mercoledì 30 giugno 2010

SCARTILOFFIO/A

SCARTILOFFIO/A
Ci troviamo questa volta a parlare di due parole, l’una maschile, l’altra femminile, che fan parte del fiorito ed icastico linguaggio partenopeo, ambedue nell’originario significato di atto, manovra truffaldini tesi a raggiunger lo scopo di affibbiare, per solito a stranieri, carta straccia in luogo di buona carta mnoneta; estensivamente poi ogni atto o manovra truffaldini operati in danno di sprovveduti, disattenti, incolti, creduloni che facilmente si lasciano raggirare ed imbrogliare.
Storicamente le voci in epigrafe nacquero tra il finire del 1700 ed i principi del 1800 a Napoli, al tempo delle frequentazioni di viaggiatori stranieri che accorrevano a visitare le città centro meridionali e nacquero nell’ambito della camorra (setta di malviventi che uniti in consorteria tentano di procacciar con ogni mezzo lecito, ma piú spesso illecito, guadagni e benefici ai propri membri; etimologicamente corruzione ed adattamento del termine spagnolo gamurra che, a sua volta è da chamarra = abito di foggia iberica preferito dalla peggior risma di lazzaroni partenopei) che, per il tramite di suoi adepti, gestiva a suo pro quell’antico fenomeno turistico; non è che il trascorrer del tempo abbia fatto cambiar molto le cose; attualmente a Napoli, ma ugualmente in altre città centro-meridionali le vittime preferite degli scartiloffisti che sono ovviamente coloro che praticano lo scartiloffio, sono pur sempre i turisti o i derelitti cafoni e/o pacchiani, cioè gli sprovveduti provinciali che giungono in città divenendo, a loro malgrado, súbito preda di furbi lestofanti truffatori che li raggirano ed imbrogliano; e ciò avviene non perché i cittadini stanziali siano piú furbi o svelti dei cafoni o dei pacchiani, ma solo perché i cittadini ben conoscono di che infidi panni vestono i truffatori che si aggirano per piazze, vicoli e stazioni della città ed accuratamente tentano di evitarli e tenersene lontani.
Torniamo alle parole in epigrafe e vediamone un po’ l’etimologia, per la ricerca della quale non bisogna mai dimenticare il significato originario di scartiloffio/a che è la truffa tesa ad appioppar carta straccia in luogo di buona cartamoneta; ordunque:
Scartiloffio/a addizione del sostantivo scartoffia con l’aggettivo loffio/a;
Scartoffia : voce gergale forse nordica, per indicare una carta da giuoco senza valore, una cartina;
Loffio/a: letteralmente frollo, cascante, molle e quindi scadente, inutile; etimologicamente da un ant. tedesco: slapf→slaf, ma non gli sarebbe estraneo il latino labi da cui il toscano labile =inconsistente.
Si comprende facilmente che una scartoffia che sia anche loffia rappresenti quanto di peggio possa capitare ad un povero turista o ad un provinciale che approdi o giunga nella nostra città o in cento altre città d’arte del centro-meridione; rammenterò – per chiudere in … allegria - l’incipit del film Guardie e ladri in cui lo scartiloffista Totò si dedicava ad una particolare forma di scartiloffio: l’appioppare ad un credulo turista americano una grossa patacca che è una ovviamente falsa moneta antica di grosse dimensioni il cui nome è dall’arabo bataqa attraverso lo spagnolo pataca.
Raffaele Bracale

AMMUINA o AMMOINA

AMMUINA o AMMOINA
Come tanti altri termini (camorra, guaglione, scugnizzo e derivati), quello in epigrafe è parola che, partita dalla parlata napoletana è pervenuta nell’italiano sia come sostantivo ammoina o ammuina o addirittura ammoino/ammuino, che come voce verbale ammuinare/ammoinare.
Comincerò col dire che in napoletano la voce in epigrafe e le corrispondenti voci verbali furono – nel lessico popolare – di quasi esclusiva competenza degli adolescenti ed indicarano essenzialmente il chiasso, la confusione, la rumorosa agitazione prodotta da costoro specialmente durante il giuoco, chiasso, confusione ed agitazione rumorosa che determinano negli adulti costretti a subirli, noia e fastidio; solo per estensione successivamente le parole riguardarono chiasso, confusione e baccano degli adulti ed addirittura con l’espressione fare ammoina, nel gergo marinaresco, si indicò il darsi da fare disordinatamente e senza frutto, o per ostentare la propria laboriosità e vi fu un capo ameno, ma scarico che, prendendo le mosse da tale gergo marinaresco, peraltro mercantile,e con il palese scopo, seppur non dichiarato di vilipendere i Borbone Due Sicilie si inventò un inesistente articolo: Facite ammuina attribuito alla marineria borbonica di Francesco II Due Sicilie.
Per amor di completezza ricorderò che il predetto fantasioso articolo recitava: All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora: chilli che stann' a destra vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a destra: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso: chi nun tiene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a llà.
Ò trascritto l’articolo così come l’ò travato in rete, stampato su di un evidentemente falso proclama reale recante lo stemma borbonico.
Non voglio soffermarmi piú di tanto sull’evidente falsità dell’articolo; mi limiterò ad osservare che essa si ricava già dal modo raffazzonato in cui è scritto; è evidente che il capo scarico che lo à vergato, mancava delle piú elementari cognizioni della parlata napoletana: basti osservare in che modo errato sono scritti tutti i verbi, terminanti tutti con un assurdo segno d’apocope (‘) o di una ancóra piú assurda elisione, in luogo della corretta vocale semimuta.A ciò si deve aggiungere l’incongruo, fantasioso congiuntivo esortativo che conclude l’articolo: s’aremeni, congiuntivo che è chiaramente preso a modello dal tascono, ma non appartiene all’idioma napoletano che usa ed avrebbe usato anche per il congiuntivo la voce s’aremena cosí come l’indicativo; infine non è ipotizzabile un monarca che, volendo codificare un regolamento in autentico napoletano, affinché fosse facilmente comprensibile alle proprie truppe incolte, si rivolgesse o fosse rivolto per farlo vergare a persona incapace o ignorante della parlata napoletana; ciò per dire che tutto l’evidentemente falso articolo fu pensato e vergato dal suo fantasioso autore, con ogni probabilità filosavoiardo in lingua italiana e poi, per cosí dire, tradotto seppure in modo sciatto ed approssimativo in napoletano, cosa che si evince oltre che da tutto ciò che fin qui ò annotato dal fatto che nell’articolo (presunto napoletano) si parla di destra e sinistra, laddove è risaputo che i napoletani, anche i colti, usavano dire dritta e mancina.
Sistemata cosí la faccenda del Facite ammuina , torniamo alla parola in epigrafe e soffermiamoci sulla sua etimologia;
a prima vista si potrebbe ipotizzare, ma erroneamente che la parola ammoina sia stata forgiata sul toscano moina con tipico raddoppiamento consonantico iniziale ed agglutinazione dell’articolo la (‘a); ma a ciò osta il fatto che mentre il termine ammoina/ammuina sta, come detto, per chiasso, confusione, vociante baccano, la parola moina (dal basso latino movina(m)) sta ad indicare gesto, atto affettuoso, vezzo infantile; comportamento lezioso, sdolcinato, tutte cose evidentemente lontane dal chiasso e/o confusione che son propri dell’ ammoina/ammuina e lontane dal fastidio che da quel chiasso ne deriva all’adulto che, al contrario, è appagato e gratificato dalle moine infantili o talvolta da quelle femminili; sgombrato cosí il campo dirò che per approdare ad una accettabile etimologia di ammoina/ammuina occorre risalire, percorrendo un’esatta strada semantica, proprio al fastidio, all’annoiare che il chiasso, la confusione, il vociante baccano procurano; tutte cose puntualmente rappresentate dal verbo spagnalo amohinar(infastidire, annoiare, addirittura rattristare) e convincersi che l’ ammoina/ammuina altro non sono che deverbali del verbo spagnolo.Satis est.
Raffaele Bracale

IL RADDOPPIAMENTO DELLE CONSONANTI NELLA PARLATA NAPOLETANA

IL RADDOPPIAMENTO DELLE CONSONANTI NELLA PARLATA NAPOLETANA

Premesso che a mio avviso la questione del raddoppiamento détto pure geminazione iniziale o interno delle consonanti, quantunque rappresenti, soprattutto per i non addetti ai lavori o per chi sia alle prime armi, una delle maggiori difficoltà nel rendere per iscritto i dialetti centro meridionali e segnatamente la parlata napoletana,ma che comunque non sia difficoltà insormontabile, rammenterò che già intorno al 1780 in ordine a tale questione ed altre similari s’erano scontrati letterati del calibro di Luigi Serio e dell’abate Ferdinando Galiani.
( Luigi Serio fu letterato e patriota (Massa Equana, Napoli, 1744 † Napoli 1799); fu allievo di A. Genovesi, prof. di eloquenza all'univ. di Napoli, dopo il 1790 fu repubblicano, e morí combattendo i sanfedisti. Fu improvvisatore e autore di melodrammi; egli propugnò (in un'arguta risposta polemica in dialetto (Lo Vernacchio) all'abate Galiani), propugnò e giustamente una scrittura dialettale quanto piú prossima possibile alla lingua parlata, servendosi perciò senza lesinare di geminazioni,accenti ed segni diacritici, nonché di apocopi aferesi etc. )Di parere diametralmente opposto fu il cosiddetto abate Galiani (
Ferdinando Galiani: economista e letterato (Chieti 1728 † Napoli 1787). A 16 anni scriveva dissertazioni di argomento politico, economico, archeologico etc. pubblicò poi un trattatello sul Dialetto napoletano (1779) ed un vocabolario del medesimo dialetto (post., 1789)).
Rammentato lo scontro tra letterati del calibro di Luigi Serio e dell’abate Ferdinando Galiani, preciso súbito ch’io mi schiero con Lugi Serio e son dalla sua parte (e non per simpatie politiche! Tutt’altro! Sono un convinto filoborbonico e sanfedista…) e non son dalla parte del cafoncello F. Galiani che aveva la pretesa di dissertar di napoletano,a malgrado che in realtà fosse solo un chietino!
Dirò altresí che comunque sulla questione del raddoppiamento o geminazione iniziale o interno delle consonanti, occorre essere cauti, ma fermi dando poche, ma sufficienti e nitide dritte e/o indicazioni.
Inizio perciò con il chiarire che diversa è la questione del A)raddoppiamento consonantico iniziale da quella del
B) raddoppiamento consonantico interno

A)raddoppiamento consonantico iniziale
Per quanto riguarda il raddoppiamento consonantico iniziale, occorre fare una prima, basilare considerazione: anche in italiano ci sono tante consonanti iniziali che, precedute da vocale, si pronunciano forti e raddoppiate, ma la loro scrittura, per una scelta dei padri fondatori della lingua nazionale, scelta che non condivido, è sempre scempia; ad esempio: in italiano “a poco a poco”, di fatto vien pronunciato a ppoco a ppoco, “a me” lo pronunciamo di fatto a mme, “vado a casa” lo pronunciamo di fatto vado a ccasa. Ma, ripeto, la loro scrittura (cosí vollero, ahi loro, i padri della lingua nazionale…) è sempre scempia e non si capisce proprio in base a quale criterio si evitò di scrivere quelle parole le cui consonanti iniziali son pronunciate in maniera forte e raddoppiata, con la consonante iniziale geminata. Ebbene, prendendo a modello l’italiano qualcuno si chiede (ma erroneamente), perché mai in napoletano si dovrebbero avere o si ànno per iscritto tanti raddoppiamenti di consonanti iniziali. Sarebbe piú giusto chiedersi il contrario: perché mai l’italiano eviti la scrittura delle consonanti geminate e non si capisce proprio in base a quale criterio si debbano scrivere scempie le consonanti iniziali pronunciate doppie!
D’altro canto se anche esistesse un criterio o una regola dell’italiano chiara e codificata e non dovuta all’uso, che affermasse l’inutilità dell’indicazione per iscritto della consonante iniziale geminata, non vedo perché la cosa dovrebbe valere per l’idioma napoletano scritto che è linguaggio autonomo, rispondente a regole proprie e non è tributario di quelle della lingua nazionale. Ma quel qualcuno (di cui per carità di patria taccio il nome indicando le sole iniziali di nome e cognome A. A. corrispondenti peraltro a quelle d’un noto vocabolarista partenopeo), il qualcuno ed altri suoi pari: L.I.,N.D.B.(la solita carità cristiana m’impone di limitarmi alle iniziali di nome e cognome, per tacere che si tratta: il primo d’un notissimo medico/letterato uso ai teleschermi regionali ed il secondo d’un altrettanto noto cattedratico del principale ateneo partenopeo) intignano ed insistono con il sostenere che a loro avviso, il lettore (sia esso partenopeo che di diversa origine) non à bisogno di essere guidato graficamente alla pronuncia doppia, dal momento che è già abituato (se è italiano) a pronunciare raddoppiate tante consonanti iniziali che si appoggiano ad una vocale precedente.Ebbene vorrei chiedere a quei dessi come si comporterebbe, a parer loro uno straniero che dovesse leggere un testo napoletano scritto alla maniera del Galiani o di costoro suoi epigoni che osservano inoltre che il non napoletano non saprà mai ben pronunciare il dialetto partenopeo neppure se fosse guidato dai piú accurati e puntigliosi segni diacritici e fonetici.Ognuno vede che si tratta d’una sciocca petizione di principio priva di conclamata prova. Né mette conto dar risposta a chi scioccamente si chiedesse perché utilizzare (o abbondare in ) per il napoletano scritto combinazioni grafiche del tutto estranee alle regole ed alla tradizione della lingua madre nazionale? Non mette conto dar risposta a costui che dimostrerebbe chiaramente d’ignorare che l’idioma napoletano scritto o orale è un linguaggio autonomo, che risponde a regole proprie e non è tributario di regole d’altro linguaggio, men che meno della lingua nazionale. Da ciò il sedicente professore A. A.( è lui quel desso che piú di tutti ignora talune regole linguiste e scioccamente intigna) ne trasse il convincimento che è superfluo raddoppiare graficamente le consonanti iniziali se non in quei pochi casi che possano ingenerare confusioni o incertezze: giunse a fare l’esempio di ccà (qui) rispetto a ca (che, perché).Ed aggiunse che peraltro anche in tale esempio sarebbe agevole osservare che la doppia “c” è superflua in quanto come discrimine diacritico sarebbe sufficiente la sola accentazione della vocale “a” per la voce avverbiale; quanta supponente sciocca asinaggine!Gli rintuzzo infatti che è erroneo e sciocco accentare l’avverbio napoletano di luogo cca corrispondente dell’italiano qua;
infatti l’avverbio cca (qua) etimologicamente deriva dal latino (e)cc(um h)a(c) ed un professore universitario dovrebbe sapere (e se non lo sa è un asino calzato e vestito…) che la caduta finale d’una consonante e non d’una sillaba non lascia alcun residuo in segni diacritici: accenti o apostrofi come càpita con mo←mo(x), pe←pe(r), cu←cu(m), esiti tutti che non richiedono accento o apostrofe, e chi li ponesse sbaglierebbe!




La cosa grave è che il sedicente prof. A.A. à fatto proseliti(purtroppo è nella natura umana seguire chi erra piuttosto che chi stia nel giusto…) e nel suo medesimo senso si è espresso anche L. I.(altro letterato napoletano sodale del cattedratico Nicola De Blasi) suggerendo di raddoppiare graficamente la consonante iniziale “soltanto quando ciò rivesta un’utilità grammaticale”, ricordando un po’ troppo semplicisticamente che vanno pronunziate doppie - anche se si scrivono semplici - le consonanti iniziali delle parole che sono precedute da: a (moto a luogo), e/’e,, cchiú, tre, cu, nu’ (non), sî (tu sei), è, à, so’ (io/essi sono), sto’ (io sto), accussí, ògne, quarche; nonché quelle che sono precedute dai pronomi dimostrativi plurali maschili e femminili.
Già Pirro Bichelli (altro addetto ai lavori, ma di nessuna affidabilità stante la cervelloticità di certe sue proposte o soluzioni grammaticali) , nel 1974, aveva affermato che il “raddoppiamento grafico… non si verifica generalmente per le consonanti in posizione iniziale, in base al principio della uniformità della parola, dato che esse, nella detta posizione, per alcuni casi si pronunziano col suono forte, per altri col suono normale: a ssecuzzune=a schiaffoni, ma ‘e secuzzune.Il Pirro semplicisticamente pretese di considerare regola una particolarità o eccezione!
Tanto premesso e chiedo scusa d’essermi dilungato (ma era necessario), torniamo al nostro assunto e parliamo del
A)Raddoppiamento Consonantico Iniziale
1 - In generale si usano nello scritto e nell’orale doppie le consonanti iniziali di monosillabi che abbiano un monosillabo analogo scritto con consonante scempia ma di significato diverso (ad es. l’avverbio cca (= qua )e non ccà come asinescamente scritto da qualche sedicente letterato o professore, cca da non confondere con la congiunzione ed il pronome ca (=che); l’avverbio di luogo lla (corrispondente all’italiano là) pur non confondendosi nel napoletano con nessun altro monosillabo la (articolo che in napoletano è sempre ‘a, tranne nell’unico caso di quel disinformato Salvatore Di Giacomo che scrisse La luna nova…) dicevo l’avverbio di luogo lla (corrispondente all’italiano là) si scrive con la doppia per rispettare l’etimologia (i)lla(c) ed in napoletano non è necessario accentarlo (llà) giacché in napoletano la o lla non si confonde con nulla.
2- si leggono e scrivono altresí doppie le consonanti iniziali di parole precedute o dalle vocali finali non evanescenti di parole (cfr. scenne ‘o cchiummo ma scenne chiummo , damme tuorto ma damme ‘o ttuorto etc.) oppure dall’ articolo neutro ‘o (il) (es. ‘o ppane, ‘o ppepe, ‘o ppecché, ‘o cchiummo etc.), ma se l’art. ‘o (il) è maschile (es. ‘o pesce, ‘o cinema etc.) la consonante iniziale torna ad essere scempia perché si pronunzia debole;
3 - come pure si leggono e si scrivono ugualmente doppie le consonanti iniziali di parole precedute dall’ articolo femm. ‘e (le) (es. ‘e ffiglie (=le figlie), ma ‘e figlie(=i figli).

Vado oltre e preciso altresí che il raddoppiamento iniziale delle consonanti nel napoletano
1)può dipendere da un aferesi che lascia una doppia (ad es.: cchiesa/cchiesia←(e)cclesia(m) – ll’/llu/lle(art.)←(i)ll(e)/ (i)ll(a) – lloro ←(i)lloru(m); di lla (là)←(i)lla(c) ò già détto;
2) le consonanti iniziali b e g (palatale) sono sempre geminate (ad es.:bbuccaccio, bbuttone, bbutteglia,bbuvero, gGiorgio,ggente, ggioverí etc.;
3) la geminazione della consonante iniziale può dipendere ancóra da assimilazione regressiva in + parole comincianti per m→mm (ad es.: in mezzo→ ‘mmiezo etc.), da assimilazione regressiva con parole introdotte da termini che conservano una sorta di consonante finale etimologica funzionale: cfr. a←ad, tre←tres,cchiú←plus che producono raddoppiamenti del tipo vaco a mmare – tre ccose – cchiú ccurto etc. o pure la geminazione della consonante iniziale può dipendere da assimilazione progressiva m+b/m+v→mm (cfr. ‘mmocca←in+bucca→’nbucca→’mbucca→mmocca; ‘mmidia←invidia(m)→’nvidia(m)→’mvidia(m)→mmidia;’mmitare/’mmità ←invitare)→’nvitare→’mvitare→’mmitare/’mmità);

4) si verifica altresí la geminazione della consonante iniziale di parole che seguono gli aggettivi femminili ati(altre), bbelli(belle),bbrutti (brutte) chelli (quelle) chesti/’sti(questi) cierti(talune) quanti (quante) tanti(tante)
(cfr. ad es.: ati ccose, bbelli ffemmene, bbrutti scarpe, chelli/chesti/’sti ccarte, cierti vvote, quanti/tanti ggunnelle ma quanti/tanti cavalle etc.)

5) si verifica altresí la geminazione della consonante iniziale z (seguíta da a, i,,o,u) di parole che sono o sono intese neutre mentre la consonante iniziale z (seguíta da a, i,,o,u) di parole di altro genere resta scempia;
6) si verifica infine la geminazione della consonante iniziale dei lemmi usati in funzione di esclamazione:
Ggiesú, Ggiesú! Uh Mmaronna!
7)ecco infine un elenco di lemmi con raddoppiamenti iniziali derivanti da aferesi non segnalata graficamente
e da successiva assimilazioni regressive
cchiú ← *(i)nplu(s) →nchiú→cchiú
dDio ←*(oh) Dio→oddio→dDio –
ggenio ← *(i)ngeniu(m) –
lloco non da *illoloco→illoco→lloco, ma piú verosimilmente da un *hoc (oppure in) loco donde *oc-loco→olloco→(o)lloco oppure *in-loco→illoco→(i)lloco; mmaje (forma alternativa della scempia maje; mmaje è spiegabile sempre come assimilazione regressiva con una partenza da un
*(ia)m magis→*(ia)mma(gi)s→*(ia)mmaj(s)→ (ia)mmaje;
di per sé maje = mai, in nessun tempo, in nessun caso derivato dal latino magi(s)= piú con caduta della sibilante finale e della g intervocalica sostituita da una j di transizione e con paragoge della semimuta finale e al posto della i ;

mme e tte ( = mi e ti) forme collaterali di me e te; il raddoppiamento consonantico riporta ad una base (a)d me, (a)d te nel valore sintattico di compl. oggetto o di termine.
E veniamo al
B) Raddoppiamento Consonantico Interno
Premesso che tutte le consonanti interne esplosive che formano sillaba con una vocale tonica si pronunziano e si scrivono doppie (cfr. ad es. tabacco in italiano ma in napoletano tabbacco, abete in italiano, ma in napoletano abbete etc.); e premesso che ugualmente si leggono e scrivono doppie, oltre le esplosive b e p, anche il gruppo br→bbr e quello bl→bbl, la zeta , e la g palatale soprattutto nelle parole che in italiano terminano in zione o gione ed in napoletano vanno rese in zzione e ggione; tanto premesso entriamo in altri dettagli.
1) son sempre doppie le consonanti interne in parole derivanti da assimilazioni regressive (cfr. abbasta← ad+basta);
2)una serie di geminazioni è dovuta (sulla scia di esito osco ) all’assimilazione progressiva dei foni –mb-, -nd – che evolvono nelle doppie delle rispettive nasali: mb→mm, nd→nn (cfr. cchiummo←plumbeu(m), palummo←palumbu(m), fronna←fronda, unnece←undeci(m);
3) si à sempre il raddoppiamento consonantico di tipo espressivo in parole derivate da lemmi in cui la consonante originariamente ed etimologicamente è scempia (cfr. cammurista←camorra – cannottiera ←canotto etc.);
4) si à ugualmente sempre il raddoppiamento consonantico di tipo espressivo in parole in cui la consonante originariamente ed etimologicamente è scempia, raddoppiamento dovuto all’intensità dell’accento tonico e dai suoi riflessi si sillabe caratterizzate da liquide o nasali (cfr. ad es.:melòne→mellone ,amóre→ammóre, innamorato→nnammurato, varechína→varrichina/varricchina etc.)
5) altri casi di raddoppiamento interno soprattutto nella seconda sillaba risalgono ad un originario prefisso ad- che à subíto una normale assimilazione regressiva con la consonante iniziale successiva producendo esiti del tipo:ad+b→abb, ad+c→acc, ad+d→add,etc.
6) consueti casi di raddoppiamento interno riguardano le consonanti b,br,g (palatale) che se intervocaliche vanno sempre soggette alla geminazione scritta ed orale (cfr. debiti→diebbete, libro→libbro, aprile→abbrile, cugino→cuggino etc.).
Come penso di aver sufficientemente espresso, si tratta di poche e chiare norme alle quali occorre attenersi, norme che non m’appaiono né difficili , né complesse il tutto con buona pace dei paludati studiosi e/o sedicenti professori A.A., L.I.,N.D.B. che pretenderebbero, cassando n’atu rigo ‘a sott’ ô sunetto di banalizzare ciò che di per sé è già semplice e facilmente comprensibile.
E giunto a questo punto, per evitare che mi scappino i cavalli e smarroni nei confronti di qualche cattedratico, faccio punto augurandomi di non dover far ricorso ad un errata corrige.
Satis est.
Raffaele Bracale

MEZZANO, RUFFIANO & dintorni

MEZZANO, RUFFIANO & dintorni
Anche questa volta faccio sèguito ad un quesito rivoltomi dall’amico N.C. (al solito, motivi di privatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) occupandomi delle voci italiane in epigrafe, di altri eventuali sinonimi, voci collegate e delle corrispondenti voci del napoletano.
Entro súbito in medias res cominciando con
Mezzano/a agg.vo e s.vo m.le o f.le;
1)come aggettivo indica ciò che è in mezzo, di mezzo; che occupa un posto intermedio in una gradazione: statura, età, grandezza mezzana; figlio, fratello mezzano, di età intermedia tra il maggiore e il minore;
2)come sostantivo (ed è di questo che mi à chiesto l’amico N.C) indica
1 intermediario, mediatore
2 chi favorisce illeciti amori; la voce è dal lat. medianu(m), deriv. di medius 'mezzo';
il sinonimo di questa voce nell’accezione sub 2 è la voce che segue:
ruffiano/a s.vo m.le o f.le
1 mezzano dei proibiti amori altrui.
2 (estens.) chi aiuta altri in un intrigo
3 persona che ricorre all'adulazione e ostenta modi servili per ottenere il favore altrui; la voce (che – con tutta probabilità - è pervenuta nell’italiano partendo dal napoletano come si evince dal tipico raddoppiamento espressivo della consonante fricativa labiodentale sorda (f)) è dal lat. volg. *rufianu(m) 'dai capelli rossi', o vestito di rosso , derivato – come ò détto - con raddoppiamento espressivo della consonante fricativa labiodentale sorda (f) da rufus 'rosso' addizionato del suff. anu(s) suffisso di aggettivi, spesso anche sostantivati, derivati dal latino o formati direttamente in italiano, che indicano pertinenza per tipologia, appartenenza a nazione, città, gruppo, partito oppure mestiere, classe, categoria e similari.
Ciò détto aggiungerò che per estensione le voci esaminate vengon rese anche con
intrigante, agg.vo m.le e f.le
1 che à l'abitudine di tramare imbrogli per ottenere qualcosa; che si impiccia degli affari altrui: un avvocato intrigante; una persona pettegola e intrigante
2 (figuratamente) che incuriosisce, attira, cattura l'attenzione; accattivante;
usato anche come s.vo m.le e f.le vale
persona intrigante: essere un intrigante; comportarsi da intrigante
la voce è il part. pres. di intrigare v. tr.
1 avviluppare, intricare: intrigare una matassa
2 (fig.) turbare, imbarazzare:
3 (fig.) affascinare, interessare, incuriosire: un film che intriga lo spettatore; come v. intr. vale darsi da fare, tramando imbrogli, per ottenere qualcosa; macchinare: intrigare per avere un posto, una nomina;
quanto all’etimo intrigare è una variante di intricare (dal lat. intricare, comp. di in illativo ed un deriv. di tricae -arum (pl) 'intrighi, imbrogli'; variante di origine sett. (per l'occlusiva velare sonora g al posto della occlusiva velare sorda c); nel sign. 3 si avverte l’influsso del fr. intriguer;
sempre per estensione le voci esaminate vengon rese anche con
intrallazzatore/trice agg.vo e s.vo m.le o f.le
1 che, chi fa intrallazzi, scambi illeciti di beni o di favori,intrighi, imbrogli; voce denominale di intrallazzo dal sicil. 'ntrallazzu 'intreccio, intrigo', deriv. del lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio';
andiamo oltre e diciamo che tutte le voci prese in condirezione si ritrovano anche in senso spregiativo come manutengolo, o paraninfo, mentre estensivamente ed in senso grandemente spregiativo si ànno lenone, magnaccia e gergalmente pappone; esaminiamo le singole voci:

manutengolo/a s.vo m.le o f.le
In primis Chi tiene mano a malviventi, aiutandoli in azioni illecite o delittuose senza avervi parte determinante.
Per estensione, chi favoreggia altri nel compimento di attività o imprese giudicate comunque condannabili moralmente o idealmente;
ma anche (come nell’accezione che ci occupa) mezzano, ruffiano; etimologicamente derivazione semidotta della locuz.manu tenere= tener mano.

Paraninfo/a s.vo m.le o f.le
1 nell'antica Grecia, colui che conduceva la sposa in casa del marito; pronubo
2 (estens.) chi combina matrimoni;
anche (ed è il nostro caso) mezzano, ruffiano.
Voce dal lat. tardo paranymphu(m), dal gr. paránymphos, comp. di para(primo elemento di parole composte di origine greca o di formazione moderna, dal gr. pará 'presso, accanto, oltre'; può indicare (come nel caso che ci occupa) vicinanza, oppure somiglianza, affinità o deviazione, alterazione, contrapposizione (paramilitare, paranormale); in chimica compare nei composti derivati dal benzene per sostituzione di due atomi di idrogeno dell'anello benzenico quando gli atomi sostituiti sono distanziati fra loro da altri due) e ny/mphí 'sposa';

lenone, s.vo m.le e solo maschile; non è attestato un corrispondente femminile
1 nell'antichità romana, mercante di schiave
2 (lett.) favoreggiatore, sfruttatore della prostituzione; ruffiano, mezzano. Voce dal lat. lenone(m) 'mercante di schiave';

magnaccia s.vo m.le invar. e solo maschile; non è attestato un femminile; ed è voce essenzialmente dei linguaggi regionali centro-meridionali; sfruttatore di prostitute (estens.) uomo che vive alle spalle di una donna. Voce deriv. dal romanesco magnà 'mangiare' con riferimento al comportamento di chi sfrutta qualcuno vivendone alle spalle;
pappone s.vo m.le e quasi esclusivamente maschile benché sia attestato il f.le pappona:
1 (fam.) persona ingorda; mangione
2 ( quale voce gergale) sfruttatore di prostitute; Voce deriv. dal romanesco pappare ' verbo scherzoso che vale mangiare con riferimento al comportamento di chi sfrutta qualcuno vivendone alle spalle.

Esaurite le voci dell’italiano, passiamo ora al napoletano dove abbiamo:
caicco s.vo m.le e solo maschile; non è attestato un femminile
in primis indica un’imbarcazione piccola, leggera ed armata;
per traslato persona che si intromette, spesso con violenza, in affari poco leciti; semanticamente il significato traslato è da collegarsi alla morfologia dell’imbarcazione che piccola, leggera ed armate facilmente e rapidamente si insinua dove sia necessario operare; cosí con non diversa facilità e rapidità la persona che prende il nome a margine, riesce ad insinuarsi in affari poco puliti; etimologicamente la voce deriva dal turco kayik = imbarcazione piccola, leggera ed armata;

portapullaste s.vo m.le e f.le indeclinabile
ruffiano, mediatore fra innamorati, procacciatore di matrimoni; interessantissima l’etimologia del sostantivo ricavato con traduzione pedissequa dell’espressione francese porte-poulet (portapolletto) ma che in realtà non si riferiva a qualcuno che realmente portasse dei polli, bensí a chi favorisse,recandoli, lo scambio di bigliettini amorosi tra gli innamorati; la particolare piegatura dei foglietti li faceva assomigliare a dei piccoli polli con le alucce donde il nome spiritoso di poulet (polletto) ed ovviamente chi recava quei bigliettini fu détto porte-poulet (portapolletto); da rammentare che originariamente tale scambio di bigliettini amorosi avveniva tra innamorati della medio-alta borghesia partenopea avvezza alla lingua francese usata anche nella corte per cui il mediatore fra innamorati, piú che esser détto semplicemente portabigliettini, fu détto alla francese porte-poulet; quando poi la medesima abitudine passò tra gli innamorati del popolo che non avevano dimestichezza con la lingua d’oltralpe, ma solo con l’idioma partenopeo ecco che porte-poulet (portapolletto)diventò portapullaste restando acquisito come sostantivo per indicare il mezzano, il ruffiano etc. e venne usato nell’espressione tipica Fà ‘o portapullaste.
Ad litteram: fare il porta pollastri Id est: agire da mezzano, da ruffiano che rechi messaggi alternativamente
all’ amoroso o all’amorosa; per traslato fare il propalatore di notizie, per il solo gusto di portarle in giro senza neppure riceverne alcun sia pure piccolo vantaggio quale ad es. una mancia che si è soliti dare ad un garzone di macellaio che rechi effettivamente dei polli acquistati e non bigliettini amorosi.

Ruffiano/a s.vo m.le o f.le di questo s.vo ò già détto precedentemente; qui aggiungo solo che un tempo la suddetta funzione di
intermediario, mediatore, ma di quelli onesti e non di quelli illeciti amori tra giovani coppie borghesi o piú spesso popolane, la funzione di procacciatore di matrimoni, era svolta da taluni canonaci/confessori del duomo napoletano che si prestavano, compensati con una piccola offerta, a queste mansioni e poiché costoro indossavano delle calze tassativamente rosse ecco che la parola ruffiano che aveva un suo aspetto negativo atteso che – come ò détto – costui spesso era un mezzano di amori illeciti e/o proibiti ed estensivamente addirittura un intrallazzatore, ecco che con riguardo ai canonaci/confessori del duomo napoletano che si prestavano a far da intermediarî, mediatori, procacciatori di matrimoni, si dismise l’uso della voce ruffiano e si coniarono le semplici cauzerosse cauzetterosse (calze rosse) con evidente riferimento a quelle indossate dai canonaci/confessori del duomo napoletano.
Ricuttaro/a s.vo m.le o f.le Con il s.vo a margine che solo iperbolicamente rientra tra i sinonimi delle voci in epigrafe, si rende in napoletano il termine lenone dell’italiano. Al proposito dirò che a Napoli da sempre il lenocinio è praticato da piccoli furfantelli e/o camorristi, uomini o donne. Temporibus illis,cioè a fine '800 i piccoli furfanti ed i camorristi venivano arrestati e finivano sotto processo durante il quale dovevano esser difesi da avvocati che,qualora non fossero affiliati alla camorra, volevano esser pagati. A mettere insieme i fondi necessarî provvedevano i compagni dei detenuti che procedevano ad una questua piú o meno vessatoria tra piccoli commercianti e bottegai sia adiacenti al Tribunale, sia operanti nel rione d’origine del/dei furfante/i sotto processo. Tale questua finalizzata era detta 'a recoveta (la raccolta) da recoveta a recotta il passo è breve e da recotta a ricuttaro è ancora piú breve;successivamente con il termine ricuttare si indicarono non soltanto i questuanti suddetti, ma piú segnatamente i lenoni,i ruffiani,i protettori,i prosseneti etc. che spessissimo traevano origine appunto dalle schiere di quei camorristi questuanti.

rucco-rucco s.vo m.le e solo m.le; non è attastato un corrispondente femminile mezzano, ruffiano, paraninfo
e per estensione furbesca anche prosseneta, protettore, lenone, pappone; il s.vo è dato dalla reiterazione d’una voce onomatopeica (rucc→rucco, ma talora, sia pure con poca precisione anche rucche donde rucche-rucche) riproducente il tubare dei colombi nel periodo degli amori; poiché il mezzano, il ruffiano,il paraninfo nello svolgere il suo compito di mediatore o intermediaro (che tende a persuadere solitamente una donna ad accettare gli approcci d’un uomo) è solito tenere un atteggiamento di estrema prossimità fisica con il soggetto da convincere, parlandogli sommessamente e fittamente tale atteggiamento è molto simile a quello che tengono i colombi quando amoreggiano donde il rucc→rucco dei colombi se ne è tratto la voce a margine.
Ed a questo punto sarebbero esaurite le voci che strictu sensu ripeterebbero quelle dell’italiano e dell’epigrafe e potrei far punto fermo, ma nel napoletano esistono numerose altre voci partenopee di cui mette conto dire perché ripetono ad un dipresso quelle dell’italiano di cui mi sono occupato parlandone per estensione; esse sono:
accordamessere s.vo m.le e f.le letteralmente chi accorda o compone rapporti interpersonali e dunque intermediario/a, mediatore/trice ed in senso esteso anche lenone, prosseneta, ruffiano, mezzano, paraninfo; la voce deriva dall’agglutinazione della voce verbale accorda con il s.vo messere; accorda è la 3° pers. sg.ind. pres.dell’infinito accurdà =accordare, comporre rapporti, mettere d'accordo, conciliare dal lat. mediev. *accordare 'conciliare', deriv. del lat. cor - cordis 'cuore', sul modello di concordare; messere è un s.vo m.le = signore; voce antica ed ormai desueta, di sapore ironico, voce che si ritrova anche nel significato canzonatorio di stupido, sciocco e credulone in qualche poeta d’antan ( ad es.: E. Murolo che in una sua gustosa canzone di cui ora mi sfugge il titolo, lo usa ironicamente appunto in luogo di becco, affermando che una donna supera, se intende tradirlo, tutte le pastoie approntatele dal proprio uomo, giungendo, metaforicamente, a fumarselo e a farlo messere id est becco in quanto l’uomo è sciocco, stupido e credulone); la voce, ò detto di per sé etimologicamente sta per mio signore, mio sire risultando esser composta dal provenz.: mes=mio +sere/sire=signore e nella voce in esame à un significato piú generico stando ad indicare qualsiasi soggetto maschile messo d’accordo, conciliato con un soggetto dell’altro sesso dall’opera compositiva, persuasiva del/della intermediario/a, mediatore/trice ;
custiunante, s.vo m.le f.le intermediario/a, mediatore/trice di affari illeciti con comportamenti implicanti dispute e diverbi;etimologicamente è una voce verbale (participio pr. dell’infinito custiunà=questionare); a sua volta custiunà è un denominale di custione che è dal lat. quaestione(m), deriv. di quaerere 'domandare, interrogare'; tipica ed interessante nel napoletano il passaggio della consonante (q) alla l'occlusiva velare sorda(c).
facenniere/facennèra s.vo m.le o f.le mestatore, intrigante, intrallazzatore, traffichino, voce denominale attraverso il suff. di competenza iére (per il m.le) ed èra (per il f.le) voce denominale di facenna dal lat. facienda→facenna 'cose da farsi', propr. neutro pl. di faciendus, gerund. di facere 'fare'.
mettennante s.vo m.le e f.le intermediario/a, mediatore/trice intrigante e traffichino/a avvezzo/a a proporre, consigliare, suggerire soprattutto donne di cui è solito esporre, porre innanzi le qualità migliori vere o presunte; la voce deriva dall’agglutinazione della voce verbale mette con l’avverbio annante=avanti; mette è la 3° pers. sg.ind. pres.dell’infinito mettere =,porre, disporre, collocare, mettere dal lat. mittere 'mandare' e poi 'porre, mettere' annante è dal lat. tardo abante, comp. di ab 'da' e ante 'prima';
mmezzejapiccerille s.vo m.le e f.le di per sé in primis chi istiga ed aizza bambini invogliandoli ad azioni malevoli e dunque intermediario/a, mediatore/trice intrigante e traffichino/a infido, infedele, perfido, sleale; anche questa voce deriva da una agglutinazione, quella della voce verbale mmezzeja con il s.vo pl.piccerille;mmezzeja è la 3° pers. sg.ind. pres.dell’infinito ‘mmezzià: riferire dicerie e maldicenze o piú esattamente:suggerire azioni e/o pensieri malevoli e quindi: istigare; etimologicamente da riferire ad un tardo latino invitiare deverbale d’un in illativo + vitium = spingere all’errore e per estensione spingere ad azioni malevoli; qualcun altro propenderebbe per un ipotetico e peraltro non accertato basso latino in+*malitiare= spingere alla malizia; ma non si comprendono i motivi per lasciare una via certa e percorrerne una incerta nemmeno tanto agevole semanticamente parlando, non essendovi gran che di differente tra il vitium(errore, colpa, irregolarità) richiamato dalla prima e la supposta malitia (malizia, astuzia, furberia) della seconda; piccerille è un s.vo m.le pl. di piccerillo = bambino, piccino, ragazzino etimologicamente è voce derivata da un lemma fonosimbolico pikk (donde anche l’italiano: piccino) con ampliamento della base attraverso rillo(m.le)/rella(f.le) (cfr.piccerillo/piccerella) o altrove reniello/renella (piccereniello/piccerenella);

‘mpecajuolo/’mpecajola, s.vo m.le o f.le mediatore/trice intrigante e traffichino/a importuno/a e fastidioso/a infido/a, infedele, perfido/a, sleale che non lesina pur di pervenire al suo scopo di litigare; la voce è un denominale di‘mpeca s.vo f.le che connota un bisticcio futile, una faccenda importuna e fastidiosa, destinata però a risolversi in fretta; etimologicamente tale parola è da collegarsi ad un ant. tedesco biga (= lite) cui è anteposto un in→’m illativo;alla parola è unito il suffisso di pertinenza juolo/iola derivati del lat. olu(s)/ola;

‘mpechiero/‘mpechera, s.vo m.le o f.le sono parole antiche, ma non desuete che come altre erano in uso in famiglia e fra il popolo al tempo della mia fanciullezza ed ancóra oggi mi capita di ascoltare talvolta sulla bocca di amici o meglio di amiche riferita ad uomo,o piú spesso una donna intrigante, inframmettente, pettegola, che non disdegni – a maggior cordoglio – il raggiro, l’imbroglio nel tentativo di impicciarsi dei fatti altrui, impegolandovisi. La ricerca dell’etimo della voce a margine non mi appare complicatissiva; vi leggo molto chiaramente un deverbale del greco empleko=intratesso, intreccio addizionato dal solito suffisso di competenza era; la caduta della e iniziale di empleko giustifica il segno d’aferesi con cui preferisco scrivere ‘mpechera al posto del semplificato mpechera dove la m d’avvio priva d’aferisi potrebbe indurre qualcuno a ritenerla non etimologica, ma mera aggiunta eufonica come càpita ad. es. per la n di nc’è per c’è.

’ndrammera/’ntrammera, agg.vo e talora s.vo f.le e solo femminile atteso che un corrispondente maschile ’ndrammiero/’ntrammiero,oppure ‘ntrammettiere= uomo ,volgare, intrigante,pettegolo non è attestato e non è usato né nello scritto, né nel parlato comune;anche la voce a margine (unica voce con due grafie leggermente diverse) è voce antica ed abbondantemente desueta; letteralmente valse: donna pettegola ed intrigante, inframmettente, linguacciuta, che tesse trame; etimologicamente delle due grafie riportate la seconda (ntrammera) appare quella piú esatta e con ogni probabilità originaria atteso che risulta formata da una consonante eufonica n protetica del s.vo trama (con raddoppiamento espressivo della nasale bilabiale m) e con il suffisso di pertinenza èra; l’altra grafia (ndrammera) è palesemente ricavata dalla originaria ntrammera attraverso la sostituzione della consonante occlusiva dentale sorda t con la piú dolce consonante occlusiva dentale sonora d;
percacciante agg.vo ed anche s.vo m.le e f.le procacciatore/trice, mestatore/trice, intrallazzatore/trice, traffichino/a, mediatore/trice ambiguo/a, ipocrita, sleale;
etimologicamente la voce è il part. pres. del verbo percaccià = procacciare, procurare, produrre, determinare, arrecare etc.; percaccià è marcato sul fr. pourchasser e sul prov. percasar che si ritrovano anche nel siciliano e calabrese pircacciari.
sanzaro/a s.vo m.le o f.le
di per sé in napoletano, con la voce a margine si intende il sensale, il mediatore, l’intermediario, spec. per la compravendita di immobili o di prodotti agricoli e di bestiame. in senso estensivo chi combina matrimoni; oppure (ancóra in senso estensivo e furbesco)ed è il nostro caso) mezzano, ruffiano. La voce napoletana deriva dall’arabo simsâr→sinsâr→sansâr→sanzaro.

Non mi pare ci siano altri vocaboli napoletani che strictu sensu o in maniera estensiva traducano quelli in epigrafe; per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontento l’amico N.C. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale

MONELLO, DISCOLO, BIRBONE; BIRICHINO, FURBO

MONELLO, DISCOLO, BIRBONE; BIRICHINO, FURBO
Mi fu richiesto, per le vie brevi, da un cortese lettore di cui questioni di privatezza mi impongono di indicare le sole iniziali: S.C., lettore che si era soffermato a leggere qui e là alcune mie note linguistiche, di illustrare le parole napoletane che traducono quelle in epigrafe; lo faccio qui di sèguito, precisando che – come vedremo – alcune parole napoletane usate per significare ad un dipresso quelle dell’epigrafe, in realtà significano anche qualcosa in piú. Ad ogni buon conto prima di illustrare le voci del napoletano, prendiamo brevemente in considerazione quelle dell’italiano; abbiamo dunque
monello/a s.vo m.le o f.le 1 ragazzo discolo o poco educato; ragazzo di strada.
dim. monellino, monelluccio pegg. monellaccio
2 (estens.) ragazzo molto vivace, impertinente, irrequieto
3 (ant.) furfante, falso invalido. Non di semplice soluzione la questione etimologica: oltre il trincerarsi dietro un pilatesco etimo incerto cosa che mi procura attacchi d’orticaria,da qualcuno si ipotizza: a) una derivazione, quale diminutivo di Mone, accorciamento fam. di Simone, incrociato per il sign. con mòna «scimmia», ma semanticamente l’idea non mi convince; b) una derivazione da un lat. parlato moned(u)la→monedla→monella = «gazza,uccello ladro e loquace»,ma anche questa idea m’appare semanticamente poco percorribile; a questo punto poiché nessuna delle ipotesi in circolazione mi soddisfa o m’appare agevolmente percorribile, non mi resta che c) formulare una mia personaleed affatto originale proposta che mi pare risponda sia alla morfologia che alla semantica; poiché come ò già annotato sub 3 anticamente ed in primis la voce in esame fu usata per indicare un furfante,un falso invalido che pietiva elemosine facendo le viste di essere storpio,privo d’un braccio o di una gamba è ipotizzabile che monello sia derivato da un monchello diminutivo di monco (dal lat. mancu(m) 'manco, mutilo', quindi 'difettoso, manchevole'; ipotizzo cioè un monchello→mon(ch)ello→monello. discolo/a agg.vo e s.vo m.le o f.le
1 ribelle, scapestrato; con sign. piú attenuato, vivace, indisciplinato: un uomo discolo e manesco; un bambino discolo || Usato anche come s. m. [f. -a]: quel discolo di mio figlio ne combina di tutti i colori.
dim. discoletto accr. discolone pegg. discolaccio
2 (ant.) di carattere ombroso; intrattabile, incontentabile
3 (ant.) rozzo, illetterato.
Etimologicamente dal lat. tardo dyscolu(m), che è dal gr. dyskolos 'fastidioso, importuno'.
birichino/a agg.vo m.le o f.le
1 vivace, ed impertinente: un bambino birichino | (estens.) furbo, malizioso: occhi birichini
talora s. m. [f. -a] monello, bambino vivace ed impertinente, soprattutto in quanto manifesta tale suo carattere nelle parole o negli atti: Non son piú, cipressetti, un birichino,e sassi in specie non ne tiro piú (Carducci); anche agg.: questo ragazzo si fa sempre più birichino.
È molto diffusa, ma inesatta, la grafia biricchino.
2 Nella prima metà del sec. 18° erano cosí chiamati a Bologna gruppi di malviventi, designati dal nome delle contrade, tra i quali vigeva una stretta omertà; costoro consegnavano quanto riuscivano a rapinare a un capo, il quale ne disponeva a comune profitto. Ed in effetti etimologicamente questa a margine è in origine una voce emiliana, affine a briccone (s. m. [f. -a]
1 persona scaltra, malvagia, senza scrupoli
2 (scherz.) persona simpaticamente astuta, riferito soprattutto a ragazzi; birbante; voce che etimologicamente trae dal franc. bric = stolto).
Birbone s.vo ed agg.vo m.le o f.le [f. -a]
1 birba, briccone, canaglia. pegg. birbonaccio
2 (scherz.) monello, discolo. dim. birboncello
3 (ant.) vagabondo, mendicante
come agg.
1 malvagio, maligno: giocare un tiro birbone
2 (scherz.) intenso, molto forte: soffiava un vento birbone.
Etimologicamente è un accrescitivo (cfr. il suff. one) del s.vo birba che è Dal fr. bribe 'tozzo di pane dato per elemosina', quindi 'accattone, vagabondo, briccone'
Furbo s.vo ed agg.vo m.le o f.le [f. -a] agg.
di chi sa trarre vantaggi dalle situazioni agendo con prontezza, intuizione e senso pratico; scaltro, astuto: un ragazzo furbo | fatto con furbizia; che denota furbizia: una trovata, una mossa furba; occhi furbi. DIM. furbetto
come s. m. [f. -a]
1 persona furba, spec. in senso spreg. : fare il furbo | furbo matricolato, di tre cotte, persona furbissima. DIM. furbetto ACCR. furbone PEGG. furbaccio
2 (ant.) furfante
Etimologicamente è dal fr. fourbe 'ladro'.
Giunti a questo punto prendiamo in esame le voci del napoletano che rendono quelle dell’italiano in epigrafe, cominciando da quella piú nota e cioè da
scugnizzo/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e per estens., ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare; il verbo scugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo alla cui trattazione rimando, in particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè capaci di scugnare ed abili a farlo.
Lazzariéllo / lazzarèlla s.vo ed agg.vo m.le o f.le monello scostumato, ragazzino/a sfrontato/a dissoluto/a, dissipato/a, depravato/a, vizioso/a, immorale; etimologicamente si tratta d’un diminutivo (cfr. i suff. i +éllo - ella) del s.vo lazzaro che, con derivazione dal nome proprio di un mendico coperto di piaghe che compare nel Vangelo di Luca (16, 19-31) nella parabola del ricco Epulone, indica in primis
1 lebbroso; anche, persona inferma, coperta di piaghe
ma, con derivazione dallo sp. lázaro 'povero' fu anche il nome dato dagli spagnoli ai popolani napoletani che aderirono alla rivolta di Masaniello (1647) e quindi lazzariéllo / lazzarèlla per traslato indicano pure una persona macilenta, male in arnese,quale sono intesi il/la monello/a o il/la ragazzino/a come indicati or ora.
Banchiero/banchèra=agg.vo e talora s.vo o m.le o f.le, ma è il solo femminile ad essere usato, nel significato di pettegola o in quello di monella scostumata, ragazzina sfrontata, dissoluta, dissipata, depravata, viziosa, immorale atteso che il corrispondente maschile banchiere nel parlato comune non indica né il pettegolo, né un monello scostumato, etc. né un venditore al minuto,(quale è la banchèra) ma un impiegato di banca(istituto di credito); banchera ad litteram infatti in origine fu la venditrice al minuto che lavora servendosi di un banco/bancone tenuto all’aperto sulla pubblica via, venditrice che essendo in contatto con molte persone può – come la capèra - diventar pettegola, propalatrice di notizie; in sèguito, per ampliamento semantico, la voce indicò una monella scostumata, una ragazzina sfrontata, dissoluta, dissipata, depravata, viziosa, immorale; va da sé che trattandosi di addetta alla vendita al minuto servendosi di un banco/bancone, etimologicamente è voce derivata da banche plurale di banco (che è dal germ. *bank 'sedile di legno' ) + il suffisso femm. di pertinenza era o al maschile iere;
guittone/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le in primis vale mendicante, vagabondo e poi furfante,birbone,malvagio, maligno, semanticamente spiegati con il fatto che chi vagabondi perdendo tempo e non applicandosi ad un onesto lavoro da cui trarre sostentamento, debba ricavarlo per forza comportandosi da briccone e/o canaglia; etimologicamente la voce a margine attestata anche come guidone deriva dallo spagnolo guitón= guitto che ebbe significato spregiativo;
guittaglione/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le si tratta di un ampiamento morfologico della voce precedente, di cui, con medesimo etimo, conserva le stesse accezioni sia pure con accento maggiormente dispregiativo;

Smazzatiéllo/smazzatèlla s.vo ed agg.vo m.le o f.le monello/a malizioso/a,furbo/a, lazzaroncello/a,sbarazzino/a; etimologicamente si tratta d’un furbesco diminutivo (cfr. i suff. i +éllo - ella) dell’ agg.vo gergale smazzato (=fortunato, sodomizzato), che quale p.p. del verbo smazzà = rompere il sedere, deriva dal sostantivo mazzo (culo, fondoschiena dal lat. matea= intestino).
Zàccaro/a s.vo, ma talora anche agg.vo m.le o f.le
Voce che quale sostantivo indica in primis schizzo, goccia di fango ed in tal senso è usata al femminile id est zaccara; successivamente quest’ultima voce fu usata per significare estensivamente inezia, bagattella, cosa da nulla. Infine sulla scorta di questi significati si coniò il maschile zaccaro con cui si indicò un fanciullino, un monellino sporco e malmesso ed analogamente il femminile zaccara finí per indicare, oltre il già détto, una ragazzina sudicia e lazzaroncella;
quanto all’etimo la voce è da collegare al longob. zahar 'goccia, lacrima'.
E giunti qui penso d’aver accontentato l’amico S.C. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori, per cui posso annotare il consueto satis est.


Raffaele Bracale

martedì 29 giugno 2010

VA’ FÀ LL’OSSE Ô PONTE

VA’ FÀ LL’OSSE Ô PONTE
Va’ fà ll’osse ô ponte
Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese.Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte, con il medesimo significato.
Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esisteva un macello
dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa usate per preparar economici brodi, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima accezione vale per la locuzione mannà ô ponte; tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara giacché la si rivolge a chi - probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire fino in fondo gli strali dell’avversa fortuna.
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VARIE 752

1 -Fà zite e murticielle e battesime bunarielle.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose portate di pesce fresco.
2 - Vieste Ciccone, ca pare barone.
Letteralmente:vesti Ceccone e sembrerà un barone. La locuzione napoletana stravolge completamente quella toscana che afferma: l'abito non fa il monaco. Il detto partenopeo, al contrario, afferma che basta vestire accuratamente un qualsiasi Ceccone (villano) per farlo apparire un barone...
3 - Pigliarse 'e penziere d''o Russo.
Letteralmente: Prendersi i pensieri del Rosso. Id est: preoccuparsi di faccende senza importanza, trascurandone altre ben più importanti.Il Rosso della locuzione fu un famoso ladro, che condannato al capestro, invece di preoccuparsi della propria sorte, si chiedeva chi sarebbe stato incaricato di portare la scala necessaria all'esecuzione.
4 - Jí facenno 'e ssette chiesie.
Letteralmente: Andar visitando le sette chiese. Id est: andar perdendo tempo occupato nella visita delle altrui abitazioni e non per una reale necessità o incombenza, ma per il gusto di bighellonare, soffermandosi nelle case di amici e conoscenti. Le sette chiese indicate nella locuzione, a Napoli sono ben note a tutti essendo quelle disseminate sulla famosa strada di Toledo partendo da piazza Dante per giungere a piazza del plebiscito o Largo di PALAZZO. Esse nell'ordine sono:Spirito santo - San Nicola alla Carità - San Liborio - Santa Maria delle Grazie - Santa Brigida - San Ferdinando - San Francesco di Paola e vengon visitate da tutti i napoletani che nel pomeriggio del giovedì santo si recano a fare il tradizionale "struscio" ossia la passeggiata rituale che comporta la visita (da farsi in numero dispari)dei così detti Sepolcri ossia delle solenni esposizioni del SS. Sacremento, che si tiene in tutte le chiese cattoliche per ricordare l'istituzione del sacramento dell' Eucarestia.
5 - Vestirse 'a fesso.
Letteralmente: indossare l'abito dello stupido. Id est: comportarsi in maniera volutamente sciocca, fare lo gnorri, tenere un comportamento da stupido nella speranza che cosí facendo si possa indurre una ipotetica controparte a non calcar la mano con pretese e richieste e raggiungere cosí il fine sperato con poca fatica e minimo impegno.È l'atteggiamento che temporibus illis tenevano taluni chiamati alle armi per evitare la partenza per il fronte.Il fatto era compendiato nella frase: fà 'o fesso pe nun gghí â guerra(fare lo sciocco per non andare in battaglia; spesso si raggiungeva lo scopo, giacché non erano graditi soldati stupidi.
6 -Fà 'nu sizia-sizia.
Letteralmente: fare un sitio- sitio Id est: richiedere ripetutamente e lamentosamente qualcosa con ossessiva petulanza. La locuzione nasce prendendo spunto dal Sitio! pronunciato da Cristo sulla croce. Alla richiesta del Signore i soldati risposero offrendogli dell'aceto che misto ad acqua è la bevanda piú adatta a spegnere l'arsura.
7 - Essere 'na pimmice 'e canapé.
Letteralmente: essere una cimice annidata in un divano. Id est: essere inaffidabile, subdolo e perfido come una cimice che - secondo la credenza popolare - è pronta a tradire il proprio simile o colui che abbia la sventura di tenerla nascosta nel proprio divano; il primo ad essere morsicato sarà proprio il padrone del divano.
8 - Ma tenisse 'e gghiorde?
Letteralmente: fossi affetto da giarda? Domanda retorica che con aria insolente, viene rivolta a Napoli, a qualcuno che appaia pigro, indolente, scansafatiche, che non si muove, nè fa alcunché, quasi fosse affetto da giarda la malattia che colpisce le giunture ed in ispecie il collo del piede dei cavalli producendo eccessiva enfiagione delle zampe delle bestie, impossibilitate, per ciò a procedere speditamente.
9 - Jí cercanno 'mbruoglio, aiutame!
Letteralmente: andare alla ricerca di un imbroglio che possa aiutare. Id est: quando ci si trovi in situazioni o circostanze tali che non lascino intravedere vie d’uscita, l’unico mezzo di trarsi d’impaccio è quello di rifugiarsi in un non meglio identificato ‘mbroglio (imbroglio,astuzia, inganno, moto di destrezza) che in un modo o in un altro consenta di risolver la faccenda. La locuzione a Napoli è usata a salace commento delle azioni di chi, per abitudine, non è avvezzo ad agire con rettitudine o chiarezza e per habitus mentale si rifugia nell’imbroglio, pescando nel torbido.
10 - Appíla ca esce feccia!
Letteralmente: tura che esce feccia. È questo il comando imperioso dato dall'oste al garzone che stia aiutandolo a travasare il vino affinché ponga lo stoppaccio o zipolo alla botte quando, oramai vuotata, questa comincia a metter fuori la feccia o (in gergo) la mamma del vino; per traslato è il caustico ed imperioso comando che a Napoli si suole dare a chi - colloquiando - cominci a metter fuori sciocchezze o, peggio ancora, offese gratuite.
11Â pprimma entratura, guardateve 'e ssacche!
Letteralmente: entrando per la prima volta, in qualche sito sconosciuto, badate alle tasche; id est: state attenti alle nuove frequentazioni specie di sconosciuti che possono derubarvi o procurare altri danni.
12 - Meglio scommunicato, ca communicato 'e pressa.
Letteralmente: meglio scomunicato che comunicato di fretta.Id est: il danno morale è da preferirsi al danno fisico, soprattutto quando questo sia il danno ultimo:la morte; communicato 'e pressa significa: ricevere il Viatico.
13 -Doppo magnato e vìppeto" â salute vosta".
Letteralmente: Dopo d'aver mangiato e bevuto:"alla vostra salute". L'espressione in epigrafe si usa a Napoli, per commentare sarcasticamente il comportamento di chi approfitta di una situazione proficua e posticipa gli atteggiamenti augurali, dopo di aver goduto di benefici per i quali la buona norma vorrebbe che gli auguri venissero fatti antecedentemente prima cioè di godere dei frutti di azioni comuni; a mo' d'es.: un brindisi va fatto prima, non dopo una bevuta corale.
14 - Metterse 'e casa e puteca.
Letteralmente: porsi di casa e bottega. Id est:accingersi ad un lavoro con massima attenzione ed attaccamento puntiglioso come chi dura la propria vita in quella che sia contemporaneamente casa e sede del proprio operare cui potersi dedicare senza soluzione di continuità e senza perdite di tempo che invece ci sarebbero qualora ci si dovesse spostare dalla bottega alla casa e viceversa.
15 -Fà 'o scrupolo d''o ricuttaro.
Letteralmente: fare lo scrupolo del magnaccia. Id est: scandalizzarsi grandemente al cospetto di altrui veniali mancanze, alla stregua di un lenone abituato a compiere gravi mancanze che si scandalizzasse di piccoli reati compiuti da altre persone.La locuzione è usata a Napoli appunto per bollare il comportamento chiaramente falso di chi abitualmente incline a delinquere mostra di scandalizzarsi davanti a piccole mancanze...
16 - Purtà p''e viche.
Letteralmente: menare per i vicoli. Id est: comportarsi truffaldinamente nei confronti di qualcuno, imbrogliandolo, confondendolo, rimandando sine die il compimento di promesse formulategli, conducendolo per tortuosi e dispersivi vicoli in luogo della retta e più breve via maestra. L'espressione è normalmente intesa in senso figurato, ma potrebbe esserlo anche in senso concreto nel deprecato caso del furbo tassista che,invece di andare diritto alla meta, porti il povero passeggero in giro per la città prima di depositarlo a destinazione.
17 'A raggione s''a pigliano 'e fesse.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si vede tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
18 - Se so' stutate 'e llampiuncelle.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché; la festa è finita.
19 - Truòvate chiuso e piérdete chisto accunto.
Letteralmente: Trovati chiuso e perditi questo cliente.
La divertita locuzione viene usata in senso ironico a commento della situazione antipatica in cui qualcuno abbia a che fare con persona pronta ad infastidire o a richiedere i maggior vantaggi da un quid senza voler conferire il giusto corrispettivo, come nel caso ad es. di un cliente che pretenda di accaparrarsi la miglior merce, ma sia restio a pagare il giusto prezzo dovuto.L'accunto deriva dal latino: accognitus=cliente
20 -Fà tre fiche nove rotele.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, appartenne al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.


21 - 'A disgrazzia d''o 'mbrello è quanno chiove fino fino.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sé che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante, danno.
22 - Avimmo fatto cupinte, cupinte: 'e cavére 'a fora e 'e fridde 'a dinto.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale, stravolgendo la logica e l'attesa, si dà via libera a chi non è all'altezza della situazione e si lascia a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).
23 - 'A pecora s'à dda tusà, nun s'à dda scurtecà
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata. Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.

24 - Dicette Nunziata: Ce ponno cchiúll'uocchie ca 'e scuppettate!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire; piú difficile, quando non impossibile sfuggire alla iettatura.
25 - Â nnotte se 'nzuraje Catiello.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: MEGLIO TARDI CHE MAI; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata (Â= alla) che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.
26 - 'E maccarune se magnano teniénte, teniénte.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata per traslato anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
27 - Quanno siente 'o llatino da 'e fesse, è ssigno 'e mal' annata.
Letteralmente: quando senti che gli sciocchi parlano latino, è segno di un cattivo periodo.Id est: l'ostentazione di cultura da parte degli stupidi ed ignoranti, prelude a tempi brutti, per cui son da temere gli sciocchi che si paludano da sapienti...
28 - Pare 'o sorice 'nfuso 'a ll'uoglio.
Letteralmente: sembra un topolino bagnato da l'olio. La locuzione viene usata a Napoli nei confronti di taluni bellimbusti che vanno in giro tirati a lucido ed impomatati che in napoletantano suona: alliffati (dal greco aleiphar=olio); tali soggetti vengon paragonati ad un topolino che per ventura sia cascato nell'orcio dell'olio e ne sia riemerso completamente unto e luccicante.
29 - 'A carne se jetta e 'e cane s'arraggiano.
Letteralmente: la carne si butta ed i cani s'arrabbiano. Id est: c'è abbondanza di carne, ma mancanza di danaro per acquistarla e ciò determina profonda rabbia in chi, non avendo pecunia, non può approfittare dell'abbondanza delle merci. Per traslato, il proverbio è usato in tutte le situazioni in cui una qualsiasi forma di indigenza è ostativa al raggiungimento di un fine che parrebbe invece a portata di mano; ciò vale anche nei rapporti tra i due sessi: per es. allorchè la donna si offra apertamente e l'uomo non abbia il coraggio di cogliere l'occasione; un terzo - spettatore, magari concupiscente, potrebbe commentare la situazione con le parole in epigrafe.
30 - 'A vecchia ê trenta 'austo, mettette 'o trapanaturo ô ffuoco.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di coloro che chi si atteggino a giovani, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
31 - Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi (in nap. lavotore dal lat. tardo lavatori°u(m), deriv. di lavare 'lavare') erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
32 - Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
33 - 'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.

34 - Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
35- 'E denare so' comm'ê chiattille: s'attaccano ê cugliune.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono cosí tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
36 - Hê 'a murì rusecato da 'e zzoccole e 'o primmo muorzo te ll'à da dà mammèta
Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre. Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare
37 - Ma te fosse jiuto 'o lliccese 'ncapo?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- non si sa bene come - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso cosí le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
38 -Fà 'e scarpe a quacched'uno o anche cóserle ‘nu vestito.
Letteralmente: Fare le scarpe a qualcuno o anche cucirgli un vestito. Id est: conciar male, ridurre a cattivo partito qualcuno fino al punto di approntargli la morte. L'espressione deriva infatti dall'usanza che si teneva a Napoli, di far calzare ai morti di un certo rango - per l'ultimo viaggio - delle scarpe ed un vestito nuovi conservati all'uopo dai familiari.
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FÀ PALLA CORTA

FÀ PALLA CORTA
Ad litteram: fare la palla corta Id est: mancare il fine prefissato, non giungere al risultato per avere errato nel conferire la forza necessaria affinché si potesse raggiungere lo scopo; con altra valenza riferito ad uno che infastidisca, vale: con le tue richieste e/o parole non otterrai nulla di ciò che vuoi: non sei convincente, né induci a prestarti fede e/o aiuto! La locuzione è mutuata dal giuoco delle bocce o del bigliardo, giochi nei quali la biglia (palla) messa in giuoco può mancare di raggiungere il punto voluto e risultare corta se, per conclamata imperizia, nel lanciarla il giocatore non vi à impresso la necessaria e giusta spinta.
Palla s.vo f.le 1 corpo di forma sferica: una palla di ferro, di marmo, di vetro, di neve ' le palle degli occhi, (fam.) i globi oculari | palla di lardo, di grasso, (fig.) persona molto grassa.
2 sfera di gomma, cuoio, legno o altro materiale, con cui si gioca: palla di biliardo, da tennis; giocare a palla | battere la palla, nel tennis e in altri giochi, iniziare a giocare | palla-goal, nel calcio, palla che può essere con facilità inviata in rete ' prendere, cogliere la palla al balzo, (fig.) sfruttare al volo un'occasione propizia ' essere, sentirsi in palla, (fig.) in forma, in giornata buona
Voce dal long. *palla con medesima radice di balla
Corta agg.vo f.le1 di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale: la via più corta per arrivare; capelli (tagliati) corti; armi a canna corta; calzoni, pantaloni corti, al di sopra del ginocchio; maniche corte, sopra il gomito; mi va, mi sta corto, si dice di indumento che non raggiunge la misura giusta, soprattutto delle gambe e delle braccia | palla (tirata) corta, che non arriva a destinazione | andare per le corte, sbrigarsi, venire al dunque | venire alle corte, concludere qualcosa in fretta; alle corte!, veniamo al sodo! | l'ultimo a comparir fu gamba corta, (scherz.) si dice a chi arriva per ultimo.
2 che non dura a lungo; breve, conciso: una visita corta, una risposta corta | settimana corta, settimana lavorativa di cinque giorni, da lunedì a venerdì
3 (estens.) insufficiente, scarso, poco dotato
Voce da un lat. *curta(m) marcata sul m.le curtu(m)
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PAVÀ O FÀ PAVÀ ‘E PERACOTTE

PAVÀ O FÀ PAVÀ ‘E PERACOTTE

Letteralmente: pagare o far pagare le pere cotte.
Presa nel suo significato letterale, l’espressione a margine significa ben poco e va da sé che occorre, per intenderla, andare alla ricerca di un qualche nascosto significato.
Comincio col sottolineare che il verbo pavà = pagare dell’epigrafe – cosí come letteralmente tradotta - non può essere inteso nel comune senso di corrispondere una somma di denaro per beni acquistati, servizi ricevuti, obbligazioni contratte e sim. cosí come normalmente è inteso il verbo pavà = pagare che dal lat. pacare 'pacificare'e cioè porre in pace cioè mettere in parità prestazione e controprestazione (da notare che la consonante etimologica c, occlusiva velare sorda,come la corrispondente occlusiva velare sonora g, nel napoletano divengono spesso (sia pure non sempre) v (come in fravula che è da fragula(m) con consueta alternanza partenopea della c o della g con la v o altrove al contrario della v con la g come ad es in guappo che è dal latino vappa; cfr.anche volpe/golpe, vunnella/gunnella, vongola←concula etc. ;) quella v che è invece la consonante fricativa labiodentale sonora che nel napoletano di solito si alterna con la b consonante occlusiva bilabiale sonora) dicevo che il verbo pagare deve essere qui inteso nel senso estensivo e figurato di temere, scontare, espiare; l’espressione in effetti vale, nel suo significato recondito: temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui. Proprio in ragione di tale interpretazione, la scuola di pensiero piú comune interpreta sbrigativamente, ma – a mio avviso – poco convincentemente il termine peracotte= pere cotte nel non meglio chiarito senso di percosse , atteso che non vedo (se si eccettua un tenue ed inconferente bisticcio fonetico…) cosa possa mettere in rapporto una squisitezza gastronomica quale le pere in giulebbe, con l’amarezza delle percosse .A mio avviso, pur non mutandosi il significato nascosto dell’espressione in epigrafe che sta per temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui, il termine peracotte non deve intendersi come agglutinazione di pere cotte, quanto come corruzione della voce peraconne = ippericon pianta medicinale, nota anche con il nome di erba di san Giovanni con proprietà astringenti e/o decongestionanti .
Mi sembra che accogliendo tale proposta si possa innanzi tutto restituire il significato primo al verbo pavà=pagare nel senso che l’espressione a margine sostanzierebbe piú chiaramente la situazione incresciosa o di chi si trovasse, per problemi di salute, costretto a far ricorso all’acquisto di medicinali derivati dalla pianta di ippericon (che,come chiarisco qui di sèguito dà l’etimo a peraconne) o la ancóra piú incresciosa situazione di colui cui siano stati indotti problemi di salute da parte di chi lo metta nella condizione di ricorrere all’acquisto di medicamenti, facendogli pagare ‘e peracotte= peraconne (medicine derivate dall’ippericon.); dal punto di vista etimologico rammento che in napoletano le parole derivate da voci straniere terminanti per consonante di solito comportano il raddoppiamento espressivo della consonante e la paragoge di una vocale finale semimuta;non esistono quasi eccezioni a questa regola: rammento appena le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn = alla carlona, voci che sono corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di terminare per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram e come è successo qui che da ippericon si è pervenuti a (ip)peraconne.
Raffaele Bracale

VARIE 751

1.Fà carne 'e puorco...
Ad litteram: far carne di porco; id est:trarre il massimo del profitto, lucrare oltre il lecito o consentito, come chi si servisse della carne di maiale del quale, è noto, non si butta via nulla...

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2.Fà 'o paro e 'o sparo....
Ad litteram: fare a pari e dispari; id est:tentennare, non prendere decisioni, essere eternamente indecisi ed affidar tutto, per non assumer responsabilità, all'alea della sorte

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3.Lassàte 'e penziere miéje e pigliateve 'e vuoste!
Ad litteram: Lasciate stare i miei problemi e prendetevi i vostri! Id est: Impicciatevi dei fatti vostri ed evitate di darmi consigli (non richiesti)!

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4. È fernuta 'a zezzenella!
Ad litteram: E' finita(id est:si è svuotata)la piccola mammella. Sorta di ammonimento che vuol significare: è terminata la pacchia,si appresano tempi difficili, oppure - con diversa valenza -(ragazzo!,) la mammella è ormai vuota, è tempo di crescere!
Zezzenella: forma collaterelale di zezzella e cioè di piccola zizza=mammella; la voce zizza, viene per adattamento dall’ accusativo tardo latino *titta(m)= capezzolo forse attraverso una forma aggettivale tittja(m) dove il ttj intervocalico diede zz che influenzò anche la sillaba d’avvio ti→zi.

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5. Fà ascí ‘e ssòvere ‘a culo.
Letteralmente: fare uscire le sorbe dal culo; id est: percuotere qualcuno, torchiandolo fino allo spasimo, quasi strizzandolo fino a che non dica o confessi ciò che sa o abbia fatto, costringendolo iperbolicamente ad emettere le emorroidi (eufemisticamente dette sovere che sono in realtà i frutti del sorbo, dal lat.: sorbere→sobere in quanto frutti succosi e maturi, quasi da suggere)

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6. Fà tremmà ‘o strunzo ‘nculo.
Ad litteram: far tremare lo stronzo nel culo; id est: incutere in qualcuno, attraverso gravi minacce, tanto timore o spavento da procurargli, iperbolicamente, un convulso tremore degli intestini e del loro contenuto prossimo ad essere espulso.
7.Fà alizze e crucelle.
Ad litteram: fare sbadigli e crocette. Id est: consigliare di segnare con una crocetta la bocca mentre si sbadiglia. È risaputo che per norma di galateo, se si sbadiglia occorre coprirsi la bocca con la mano, ma tale norma viene di lontano allorché - come ricordato dall’espressione in epigrafe - in caso di sbadiglio occorreva segnare ripetutamente la bocca con segni di croci usate a mo’ di protezione acciocché gli spiriti maligni non entrassero nella bocca spalancata; la faccenda è diventata poi una norma di galateo ma la sostanza protettiva o scaramantica del gesto è rimasta anche se ammantata di buona creanza.
alizze = sbadigli; deverbale dal basso latino halare = sbadigliare
crucelle = crocette; diminutivo attraverso il suffisso femm. plurale élle di cruce = croce da un acc. latino cruce(m) da crux – crucis
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lunedì 28 giugno 2010

VARIE 750

1.Ô ricco lle more 'a mugliera, ô pezzente le more 'o ciuccio.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. Pazze e criature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3.Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento pirete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
*culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
**pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
***addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sg.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4.Si 'arena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. Nun te dà malincunía, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuría.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7.'Ammuina* è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
* ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8.Astipate 'o piezzo janco* pe quanno venono 'e juorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;* ‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo/ducato) anticamente detta appunta piezzo; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9.Male e bbene a fine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10.Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerava benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11.Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone*.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata. *pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12.'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13.Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14.Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15.Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
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VARIE 749

1. 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
2. Astipate 'o piezzo janco pe quanno venono 'e jiuorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
3. Male e bbene a ffine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma, ugualmente non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
4. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerava benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
5. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
6. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi hà vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
7. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
8. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: il testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento...
9. Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
10. Coppola pe cappiello e casa a sant'Aniello.
Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salúbre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi.
11. Tené tutte 'e vizzie d''a rosamarina.
Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè così poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato, se accesa, fa molto, fastidioso fumo...
12. Si 'o Signore nun perdona a 77, 78 e 79, llà 'ncoppa nce po’ appennere 'e pummarole.
Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) ed ai ladri(79), lassù (id est: in paradiso ) ci potrà appendere i pomodori. Id est: poiché il mondo è popolato esclusivamente da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori.
13. Chillo se mette 'e ddete 'nculo e caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si mette le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.

14.'A femmena è ccomm’ â campana: si nun 'a tuculije, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
15.'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
16.Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene.
17.'E pegge juorne so' chille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno più affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai...
18.Dimmènne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato.
19.Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.
20.Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, così vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
21.'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' pegge 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno più paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità
22.Dicette frate Evaristo:"Pe mmo, pigliate chisto!"
Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partì all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione iniziata pronunciò la frase in epigrafe.
23.Chi ride d''o mmale 'e ll'ate, 'o ssujo sta arret' â porta.
Ad litteram: chi ride delle digrazie altrui, à le sue molto prossime; id est: chi o per cattiveria o per insipienza si fa beffe del male che à colpito altre persone, dovrebbe sapere che - presto o tardi - il male potrebbe colpire anche lui...
24.È 'na bbella jurnata e nisciuno se 'mpenne.
Ad litteram: E' una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
25.'E meglio affare so' cchille ca nun se fanno.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è più conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
26.Quanno 'e figlie fòttono, 'e pate so' futtute.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fòttono non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma più chiaramente quello compiuto a pagamento.
27.Primma t'aggi''a 'mparà e po' t'aggi''a perdere....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Così son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
28.'Na mela vermenosa ne 'nfraceta 'nu muntone
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale o peggio, per rovinare tutti gli altri.
29.Chella ca ll'aiza 'na vota, ll'aiza sempe.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; più estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere , altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
30.Chella cammisa ca nun vo' stà cu tte, pigliala e stracciala!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.
31. Chiammà a san Paolo primma ‘e vedé ‘a serpe
Ad litteram: Invocare (la protezione di) san Paolo prima di scorgere un serpente (che possa nuocerti.). Con riferimento a chi, vigliacco o eccessivamente pauroso, prima dell’appalesarsi d’un pericolo si ponga in posizione difensiva chiamando addirittura in soccorso la protezione dei santi. Nella fattispecie l’apostolo Paolo è invocato quale protettore nel caso di incresciosi incontri con serpenti; e ciò perché pare che il suddetto apostolo durante il viaggio che lo condusse da Gerusalemme a Roma, dove venne decapitato, subisse il morso d’una vipera ma ne restasse miracolosamente illeso.
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