domenica 31 ottobre 2021

SURCO CUMMOGLIA SURCO

 

SURCO CUMMOGLIA SURCO

Anche questa volta faccio sèguito ad  un  quesito rivoltomi dall’amico N.C. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di  riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) occupandomi dell’antica, ma non desueta espressione partenopea in epigrafe, che tradotta ad litteram vale: Solco copre solco  ma che  però d’acchito non è di facile comprensione  se non si conosce  qual è il significato sotteso dell’espressione. Fa d’uopo perciò ch’io cerchi di chiarirlo. In effetti la locuzione non fa riferimento, come invece si potrebbe pensare, all’erroneo comportamento d’ un malaccorto contadino che arando un terreno si fosse sbagliato ed invece di tirar solchi paralleli o ortogonali  e distanti il giusto, li avesse tracciati troppo vicino sino a coprire la terra smossa d’un vecchio solco con la terra smossa d’un nuovo solco. No! Si tratta di tutt’altro. L’espressione nel suo significato sotteso vale: debito (nuovo) risana un debito (vecchio) Ci troviamo cioé in presenza  della  tipica spirale dell’usura quella che comporta la necessità di contrarre  un debito nuovo  per risanarne  uno  precedente, il tutto  in una  serie di avvenimenti e di situazioni che si succedono, in una catena di cause e di effetti, con un ritmo ed una intensità sempre crescenti rendendo via via piú vasto e grave il fenomeno generale di cui sono manifestazioni. A questo punto c’è però  da chiedersi perché il surco (solco) venga preso, nella locuzione, a figura del debito; e la risposta non manca: a ben riflettere il solco può ben rappresentare  una ferita che viene aperta dal vomere nella carne della terra e,  ad un dipresso, il debito rappresenta una ferita aperta se non nella carne, nello spirito di chi lo contrare ed è ferita tanto piú dolorosa se, per curarla o sanarla,  se ne deve aprire un’altra cosí come nella lettera della locuzione.

surco s. m. [lat. sŭlcu-m→surco con alternanza delle liquideL→R] . –  Apertura lunga e stretta, piú o meno diritta e profonda, prodotta dal terreno con l’aratro o con altri attrezzi agricoli;

cummoglia copre, cela, nasconde, occulta;  voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito cummiglià;   voce da un basso latino:cum+volvjare→cumvoljare→cummoljare→cummuljare→cummiglià 

Non mi pare ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico N.C. ed interessato qualcun altro  dei miei ventiquattro lettori e  chi  forte dovesse imbattersi in queste due  paginette. Satis est.

Raffaele Bracale

 

SUPPONTA

 

SUPPONTA

Questa volta su suggerimento/richiesta della cara amica G. R.  di cui al solito (per questione di riservatezza) mi limito ad indicare le iniziali di nome e cognome, prendo in esame l’interessante  voce napoletana  in epigrafe per illustrarne  alcuni dei numerosi usi che se ne fanno nell’idioma partenopeo.

Comincerò con il dire che la voce supponta  attestata anche come sopponta o sepponta è un s.vo f.le che vale contrafforte, puntello, rincalzo, sostegno, rinforzo, appoggio, supporto, zeppa;   etimologicamente la voce appare derivare da un sub puncta(m)→suppuncta(m)→supponta/sopponta/sepponta deverbale di un  lat. volg. sub-punctare→suppontare (porre a sostegno una punta) frequentativo di sub-pungere.

Dicevo dei numerosi usi che nel napoletano se ne fa della voce; ne illustro qualcuno, cominciando dai piú semplici e di immediata comprensione, per passare poi a quelli di piú ampio significato fino a giungere a quello piú icastico; nell’ordine avremo:mettere ‘na supponta â tavula, mettere ‘na supponta ô cummò= porre una zeppa al tavolo o al canterano (per ristabilirne il giusto equilibrio evitando che barcollino); mettere ‘na supponta â casa espressione da intendersi nel senso reale delle parole e cioè  porre un barbacane ai muri d’angolo della casa perché con la loro spinta reciproca si puntellino evitando il pericolo di rovinosi crolli; essere ‘a supponta d’ ‘a casa  espressione che nulla a che vedere con la precedente;questa volta l’espressione va al di là del reale significato delle parole  valendo essere il sostegno della famiglia détto di chi in una famiglia, anche numerosa, sia l’unico a provvedere con il proprio lavoro e/o il proprio impegno morale di  buoni e/o fattivi consigli operativi al sostentamento fisico e morale di tutta la famiglia; mettere ‘na supponta ô vernecale = letteralmente porre un puntello allo stomaco  espressione da intendersi  non in senso reale (non si deve infatti  apporre alcun supporto che regga lo stomaco)ma in senso  figurato id est: ingerire una piccola quantità di cibo, una contenuta refezione che attenui  i morsi della fame  anche se non li plachi completamente; e giungiamo infine alla piú icastica delle espressioni in cui si fa uso del s.vo supponta: mettere ‘a supponta ô nonno che letteralmente vale porre un rincalzo al nonno ma che non è da intendersi nel senso reale in quanto l’espressione non sta a significare che si sia fornito il nonno di un  un reale appoggio, bastone o zeppa che lo sostenga o lo aiuti a mantenere l’equilibrio; l’espressione è da intendersi invece in senso figurato atteso che essa è usata allorché ad un neonato venga dato il nome di battesimo del nonno fornendo a costui una sorta di  rincalzo morale che gli assicuri il perpetuare del nome e spesso del cognome e della discendenza.

vernecale s.vo m.le  stomaco; la voce vernecale ( adattamento del lat. med. vernicare)indicò in primis una scodella, una ciotola, un recipiente(di ceramica o terraglia)  verniciato e poi per traslato lo stomaco pensato quale contenitore... laccato dal cibo.

 

contrafforte  s.vo m.le

sperone in muratura applicato all'esterno di un muro per lo più per bilanciarne la spinta in corrispondenza di un arco o di una volta; barbacane; voce composta da contra (prefisso derivato dal lat. contra 'contro', che può assumere vari significati: opposizione (contrattacco), azione e direzione contraria(come nel caso che ci occupa) + forte (dal lat. fortis);

puntello s.vo m.le grossa trave di legno o di ferro, o anche opera muraria posta come sostegno per impedire crolli o frane; voce  derivato di ponte, raccostato a punta da puncta(m);

rincalzo s.vo m.le ciò che serve a rincalzare, aiuto, rinforzo, appoggio, sostegno; voce deverbale di rincalzare (che è da ri + incalciare dal lat. volg. *incalciare, deriv. di calces 'calcagna'; propr. 'stare alle calcagna';

sostegno s.vo m.le ; tutto ciò che sostiene, che è atto a sostenere,  tenere qualcosa o qualcuno in una determinata posizione, sopportandone il peso; reggere voce dal provenz. sostenh, che è da sostener 'sostenere'

rinforzo s.vo m.le tutto ciò che serve a  rendere piú forte, a dare maggiore stabilità e vigore voce deverbale di rinforzare (che è da ri + forza che è dal lat. tardo fortia, propr. neutro pl. di fortis 'forte');

 appoggio s.vo m.le cosa che serve a sostenerne un'altra; sostegno; voce deverbale di appoggiare che è dal lat. volg. *appodiare, deriv. del lat. podium 'piedistallo';

supporto s.vo m.le elemento, parte di un oggetto che à funzione di appoggio o di sostegno; voce dal  fr. support, deriv. di supporter 'sopportare';

zeppa  s.vo f.le 1 cuneo di legno o di altro materiale usato per otturare fessure o per dare stabilità a mobili traballanti | mettere una zeppa a qualcosa, (fig.) cercare di rimediare alla meglio a un guasto, a una situazione difficile e sim. | taglio a zeppa, in selvicoltura, metodo di taglio effettuato secondo due piani obliqui, in modo che nel tronco si formi un vano a cuneo.
2 (fig.) parola o frase inserita in un verso o in un brano di prosa senza una precisa ragione logica o estetica
3 gioco enigmistico in cui, inserendo una lettera o una sillaba in una parola, se ne ottiene un'altra di diverso significato (p. e. pitone-pistone; calo-cavolo)
4  rialzo di legno o di sughero sotto sandali e zoccoli.

voce dal longob. *zippa 'cuneo'.

In coda rammento che nel napoletano d’uso popolare non esistono in tutte le accezioni ricordate sinonimi attestati di supponta;  per vero esistono appuojo e puntiello che son però  d’uso letterario  ma ch’io sconsiglio assolutamente d’impiegare atteso che si tratta di voci patentemente marcate sulle voci appoggio e puntello della lingua nazionale, lingua della quale il napoletano non è e non deve esser mai tributario!

E con questo penso d’avere esaurito l’argomento e d’avere  contentato  l’amica G.R. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori per cui faccio punto fermo con il consueto satis est.

Raffaele Bracale

 

STRUNZIÀ

 

STRUNZIÀ

Mi è stato chiesto, via e-mail,  dal  caro amico M. P. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) di spendere qualche parola per illustrare l’esatto  significato  dell’infinito partenopeo  in epigrafe.

Ò provveduto alla bisogna nel modo che segue:

Premesso che il verbo di cui parliamo pure essendo un termine usatissimo nel parlato, soprattutto della città bassa, è colpevolmente  assente nei numerosi calepini, antichi e moderni dell’idioma napoletano in mio possesso,mi vedo costretto  io per il primo a  rendere in italiano il termine in esame chiarendone l’esatto  significato; per far ciò     sgombro súbito il campo dalla fantasiosa idea circolante sul web che strunzià significhi “rimproverare aspramente”. Non so chi abbia partorito simile sciocchezza, ma gliela contesto toto corde, atteso che da napoletano di lungo corso, attento all’icasticità dell’idioma partenopeo ed al suo uso, posso affermare, senza tema di smentita, che    l’esatto  significato  dell’infinito partenopeo  in epigrafe non è quello che circola sul web, ma il seguente: 1) abbindolare, ingannare, gabbare e segnatamente 2)prendere in giro, prendere per i fondelli ed infine 3) burlare, canzonare, deridere, giocare, sfottere, dileggiare,prendersi gioco di, schernire il tutto atteso che etimologicamente il verbo in esame è un denominale del s.vo  strunzo che è dal dal longobardo strunz 'sterco' e vale stronzo,  escremento solido di forma cilindrica  e figuratamente  persona stupida, sciocca o  odiosa  e proprio riferendosi al significato figurato del termine strunzo che si è pervenuti al verbo STRUNZIÀ che in ogni suo significato è riconducibile al “trattare a guisa di uno stupido, di uno sciocco o di un odioso, insomma ‘e ‘nu strunzo!

In coda di quanto fin qui détto, rammento che del verbo esaminato esiste un’icastica forma riflessiva usatissima che è STRUNZIARSE usata per identificare, dileggiandolo, il riprovevole comportamento di chi, nell’intento di gabbare il prossimo  cerchi di apparire migliore di quel che in realtà sia dandosi delle arie e/o pavoneggiandosi  ottenendo, invece, spesso il risultato di apparire anche piú stronzo di quel che è.

 E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico M. P.  ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.

 Raffaele Bracale

STRUMMOLO

 

 -STRUMMOLO-

significato, espressioni collegate , etimologia.

 

 

Con il termine strummolo,nell’idioma  napoletano, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una trottolina di legno a forma di strobilo o  cono con il vertice costituito da una punta metallica infissa perpendicolarmente  nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie del conetto in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice; in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strummolo  mediante uno strappo  secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú  abile è il giocatore  e di miglior fattura è lo strummolo, tanto maggiore sarà la  velocità della roteazione  e la sua durata . Se invece lo strummolo  è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà  di breve  o  nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi  alla scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere  di imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe (si è sommata ad una fune corta, una trottolina ballonzolante) e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come   ad esempio nel caso  di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente  fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di  dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno  parimenti svogliato.

Per tornare allo strummolo rammentiamo un altro modo di dire:

cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole Id est: Con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:

A – È con questo legno, non con altro, che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...

B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete fornito di  materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine  o incapacità.

Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strummolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio:  strummolo scacato

Nel giuoco dello strummolo (quando ancóra lo si praticava!...) il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (sbreccare)il proprio strummolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strummolo violentemente contro quello dell’avversario  tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strummolo, se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore. Pacifica la etimologia della voce  strummolo  che indica lo strumento di un gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritta dritta dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus con consueta assimilazione progressiva strummus addizionato poi del suffisso diminutivo olus→olo (per cui strummus+olus→strummolus→strummolo) con il suo esatto significato di trottolina.

la voce tiriteppeto, talvolta usata, ma erroneamente,  anche come tiriteppola è voce onomatopeica riproducente appunto il rumore prodotto dalla trottolina nel suo incerto movimento inclinato e ballonzolante.

 Rammento che la voce strummolo s.vo m.le à due plurali: l’uno maschile: ‘e strummole/i = le trottoline e l’altro f.le metafonetico: ‘e strommole con cui, [con evidente traslato, le cui ragioni illustrerò a seguire]  si indica le fandonie, le sesquipedali sciocchezze,le panzane,le frottole gratuite; semanticamente la faccenda si spiega con il fatto che di per sé lo strummolo = trottolina è un semplice  giocattolino con cui trastullarsi; alla stessa maniera le frottole, panzane, fandonie altro non sono che una sorta di innocente mezzo dilettovole con cui prendersi giuoco di qualcuno; ugualmente semplice da spiegarsi la differenza di morfologia tra il maschile strummole/i  ed il f.le strommole, rammentando il fatto che nel napoletano  un oggetto (o cosa che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; va da sé che essendo la fandonia certamente piú grossa della trottolina necessitasse d’un genere femminile (per cui ‘e strommole = le sciocchezze, fandonie, frottole etc. da non confondersi con il maschile ‘e strummole/i = le trottoline).

A margine e completamento rammento altresí che gli strummoli  usati un tempo  dagli scugnizzi  napoletani erano di tre tipi, ognuno dei quali aveva un nome ed una funzione divesra.
Quello levigato ed appuntito, in legno naturale, non tinto   era denominato “zenzella”(con riferimento semantico alla vivacità della cinciallegra di cui portava il nome napoletano), ed aveva la funzione di girare piú a lungo degli altri nelle epiche sfide fra scugnizzi. Per far sí che il suo vorticare durasse piú degli altri, s’usava  togliere la punta ed affilarla lungamente su di una pietra lavica di una pubblica fontanina,poi  prima di ricollocare la punta nel legno, si introduceva nell’alveolo della punta una mosca  non morta,ma viva che  nell’inteso dei ragazzini, avrebbe dovuto  aggiungere un rumoroso zzzzzzzz alla trottolina che girava; la cosa ovviamente non avveniva per due buoni motivi: a) la mosca catturata ed infilata nello stretto alveolo finiva per morire schiacciata dalla punta; b)anche se fosse rimasta viva mai e poi mai avrebbe potuto propagare all’esterno un suo ronzio; la funzione della mosca finiva perciò per esser solo una sorta di ammortizzatore della punta metallica.
Poi c’era la “patacca(con riferimento semantico al fatto d’essere, tal quale una moneta falsa, una trottolina scadente, quasi contraffatta, destinata a poter essere impunemente  scugnata (sbreccata)),  che veniva usata quando “si andava sotto” e si dovevano subire i colpi degli strummoli nemici.Per quest’ uso s’usava fornirsi di uno strummolo di poche lire che veniva tinto per metà di nero per non confonderlo con lo strummolo buono cioè con lo strummolo zenzella.
C’era infine  un piú costoso  strummolo “di attacco” tinto di luvardo (azzurro)forte e resistente che veniva usato,appunto, contro la “patacca”,e che fornito di una punta piú spessa ed affilata era detto appunto puntarola. E termino rammentando che la voce zenzella  è voce onomatopeica, dal verso dell’uccellino, diminutivo di zenza (cincia); la voce patacca  è un antico sostantivo indicativo in primis di una moneta di grande formato, ma di poco  valore contenuto in appena  cinque carlini, sostantivo  passato poi ad indicare il danaro in genere ed ancóra figuratamente (come nel caso che ci occupa) una  cosa di poco pregio, un  oggetto scadente o anche  falso venduto come antico o di valore; scherzosamente valse  medaglia, decorazione vistosa, ma di scarsa importanza  ed infine nel linguaggio familiare indicò una  grossa macchia d'unto; quanto all’etimo è voce derivata dal prov. patac;la voce puntarola  infine è un  adattamento al femminile d’ un maschile puntarolo denominale di punta.L’adattamento al femminile, come ò già ricordato ed opportunamente ripeto  nasce dal fatto che [ripeto ] in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella.Nella fattispecie la punta dello strummolo d’attacco era piú spessa e grossa della sottile, ma acuminata punta della lesina o  punterolo per cui occorse rendere femminile il termine.

Satis est.

R.Bracale Brak



 

 

 

  R.Bracale

 

FELEPPINA

 

FELEPPINA

Questa volta è stato l’ amico A. M. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a  chiedermi via e-mail di chiarirgli  significato e portata del termine  partenopeo   in epigrafe.

Gli ò precisato che il termine di cui mi à chiesto è voce che è attestata in doppio significato; in primis feleppina s.vo f.le vale  vento secco di tramontana, spiffero freddo e pungente; in tale accezione il s.vo in esame è un prestito lucano (Tursi piccolo comune montano della provincia di Matera) con riferimento al vento particolarmente pungente che spira colà nel rione della Chiesa di san Filippo Neri; esiste poi una seconda accezione di feleppina  accezione con cui si intende una fame intensa e smodata; in tale accezione però il sostantivo non è originario ma è etimologicamente  l’adattamento corruttivo di falupinafaluppinafeleppina  e falupina sta per (cfr. D.E.I.) fa(me)lupina= fame da lupo  E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A.M. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.

 Raffaele Bracale

 

sabato 30 ottobre 2021

SQUATTRINATO, MISERO, POVERO

 

SQUATTRINATO, MISERO, POVERO

Ancóra una  volta prendo  spunto da una richiesta fattami da   un caro amico: P.G.del quale per problemi di riservatezza posso solo indicare le iniziali di nome e cognome, amico  facente parte della Ass.ne Ex Alunni  del Liceo classico G.Garibaldi di Napoli, che è uno dei miei abituali ventiquattro lettori  e che spesso si sofferma a leggere le mie paginette sparse qua e la; dicevo che prendo spunto   da una sua richiesta relativa a due  desuete parole napoletane usate per solito di conserva:liscio e sbriscio un tempo usate addirittura agglutinate: liscesbriscio ; prendo spunto dicevo per parlare delle  voci italiane in epigrafe ed illustrare a seguire quelle che le rendono in napoletano e sono molto contento della richiesta perché mi darà modo di illustrare alcune parole napoletane antiche e disusate, ma grandemente icastiche. Cominciamo ordunque con le voci dell’italiano dove accanto a squattrinato, povero, misero, troviamoindigente, bisognoso, meschino, micragnoso, nullatenente; esaminiamole singolarmente:

squattrinato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le

che, chi non à quattrini; spiantato; etimologicamente è il part. pass. di squattrinare/arsi verbo disusato = privare/privarsi di quattrini( verbo denominale di quattrino( der. di quattro; propr. «moneta di quattro denari») con il prefisso distrattivo s);

povero/a, agg.vo e talvolta s.vo m.le o f.le

1.   a. Riferito a persona, che non dispone a sufficienza di quanto è essenziale per vivere, per sostentarsi, che à scarsi mezzi economici, che manca del denaro necessario e di tutto quanto il denaro può procurare (si contrappone a ricco, ed è sempre posposto, in questa accezione, al sost. cui si riferisce): à sposato una ragazza p.; è gente p.; le famiglie piú p. della città; in posizione predicativa: essere p.; sono molto poveri; diventare p.; è nato, è vissuto, è morto p.; mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo (Manzoni); rafforzato con valore superl.: esser povero povero; essere povero come Giobbe; essere povero in canna, poverissimo. Con uso sostantivato: elenco dei p. del comune; ospizio per i p.; prima di morire distribuí ai p. tutti i suoi averi; sfruttare i p.; aiutare i p.; nell’uso comune, mendicante, accattone: vicino al portone c’è un p. che chiede l’elemosina. Analogam., di collettività prive di mezzi o scarse di risorse economiche: un istituto, un convento p.; villaggi molto p.; una nazione p.; i paesi p. del terzo mondo. b. Che indica o manifesta povertà, miseria, triste condizione (può essere anteposto o posposto al sost. cui si riferisce; nel primo caso esprime una maggior partecipazione del parlante): vivere in p. stato; ognuno à fatto la sua p. offerta; i bambini del paese ànno portato i loro p. doni; dopo una p. cena (o una cena p.) andarono a dormire; essere vestito di p. panni; giacere in un p. giaciglio. Che è abitato da gente povera, e quindi appare estremamente umile e modesto nell’aspetto: un paese formato di p. case; abitano in p. capanne; quartieri p.; questa è una casa p., ma onesta; Nel suo p. tetto educò un lauro Con lungo amore (Foscolo); che appartiene a gente povera: sedevano su p. panche; tirò fuori le sue p. cose. c. Arte p., nel linguaggio delle arti figurative, tendenza di ricerca artistica manifestatasi verso la fine degli anni ’60 del Novecento, che, rifiutando lo spirito formalista della pop art, in partic. l’attenzione posta ai valori iconografici, e opponendosi a forme di manipolazione o sofisticazione, mira al recupero del contingente come sola possibilità d’arte, facendo ricorso a materiali non nobili o addirittura banali (quali carta, pietra, stoffe, vegetali, ecc.), e si pone come presa di coscienza delle possibilità espressive insite nella materia; con altro sign., nel linguaggio degli antiquarî, metodo economico (detto anche lacca dei poveri) di decorare mobili e altri oggetti d’arredamento con applicazioni di stampe ritagliate o mediante decalcomanie. Architettura p., locuz. con la quale ci si riferisce a piccole costruzioni in genere realizzate dalle stesse persone che le abiteranno, senza un progetto, spesso su terreno demaniale e con materiali riciclati e di risulta, a volte utilizzate come seconda casa; negli anni ’70 specialmente negli Stati Uniti, opere di questo genere sono state realizzate nell’ambito di movimenti giovanili tendenti al rifiuto delle convenzioni e particolarmente attenti alle problematiche ecologiche. Cucina p., modello alimentare entrato nell’uso dagli anni ’70 in poi, che, come reazione agli errori di un’alimentazione troppo ricca e raffinata, sostiene la necessità di recuperare cibi e ingredienti che, in passato, erano tipici delle classi povere, quali, per es., la polenta, i legumi, certi tipi di pesce, ecc. Moda p., modo di vestire in auge spec. negli anni ’70, soprattutto tra i giovani, che si avvaleva di materiali e tessuti semplici e poco costosi, come espressione di anticonformismo e atteggiamento di rifiuto del consumismo in ogni suo aspetto. d. Al plur., entra nella denominazione di varî ordini religiosi cattolici, maschili e femminili, che hanno fatto voto di povertà: P. ancelle di Gesú Cristo; P. figlie delle sacre stimmate di s. Francesco; P. figlie di s. Antonio di Padova; P. suore di Nazaret; P. eremiti di Celestino, P. eremiti di s. Girolamo, ecc.; e anche di comunità e sette religiose non cattoliche che aderivano allo spirito di povertà evangelica: P. cattolici; P. di Lione, denominazione dei valdesi di Francia spec. dopo la scissione (inizio sec. 13°) dai loro confratelli italiani (che, a loro volta, si dissero P. lombardi). 2. a. Seguito da un compl. di privazione, che scarseggia, che difetta di qualcosa che, invece, dovrebbe avere: un’impresa p. di capitali; fiume p. d’acqua; zona p. di vegetazione; sangue p. di globuli rossi; una vita, un lavoro p. di soddisfazioni; tema p. di idee; un uomo p. di spirito, dotato di poco spirito, ingenuo, semplice o addirittura semplicione (per il sign. originario dell’espressione, nella frase evangelica beati i poveri di spirito, v. beato). b. Con il compl. di privazione sottinteso (e sempre posposto al sost. cui si riferisce): terreno, concime p., che contengono scarse quantità di principî nutritivi per le piante; vino p., a bassa gradazione alcolica; una facciata p., disadorna, priva di ornamenti; campagna p., con poca vegetazione. Con partic. riferimento all’ambito espressivo, stile p., banale, privo di movimento e di vivacità; componimento p., con poche idee e concetti; lingua p., scarsa di vocaboli; molto com. l’espressione in parole p. (piú raram. in lingua p.), senza ornamenti o perifrasi, quindi in termini chiari e precisi, anche se talvolta un po’ crudi: in parole p., questa è una bella vigliaccheria! Con riferimento a qualità intellettuali, poco dotato, limitato, insufficiente: cervello p.; fantasia, immaginazione p.; ingegno p.; o ineffabile sapienza che così ordinasti, c. In usi tecnici: gas p., miscela gassosa combustibile ottenuta dalla reazione di aria con uno strato sufficientemente spesso di coke incandescente; nei motori a combustione interna, miscela p., la miscela in cui l’aria è in eccesso rispetto alla quantità teorica ideale per ottenere la combustione completa del combustibile. 3. Anteposto al sost. cui si riferisce: a. Esprime commiserazione, pietà, partecipazione affettiva per qualcuno o qualcosa, con implicita l’idea non tanto della povertà quanto della triste condizione: le piccole gioie della p. gente; sono soltanto un p. impiegatuccio; à trovato un p. lavoro; non riesce a campare con i suoi p. guadagni; che cosa vuoi che faccia con le sue p. forze?; mi fa pena con quelle sue p. braccine, esili e magre; con altro senso, sono p. scuse, misere, meschine. Sempre in tono di commiserazione, è frequente in esclamazioni: p. donna!; p. ragazzo!; p. vecchietto!; p. orfani!; p. innocente!; p. bestia!; va, va, p. untorello, ... non sarai tu quello che spianti Milano (Manzoni); anche per commiserare sé stessi: p. me!, p. noi! (pop. anche  pover’a me!, pover’a noi!). Nell’uso fam., un p. Cristo, persona che, per il suo aspetto fisico e per le sventure che l’affliggono, ispira pietà; un p. diavolo, chi è privo di mezzi economici e, anche, in vario modo, perseguitato dalla sorte. Inserito in frasi che spiegano il motivo della compassione: p. ragazzo, come s’è ridotto!; com’erano trattati quei p. malati!; di animali e cose: p. bestia, quanto soffre!; che cosa fai a quel p. gattino?; p. soprabito, guarda come l’hai conciato!; dovresti tenere meglio quei p. libri!; e con tono di rimpianto per cose che appaiono sprecate o perdute: p. i miei soldi!; p. le mie fatiche! In altri casi, soprattutto con pron. personali, esprime la previsione, l’annuncio o la minaccia di qualcosa di spiacevole: se non fai come ti dico, p. te!; p. me, se mi trova qui!; se lo pesco un’altra volta, p. lui!; se non superiamo l’esame, p. noi! b. In altri contesti, al compatimento si unisce il disprezzo o l’ironia: p. te!; p. illuso!, p. ingenua!, p. imbecille!, p. deficiente!; e lui, p. scemo, c’è cascato!; p. martire!, p. vittima!, rivolgendosi o riferendosi a chi si atteggia a martire o a vittima degli altri o delle circostanze. c. Sempre ispirata a compatimento, ma con varie connotazioni, l’espressione pover’uomo (o pover uomo; anche poveruomo): e ora, chi glielo dice a quel pover’uomo? tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo! (Manzoni); Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’ (Carducci); il povero Niccolai, invece, poveruomo, era uno dei nostri anche come idee (Pratolini); può anche significare, talora, uomo ingenuo e sciocco, oppure dappoco e meschino: era proprio un poveruomo ... d. Assume tono di compianto e rimpianto come attributo di persone defunte: preghiamo per i nostri p. morti; il mio p. babbo; come diceva la p. nonna ...;  4. Locuzioni avv. alla povera, alla maniera dei poveri, secondo le abitudini o le possibilità della gente povera: un trattamento, una festicciola alla povera. Frequenti i dim. poverino, poverétto, poverèllo (v. le singole voci); poco com. poverúccio; raro l’accr. poveróne, spreg. e iron.; il pegg. poveràccio (v.), anch’esso molto comune, à solo la forma, non la connotazione, peggiorativa. avv. poveraménte, da povero, in povertà: vestire, vivere poveramente; è morto poveramente com’era vissuto; la casa è arredata poveramente; in modo elementare, rudimentale: concetti articolati poveramente; un tema svolto troppo poveramente; etimologicamente è voce  dal lat. parlato pauper -a -um per il lat. class. pauper -ĕris, comp. di paucus «poco» e parĕre «procacciare, produrre»: propr. «che produce poco» (détto  in origine, della terra)].

 

 

misero/a, agg.voe s.vo m.le o f.le agg. [superl.corretto misèrrimo; scorretto, ma usato miserissimo]
1 povero, afflitto da miseria: condurre un'esistenza misera; una casa misera. DIM. miserello, miserino
2 infelice, disgraziato, miserevole: i miseri mortali; le misere vittime della strage | usato in escl. di commiserazione: o misero!; misero me, te!
3 abietto, spregevole, meschino: tentare miseri raggiri; fare una figura misera
4 scarso, insufficiente, da poco: un misero compenso; guadagnare quattro misere lire; fare un pranzo misero
5 (ant.) avaro, taccagno: un ricco fiorentino... piú misero e piú avaro che Mida (SACCHETTI)
come s. m. [f. -a] persona misera;
etimologicamente è dal lat. miseru(m)

indigente, agg.vo e s.vo m.le e f.le agg.

si dice di persona che manca dell'indispensabile, che vive in miseria: aiutare, soccorrere gli indigenti.

 etimologicamente è dal lat. indigente(m), part. pres. di indigíre 'avere bisogno';

 

bisognoso/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le

1 che, chi à bisogno di qualcosa: bisognoso di cure
2 che, chi vive nel bisogno; povero: aiutare i bisognosi
§ bisognosamente avv. nel bisogno: vivere bisognoso;

etimologicamente è un  aggettivo/sostantivo formato quale deverbale aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a alla radice di  bisogn-are

(dal lat. mediev. bisoniare, che è di orig. germ.);

 

meschino/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le

1 (voce d’uso region.) infelice, sventurato; che è in povertà o in miseria, che si trova in condizioni assai disagiate;
2 che è troppo scarso; insufficiente, inadeguato: dono, compenso meschino | aspetto meschino, gracile, debole; miserando
3 che à idee e sentimenti gretti, limitati: un uomo meschino; gente meschina | che rivela povertà di spirito, ristrettezza mentale: sentimenti meschini; idee meschine | fare una figura meschina, brutta e ridicola
come s. m. [f. -a]
1 (d’uso region.) persona disgraziata e infelice
2 persona gretta
3 (ant.) schiavo, servo| Guerin Meschino, titolo di un romanzo cavalleresco di Andrea da Barberino (Barberino di Valdelsa 1370 ca -† ivi dopo il 1431)
etimologicamente è dall'ar. miskin `povero, misero';

 

micragnoso, o migragnoso agg.vo e s.vo m.le o f.le

 (voce d’uso region.)
1 che si trova in miseria
2 taccagno, tirchio

 etimologicamente  è un  aggettivo/sostantivo formato quale denominale aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a alla radice del s.vo micragna (derivato dal

lat. hemicrani°a(m)→(he)micrania(m)→micragna  'emicrania', con allusione scherzosa al dolore provocato dalla indigenza;

 

 

nullatenente, agg.vo e s.vo m.le e f.le che, chi non è proprietario di alcun bene immobile e non percepisce alcun reddito oltre quello derivante dal proprio lavoro: un impiegato nullatenente; che non à beni di fortuna, e, in partic., che non possiede beni immobili, per cui non è soggetto a imposte fondiarie e sui fabbricati: essere n.; le classi n.; come sost.: essere un n.; quella birbonata di dividere fra i n. i fondi del comune (Verga). à sposato una nullatenente.

 etimologicamente è voce formata dall’agglutinazione di nulla (dal lat. nulla, neutro pl. di nullus 'nessuno')

 e di tenente part. pr. di tenere (dal lat. teníre, corradicale di tendere 'tendere').

E veniamo ora al napoletano dove troviamo numerosissime voci i cui significati spesso variano leggermente tra di essi  avendo ogni vocabolo una sua particolare nuance o sfumatura, dalle quali è bene non prescindere; abbiamo ordunque  le voci che seguono  che eviterò di indicare in ordine alfabetico, ma riporterò  nell’ordine crescente della intensità espressiva:

liscio/a agg.vo e s.vo m.le o f.le

1) in primis sta per liso= consunto, logoro 2) vale poi, come nel caso che ci occupa   meschino, ridotto male; etimologicamente è derivato dal lat. volg. (e)lisu(m), part. pass. di elidere 'rompere'  malandato; normale  il passaggio in napoletano di s seguita da vocale a sci+ vocale.

 disperato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le

1 che non lascia sperare in una soluzione positiva; che non dà speranze: ‘nu caso disperato(un caso disperato);
2 che rivela disperazione, che è provocato dalla disperazione: ‘nu chianto, ‘nu ggesto disperato (un pianto, un gesto disperato);
3 che à perso ogni speranza; che è in preda alla disperazione: campà disperato(vivere disperato); essere disperato p’ ‘a morte ‘e n’amico (essere disperato per la morte di un amico  | â disperata(alla disperata), (fam.) in qualsiasi modo, alla meno peggio, in gran fretta
come s. m. [f. -a]
1 chi è in preda alla disperazione | comme a ‘nu disperato(come un disperato), (fam.) con grande impegno, con tutte le forze: faticà, correre comme a ‘nu disperato(lavorare, correre come un disperato);
2 (fam. ed è l’accezione che ci occupa)) chi non à mestiere né denaro; chi vive alla meno peggio;

 etimologicamente è il part. pass. di disperare(dal lat. desperare, comp. del prefisso distrattivo  dí- 'de-' e sperare 'sperare');

 

pezzente, agg.vo e s.vo m.le o f.le mendicante, straccione; persona che vive in condizioni di grande miseria: jí vestuto comme a ‘nu pezzente(andare vestito come un pezzente); paré ‘nu pezzente(sembrare un pezzente) | persona meschina, eccessivamente attaccata al denaro: fà ‘o pezzente (fare il pezzente). Si tratta di unavoce di orig. merid., pervenuta anche nell’italiano, ed etimologicamente è propriamente il part. pres. del napol. pezzire 'chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pètere 'chiedere';

arrepezzato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le

1 in primis rattoppato,  aggiustato con toppe;

2 (fig.) accomodato alla meglio, rimediato in qualche modo;

3(per traslato) malmesso, indigente vergognoso  etimologicamente è un part. pass. marcato su di un tardo latino ad+repetiatu(m)→arrepetiatu(m)→arrepezzato; repetiatus è attestato nel Du Cange e lascia presupporre un repiare/ttiare= rattoppare;   

scajente/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le

1 in primis sfortunato, disgraziato, misero, mancante;

2(per traslato)

malridotto, malconcio, malandato, cadente,etimologicamente è un part. pres. di scajenzà = rovinare, cadere in disgrazia, verbo denominale di scajenza = sfortuna, disgrazia etc. (dal lat. ex-cadentĭa);

sfessato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.leletteralmente stanco/a, debole,svigorito/a e per ampliamento semantico molto rovinato, povero, squattrinato, spiantato etimologicamente la voce a margine risulta essere il p.p. del verbo sfessà= bastonare, ridurre male, fiaccare, indebolire  che va connesso all’acc.vo fessu(m)= stanco part. pass. di fatisci= 1 aprirsi, fendersi, sgretolarsi, dissolversi;

sbriscio/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le che sta per sbricio= 1 meschino, ridotto male;

2  grandemente malandato, ma pure  infelice, sventurato, disgraziato, misero, tapino;  etimologicamente è aggettivo deverbale  del lat. volg. *brisare 'rompere'; da notare morfologicamente l’assimilazione di c con la s  che produsse da sbricio→ sbrisio donde sbriscio con normale passaggio (come per il pregresso  liscio) in napoletano della s seguita da vocale a sci+ vocale;

 

liscesbriscio/a agg.vo e s.vo m.le o f.le agglutinazione espressiva degli aggettivi liscio e sbriscio ai quali rimando per l’etimologia. per il significato occorre  quasi sommare i due significati sino a giungere a  povero, scarso, miserabile, misero, logoro,  meschino, malmesso ; la voce or ora esaminata à anche una forma collaterale  d’ uso ed estrazione popolare in  liscesgriscio/a  di identico significato ed etimo;

 

paccariato/a, agg.vo  m.le o f.le misero, estremamente spiantato;etimologicamente è il part. pass. di paccarià  =schiaffeggiare con riferimento semantico a gli schiaffi che la sorte si diverte a dare ai poveri, ai miserabili; paccarià a sua volta è un denominale di pàccaro = sberla, schiaffo; rammento al proposito che pàccaro o pàcchero è lo schiaffo a mano aperta e tesa indirizzato al volto, colpo che quando sia cosí violento da lasciare il segno è detto pàccaro a ‘ntorzafaccia; percossa violenta in tutto simile al mascone esaminato alibi; da non confondere con la pacca della lingua toscana che è un colpo amichevole assestato solitamente sulle spalle, colpo che – contrariamente al pàccaro – non connota intenzioni proditorie e/o aggressive; va da sé che il pàccaro napoletano non possa etimologicamente derivare dalla suddetta pacca toscana attesa la gran diversità delle funzioni e scopi dei due colpi; infatti mentre la  pacca toscana à una derivazione probabilmente onomatopeica, il pàccaro  napoletano è da collegarsi al termine pacca (natica) addizionato del suffisso di pertinenza arius→aro: la pacca di riferimento non è ovviamente quella onomatopeica toscana, bensí quella che viene da un basso latino pacca(m) forgiato su di un longobardo pakka che indica appunto la natica, ma pure la quarta parte ricavata in senso longitudinale di una mela o pera; con ogni probabilità, originariamente il pàccaro/pàcchero  fu la sberla con cui si colpivano le natiche, una sorta di sculacciata cioè e da ciò ne derivò il nome che fu mantenuto, accanto ad altri, quando il colpo, lo schiaffo mutò destinazione; una gran copia di pàccare/i assestati in veloce combinazione prende il nome di paccariàta che oltre a sostanziare un’offesa è da intendersi anche quale forma di dileggio;  

sfasulato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le  estremamente indigente, povero in canna, sprovvisto quasicompletamente di danaro e/o mezzi di sostentamento; etimologicamente è voce costruita  usando il suffisso aggettivale del participio pass.  dei verbi in are: ato/a  aggiunto al s.vo fasule= danari con protesi di una s distrattiva; fasule= fagioli son dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos e furono

usati, temporibus illis  a mo’ di moneta o merce di scambio al pari ad es.  dei ciceri  ricordati alibi sub ‘e paparelle= i soldi;

 

smagliato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le sinonimo del precedente: estremamente indigente, povero in canna, sprovvisto completamente di danaro e/o mezzi di sostentamento; etimologicamente è voce costruita  usando il suffisso aggettivale del participio pass.  dei verbi in are: ato/a  aggiunto al s.vo maglie= danari con protesi di una s distrattiva; maglie è   dritto per dritto dal francese: maille=moneta, rammentado che chi è irrimediabilmente  sprovvisto di danaro è indicato alternativamente o con, come ò détto,  sfasulato (con riferimento ai  fasule= monete) o – giustappunto: smagliato;

spullecone agg.vo e s.vo m.le e solo m.le  non è attestata, sebbene morfologicamente possibile una spullecona; uomo sprovisto cronicamente di danaro, estremamente spiantato, poverissimo, aduso a rosicchiare, a spolpare sino all’osso pur di sopravvivere;  etimologicamente è voce deverbale di spulecà/spullecà = rosicchiare, spolpare, spulciare che letteralmente è levar le pulci, quindi cercare minutamente ed a fondo (dal lat. s+ pulicare con raddoppiamento espressivo della  consonante laterale alveolare (l);

sfrantummato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le in pretto napoletano l’aggettivo sfrantummato  letteralmente (con derivazione quale participio passato dal verbo sfrantummà che è dall’agglutinazione di una esse intensiva + il verbo frantummà denominale di frantume ( derivato da franto p.p. di frangere + il suff.collettivo ume che nel napoletano comporta il raddoppiamento espressivo della labiale m), dicevo che letteralmente l’aggettivo sfrantummato  vale

1 frantumato,smantellato, diroccato, spianato;devastato (détto di case, muri etc.) e

(per traslato,détto di persona)

2 del tutto rovinato, completamente squattrinato,assolutamentespiantato ma mai  attestato nel  senso di incapace, smidollato etc. come invece capitò erroneamente di intendere all’ ex  sindaco di Napoli sig.ra Rosa Russo Iervolino, (anzi piú correttamente Rosa Iervolino in Russo) in riferimento a taluni assessori della giunta comunale napoletana.(cfr. alibi sub sfrantummato). trentapagnotte agg.vo m.le e f.le = povero/a,indigente, squattrinato/a servitorello/fantesca addetto/a ai lavori piú umili cui veniva dato quale ricompensa del lavoro un’unica pagnotta giornaliera; voce formata dall’agglutinazione funzionale dell’agg.vo numerale card.  trenta con il s.vo pl. pagnotte  (voce dal provenz. panhota, deriv. del lat. panis 'pane');

E con questo penso d’avere esaurito l’argomento e d’avere  contentato  l’amico P.G. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori per cui faccio punto fermo con il consueto satis est.

Raffaele Bracale