napoletano principiando da vàttere v. tr. 1. picchiare, colpire, percuotere con le mani o con un arnese; 2. (fig.) insistere: vatte sempe ‘ncopp’â stessa cosa!(batte sempre sulla medesimo argomento!) 3 (fig.)lottare, combattere: vatterse pe n’idea (combattere per un’idea) 4(fig.pop.poco usato)prostituirsi per istrada; vattersela, (fam.) andar via all'improvviso, svignarsela; voce etimologicamente dal lat. tardo battere→vattere, per il class. battuere E veniamo ai numerosi, circostanziati sinonimi che sono: ammartellà v. trans. (in primis e ad litteram)1.. martellare, colpire ripetutamente con un martello, lavorare, foggiare a colpi di martello; 2. (per est. come nel caso che ci occupa) colpire, prendere a botte, picchiare, malmenare, pestare; 3. (ling. tecnico) battere moneta, coniare; voce etimologicamente denominale di martiello (dal lat. tardo martĕllu(m), variante del class. martulus o marculus, dim. di marcus 'martello) con protesi di un ad→am intensivo; l’am è dovuta appunto ad un assimilazione regressiva dell’ad. anteposta alla m di martiello. ammaterazzà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. battere ripetutamente, a mani nude o con una verga i materassi al fine di sommuoverne i bioccoli di lana; operazione compiuta un tempo ogni volta che si rifacevano i letti per modo che la lana dei materassi fósse sempre smossa e non si ammassasse rendendo duro il saccone e riducendolo uno strapunto; 2. (per est. come nel caso che ci occupa) percuotere, colpire piú volte con colpi ravvicinati ripetuti e continuati; voce etimologicamente denominale di matarazzo (dall’arabo matarah) con protesi di un ad→am intensivo; cardà v. trans. (in primis e ad litteram) cardare, parallelizzare le fibre tessili in fiocco, naturali (p. e. lana, cotone, canapa) o artificiali (p. e. raion), con lo scardasso manuale o con la carda ; operazione compiuta un tempo annualmente per rigenerare, rifare i materassi di lana o di canapa usati dalle famiglie e/o comunità; (per est. come nel caso che ci occupa) percuotere qualcuno cosí violentemente tanto da, iperbolicamente,districarne e pulire l’insieme della produzione epidermica filiforme e flessibile, costituita da cellule, sostanza cornea e fibre connettivali; infatti in tale accezione s’usa dire cardà ‘o pilo; cardare è voce etimologicamente denominale di cardo ( dal lat. tardo cardu(m), per il class. carduus) pianta le cui infiorescenze uncinate si usavano per cardare la lana; dissussà v. trans. (in primis e ad litteram)1. disossare, levare le ossa a un animale macellato e cucinato : dissussà ‘nu pullasto (disossare un pollo) 2. ( per estensione) separare il nocciolo dalla parte polposa di un frutto: dissussà ll’aulive (disossare le olive) 3. (per enfasi come nel caso che ci occupa) percuotere qualcuno tanto violentemente da levargli iperbolicamente, le ossa; voce etimologicamente denominale di uosso (dal lat. tardo ŏssu(m)→uosso, per il class. ŏsŏssis) con prostesi del prefisso distrattivo dis. lazzarià v. trans.ed intr. (in primis e ad litteram, transitivamente) 1.conciar male qualcuno, piagarlo a forza di percosse a tradimento; 1. ( per estensione intransitivamente) commettere azioni volgari e/o riprovevoli; nel significato sub 1 la derivazione etimologica fa capo alla figura evangelica di quel Lazzaro che piagato mendicava prostrato ai piedi del ricco epulone; nel significato sub 2 la derivazione etimologica fa riferimento ai lazzari/lazzaroni che componevano la plebe filoborbonica schierata con il legittimo sovrano Ferdinando I di Borbone(Ferdinando Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto; Napoli, 12 gennaio 1751 – †Napoli, 4 gennaio 1825) al tempo della invasione francese del 1799; manteà v. trans. (in primis e ad litteram) 1.sbalzare verso l’alto, sballottolare; 2. (per estensione come nel caso che ci occupa) percuotere ripetutamente a mani nude qualcuno maltrattandolo, strapazzando e malmenandolo fino a fargli perdere l’equilibrio; voce etimologicamente dall’iberico mantear; mazzià v. trans. (in primis e ad litteram) 1.percuotere qualcuno ripetutamente a mani armate di bastone o altro corpo condundente; 2. ( per estensione) percuotere qualcuno velocemente e continuamente anche a mani nude somministrandogli tante di quelle percosse da impedirgli di reagire; voce etimologicamente denominale di mazza ( dal lat. volg. *mattea-m) con infisso durativo j→i usato per significare la continuità dell’azione espressa dal verbo; ’ntummacà /‘ntummà v. trans. doppia morfologia d’un’unica voce (la seconda è una semplificazione della prima attraverso la sincope della sillaba ca ; verbo, nella doppia morfologia, sinonimo esatto del precedente nei due significati, ma con la specificità qui che dall’azione del percuotere ne derivano nella vittima enfiagioni diffuse; voce etimologicamente dal lat. intummicare→ (i)ntummicare→’ntummicà→’ntummacà= render tumido; ‘nzagnà v. trans. (in primis e ad litteram)1. salassare, cavar sangue; 2. ( per estensione come nel caso che ci occupa) picchiare, malmenare, pestare qualcuno a mano nuda o armata sino a ferirlo a sangue; 3. ( figuratamente) spillare, far spendere molto denaro; voce etimologicamente dal lat in + sanguinare attraverso il francese saigner palïà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. colpire ripetutamente e continuatamente qualcuno con un palo o altro corpo condundente; 2. ( per estensione) bastonare qualcuno lungamente in qualsiasi maniera, sottoporlo ad una durevole serie di percosse; voce etimologicamente denominale di palo( dal lat.palu-m ) con l’infissione di una ï durativa scuffà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. slombare, sfiancare, affaticare 2. ( per estensione) bastonare, colpire qualcuno con una pesante verga e farlo segnatamente ai lombi per fiaccarne la resistenza; voce etimologicamente da un lat. volg. *exuffare; scuffïà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. disvelare, mettere a nudo, palesare 2. ( per estensione) malmenare lungamente a mani nude, détto segnatamente di una donna alla quale a suon di ceffoni venga fatta saltar via la cuffia che un tempo le popolane solevano indossare quando volessero scimmiottare le borghesi; una donna privata della cuffia era; voce etimologicamente denominale di cuffia (dal lat. tardo cufia(m), di orig. germ) con prostesi di una s distrattiva ed infissione di una ï durativa scutulià v. trans. (in primis e ad litteram) 1. scuotere,agitare, sbatacchiare, scrollare; 2. ( per estensione) bastonare qualcuno con ardore, ed aggressività a mani nude agitandolo veementemente; voce etimologicamente da un lat. volg. *excut-ul-i-are(con doppio infisso e cambio di coniugazione) collaterale del class. excútere scucuzzà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. rompere, fracassare la testa 2. ( per estensione) percuotere qualcuno a mano armata e colpirlo alla testa nell’intento di rompergliela; voce etimologicamente denominale di cucozza (letteralmente zucca e per traslato testa dall’acc. tardo latino cucutia(m)) con prostesi di una s distrattiva; scutenà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. scotennare, spellare, scorticare; 2. ( per estensione iperbolica ) picchiare qualcuno a mano nuda o armata con tanta violenza sino a toglierne la pelle di dosso; voce etimologicamente denominale di cútena per cótena ( cútena/cótena è dal lat. volg. *cutinna(m), deriv. di cutis 'pelle, cute'(letteralmente cotenna del maiale e per traslato giocoso o spregiativo pelle dell’uomo) con prostesi di una s distrattiva; sfascià v. trans.(in primis e ad litteram) 1. togliere la fascia o le fasce, liberare dalla fasciatura: sfascià ‘o criaturo (sfasciare un neonato); sfasciarse ‘o vraccio feruto, ‘o pere slugato sfasciarsi il braccio ferito, il piede slogato. 2. (figuratamente) sconquassare, rompere: sfascià ‘na seggia(sfasciare una sedia) sfascià ‘a capa a quaccuno (sfasciare la testa a qualcuno), 3.(fig. fam. come nel caso che ci occupa) picchiarlo violentemente sino a ferirlo costringendolo a fasciarsi; voce etimologicamente denominale di fascia ( dal lat. fascia(m), da fascis 'fascio') con prostesi di una s distrattiva nelle prime due accezioni; nella terza accezione la s da distrattiva è da intendersi intensiva; smazzà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. sodomizzare, rompere il sedere 2.(per estensione come nel caso che ci occupa) picchiare qualcuno a mani nude o armate tanto veementemente da procuragli, sia pure iperbolicamente e/o figuratamente, la rottura del fondoschiena; voce etimologicamente denominale di mazzo (= culo, fondoschiena dal lat. matea= intestino) con prostesi di una s distrattiva sfessà v. trans. bastonare, percuotere, ridurre a mal partito,fiaccare, indebolire, rendere, a suon di percosse fiacco, esausto, sfinito, sfiancato, spompato; voce etimologicamente denominale dell’agg.vo lat. fessus – a – um = stanco con prostesi di una s intensiva; sunà v. intrans.e trans. quale intransitivo a. Produrre, mandare, emettere un suono, dei suoni con riferimento soprattutto a strumenti musicali, a campane, campanelli e altri dispositivi acustici; b. riferito a oggetti varî, dare, avere un determinato suono: siente comme sona malamente ‘sta muneta, pare faveza!(senti come suona male questa moneta, sembra falsa!); c. in frasi di senso negativo, garbare, piacere, essere gradito, andare a genio: ‘sti ppazzie toje nun me sonano proprio(questi scherzi tuoi non mi garbano), a mme ‘o pesce nun me sona (a me il pesce non mi piace); quale transitivo a. Con soggetto di persona, eccitare il suono di uno strumento musicale o di un dispositivo acustico, farlo suonare:sunà ‘o pianefforte, ‘a trommutta, ‘o tammurro, ‘a chitarra, ‘e ccampane, ‘o campaniello (suonare il piano, la tromba, il tamburo, la chitarra, le campane, il campanello), , a1. per estens. sunà ‘nu disco,’nu nastro, ‘na musicassetta (suonare un disco, un nastro, una musicassetta). a2. Riferito a strumenti musicali, può indicare solamente l’atto (sottintendendo la conoscenza della tecnica e dell’arte), di solito continuato per un certo tempo: steva sunanno ‘o mandulino;sonano spisso ‘nzieme a cquatto mane; (stava suonando il mandolino; suonano spesso insieme a quattro mani;) oppure la capacità, l’abitudine: s’è ‘mparato a ssunà ‘o viulino; sape sunà ll’arpa assaje bbuono;suone quacche strumento?(à imparato a suonare il violino; sa suonare l’arpa molto bene; suoni qualche strumento?); a3. conil compl. sottinteso: sona bbuono, malamente, nun sape sunà proprio;(suona bene, male, non sa proprio suonare);; a3.in senso assol.: se divertono a ssunà e ccantà(si divertono a suonare e cantare); ‘o cumplessino êva sunato pe quase tutt’ ‘a serata(l’orchestrina aveva suonato quasi per tutta la serata); b. Riferito allo strumento stesso, o a un complesso musicale, come soggetto, eseguire una musica:ll’organo sunava ll’Avemmaria ‘e Schuberto (l’organo suonava l’«Ave Maria» di Schubert). In partic., di campane, campanelli, trombe militari etc., dare un segnale, annunciare e sim.: ‘a campana sunava l’Angelusso, l’Avemmaria, ‘a tromma ‘o silenzio (la campana suonava l’Angelus, l’Avemaria, la tromba il silenzio); 2. (fig. come nel caso che ci occupa) Dare colpi o percosse con molta forza; anche con compl. indeterminato: ògne ttanto nce ‘e ssona ‘e santa raggiona(ogni tanto, gliele suona di santa ragione). Con il compl. di persona, à tono per lo piú scherz.: ‘o sunajeno a dduvere(lo suonarono a dovere); 5.In senso fig., con compl. indeterminato, sunarla a uno (suonarla ad uno), raggirarlo, giocargli un brutto tiro; 6. In senso fig., nel passivo, essere o rimanere suonato, imbrogliato, oppure sconfitto, scornato, danneggiato e sim.; cfr.’e piffere ‘e muntagna, jettero pe sunà e fujeno sunate! (i pifferi di montagna, andarono per suonare e furono suonati.) 7. Con altro senso, nel plur. (fam.), dire chiaramente, apertamente e con forza, in frasi quali, per es.: ce ll’aggiu sunate chiare a cchillu fetente! (gliele ò suonate chiare, a quel farabutto!) voce etimologicamente dal lat. sŏnare, der. di sŏnus «suono»;nel passaggio al napoletano però la ŏ fu intesa ō donde invece di produrre il dittongo uo come nell’italiano suonare, s’ebbe la chiusura in u della o intesa lunga e perciò s’ebbe sunare→sunà; struppià v. trans. (in primis e ad litteram) 1. rendere storpio; 2.(per estensione come nel caso che ci occupa) picchiare qualcuno a mano armata con molta violenza dirigendo le percosse a gli arti inferiori e/o superiori, per modo che la vittima resti irreversibilmente storpia; 3. (fig.) realizzare male, deformare: storpiare le parole, pronunciarle in modo errato; storpiare una poesia, recitarla male; voce etimologicamente da un lat. volg. *strōppeare→struppiare, che fu dal gr. stréphein 'storcere'; tuppetïà v. trans. (in primis e ad litteram) 1.bussare ripetutamente alle porte con colpi delle nocche delle dita 2.(per estensione come nel caso che ci occupa) picchiare ripetutamente qualcuno a mano nuda assestandogli al capo reiterati colpi dati con le nocche della mano chiusa; voce etimologicamente di origine onomatopeica (tuppetú è il suono prodotto dai colpi delle nocche assestati ad unuscio in legno)con l’anaptissi della piú volte vista ï durativa; varrïà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. sbarrare,sprangare, serrare, puntellare dall’interno con un palo la porta di casa; 2.(per estensione come nel caso che ci occupa) legnare reiteratamente qualcuno servendosi di un randello, di un palo o di un bastone; voce etimologicamente denominale di varra(dall’ iberico barra, con tipica alternanza b→v ) e con l’anaptissi della piú volte vista ï durativa; vurpinïà v. trans. (in primis e ad litteram) 1. percuotere piú volte qualcuno su le nude spalle, natiche e/o gambe, assestandogli i colpi con lo scudiscio, lo staffile, il nerbo (in napoletano vurpino dal lat. verpile); era questa la punizione che in campagna si assegnava ai ragazzi ribelli e riottosi; 2.(per estensione come nel caso che ci occupa) colpire a mo’ di offesa ripetutamente qualcuno servendosi di uno scudiscio o di una sottile flessibile canna di bambú; come si evince è voce etimologicamente denominale di vurpino con la consueta anaptissi della piú volte vista ï durativa. Ed a questo punto mi pare che non ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico G.S. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est. Raffaele Bracale

venerdì 30 agosto 2013

BEFFA, BURLA, CANZONATURA,DILEGGIO, MOTTEGGIO, IRRISIONE.

BEFFA, BURLA, CANZONATURA,DILEGGIO, MOTTEGGIO, IRRISIONE. Anche questa volta,come feci alibi parlando di anticchia, lenticchia etc., prendo spunto da una richiesta fattami da un caro amico, facente parte della Ass.ne Ex Alunni del Liceo classico G.Garibaldi di Napoli, amica di cui, per questioni di riservatezza, mi limiterò ad indicare le sole iniziali di nome e cognome: N.C. e mi soffermo parlare delle voci italiane in epigrafe e delle corrispondenti voci del napoletano precisando súbito che i sinonimi in italiano della voce dileggio lo sono in maniera molto imprecisa e/o generica, mentre quelli del napoletano, al solito, sono piú precisi e circostanziati. Cominciamo dunque dicendo di dileggio e poi dei suoi sinonimi che nell’italiano sono: beffa,burla,canzonatura,irrisione, motteggio. Esaminiamo le singole voci; dileggio s.vo m.le il dileggiare;il beffare, ilcanzonare, il prendere in giro, il motteggiare, l’irridere, il corbellare, la derisione, lo scherno: un sorriso di dileggio | le parole o gli atti con cui si dileggia: esporsi ai dileggi della folla. voce deverbale di dileggiare a sua volta denominale di un antico dilegione marcato sul lat. derisione-m. beffa, s.vo f.le 1 inganno ordito contro qualcuno per schernirlo; burla 2 parola o gesto di scherno; canzonatura | farsi beffe, beffarsi, prendersi gioco | avere il danno e le beffe, rimanere danneggiato e deriso. etimologicamente è voce deverbale di beffare= dileggiare (marcato sull’alto tedesco bäffen= abbaiare donde il senso di dileggiare); burla, s.vo f.le 1 scherzo fatto per ridere alle spalle altrui, ma senza malanimo | mettere, volgere in burla qualcosa, non darle peso, scherzarci sopra | parlare per burla, in tono scherzoso, prendendosi gioco dei presenti | fuor di burla, lasciando da parte gli scherzi. 2 inezia, bazzecola: bere un fiasco di vino è una burla per lui | da burla, non serio, di poco conto: un oratore da burla || Usato come agg. invar. che non è serio, che costituisce una presa in giro: una manifestazione burla; etimologicamente è voce dal lat. burrula→bur(ru)la→burla diminutivo di burra(s) (inezia); canzonatura, s.vo f.le scherzo, presa in giro fatto con animosità rancore, acredine, astio, per ridere alle spalle altrui; etimologicamente è voce deverbale di canzonare (derivato da canzone dal basso lat. cantione(m) = beffare, deridere etc.); il suffisso tura usato nella formazione della voce in esame è un suffisso che à la forma -sura (in derivati da verbi con tema terminante in –d cfr. clausura ←claud-ere), ed è suffisso tratto dal lat. -tura(m), usato per formare sostantivi femminili derivati da verbi (tritatura, ungitura). irrisione, s.vo f.le generico sinonimo che vale beffa, burla, canzonatura, presa in giro, motteggio. etimologicamente è voce dal lat. irrisione(m), deriv. di irridíre 'irridere' motteggio, s.vo m.le generico sinonimo di dileggio; indica l’azione che si sostanzia nello burlare, canzonare, scherzare,dire motti cioè, come nel caso che ci occupa detti scherzosi o pungenti: motto di spirito oppure alibi frasi brevi e concettose, spesso riportate con valore simbolico su uno stemma; massime, sentenze oppure (alibi genericamente, letteralmente ed anticamente ) parola; etimologicamente la voce in esame è voce deverbale di motteggiare denominale di motto che è dal lat. tardo muttu(m) 'suono' (lat. muttire 'borbottare, mormorare'); nella formazione della parola è presente il suffisso eggio suffisso di nomi derivati da verbi in -eggiare. Esaurite cosí ad un dipresso le voci dell’italiano, veniamo a quelle numerose e precise del napoletano dove troviamo: abbaia s.vo f.le 1 scherzo, canzonatura, presa in giro, burla fatto però senza animosità ma con simpatia, benevolenza, affetto, amicizia. 2 sciocchezza, inezia. etimologicamente la voce in esame è voce deverbale di un antico baiare(mugolare, guaiolare, guaire, ustolare, azioni tipiche dei cani che non ànno intenzioni aggressive, ma al contrario intendono far festa o blandire lasciandosi carezzare, coccolare) rafforzato da un ad→ab in posizione protetica; ad+baiare; il collegamento semantico tra il guaiolare etc. del cane e lo scherzo,la canzonatura,la presa in giro, nonché con la sciocchezza e l’inezia si coglie nel fatto che il verso del cane che guaiola è solo apparentamente minaccioso, ma in realtà si risolve in un nulla di fatto rilevandosi appunto una burla o una sciocchezza,un’inezia. ciasco s.vo m.le scherzo, presa in giro fatto però con animosità, addirittura con astio, avversione, ostilità, inimicizia, acredine; burla malevola, ostile, rancorosa; etimologicamente è voce derivata dallo spagnolo chasco di pari significato. cucca s.vo f.le beffa, presa in giro, canzonatura,celia scherno, scherzo interessato teso cioè ad ingannare, imbrogliare; etimologicamente è voce deverbale dell’iberico cucar; mi corre però l’obbligo di dilungarmi per precisare qualcosa dicendo che in italiano esiste il verbo cuccare e ne esiste anche un cuccare (cuccà) nel napoletano. I due verbi che sono omofoni (almeno nella forma non apocopata ) non ànno il medesimo significato, pur potendo sembrare – a prima vista – la medesima parola. Vediamo: In italiano il verbo cuccare à il significato di ingannare, gabbare e per estensione conquistare o accettare qualcosa (anche non di buon grado) come succede alle femmine di uccelli costrette a cuccarsi (per covarle) le uova depositate nei loro nidi dalla femmina del cuculo dal cui nome latino cucus attraverso l’iberico cucar è derivato l’italiano cuccare. Ben altro significato à il napoletano cuccare usato sempre nella forma apocopata cuccà; in napoletano il verbo traduce l’italiano coricare, mettere o mettersi a letto. Va da sé che in napoletano il verbo cuccare (coricare/rsi) non deriva né dal cucus, né dal cucar; in napoletano il verbo cuccà che non à nulla a che spartire con la voce in esame viene dritto per dritto dalla espressione tardo latina:collocare in lecto (porre a letto); dal collocare si è passato a col’care donde per tipica assimilazione regressiva coccare e cuccare /cuccà. Esiste infine un’ultima accezione del verbo cuccare che nel gergo dei gitani à il significato di sottrarre, rubare, ma in tali sensi non è chiaro donde provenga atteso che i linguaggi gergali ben difficilmente usano vocaboli cui si possa attribuire una derivazione etimologicamente ben identificata. cuffiatura s.vo f.le pesante dileggio, presa in giro grave, inquietante, seria, offensiva, oltraggios, ingiuriosa,anche infamante; etimologicamente la voce è un deverbale di cuffià(= dileggiare, beffare, canzonare, prendere in giro, motteggiare, beffarsi, irridere, corbellare) che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello. voce diffusissima nel parlato popolare della città bassa. cuffio s.vo m.le sinonimo del precedente, ma d’uso letterario,con medesima derivazione etimologica cugliunaría/cugliunatura s.vi f.li;voci di uso popolare che valgono: 1 Burla fatta con atti o con parole, a scopo di scherno o per ridere alle spalle di chi ne è l’oggetto,ma sempre, in genere,senza l’intenzione di offesa, ma solo di divertimento; 2 sciocchezzuola; etimologicamente la prima voce è un denominale di cuglione: nel caso in esame all’iniziale cugliune (pl. metafonetico di cuglione dal lat. tardo coleone(m)) è stato aggiunto il suffisso tonico aría suffisso corrispondente al lat. –arius/aria, che forma aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in italiano e/o napoletano , che stabiliscono una relazione; nel secondo caso la voce risulta essere un deverbale di cugliunà (burlare) denominale di cugliune (pl. metafonetico di cuglione dal lat. tardo coleone(m)) il tema verbale è stato addizionato del suffisso tura che come abbiamo visto è suffisso tratto dal lat. -tura(m), usato per formare sostantivi femminili derivati da verbi. ferbone s.vo m.le 1 tessuto pesante simile al velluto, ma con pelo piú fitto, raso e consistente usato nella confezione dei cappelli a cilindro ( tuba) alti e con tesa breve; 2 ben preciso atto di dileggio consistente nel lanciar contro una tuba indossata un oggetto/proiettile o nell’assestare una manata contro una tuba indossata al fine di farla saltar via; 3 (per metinomia) l’oggetto stesso usato quale proiettile; etimologicamente la voce è un derivato in forma accrescitiva (cfr. il suff. one) del francese ant. felpe con la doppia sostituzione espressiva sia della consonante laterale alveolare (l) con la consonante liquida vibrante (r) che della consonante occlusiva bilabiale sorda (p) con la corrispondente consonante occlusiva bilabiale sonora (b); • ferbio/febbio s.vo m.le in doppia morfologia 1generica ma irritante piccola beffa, burla, irrisione. 2 molesta, fastidiosa, ma innocua canzonatura operata in genere da fanciulli/e in danno di coetanei o di pazienti adulti; etimologicamente la voce nella doppia morfologia (la seconda è un adattamento del parlato della prima con assimilazione regressiva rb→bb) è anche questa volta un derivato del fr. antico felpe; la scelta napoletana di rendere maschile una voce in origine femminile si deve al fatto che In napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella, di talché trattandosi di una piccola beffa, burla, irrisione fu piú opportuno – in linea con quanto or ora détto – adottare un derivato maschile ferbio/febbio piuttosto che un derivato femminile ferbia/febbia morfologicamente forse piú esatto, ma inadatto a significare una beffa piccola,una burla contenuta. Qualora poi ci si volesse riferire ad una burla piú sostanziosa, ad un dileggio piú grosso che comportasse violenza di azione o gesto si fa ricorso ad un accrescitivo di ferbio/febbio e cioè a ferbone s.vo m.le con cui si indicò 1in primis ogni generico oggetto usato quale proiettile da indirizzare, al fine di farle saltar via, alle tube di malcapitati viandanti o – piú spesso – di ignari cocchieri assisi in serpa ai grossi carri per il trasporto urbano; 2 per estensione qualsiasi beffa, presa in giro, canzonatura, scherno, dileggio, motteggio, celia perpretata in danno di innocenti o ignari al solo gusto di riderne. gabbo s.vo m.le 1beffa, burla divertente e spiritosa; 2 leggerezza, cosa di nessuna importanza; etimologicamente voce dal fr. ant. gab, di origine scandinava gabb; guattarella s.vo f.le 1 beffa, gherminella in uso tra bambini/e a modello di quelle in uso tra le marionette del cosiddetto teatro delle guarattelle; 2 gioco di mano consistente nel far sparire e riapparire una cordicella dentro e fuori di una bacchetta 3 (fig.) inganno compiuto con abilità; marachella. etimologicamente la vocein esame è un deverbale di (acq)uattare→*guattare=nascondere; da esso verbo si ricavò guarattella quale forma metatetica di guattarella) marionette che erano manovrate, dal basso, dal puparo(nascosto in una scarabattola, sorta di armadietto a tre pareti lignee ed una tenda di pesante stoffa,scarabattola alla cui sommità era ricavato il minuscolo palcoscenico su cui si esibivano,manovrate dal basso, le guarattelle,che erano inforcate a mo' di guanto, e se ne muovevacon l'indice la testa e con il pollice ed il medio il braccio sinistro (pollice) e quello destro (medio) e nei copioncini di quelle rappresentazioni, nell’azione dei personaggi piú furbi o capaci erano previste innocenti beffe e gherminelle in danno dei personaggi stupidi o tonti, sciocchi, ingenui; tali gherminelle erano il divertimento dei piccoli spettatori che le prendevano a modello per gli scherzi da fare ai loro compagni di giuoco. repassatura s.vo f.le 1 tiro, trappola, astuzia, raggiro, frode, truffa; 2 burla, beffa, inganno, sotterfugio, trabocchetto, tranello tipici della donna in danno del proprio innamorato; etimologicamente voce deverbale (cfr. il suff. tura dal lat. -tura(m), usato per formare sostantivi femminili derivati da verbi) di repassà (dal t. lat. *repassare)= beffare,raggirare,trarre in inganno. sberneffiatura s.vo f.le 1in primis Sfregio, segno di una ferita sul viso, cicatrice; in tal senso voce in uso nella città bassa tra guappi e/o camorristi; 2. come nel caso che ci occupa Gesto di vilipendio, smorfia fatta come gesto di scherno; in tal senso voce in uso sempre nella città bassa tra monelli/e e scugnizzi; etimologicamente voce deverbale (cfr. il suff. tura) di sberneffià (incrocio di sbernecchià e sberleffo)= sfregiare, schernire; sfutticchiamiento s.vo m.le burla delicata, ma reiterata, celia, presa in giro continuata; etimologicamente voce deverbale di sfutticchià = sfottere in continuazione ma in maniera amichevole, senza malanimo; sfutticchià è un derivato di sfottere (che è dal lat.volg. *futtere, per il class. futuere con prostesi della tipica s intensiva napoletana)addizionato del suff. icchiare derivato, con valore diminutivo da un latino iculare→iclare→icchiare donde anche icchio. sfuttò s.vo m.le presa in giro, in forma scherzosa o comunque non pesante quantunque continuata; anche questa voce, come la precedente è un deverbale di sfottere; sfruculiamiento s.vo m.le voce che come la successiva è sinonimo stretto delle due precedenti connotando la presa in giro continuata e fastidiosa, l’azione di annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante; etimologicamente è voce deverbale di sfruculià= lett. ridurre in minuti pezzetti (frecole(dal lat. fricare)) qualche oggetto o per traslato il limite di sopportazione dell’importunato. A margine di questa voce rammento una icastica espressione partenopea incentrata sul verbo sfruculià, espressione che suona: Sfruculià ‘a mazzarella ‘e san Giuseppe Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: seccare, tediare, infastidire, stancare, scocciare, stufare qualcuno importunandolo con continuità asfissiante. La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo non: nun sfruculiate ‘a mazzarella ‘e san Giuseppe! sfuttimiento s.vo m.le burla prolungata e fastidiosa;altra voce che come la precedente è sinonimo pieno dei pregressi sfuttò e sfutticchiamiento e come essi è etimologicamente un deverbale di sfottere. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento e soddisfatto l’amico N.C. ed almeno interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori o chiunque altro dovesse leggere queste mie paginette. Satis est. Raffaele Bracale

VARIE 2512

1. ESSERE RICCO ‘E VOCCA. Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca. 2. ESSERE N’ ACCA ‘MMIEZO Ê LLETTERE oppure N’ ÍCCHESE DINTO A LL’AFFABBETO. Ad litteram: essere un’acca fra le lettere oppure una ics nell’alfabeto Id est: non contare nulla, essere una nullità assoluta, valere quanto uno zero e non servire che poco o nulla al pari della muta acca che è solo una consonante di tipo diacritico o , peggio ancora, valere quanto la consonante ics che non è usata né in italiano, né in napoletano e che a stento serve per connotare un’incognita. 3. ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA Ad litteram: essere un babà irrorato di rum Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico. 4. FÀ ABBATE A QUACCHEDUNO. Ad litteram: fare abate qualcuno; id est: gabbare, imbrogliare, ingannare chi sia sciocco e credulone.Un tempo per ricevere la nomina ad abate non occorreva che si fosse in possesso di grandi doti intellettive, o di particolari meriti; spesso anzi piú si era stupidi piú si avevano probabilità d’esser nominati; la locuzione prende a suo fondamento proprio l’evenienza qui ricordata. 5. FÀ ‘A CHIERECA Ê SCIGNE. Ad litteram: fare la tonsura alle scimmie; id est: applicarsi ad un’operazione inutile, assolutamente balorda e certamente improduttiva, atteso che la tonsura è di suo prodromica degli ordini sacri ai quali – ovviamente – non possono esser chiamate le scimmie! 6. FÀ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE. Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa quale, ingiustamente, si riteneva fosse quella svolta dai sacerdoti al segno che, altrove si diceva che se il lavoro fosse stato una cosa buona, lo avrebbero fatto i preti. 7. FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCÉTOLE. Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro... 8. FÀ ‘ALLICCAPETTULE. Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi davanti al potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore della camicia nominata eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui detta falda insiste. 9. FÀ ‘O SPALLETTONE oppure al femminile FÀ‘A CCIACCESSA Espressione intraducibile ad litteram in quanto in italiano manca un vocabolo unico che possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe. Ciò premesso, dirò che esiste, o meglio, esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè tutto un vasto ventaglio di significati. È il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso ingloba. In primis dirò che con esso vocabolo si indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria considerazione. Piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine in epigrafe, che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di imporre la propria presenza dispensando ad iosa consigli non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone. E passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe. Premesso che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento alla lingua parlata, ma esclusivamente a quella scritta nei classici partenopei, va da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici. Orbene reputo che essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della S non eufonica, ma intensiva partenopea, l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo ONE. Per concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e cioè con il termine: parlettiero, quantunque spesso il parlettiero sia anche uno spallettone! Va da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile; esiste però un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C: cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa voce il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su di un iniziale ciarlare→ciacciare. 10. FÀ ‘AMMORE CU ‘E MMONACHE. Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare l’irrealizzabile come sarebbe il godere dei favori di donne consacrate, quasi certamente vergini illibate. 11. FÀ LL’ARTA LEGGIA. Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività occorre aver leggerezza di mano ed accortezza di modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte quasi che occorra essere degli artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria in simili pur truffaldini mestieri: solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può poi lanciarsi nella mischia e sperare di conseguire risultati adeguati alla stregua di un vero artista. 12. FÀ LL’ARTE D’’O SOLE. Ad litteram: fare l’arte del sole; id est: darsi alla bella vita, magari condita di disimpegnati amori, godendosela senza intralci o preoccupazioni, alla stregua del sole che una volta che sia sorto, può tranquillamente mirarsi il creato, senza problemi o altre faticose incombenze. 13. FÀ LL’OPERA D’’E PUPE Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura per conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole marionette che vengono manovrate dal basso tenendole infilate sulla mano a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe, quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia evolvendo pericolosamente può accadere che quello degli interlocutori dotato di maggior buona volontà possa invitare l’altro interlocutore a recedere dalla discussione con il dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!). 14. FÀ MMIRIA Ô TRE BASTONE Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni. Detto ironicamente di una donna che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore al segno di detestar l’invidia del tre di bastoni la carta da giuoco del mazzo di carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un vistoso mascherone , provvisto di suo di consistenti baffoni a manubrio. 15. FÀ MARENNA A SARACHIELLE Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la cinghia, esser costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione di piccole aringhe salate ed affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti della congrua salatura. La locuzione è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro azioni sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui riportato. 16. FÀ ‘A TREZZA D’’E VIERME. Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim a Napoli, si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti, se fossero stati presi da grande spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di vermi organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva a sostanziose somministrazioni di aglio da ingerire crudo; ragion per cui era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure. 17. FÀ SPUTAZZELLE ‘MMOCCA. Ad litteram: fare l’acquolina in bocca La locuzione richiama, molto piú veristicamente dell’italiano, quelle situazioni in cui alla vista di cose piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa naturaliter allorché ci si trovi al cospetto di un appetitoso manicaretto la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna desiderabile ed appetibile al pari di una succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto che la bella donna posson far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far fare sputazzèlle. 18. FÀ o ESSERE CARTA ‘E TRE (o meglio) DI TRESSETTE Ad litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio) di tressette; id est: essere o comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi a tutti gli altri o per naturale carisma o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la carta di tre o tressette è colui che con ogni mezzo, lecito o meno che sia riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è mutuata dal giuco del tressette giuoco di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante e poi dal sette fino al quattro secondo l’ordine decrescente;dal che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e a ciò si riferisce la locuzione in epigrafe.Talvolta però l’espressione viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità intellettuali, tenti di atteggiarsi ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole raccomandar: nun fà ‘a carta ‘e tre ossia evita di assumere atteggiamenti da carta di tre (quelle vincenti al giuoco del tressette.) brak

LITE LITIGIO & AFFINI

LITE LITIGIO & AFFINI Le parole toscane in epigrafe di cui intendo parlare questa volta, ànno – come al solito – parecchi termini che le rendono in napoletano in maniera molto attenta tenendo in considerazione il grado e l’evolversi della lite o del litigio . Cominciamo col dire che la parola lite che è dal latino lite(m) serve ad indicare onnicomprensivamente la discordia, la contesa, la controversia fino a giungere addirittura alla rissa, mentre la parola litigio che è dal latino litigium da litigare, indica la disputa, la contesa fino alla contestazione davanti al giudice; come si evince il litigio si distingue alquanto dalla lite di cui è quasi un frequentativo esprimendo una lite tirata in lungo e reiterata o non mai finita.Altri sininimi nell’italiano di lite/litigio sono: alterco, s.vo m.le discussione animata; litigio acceso; voce etimologicamente deverbale del lat. altercare, deriv. di alter 'altro, opposto'; diverbio, s.vo m.le 1 discussione animata o aspra tra due persone; alterco, litigio: avere un diverbio con qualcuno; venire a diverbio 2 nell'antico dramma latino, la parte dialogata. Etimologicamente dal lat. diverbiu(m) 'dialogo di due attori sulla scena', comp. di dis- 'dis-1' e verbum 'parola', trad. del gr. diálogos; battibecco, s.vo m.le diverbio, generalmente di breve durata e dovuto a motivi futili. Etimologicamente è voce derivata dall’agglutinazione della voce verbale batti (2ª p. sg. ind. pr. dell’infinito battere dal lat. tardo battere, per il class. battuere) con il s.vo becco ( dal lat. bíccu(m), di orig. celtica); contrasto s.vo m.le 1 contrapposizione, forte diversità, discordanza: contrasto di colori, di caratteri ' pellicola a contrasto, (foto) che elimina i toni grigi intermedi | mezzo di contrasto, (med.) sostanza che introdotta nell'organismo consente di visualizzare meglio alcuni organi interni ai raggi X 2 diverbio, battibecco, discussione, disputa. 3 differenza di toni fra le parti componenti l'immagine televisiva; anche, il comando che consente di diminuire e aumentare tale differenza 4 scontro, conflitto: un contrasto di interessi; essere in contrasto con qualcuno 5 nel calcio e in altri sport di squadra, azione di un giocatore per bloccare l'attacco di un avversario 6 componimento poetico che rappresenta un dialogo o una disputa tra due personaggi o due oggetti inanimati; è caratteristico della letteratura italiana dei primi secoli: il Contrasto di Ciullo d'Alcamo. Etimologicamente è voce deverbale di contrastare (dalla loc. lat. contra stare; propr. 'stare contro'); discussione s.vo f.le 1 il discutere; esame approfondito di una questione, fatto da due o piú persone che espongono ciascuna le proprie vedute: una discussione pacata, vivace, animata; discussione letteraria, scientifica; la discussione di un progetto; un argomento in discussione; intavolare, aprire, rinviare, chiudere una discussione; intervenire nella discussione | mettere, rimettere in discussione, esprimere dubbi, fare delle riserve | essere in discussione, essere oggetto di dibattito | essere fuori discussione, essere certissimo, fuori di ogni dubbio | discussione della tesi di laurea, l'esame finale del corso degli studi universitari, durante il quale il laureando discute la propria tesi dinanzi a una commissione, per il conseguimento del titolo dottorale 2 (estens.) litigio, contrasto, alterco: ci sono continue discussioni in casa. 3 (estens.) obiezione, contestazione: obbedite senza fare discussioni 4 (dir.) nel processo civile, fase che precede la decisione della causa, in cui possono intervenire oralmente i legali delle parti | nel processo penale, la parte del dibattimento riservata alle arringhe dei difensori dell'imputato e della parte civile e alla requisitoria del pubblico ministero. etimologicamente è voce dal lat. discussione(m) 'scotimento, sbattimento', nel lat. tardo 'esame, discussione'. E passiamo ora alla parlata napoletana che contempla circa una dozzina di differenti parole, secondo la gravità dell’azione o delle conseguenze , per tradurre le due parole toscane in epigrafe. Abbiamo: - agguàito che è essenzialmente la lite o bega accuratamente attesa e preparata se non cercata, quasi un agguato, parola etimologicamente dal francese antico aguait che è dal germanico wanta= guardia, usata quasi per indicare l’azione proditoria di chi voglia sorprendere l’avversario privo di difesa; - appícceco ed il suo frequentativo appiccecata rendono la lite lunga e reiterata o non mai portata a conclusione; etimologicamente ambedue le parole sono un deverbale di appiccecarse frequentativo riflessivo di appiccià che è il far piccie o coppie di cose e quindi unire e con altra accezione anche l’ardere, l’accendere,l’ attaccare (dal latino ad-piceare = attaccar con pece)il tutto semanticamente comprensibile atteso che un vero appícceco o appiccecata comportano la colluttazione fisica per la quale è necessario il contatto dei corpi; ad abundantiam le due parole a margine richiamano anche l’accezione di appiccià nel senso di ardere poi che chi collutta in un appicceco, non può esimersi, sia pure metaforicamente, dall’ardere; - appriétto un tipo particolare di lite che è quella derivante da una sollecitazione noiosa o petulante tipica – come vedemmo altrove – dell’ apprettatore cioè dell’ annoiatore; etimologicamente, come il ricordato apprettatore, anche l’apprietto è un deverbale del latino adplictare(figuratamente: ridurre in pieghe; lat.: plecta = piega );al proposito rammenterò che anche il toscano appretto cioè la miscela chimica usata per dar particolar forma e consistenza ai tessuti o pellami, piú che al francese apprêt penso debba collegarsi al latino ad-plictare; - chiàjeto è essenzialmente la lite tesa a reclamar per sé cose o priorità di atteggiamento davanti a talune situazioni; a Napoli infatti di chi litigando, esiga, richieda qualcosa che pensa gli spetti di diritto, s’usa dire, a mo’ di giustificazione, che se sta chiajtanno ‘o ssujo :sta reclamando il suo; etimologicamente la parola chiàjeto viene da un latino medievale: placitu(m) = disputa, lite in attesa di giudizio; - cuntrasto che è la lite forte per contrapposizione anche maschia e dura, resistenza puntigliosa etimologicamente dal basso latino contra +stare = star di contro, porsi di fronte; - custióne quasi sinonimo del precedente cuntrasto; il quasi è dovuto al fatto che mentre il cuntrasto è una lite che mira ad uno scopo pratico e concreto, la custióne spesso è portata avanti anche in maniera maschia e dura, non per motivi pratici, ma astratti o di principio; etimologicamente la custióne è palesamente dal latino quaestione(m) a sua volta deverbale di quaerere= domandare, interrogare,chiedere etc. - guerra litigio, piú che lite, litigio cosí vasto e spropositato tale da coinvolgere un gran numero di contendenti, avversari, se non nemici, litigio destinato ad esiti spesso gravi quando non addirittura cruenti ; la parola guerra è usata spesso enfaticamente, ma inesattamente per significare di situazioni di contrapposizioni che pur essendo molto gravi e violente, si potrebbero definire piú acconciamente e tranquillamente: cuntraste o custione; etimologicamente la parola guerra attraverso lo spagnolo guerra viene da un antico tedesco wërra = contesa, discordia; - lòteno che è propriamente un litigio lungo, noioso,ripetitivo che spesso si ripropone a scadenze continue; di tale lòteno la caretteristica precipua è appunto quella d’essere noiosamente ripetitivo e quasi appiccicaticcio; etimologicamente lòteno è da collegarsi a lota = fango (dal lat. lutum a sua volta dalla medesima radice di luere=lavare, bagnare; partendo da lota(fango, terra bagnata) si va a lotulum (fangoso, melmoso, appiccicaticcio) donde con dissimilazione l→n il nostro lòteno; - ‘mpeca che connota un bisticcio futile, una faccenda importuna e fastidiosa, destinata però a risolversi in fretta; etimologicamente la parola è da collegarsi ad un ant. tedesco biga (= lite) cui è anteposto un in→’m illativo; - putecarella vocabolo che designa una lite di parvissima sostanza, una questioncella senza importanza, una lite da burla, quasi una contesa teatrale ; rammenterò infatti che un tempo accanto al termine jacuvella di cui ò detto altrove, i canovacci teatrali delle guarattelle furon detti: putecarelle; ciò detto veniamo súbito a parlare dell’etimologia di putecarella, consigliando di non lasciarsi tranne in inganno (come pure fa qualcuno…e tra costoro, inopinatamente l’amico prof. Carlo Jandolo) dalla parola puteca che parrebbe dare l’avvio a putecarella: la puteca (che è dal greco apoteka=in primis: farmacia ed estensivamente: bottega), non à nulla da dividere con putecarella che di puteca non è neppure il diminutivo che è putechella, e pertanto la putecarella non è da intendersi, come da taluno preteso, quale piccola lite tra avventori e bottegaio o tra i vari avventori d’un bottegaio.In realtà putecarella, etimologicamente è da collegarsi al francese petite querelle id est: piccola questione, questioncella tal quale la putecarella napoletana cui è ammesso chiunque, non necessariamente un bottegaio ed i suoi clienti; - sciarra: è segnatamente la circoscritta, amabile lite tra innamorati, lite che il piú delle volte si risolve rapidamente, senza conseguenze apprezzabili e la pace che ne segue è sottoscritta con molti appassionati baci; l’etimologia è araba, derivando il termine sciarra da šarr che à però il piú generico, ampio significato di lite, contesa; - smanecata: lite, alterco che si sostanzia in un diverbio ad alta voce, accompagnato da un pletorico, eccessivo agitarsi, dimenando le braccia con fare animoso; etimologicamente smanecata è marcata su maneca (che è dal latino manica da manus + ica suff. di appartenenza) con la tipica prostesi di una s intensiva, che indica appunto il gran agitarsi delle braccia e per esse delle maniche che le contengono; - spellicciata s. f.le zuffa continuata, pesante tafferuglio, colluttazione estrema tanto violenti da metaforicamente toglier di dosso ai contendenti il pelo, o meno metaforicamente e con piú probabilità costringerli a liberarsi si indumenti pesanti (giacche, cappotti, pellicce) che risultassero d’intralcio. Etimologicamente denominale di pelliccia (dal lat. tardo pellicia(m), f. sost. di pellicius, agg. di pellis 'pelle')con protesi di una s distrattiva. - tiritòsta : durissimo alterco reiterato in cui nessuno dei due contendenti vuol recedere dalle proprie posizioni, alterco che si sostanzia appunto in un tiremmolla continuo in cui se si fanno le viste di concedere qualcosa, súbito si riafferma il proprio assunto, nella ferma intenzione di non recedere dalle proprie idee e/o posizioni; etimologicamente, nel significato di insieme di durezze la parola può spiegarsi con l’addizione di una voce francese e di una latina e cioè di tiri ( ant. franc. tiere= unione)+ tosta (= cose dure; neutro plurale di tostum part. pass. del verbo tostare frequentativo di torrere = abbrustolire e quindi indurire). Non mi pare ci siano altri vocaboli napoletani che traducano quelli in epigrafe; per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontento i miei ventiquattro lettori. Satis est. Raffaele Bracale

MARIONETTE

MARIONETTE Cominciamo col dire che con la parola marionetta, dal franc.marionnette, nome vezzeggiativo che anticamente si dava a delle figurine della Vergine Maria (MARION da cui marionnette), si indica il piccolo fantoccio che si fa muovere con i fili o anche con le sole mani. A Napoli, come mi pare anche in Sicilia, abbiamo due tipi di marionette: 1)quelle alte e grosse in legno e/o cartapesta che si manovrano o manovravano dall'alto con aste metalliche e/o funi; 2)quelle piccole, costituite da un sacchetto di stoffa sormontato da una testa o lignea o di creta e due manine ugualmente lignee o di creta attaccate alla fine di due cilindretti di stoffa che fungono da braccia. Quelle sub 1 vengono dette PUPI ed erano, temporibus illis, i protagonisti delle c.d. OPERE D''E PUPE, rappresentazioni eroicomiche che narravano le gesta dei paladini e/o dei cavalieri della tavola rotonda, e si svolgevano in teatrini di fortuna attrezzati alla bisogna e frequentati quasi esclusivamente dalla plebe adulta, che partecipava attenta e vociante alle rappresentazioni e sovente si scagliavano contro il pupo che rappresentava il cattivo di turno; quelle sub 2 invece sono o erano le marionette di pertinenza dei bambini; esse marionette dette GUARATTELLE o GUATTARELLE (dal verbo (acq)uattare→*guattare=nascondere GUARATTELLA è forma metatetica di GUATTARELLA) erano manovrate, dal basso, dal puparo(nascosto in una scarabattola, sorta di armadietto a tre pareti lignee ed una tenda di pesante stoffa,scarabattola alla cui sommità era ricavato il minuscolo palcoscenico su cui si esibivano,manovrate dal basso, le GUARATTELLE,che erano inforcate a mo' di guanto, e se ne muovevacon l'indice la testa e con il pollice ed il medio il braccio sinistro (pollice) e quello destro (medio). Mentre per i PUPI i personaggi erano i paladini ed i saraceni etc., per le GUARATTELLE, si chiamavano in causa Pulcinella ed un po' tutte le maschere della commedia dell'arte. I rabberciati teatrini delle GUARATTELLE si spostavano da un capo all'altro della città, secondo le evenienze, spessimo li si trovava negli angoli meno assolati dei parchi cittadini, mentre i teatri dei PUPI, sebbene angusti e mal messi si trovavano ubicati in pianta stabile, in quanto costruzioni fisse lungo le strade più popolari della città vecchia. Raffaele Bracale

SALSICCIA e dintorni

SALSICCIA e dintorni Stavolta invito tutti i lettori a leccarsi con me le dita; intendo, infatti parlare di uno squisitissimo alimento e cioè della salsiccia famosissimo insaccato di carne e grasso di maiale tritati piú o meno sottilmente, addizionati di varie spezie, impastati ed insaccati appunto in un budello piú o meno grosso (seconda il tipo di salsiccia che se ne vuole ottenere) del medesimo maiale o talvolta d’agnello e può esser consumato crudo (seccato ed affumicato) o cotto (fritto, al forno o in umido); la salsiccia è preparata e venduta o in un unico pezzo di budello lungo circa 60 o 70 cm. o – piú spesso – tale lungo pezzo è suddiviso, mediante legatura in tante parti dette in lingua italiana rocchi che risultano alti all’incirca 5 o 6 cm. cadauno; i rocchi (al sing. rocchio) in napoletano son détti capa o capo ‘e sasiccia (vedi oltre); salsiccia etimologicamente risulta derivare molto probabilmente, se non certamente, da un incrocio tra l’aggettivo latino salsus/a ‘salato/a’ e la voce popolare ciccia (che può esser sincope di carniccia→c(arn)iccia = carne; rocchio di cui rocchi è il plurale è in primis un blocco di pietra di forma cilindrica che compone il fusto di una colonna e poi estensivamente un pezzo cilindrico di qualcosa: un rocchio di salsiccia, ogni porzione di salsiccia compresa fra due nodi; un rocchio di carne, un pezzo di carne magra, senza osso. etimologicamente rocchio è un derivato metaplasmatico del lat. rotulu(m)→rot’lu(m)→roclu(m)→rocchio= ‘rotolo’ In napoletano salsiccia si rende con la voce saciccia che non è un adattamento corruttivo della voce italiana, ma etimologicamente deriva da un tardo lat. *salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare'; la voce rocchio come porzione compresa fra due nodi, si rende in napoletano – come ò detto - con il termine capo/a (‘nu capo o ‘na capa ‘e saciccia) con derivazione dal basso latino capum per il classico caput =capo poi che, a mano a mano che i singoli rocchi della salsiccia vengon resecati il successivo risulterà pur sempre in testa, in capo alla lunga residua salsiccia. Tra i varî tipi di salsiccia da rammentare sono la luganega o lucanica, la cervellata, la nnoglia, il biròldo. luganega o lucanica: tipica salsiccia diffusa in un po’ tutta l’Italia; infatti molte nostre regioni si contendono le origini di questo straordinario prodotto di salumeria, i milanesi si tramandano una leggenda (e sottolineo leggenda) per la quale, pare che la regina longobarda Teodolinda abbia inventato la procedura di produzione della Luganega (questo è il nome piú comune nell'area milanese), anche i veneti ne reclamano le origini e come loro anche molte altre regioni, ma sono Cicerone e Marziale che ci liberano definitivamente del dubbio sulle origini di questa salsiccia: infatti nei loro scritti testimoniano apertis verbis che la lucanica venne introdotta a Roma dalle schiave lucane. Anche Marco Terenzio Varrone, nel suo De re rustica, descriveva cosí la lucanica dando ulteriore testimonianza delle sue origini: “…una carne tritata,speziata, insaccata in un budello, cosí chiamata perché i nostri soldati ànno appreso il modo di prepararla dai Lucani”.Fa rabbia pensare che la salsiccia lucanica (della Lucania) , portata al nord dai soldati romani (tra i quali numerosissimi meridionali: campani, lucani, bretti, apuli etc.) abbia perduto la propria identità linguistica e sia corrotta in luganega; ancóra maggior rabbia fa il pensare che veneti e lombardi se ne siano appropriata ed arrogata l’origine e con il nuovo nome l’abbiano poi trasmessa ai posteri millantando d’esser loro gli ideatori di tale autentica leccornia che è invece incontrovertibilmente meridionale! Apicio, poi, nella sua celebre opera De re coquinaria, ne fornisce chiaramente la ricetta (reperibile anche sul WEB); cervellata o cerevellata è una tipica salsiccia d’origine pugliese, poi trasmigrata in molte altre regioni centro meridionali; in terra d’Apulia essa fu un tempo una salsiccia a base di carni miste (bovine,ovine,suine), cervello bovino o suino ed aromi: sale, pepe, basilico, prezzemolo, affine (quanto alla grandezza: 10-12cm. di lunghezza e 4 cm. di circonferenza per rocchio) alla lucanica; nel napoletano ove è conosciuta con il diminutivo cervellatina è salsiccia lunga tra gli 8 ed i 10 cm e 3 cm. di circonferenza per rocchio, ma è di sola carne suina tritata finissimamente e con l’aggiunta di aromi: sale, pepe e talvolta vino per rendere piú umido l’impasto; la voce cervellata o cerevellata ed il diminutivo cervellatina ànno il loro etimo nel latino cerebellu(m), dim. di cerebrum 'cervello'atteso, come detto, che un tempo (ora non piú!) la cervellata conteneva del cervello macinato con le altre carni, al fine di render l’impasto piú morbido ed umido. A margine di tutto quanto detto fin qui rammenterò che a Napoli spesso le carni delle salsicce (in tutte le loro forme) non vengono macinate a macchina, ma triturate a mano con affilati coltelli ed in tal caso le salsicce cosí ottenute vengon dette sacicce a pponta ‘e curtiello (salsicce tagliate a punta di coltello), risultando piú gradite all’avventore, seppure piú costose; le carni triturate in tal guisa son dette allacciate che non è il part. plur. femm. dell’italiano allacciare= stringer con lacci, ma piuttosto il part. plur. femm. del napoletano allaccià o adaccià che con derivazione dal latino parlato ad + acia dal class. acies= tagli, sta appunto per tagliare minutamente con il coltello;al proposito rammenterò che nella cucina partenopea è ben noto il lardo allacciato (lardo pestato cioè lardo battuto lungamente con una affilatissima lama fino a che non risulti tanto spezzettato da ridursi in consistenza quasi di pomata) con cui si preparano squisiti intingoli. nnoglie plurale di nnoglia: si tratta di una tipica salsiccia piccante, secca ed affumicata (dai rocchi brevi e stretti) in uso specialmente in provincia, che vien consumata al naturale o cotta in umido in talune minestre di vegetali, per insaporirle; tale salsiccia non è prodotta, come tutte le altre salsicce, con scelte carni dei suini, ma con carni di scarto e tritume d’interiora ed il suo nome nnoglia le deriva , attraverso il franc. andouille(con aferesi della a d’avvio e l’assimilazione progressiva nd→nn , forse da un tardo latino induviu(m) = ripieno(?). Infine abbiamo o meglio avemmo (ché oggi purtroppo è di quasi impossibile reperimento anche nelle botteghe di macellai piú anziani) un tipico antichissimo salsicciotto che s’ebbe il nome di biròldo (con etimo dal lat. medioevale beroaldus); si tratta di un salsicciotto cilindrico di circa 10 cm. di altezza, di oltre 4 cm. di diametro confezionato con un trito abbastanza grosso di carni e grasso suini ricavati dalla pancetta della bestia, aromatizzati con sale, aglio trito e pepe e con l’aggiunta di sangue di maiale (almeno fino a quando fu possibile commerciarlo) o vino rosso; il salsicciotto insaccato in budello suino od equino era confezionato in singoli rocchi e veniva consumato al naturale con cottura alla brace viva o usato in alternativa alla nnoglia cotto in umido in talune minestre di vegetali, per insaporirle.Dispiace, e quanto!, dover ammettere che o per la insipienza di taluni legislatori, o per il mutar dei gusti taluni retaggi del desinare d’antan siano purtroppo andati perduti e spariti per sempre! In coda a tutto quanto mi piace riportare la ricetta di una tipica preparazione della cucina partenopea: voglio cioè riportarvi la ricetta di • SACICCE E FRIJARIELLE un gustosissimo connubio di carne e verdura. Delle sacicce abbiamo detto; parlo ora dei cosiddetti Frijarielle che son una particolare varietà di broccoletti; i broccoletti fanno parte della famiglia delle Crucifere, la specie a cui appartengono è la Brassica Oeracea,essa è divisa in molte varietà;ricorderò: • il Bianco, • il Precoce di Verona, • il Grosso romanesco, • il Violetto siciliano, • il Bronzino di Albenga, • il napoletano (frijarielle) • il Calabrese. • Quella che a noi qui interessa è la varietà napoletana detta appunto frijarielle (da friggere) varietà che si distingue dalle altre per un tipico sapore leggermente amarognolo (gradevolmente amaro). Di solito i broccoletti vengono dapprima brevemente lessati e poi saltati in padella; i frijarielle napoletani invece vengono cotti direttamente a crudo, mondati, spezettati, ben lavati in acqua fredda e sgrondati (senza preventiva lessatura)mantenendo cosí il caratteristico sapore gustosamenteamarognolo e vengon cotti in olio basso bollente dove abbiano preso colore, aglio e peperoncino piccante e vengono fritti fino a quando risultino bene inteneriti usando un tegame di ferro nero provvisto di coperchio;vengon aggiustati di sale sono a fine cottura. Torniamo ala ricetta, e diamone le dosi per 6 persone: 1,5 kg. di salsiccia annodata in rocchi, 1 kg. di frijarielli mondati spezettati, lavati e sgrondati, 3 spicchi d’aglio privi di camicia e schiacciati, 2 peperoncini piccanti senza picciolo, aperti longitodinalmente, 1 cucchiaio di sugna, 1 bichiere d’olio d’oliva e.v. p, s. a f., 1 bicchiere di vino rosso asciutto, sale fino q.s. Si procede dapprima alla cottura della verdura, ponendo al fuoco come ò accennato un tegame di ferro nero; si versa l’olio, si aggiungono gli spicchi d’aglio mondati e schiacciati ed i due peperoncini piccanti senza picciolo, aperti longitodinalmente; quando l’olio sarà ben caldo ed aglio e peperoncini rosolati si aggiungono i frijarielli mondati , spezettati, lavati e sgrondati; si incoperchia e si lasciano in cottura fino a quando risultino inteneriti;infine si salano e si tengono in caldo in attesa di unirli alle salsicce. Frattanto si mette a mezza fiamma un altro ampio tegame con un cucchiaio di sugna, appena la sugna si scioglie (senza fumigare!) si sistemano al centro del tegame i rocchi di salsiccia acciambellati e punzecchiati con un curadenti od uno spidino e si ricoprono a filo con acqua fredda e si lasciano in cottura fino a quando tutta l’acqua sarà asciugata; a questo punto si bagnano con un bicchiere di vino rosso che si lascia evaporare a fiamma sostenuta; si riabbassa la fiamma e si porta a cottura fino a quando i rocchi non comincino ad arsicciare; a questo punto si uniscono le salsicce con i frijarielli e si mantiene tutto in caldo fino al momento di servire in tavola. Raffaele Bracale

RUBARE ETC.

il verbo italiano RUBARE ed i suoi corrispondenti nella lingua napoletana. Il verbo italiano in epigrafe: rubare (che è propriamente l’appropriarsi in modo illecito di beni altrui; sottrarre ad altri qualcosa, spec. con l'astuzia o con la frode) pur avendo numerosi sinonimi quali: trafugare, carpire; (pop.) fregare, grattare (pop.); (qualcuno di qualcosa) derubare, defraudare, spogliare, impossessarsi, impadronirsi, rapinare, scippare, estorcere, taccheggiare, è verbo che (salvo poche eccezioni: rapinare, scippare, estorcere) non à – nei suoi sinonimi – significazioni specifiche e/o particolari, per cui tali sinonimi possono essere usati (senza grosse differenze) in luogo dell’originario rubare verbo che etimologicamente si fa derivare da un latino dell’VIII sec.: raubàre o robare a loro volta forgiati su di un antico tedesco raubon. Ben diversa la situazione della lingua napoletana che pur presentando numericamente pochi sinonimi del verbo di partenza arrubbà che è l’appropriarsi in modo illecito di beni altrui, destína i varî sinonimi all’indicazione di precise, circostanziate azioni e/o situazioni. Elenco qui di sèguito i sinonimi, per poi illustrali singolarmente: accrastà, arravuglià, arraffà o,aggraffà o aggranfà, arrefulià, arrunzà furà. Passiamo ad esaminare i singoli verbi: arrubbà: vale il generico rubare, ma sarebbe fallace pensare che il verbo napoletano sia stato marcato sull’italiano rubare; in realtà il verbo partenopeo à un diverso etimo di quello italiano risultando essere un denominale di robba (roba)(dal tedesco rauba =bottino,preda) attraverso un ad + robba = adrobba→arrubba→arrubbare/arrubbà= darsi al bottino, alla preda; accrastà:di per sé vale: agguantare, sopraffare con violenza, ma in particolare: rapinare; l’etimo è dal latino *ad-crastare→accrastare= sospingere ad una intagliatura; crastare è da un lat. classico castrare(=tagliare) da cui,con una evidente metatesi,crastare donde ad+crastare→accrastare/accrastà; arraffare/arraffà o anche aggranfà o pure aggraffà tutte le tre voci verbali sono evidenti tre sistemazioni fonetiche (attraverso varî adattamenti) di una medesima voce iniziale che è aggranfà e tutte valgono per: abbrancicare, afferrare con destrezza e rapidità e posson quasi valere l’italiano scippare; etimologicamente la voce aggranfare/aggranfà risulta essere un denominale del longobardo krampfa = artiglio, grinfia,uncino; arrunzà:di per sé vale: prender tutto, senza distinzione di sorta, far man bassa di ciò che càpiti, raccattandolo alla meno peggio; con questo verbo, e con il successivo si identifica il furto di piccoli oggetti o generi alimentari operato nei grandi centri commerciali; etimologicamente la voce risulta denominale di un tardo latino runca = falcetto, quasi nel significato di tagliar tutto, recidere (con la roncola) senza distinzione; arravugliare/arravuglià: di per sé vale: avvolgere, inviluppare ed estensivamente sottrarre qualsiasi cosa capiti sotto mano, celandola nelle tasche o nelle pieghe degli abiti; come ò detto è il tipo di furto che si perpetra nei grandi centri commerciali soprattutto nei reparti di generi alimentari; etimologicamente la voce risulta essere dal basso latino ad+revolviare→arrevolviare→arravoglià→arravuglià= confondere, celare; arrefuliare/arrefulià è il verbo che in napoletano si usa per indicare il rubacchiare che si fa sui soldi della spesa; è il verbo che connota l’azione che in italiano è resa con l’espressione far la cresta (dalla locuzione romanesca: far l'agresta, riferita ai contadini che, per rubare al padrone, coglievano l'uva acerba e ne vendevano il succo);il verbo napoletano a margine è un rafforzamento, attraverso un ad→ar prostetico , del verbo refulià /refilà = rifilare (da un tardo lat.re(ri)+ filare, deriv. di filum 'filo'=pareggiare qualcosa con un taglio a filo); furare/furà che è il generico rubare, sottrarre , ma è voce essenzialmente usata anticamente in poesia; il verbo a margine ripete dritto per dritto il basso latino furare per il classico furari da fur/furis. Raffaele Bracale

RANFA/GRANFA

RANFA/GRANFA – ranfa ‘e purpo e dintorni. Letteralmente: granfia, artiglio,grinfia., branca; ranfa ‘e purpo: tentacolo di polpo e per traslato maneggione; per dileggio poi, nell’inesatto diminutivo ranfetella, vale matto; ò parlato di inesatto diminutivo in quanto l’esatto diminutivo di ranfa è ranfulella voce mai peraltro usata e sostituita nel parlar comune nel senso di piccola granfia, piccola branca o piccolo tentacolo con la voce ranfetella che di per sé è l’esatto diminutivo di ranfata = colpo inferto con la ranfa, ma con la voce ranfetella si suole indicare – come ò detto – il diminutivo (quantunque inesatto) di ranfa. Prima di soffermarci sulla ranfa di purpo, soffermiamoci sulla generica ranfa o granfa che è, come detto in avvio: granfia, artiglio; grinfia, branca; non di tranquilla lettura l’etimo della ranfa partenopea; qualcuno (Altamura, de Falco ) fanno risalire la voce partenopea ad un greco ramfos (uncino); stimo ambedue i lessicografi partenopei in ispecie il de Falco, dotto e simpatico amico, ma nella fattispecie non posso aderire alla sua idea; è pur vero che la lingua napoletana è diretta figlia del basso latino e greco, ma ciò non significa che tutti i lemmi partenopei debbano o abbiano avuto culle latino-greche: molte voci sono figlie del longobardo, tedesco, francese, spagnolo, arabo e perfino turco; nel caso di ranfa mi sembra che (attesa l’esistenza di omologhe voci toscane: ranfio= uncino, lombarde: ranf = uncino,artiglio) si possa accogliere l’idea comune di molti studiosi (Battisti, Alessio, Cortelazzo, D’Ascoli, C. Jandolo) che tutte queste voci discendano da un’unica, comune radice longobarda: rampf ed aggiungo che nulla vieta di pensare che anche il greco ramfos abbia avuto la medesima origine. E veniamo alla ranfa di purpo, che propriamente è il tentacolo che è dal latino scient. tentaculum, deriv. del lat. class. temptare 'tentare, tastare' (organo flessibile di forma allungata, presente in numero vario sul corpo di alcune specie animali (celenterati, anellidi, cefalopodi ecc.), generalmente con funzione prensile e di movimento; in senso figurato: cosa che avvinghia),del polpo voce che è dal basso latino pulpu(m), dall'incrocio di polypus 'polipo' con pulpa 'polpa'(mollusco cefalopodo marino privo di conchiglia, con corpo carnoso a sacco, testa larga munita di becco, grossi occhi sporgenti e otto lunghi tentacoli provvisti di ventose; è comune nel Mediterraneo e nell'Atlantico; ne esistono di varie grandezze e qualità: quello piú grosso (detto purpo ed al plurale purpe con etimologia che è la medesima di polpo ) viene –consumato quasi esclusivamente bollito e se ne ricava il c.d. broro (dal tedesco bròd) ‘e purpo brodo di polpo ricavato dalla lunga bollitura di un grosso polpo in acqua e vegetali addizzionati di sale e moltissimo pepe nero macinato; questo brodo viene o veniva servito da tipici venditori ambulanti, in ampie e capienti tazze assieme a piccoli pezzi delle ranfe (tentacoli) del polpo opportunamente sezionate. I polpi di medio-piccola grandezza, quelli che in toscano sono impropriamente detti polipetti ( che risulta essere il diminutivo di polipo (con derivazione dal lat. polypu(m), dal gr. poly-pous, comp. di poly 'poli-' e póus/ podós 'piede', quindi propr. 'che à molti piedi') voce diffusa ma, come detto, impropria per polpo.), in napoletano si rendono con il termine purpetielle diminutivo attraverso il suffisso tiello/tielle di purpo; in corretto toscano in luogo di polipetti occorrerebbe usare la voce polpetti, purtroppo l’uso (pur se errato) ormai la fa da padrone e non v’ à da farsene meraviglie. Tornando ai purpetielle rammenterò che a Napoli è d’uso cucinarli brevemente (ben eviscerati, lavati e sgrondati) in un guazzetto d’aglio tritato,olio, pomidoro pelati, abbondante trito di prezzemolo e pepe nero; cucinati in tal guisa son detti purpetielle â luciana (polpi alla maniera dei pescatori di S. Lucia (il piú antico e famoso borgo marinaro di Napoli, abitato un tempo quasi esclusivamente da pescatori detti appunto ‘e luciane in quanto nella strada che abitavano esisteva un’antica chiesa dedicata a santa Lucia, cui i pescatori erano molto devoti)); quando al guazzetto summenzionato vengono aggiunte olive nere (di Gaeta) denocciolate ed abbondanti capperi dissalati, e se ne prolunga il tempo di cottura, si ottengono i cosiddetti purpetielle affucate (polpi affogati); la voce verbale affucate risulta essere il part. passato aggettivato femm. dell’infinito affucà/are da un lat. volg. *affocare per offocare 'strozzare', da ob e fauces, pl. di faux -cis 'gola', quasi che i piccoli polpi fossero strozzati, lasciandoli annegare e soffocare nel guazzetto; sia i polpi alla luciana che quelli affogati vanno cucinati rigorosamente senza aggiunta di acqua; a Napoli s’usa dire: ‘o purpo s’à dda cocere dinto a ll’acqua soja (il polpo deve cuocere nel proprio umore) e tale norma vale sia in senso pratico culinario, che in senso estensivo e traslato . La locuzione infatti fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, o razionalizzazione; bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto. Rammenterò che i purpetielle cosí come i piú grossi purpe si dividono (a seconda il numero di file di ventose dei tentacoli) in: purpe verace (doppia fila di ventose) e purpe senische (unica fila di ventose); l’aggettivo verace che è dal lat. verace(m), deriv. di vírus 'vero' starebbe per genuino, vero, non falso , ma riferito al polpo serve a distinguere quello, come ò detto, provvisto, sui tentacoli, di una doppia fila di ventose; altro elemento distintivo del polpo è il suo colore che nel verace vira dal bianco al rosa tenue; il polpo senisco (non esiste parola che in italiano la traduca; si potrebbe usare, tenendo presente l’etimo, il termine cinerino, ma è solo una sommessa proposta: è molto piú bella la voce senisco !) è quel polpo (meno pregiato e saporito) provvisto sui tentacoli di un’unica fila di ventose e deriva il suo nome dall’aggettivo tardo latino cinisculus = di color cinereo derivato di cinis = cenere, presentando un colore decisamente grigiastro, cinereo; omologhi del napoletano senisco, sono i salentini: ciniscu, cenische il barese scinisco, il lucano geniscu e l’abruzzese inisca; una classe a parte sono quei piccolissimi e tenerissimi polpi da consumar, si dice, in un sol boccone detti in italiano moscardini ed in napoletano muscarielle (per l’intenso odore di muschio che emanano): sia per moscardini che per muscarielle l’etimo è il medesimo: deriv. di moscado, forma ant. di moscato (nel sign. di 'muschio'), con influsso di moscardo (per la presenza di piccole macchie sul mantello); per il napoletano muscarielle occorre ricordare che nell’area mediterranea spesso una D→R. Fraseologia: Farse ‘nu purpo: letteralmente: farsi (ridursi)(come) un polpo id est: bagnarsi accidentalmente per un’ acquazzone improvviso cosí tanto da somigliare ad un polpo pescato di fresco, grondante d’acqua. Rammenterò infine che con la parola purpo nell’espressione sî propeto ‘nu purpo! (sei veramente un polpo!), riferita furbescamente e per dileggio ad uomo o donna, ma piú spesso ad una donna, si suole indicare una persona non avvenente, quando non eccessivamente brutta. Raffaele Bracale

QUANNO CHIOVENO PASSE E FFICUSECCHE.

QUANNO CHIOVENO PASSE E FFICUSECCHE. Ad litteram: quando pioveranno uva passita e fichi secchi Id est: mai; La locuzione è usata, per dileggio, a sarcastico commento di avvenimenti che si pensa non potranno mai verificarsi, o di situazioni che vengono ritenute non suscettibili di miglioramento alcuno, che potrebbe verificarsi solo nel caso di una fortuita ipotetica pioggia(novella manna) di uva passita e fichi secchi, evento - peraltro – ritenuto chiaramente impossibile da verificarsi. quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd>nn; chiovono= letteralmente piovono voce verbale (3° pers. plur. ind. presente) dell’infinito chiovere che è dal latino pluere con tipico passaggio di pl>chi (vedi alibi: plaga>chiaia etc.) ed epentesi eufonica della v (vedi alibi:ruina>rovina, vidua>vedova etc.).Da notare che il verbo a margine, pur essendo indicativo presente è reso in italiano con il tempo futuro che acconciamente avrebbe dovuto essere: chiuvarranno che è il futuro, tempo che pur essendo previsto nella lingua napoletana è pochissimo usato, sostituito quasi sempre dall’indicativo presente o dalla costruzione verbale: devo da= aggi’’a etc. Ad es.: Domani mi taglierò i capelli si rende con: Dimane me taglio ‘e capille oppure Dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille. passe = uva passita o passa; trattasi di un aggettivo sostantivato, plurale di passo: appassito, secco: uva passa e come tale derivato dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'aprire, stendere'; propr. 'steso a seccare, ad appassire'; ficusecche = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile. RaffaeleBracale

giovedì 29 agosto 2013

RIGATONI SFIZIONI

RIGATONI SFIZIONI Ingredienti e dosi per 4 persone 4 etti di rigatoni, 2 etti di speck, 2 mazzetti di rucola piccante mondata,lavata e tritata, 2 cucchiai di strutto, 2 etti di ricotta ovina stemperata con 1 bicchiere di latte caldo intero, 1 etto di gorgonzola a cubetti da 1 cm. di spigolo, sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s., sale grosso un pugno. procedimento Lessare in abbondante acqua salata (pugno di sale grosso) bollente i rigatoni. Nel frattempo tritare grossolanamente nel mixer lo speck.In una proporzionata padella far fondere a mezza fiamma lo strutto, unire lo speck tritato, la rucola mondata,lavata e tritata e la ricotta ovina stemperata con un bicchiere di latte caldo intero; fare insaporire per cinque minuti e per ultimo unire il gorgonzola a cubetti.Stemperare bene, regolare di sale e pepe decorticato macinato a fresco, fare insaporire per altri cinque minuti il tutto. Scolare la pasta al dente versarla nella padella, mescolare e servire caldi di fornello questi gustosi rigatoni sfiziosi. Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, buona salute! Raffaele Bracale

VARIE 2511

1 - Storta va, deritta vène Ad litteram:va storto, ma viene dritto id est: parte negativamente, ma si conclude positivamente; locuzione emblematica di una filosofia ottimistica con cui si afferma la certezza, o almeno la speranza, che le cose principiate in modo errato o che sembrano procedere distortamente, si concluderanno in maniera esatta e conferente. 2 - Stuorto o muorto Ad litteram: storto o morto Modo di dire riferito ad una azione condotta in porto alla bell'e meglio o alla meno peggio sia pure con impegno e sacrificio. 3- Strujere 'e pprete Ad litteram: consumare le pietre Riferito al comportamento di chi tenga diuturnamente a piedi sempre il medesimo percorso e ne consumi quasi le pietre; per traslato e sarcasticamente riferito a chi perda accidiosamente il suo tempo, inutilmente bighellonando per istrada. Tale comportamento viene altresí indicato con la locuzione: jí 'ncasanno 'e vasule (andar pestando le pietre di copertura della strada). 4 -Sunnarse 'o tramme elettrico Ad litteram: sognare il tram (a motore) elettrico id est: fantasticare, fare castelli in aria illudendosi di poter raggiungere un improbabile traguardo. Locuzione nata quando ancora le vetture tramviarie erano mosse dai cavalli e la sperata elettrificazione del motore era di là da venire. 5 - Sunà 'o pianefforte Ad litteram:suonare il pianoforte ma il riferimento del modo di dire non riguarda lo strumento musicale; attiene invece alla leggerezza di mano dei borseggiatori che le usano con lieve maestria simile a quella dei suonatori di piano. 6 -T''a faje cu ll'ova 'a trippa. Ad litteram: Te la fai con le uova la trippa Cosí, con ironia e sarcasmo , si usa rivolgersi a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua ingrata necessità di adoperarsi per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato; come se si volesse consigliare chi fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, a renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova. 7 - T''a faje fritta cu 'a menta Ad litteram: te la fai fritta con la menta Cosí ironicamente si suole dire di tutte le cose ritenute inutili e di cui, conseguenzialmente non si sa cosa farsene.Semanticamente l’espressione si spiega col fatto che la frittura addizionata di menta è riservata a taluni ortaggi ( zucca e zucchine) di per sé senza molto sapore, quasi inutili. 8 -Taglià 'a recchia a Marco Ad litteram: tagliare l'orecchio a Marco. Si dice che sia adatto a tagliare l'orecchio a Marco quel coltello che avendo perduto il filo del taglio non è piú adatto alla bisogna; per estensione la locuzione è usata ironicamente in riferimento ad ogni oggetto che abbia perduto la sua capacità iniziale di esatta, determinata destinazione. Il Marco dell'epigrafe in realtà è corruzione del nome Malco servo del sommo sacerdote cui san Pietro, nell'orto degli ulivi, intervenendo in difesa di Cristo, recise un orecchio, che però il Signore immediatamente risanò; tradizione vuole che da quel momento il coltello usato da san Pietro non fu piú in grado di tagliare alcunché. 9 -Taglià 'e panne 'ncuollo Ad litteram: recidere i panni addosso id est: sparlare di qualcuno, e farlo protervamente e lungamente quasi metaforicamente mettendolo a nudo con il taglio degli abiti da colui indossati. 10 - Tanno pe tanno Ad litteram: allora per allora, lí per lí; locuzione temporale usata per indicare l'immediatezza di un accadimento che si verifica con estrema contemporaneità rispetto ad un altro o - nel caso di un ordine - quando venga eseguito senza por tempo in mezzo. L’avverbio tanno è dal lat. tande(m)con normale assimilazione nd→nn. 11 -Tené 'a bbotta dint' â scella Ad litteram: avere un colpo nell'ala Locuzione usata per sarcasticamente commentare il comportamento di chi tenti disperatamente di dissimulare o tener nascosta una colpa o magagna a lui attribuibili; di costui, costretto ad arrangiarsi per non far scoprire quanto tenga noscosto, si dice che tene 'a bbotta dint' â scella (à un colpo nell'ala) si comporti cioè quasi come un uccello che, ferito ad un ala, è costretto a ricorrere alle piú strane posizioni e circonvoluzioni per continuare a volare. 12 -Tené 'a capa a ppazzia Ad litteram: tenere la testa al giuoco. Detto di chi, contrariamente a quanto ipotizzabile dati la sua congrua età ed il suo status sociale, si mostri eccessivamente incline al giuoco, prendendo tutto a scherzo, non dimostrando serietà alcuna né nel lavoro, né nei rapporti interpersonali. 13 -Tené 'a capa a tre asse Ad litteram: tenere la testa a tre assi id est: essere nervoso e preoccupato; locuzione mutuata dal giuoco del tressette dove un giocatore in possesso di tre assi,che valgono ciascuno un punto intero, sebbene ipoteticamente possa conquistare i relativi tre punti, in realtà si preoccupa, non essendo certo che potrà raggiungere lo scopo atteso che gli assi possono venir facilmente catturati dall'avversario che sia in possesso del due o del tre del medesimo seme degli assi; il due ed il tre infatti, sebbene valgano un terzo di punto ciascuno, sono nella scala gerarchica delle prese superiori all'asso e possono catturarlo. 14 -Tené 'a capa a vviento Ad litteram: tenere la testa nel vento id est: essere una banderuola, un essere poco affidabile e/o raccomandabile. 15 - Tené 'a capa fresca Ad litteram: tenere la testa fresca id est: non coltivare pensieri serii, anzi - al contrario - essere occupato solo da fandonie, quisquilie, scherzi e futilità cose tutte che, lasciando la mente sgombra di preoccupazioni, tengono la testa fresca, al contrario dei pensieri serii che, altrove, si dice fanno cocere 'o fronte (fanno scottar la fronte). 16 -Tené 'a capa 'e provola Ad litteram: tenere la testa di provola Détto di chi abbia la testa bernoccoluta, con la tipica protuberanza della provola gustoso formaggio fresco, dalla caratteristica forma; al di là però del riferimento alla forma del latticino, la locuzione è usata anche per significare che colui che à la testa di provola non è particolarmente intelligente e manca perciò di sale cosí come la suddetta provola, che pur essendo piú gustosa della mozzarella da cui è ricavata, non essendo un formaggio stagionato, è piuttosto sciapito. 17 -Tené 'a capa gluriosa Ad litteram: tenere la testa gloriosa Si dice cosí di chi sia incline ad improvvisazioni assurde, astruse trovate, soluzioni ardite quando non pericolose, espedienti improvvisati. 18 - Tené 'a capa sciacqua. Ad litteram: tenere la testa annacquata. Si dice cosí, offensivamente , ma anche solo causticamente di chi si ritenga non abbia la testa a posto, e sia dotato di minime qualità intellettive quasi che nella testa abbia non il cervello, ma dell' acqua . 19 -Tené 'a capa pe spartere 'e rrecchie Ad litteram: tenere la testa per dividere le orecchie Locuzione di valenza molto simile alla precedente riservata a coloro che inveteratamente sciocchi, stupidi ed incapaci si ritenga che abbiano la testa - priva di cervello e dunque di raziocinio -solo, iperbolicamente, come elemento necessario alla separazione delle orecchie. 20 -Tené 'a capa tosta Ad litteram: tenere la testa dura id est: esser caparbio, cocciuto, ma anche: ben fermo nelle proprie opinioni; estensivamente, poi: esser duro di comprendonio, tardo all'apprendimento. 21 -Tené 'a cazzimma Neologismo studentesco intraducibile ad litteram con il quale si indica l'atteggiamento malevolo, la furbizia prevaricante di chi mira a danneggiare una controparte piú debole e perciò piú vulnerabile. Talvolta si imbarocchisce la locuzione aggiungendo lo specificativo: d''e papere australiane (delle oche australiane), specificazione però inutile e non comprensibile atteso che non è dato sapere che le oche di quel continente siano prevaricatrici o particolarmente furbe. 22 -Tené 'a cimma 'e scerocco Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso, irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco. 23 -Tené 'e cazze ca ce abballano pe capa Ad litteram: tenere i peni che ci danzano sulla testa Id est: essere preoccupati al massimo, aver cattivi crucci che occupano la testa. Icastica anche se becera locuzione con la quale si sostiene che ipotetici peni significanti gravi preoccupazioni ci stiano danzando in testa per rammentarci quelle inquetudini. 24 -Tené 'a magnatora vascia Ad litteram: tenere la mangiatoia bassa Id est: non avere alcuna preoccupazione economica e comportarsi conseguentemente in maniera prodiga, quando non eccessivamente dispendiosa, non badando alle spese. 25 -Tené 'a neve dint' â sacca Ad litteram: tenere la neve in tasca o meglio nel sacco. Détto di chi si mostri eccessivamente dinamico o frettoloso e sia restio a fermarsi per colloquiare, quasi dovesse raggiungere rapidamente la meta prefissasi prima che si sciolga l'ipotetico ghiaccio tenuto in tasca. Questa riportata è la spiegazione che normalmente e popolarmente si dà dell’espressione e non è una spiegazione del tutto erronea: in realtà però piú precisamente la fretta e la dinamicità sottese nell’espressione son quelle dei cosiddetti nevari cioè degli addetti al trasporto della neve che prelevata nei mesi invernali in altura (Vesuvio, Somma, Faito, Matese e monti dell’Avellinese) veniva dapprima conservata in loco in grotte sottorranee dove gelava e poi all’approssimarsi dell’estate, stipata in sacche di iuta veniva trasporta velocemente a dorso di mulo nelle città e paesi per rinfrescare l’acqua e fornire la materia prima per la confezione dei gelati. Da tanto si ricava che il termine sacca non sta ad indicare la tasca di un abito, quanto (con derivazione da un lat. parlato sacca(m) femminilizzazione del classico lat. saccu(m), che è dal gr. sákkos, di orig. fenicia),quanto un grosso recipiente di tela lungo e stretto, aperto in alto, usato per conservare o trasportare materiali incoerenti, o comunque sciolti. Il passaggio dal maschile sacco al femminile sacca si rese necessario perché – come ò piú volte annotato - in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella. brak