domenica 31 marzo 2013

STRANGULAPRIEVETE AI QUATTRO FORMAGGI

STRANGULAPRIEVETE AI QUATTRO FORMAGGI Ingredienti Per 6 persone 1 kg. Strangulaprievete freschi, per i quali occorrono: 1 kg. piú tre pugni di farina di grano duro, ¾ di litro d’acqua bollente, due cucchiaini di sale fino. 2 etti di ricotta di pecora stemperata, 50 gr. di di provolone (del monaco) dolce grattugiato grossolanamente 50 gr. di formaggio pecorino grattugiato, 50 gr. di provolone (del monaco) piccante grattugiato grossolanamente, ½ bicchiere d’olio d’oliva e.v. 1 bicchiere e mezzo di latte intero caldo, 1 una tazzina di cognac, pepe bianco macinato a fresco q.s., alcune foglie di basilico lavate asciugate e spezzettate a mano, 1 fetta (alta 1 cm.) di prosciutto cotto di circa 150 gr. tagliata dapprima in bastoncini di 5 x 1 cm. e poi in dadini di cm. 1 x 1. PROCEDIMENTO Cominciamo preparando gli strangulaprievete nel modo che segue: approntare un capace, ampio polsonetto ad un solo manico, riempirlo d’acqua (3/4 di litro per un kg. di farina di grano duro) e portarla ad ebollizione; fuori dal fuoco, ma quando la temperatura dell’acqua sia ancóra elevata, versare nell’acqua, a pioggia il chilo di farina ed il sale, rimestare velocissimamente, indi rovesciare d’un sol colpo su di un tagliere cosparso di due pugni farina asciutta l’impasto e cominciarlo a lavorare a mani nude molto velocemente(la cosa sarà favorita dal fatto che l’impasto risulterà bollente…) fino a che non abbia incorporato tutta la restante farina e non si sia ottenuto una palla di pasta soda ed elestica che si farà riposare per circa mezz’ora; indi si lavorerà ancóra un po’ la pasta ed aggiungendo un pugno di farina si ricaveranno dalla pasta dei bastoncelli cilindrici dello spessor d’un indice dai quali si taglieranno tanti cilindretti di circa 2 cm. d’altezza che verranno pigiati con i polpastrelli dell’indice e del medio ed incavati strusciandoli sul tagliere; alla fine si disporranno tutti questi strangulaprievete (gnocchi napoletani) distesi, ad asciugare, su di un canevaccio pulitissimo cosparso con pochissima farina. Dopo mezz’ora si porta ad ebollizione una pentola d’acqua fredda ed appena l’acqua bolle vi si versano, pochi per volta, gli strangulaprievete che vanno prelevati dalla pentola con un mestolo forato appena riaffiorino tornando a galla, e messi in una zuppiera cald dove verrano tenuti in caldo. A seguire, Ponete al fuoco una grossa padella con fondo antiaderente, versatevi l’olio e fatelo andare a temperatura; prelevate gli strangulaprievete tenuti in caldo e poneteli nell’olio bollente; rimestate alcuni minuti, poi bagnateli con un bicchiere di latte caldo ed il cognac, alzate il fuoco lasciando asciugare il latte ed evaporare il cognac; aumentate il fuoco ed aggiungete il provolone piccante e continuate a rimestare fino a che il formaggio sia sciolto e si attacchi a gli strangulaprievete a e non al fondo della padella, sempre continuando a rimestare aggiungete il provolone dolce e lasciate che si sciolga attaccandosi a gli strangulaprievete; abbassate il fuoco ed aggiungete la ricotta stemperata con mezzo bicchiere di latte caldo e continuate a rimestare accuratamente, ma delicatamente ; spegnete i fuochi, rimestate ancora ed aggiungete la dadolata di prosciutto cotto e le foglie di basilico spezzettate rigorosamente a mano;spolverizzate con il pecorino grattugiato ed impiattate caldissimo aggiungendo il pepe bianco macinato a fresco. - NOTA 1)Non si sa bene a quale regione attribuire la nascita degli strangulaprievete protagonisti di questa ricetta; se la contendono Puglia, Basilicata, Campania e Calabria In realtà questi piccoli gnocchi di farina di grano duro e acqua bollente, sale sono molto semplici, e son molto popolari in tutta l'Italia del Sud e vengono addirittura conditi a volte in modo spartano, solo con olio e aglio e peperoncino soffritti. In Puglia e Calabria spesso usano preparli con la rucola e le olive, in Basilicata con le cime di rapa. In Campania gli strangulaprievete vengono spesso conditi con il mitico ragú, o con il cosiddetto sugo finto (salsa di pomidoro senza carne) e cubetti di mozzarella o provola di bufala; la ricetta a margine non può comunque avere una precisa regione d’origine; nelle cucine regionali meridionali c’è una continua osmosi e/o contaminazione, ma i risultati son sempre ottimi! 2) Con il sostantivo strangulapriévete, nell’idioma napoletano, si designano degli gnocchi semplici, fatti in casa con acqua, farina e sale. È vero che sia nell’uso quotidiano che in certa letteratura deteriore ò trovato pure — per indicare la medesima pasta — il termine strangulamuónece, ma si tratta chiaramente di un vocabolo pretestuoso, teso a prendersi gioco dei monaci, oltre che dei sacerdoti richiamati a torto nel primo lemma. Nella storia della parola, in realtà, il clero non c’entra affatto, se non per una gustosa omofonia che vi risuona o, se si vuole prendere per buona una notizia suggestiva del fantasioso Nicola Vottiero(1780 ca) , il quale riferisce che strangulapriévete chiamavano nel Settecento gli gnocchi i monaci e strangulamuónece a rimbrotto i preti. Disdicevole è peraltro che, partendo da strangulapriévete, l’italiano mediatico abbia tratto fuori uno ‘strozzapreti’ da far venire i brividi all’ascolto o sobbalzar dalla poltrona. Vuoi vedere che aumme aumme e tenendomene all’oscuro son tornati tra di noi i lanzichenecchi?! È ben vero che tra gli studiosi dell’ idioma napoletano non è mancato, non so se per distrazione o per un eccesso di laicismo malinteso, chi accredita una semantica da serracollo, come per esempio fanno il D’Ascoli e il Santella, ma mi sto ancora chiedendo chi sia stato il primitivo ignorante che, non conoscendo l’etimologia della prima parte del termine strangula-priévete, à creduto di fare cosa intelligente (lasciandosi fuorviare dallo strangula d’avvio sostituendolo con ‘strozza’, (dal verbo strozzare, sinonimo in toscano di ‘strangolare’) e dimostrando, invece, d’essere un asino integrale. Cerchiamo d’esser seri. Il termine strangulapriévete, unico originale vocabolo che possa arrogarsi il diritto di significare gli gnocchi napoletani, viene da secoli lontani e nasce dalla lingua greca, tanto da far sospettare che tale preparazione sia d’origine se non greca, certamente delle zone della Magna Grecia Dall’impasto di acqua, farina e sale si ricavano, arrotolandoli sul tagliere cosparso di farina asciutta, dei bastoncelli a sezione cilindrica, spessi un centimetro, che vengono tagliati in piccoli cilindretti di un paio di centimetri ognuno. I cilindretti vengon poi incavati, facendoli strusciare sul tagliere e tenendoli premuti contro il medesimo col polpastrello o dell’indice o del medio. Questa doppia operazione dell’arrotolamento e della incavatura ci fa comprendere perché il verbo greco straggalào, con i significati di arrotolare, attorcere, curvare, ed il verbo prepto con quelli di comprimere, incavare, siano all’origine del termine napoletano strangulaprievete voce con cui designiamo i nostri gnocchi napoletani. Rammento che tali strangulaprievete greco-napoletani nella zona dell’avellinese prendono il nome di trille poi che l’operazione dell’incavatura è fatta contemporaneamente con i polpastrelli di tre dita: indice, medio ed anulare strusciando i cilindretti di pasta sul tagliere cosparso di farina, quel tagliere che in napoletano è détto laganaturo e nell’avellinese tumpagno. Piú chiaramente dirò che per il tagliere, i napoletani usano il generico termine di laganaturo (che deriva , come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se piú strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo a Napoli si indicò ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, che il bastone cilindrico con cui si spiana la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello sono due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Quanto al tagliere dell’avellinese dirò à il nome di tumpagno ed è, contrariamente al tagliere napoletano che è rettangolare, di forma circolare, né piú, né meno cioè che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura). Ma torniamo a gli strangulaprievete ed annotiamo che come ò chiarito i sacerdoti non c’entrano nulla e di conseguenza men che meno i monaci chiamati in causa da qualche buontempone che non aveva di meglio cui pensare... Quanto allo stravolgimento di strangulaprievete in strozzapreti non posso che ribadire l’ignoranza e l’imbecillità di chi à fatto un simile strazio, ed à trovato sedicenti studiosi della lingua italiana pronti ad accoglierlo nei dizionarî in uso, diventati oramai il secchio della spazzatura in cui vien recepito di tutto, asinerie e capocchierie comprese. Si consideri la voce strangolapreti come appare in uno dei piú diffusi lessici: «Gnocchetto duro e compatto, che, essendo di difficile masticazione, rischia di far morire soffocati». Ben tre stupidaggini infilate in una sola frase e che rischiano di farci soffocare dal ridere. Una cosa di cui ci si può solo vergognare. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo Mangia Napoli, bbona salute! Raffaele Bracale

PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONA.

PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONA. Letteralmente: prender bava (cioè boriarsi) e porsi in guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, saccenti e supponenti, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri (sottoposti e/o conoscenti) il loro modo di veder le cose, se non la vita, laddove in realtà poggiano la loro albagía sul nulla.Tale vacuo atteggiamento è spesso proprio di coloro che soffrono di gravi complessi di inferiorità e che nella loro vita familiare non son tenuti in nessun cale ed in alcuna considerazione (cosa che fa aumentare nel loro animo esacerbato un senso di astio nei confronti dell’umanità tutta, di talché – appena ne ànno il destro - sfogano astio e malumore sui poveri sottoposti e/o conoscenti che però, ovviamente, si guardano bene dall’accettare o addirittura dal considerare ciò che i boriosi saccenti tentano di esporre o imporre. bòria s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; altezzosità; l’etimo è forse dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)', ma un’altra scuola di pensiero pensa, probabilmente piú giustamente, ad un forma aggettivale (vapòrea) da un iniziale vapor=vapore;benché sia difficile decidere a quale idea aderire.., molto mi stuzzica l’idea del vapore secondo il percorso vapòrea→(va)pòrea→pòria→bòria; albagía s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia. l’etimo è molto controverso; a parte il solito pilatesco etimo incerto (che mi dà l’orticaria...) qualcuno propone una derivazione da alba nel senso di vento dell’alba; qualche altro (ed a mio avviso forse piú esattamente) vi vede un denominale del lat. albasius sorta di abito bianco indossato dalle persone altezzose: albàsius avrebbe dato albàsia e poi albasía→albagía adottando il suffisso tonico greco ía proprio delle voci astratte e dismettendo il corrispondente suff. latino atono ia; vàvia s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia, superbia, arroganza, tracotanza, prosopopea, spocchia; sufficienza, sussiego; la voce a margine(di pertinenza quasi esclusivamente maschile, ma talvolta anche femminile) è un derivato di vava (bava)= liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o di persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica come càpita in chi viva uno stato continuo di superbia tracotante; etimologicamente la voce a margine si è formata partendo da *baba, voce onom. del linguaggio infantile voce che in napoletano, con consueta alternanza b/v (cfr. bocca→vocca – barca →varca etc.), diventa vava ed aggiungendovi il suffisso atono latino delle voci astratte ia ottenendo vàvia; si fosse adottato il suff. greco tonico si sarebbe ottenuto vavía; guarnasciona s.vo f.le=guarnaccia, elegante sopravveste medievale ampia e lunga,bordata di pelliccia portata soprattutto dagli uomini di riguardo; in realtà la voce a margine è un accrescitivo (cfr. il suff. one) formato partendo da un originario ant. provenz. guarnacha (da leggere guarnascia donde l’accrescitivo guarnasciona; guarnacha fu modellata sul lat. gaunaca(m) 'mantello di pelliccia',. raffaele bracale

IL VERBO NAPOLETANO PIGLIÀ (PIGLIARE) ED I SUOI SIGNIFICATI ESTENSIVI

IL VERBO NAPOLETANO PIGLIÀ (PIGLIARE) ED I SUOI SIGNIFICATI ESTENSIVI Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò: - piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi); - -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore; - catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú; malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male; - piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude; - piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera; - aria ( dall'acc.vo lat.volg. aera per il classico aerem, dal gr. aér); - piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato; - fummo (dal lat. fumum con radd. espressivo della consonante nasale bilabiale (m) ); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1ª p. pl. pass. remoto verbo essere) ; - piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc. - fuoco ( dal lat. focum con dittongazione popolare della sillaba d’avvio); - piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa; - parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem); - piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, conforme all’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: metaforicamente scegliere di comportarsi bene o male; - piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire; - spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il saporte forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto. - piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ; - smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare; - pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi; - pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente; - pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram); - pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua; - pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione; - liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva). Elenco ora tutta una serie di espressioni forgiate con il verbo in esame ed usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo: - piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam; - piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione); - piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea; - piglià ‘o cazzo p’ ‘o marrazzo (incorrere nell’enorme confusione di scambiare il membro dell’uomo con un suo coltellaccio, portato in cintola; il marrazzo [voce dal lat. med. maraciu(m)] fu un grosso coltellousato dai macellai (per smembrare le bestie macellate) e dai pescatori e pescivendoli (per sezionare i pesci di grossa taglia) ed ecco perché gli ischitani: pescatori e pescivendoli erano usi portarlo in cintura!); - piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino in erezione ed il faro del Molo). -Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, - - piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore. - Esaurite cosí le espressioni forgiate con il verbo in esame usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande andiamo oltre ed occupiamoci di altre espressioni di altro genere: piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.; - pigliarse 'o spavo 'ncerato L’espressione che letteralmente si traduce prendersi lo spago impeciato significa: prendersi un gran fastidio, impegnandosi in un'azione lunga noiosa e quindi fastidiosa. L'espressione è mutuata dal lavoro del calzolaio che quando deve unire, cucendola, una suola o un tomaio deve fare uso di uno spago che, perchè sia piú resistente, viene prima attentamente impeciato ('ncerato), operazione lunga, noiosa e fastidiosa. spavo s.vo neutro = spago, funicella sottile formata da due o piú capi ritorti:’nu gliommero ‘e spavo (un gomitolo di spago); attaccà ‘nu pacco cu ‘o spavo(legare un pacco con lo spago) | il filo ritorto e poi impeciato usato dai calzolai: tirà ‘o spavo(tirare lo spago) = fare il calzolaio | dà spavo a quaccuno(dare spago a qualcuno), (fig. fam.) incoraggiarlo con il proprio atteggiamento a parlare liberamente o a prendersi confidenze. L’etimo della voce napoletana è dal lat. spacu(m) con tipico passaggio delle occlusive velari sorde c(a/o/u)- g(a/o/u) a v o viceversa; cfr. ad es. gallo/gallina→ vallo/vallina oppure volpe→golpe gunnella→vunnella conchula→vongola etc. ‘ncerato p. pass. agg.vato dell’infinito ‘ncerà= incerare, ma nella fattispecie impeciare; etimologicamente derivato dal Dal lat. tardo incerare, comp. di in-illativo e cerare, deriv. di círa 'cera'. - - ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi; - pigliarse ‘o ppusilleco Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: 1)Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.2) Prendersi giuoco di qualcuno, molestarlo 3)In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue. La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopea Posillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. - - Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe. - Piglià ll'acqua a passà Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa. -Pigliarse 'a scigna Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera. - Piglià 'nu bbagno Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato. -Piglià 'nu terno Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato. - Piglià p''o culo Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.Mi dilungo e dico chela lucuzione in epigrafe nella sua esposizione completa è: Piglià p’ ‘o culo a quaccheduno. L’espressione ad litteram vale pigliare/prendere per il culo e fuor del velame sta per anche ingannare, gabbare qualcuno, oltre che prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, prenderlo per i fondelli, farlo oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione, È interessante rammentarsi da quale situazione storico-ambientale tragga origine la locuzione in esame. Essa si riallaccia alla ignominosa cerimonia detta in napoletano zitabona che comportava, per il debitore insolvente dopo di averla compiuta la necessità di andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era infatti quello il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove pronunciando l’espressione Cedo bona spesso corrotta in Cedo bonis dichiarava fallimento manifestando la sua insolvibilità; la cerimonia che adattando il Cedo bona latino diventava – in napoletano - zitabona prevedeva oltre la pronunzia della formula, il dover poggiare le nude natiche su di una colonnina posta a Napoli innanzi al tribunale della Vicaria a dimostrazione di non aver piú niente. Altrove, ad es. a Firenze la cerimonia era la medesima, ma in luogo della colonnina occorreva sedersi, a nude natiche, su di un cuscino di pietra. La cerimonia diede vita a Napoli anche all’espressione Jirsene cu ‘na mano annante e n’ata arreto che si usò e si usa a dileggio di chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.Va da sé che l’esser costretti a mostrarsi a natiche nude in pubblico, comportasse il diventare oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione da parte degli astanti, situazione che diede vita all’espressione in esame piglià p’ ‘o culo che – come ò détto – vale prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, deriderlo, beffare, burlare, canzonare, irridere, dileggiare, prendere in giro.Per ampiamento semantico poi valse pure ingannare, gabbare qualcuno. -Píglialo 'nculo Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci). - Pigliarla a ppazziella Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco. - Piglià 'na quinta 'mbacante Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune. In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta). Raffaele Bracale

NACCA/NNACCA & dintorni

NACCA/NNACCA & dintorni Sollecitato dalla richiesta d’una mia nipote, tratto questa vòlta la voce in epigrafe sicuro di far cosa gradita non solo alla mia congiunta, ma pure a qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Comincio con la prima espressione che mi viene in mente che la contiene: (‘a)zi’ nnacca (d’’o Pennino),e talvolta per evidente inconscia erronea corruzione popolare (‘a)zi’ nnacchera (d’’o Pennino), ma piú correttamente (‘a)sié nnacca (d’’o Pennino); letteralmente sta per la signora anca (del pendino), ma per ampliamento semantico vale donna sgraziata, goffa, dalla provocatoria andatura dondolante per mettere in mostra le voluminose anche e/o natiche, mostra favorita dalla ridondanza delle grosse gonne indossate, spesso ad arte gonfie sui fianchi e/o fondoschiena, per sottogonne e/ o guardinfanti; tale donna sgraziata e goffa è classificata, stante la sua ineleganza e cattivo gusto come donna volgare, intesa addirittura becera, triviale, incline al pettegolezzo e alla chiassata manifestando rumorosamente la sua presenza enfatica come ad un dipresso accade per la cosiddetta péreta (cfr. alibi sub EPITETI). Prima di passare all’esame linguistico dell’espressione ricorderò che “’a sié nnacca d’ ‘o Pennino” fu l’epiteto affibbiato intorno agli anni di fine 1800 ad un corpulento, sgraziato donnone che fu titolare d’una friggitoria nel quartiere Pennino, donnone rammentato anche dal poeta Ferdinando Russo [Napoli 25/11/1866 - † ivi 30/01/1927] nel finale del suo poemetto ‘Mparaviso (1891). Affrontiamo ora la questione etimologica dell’espressione e dico súbito che (‘a) zi’ nnacca o addirittura (‘a) zi’ nnacchera (che varrebbe correttamente la zia anca) è espressione scorrettamente in uso sulla bocca del popolino e/o delle persone meno coscienti o consce dell’idioma partenopeo, laddove l’espressione da usarsi correttamente è (‘a) sié nnacca (d’’o Pennino) e ciò perché spesso tra il popolino o i meno esperti si incorre nella confusione tra zi’ e si’ (al maschile) o tra zi’ e sié (al femminile) cioè si confonde tra zio/a e signore/a. Ricordo infatti che non solo in questo caso, ma anche in altre espressioni che ricorderò qui di fila, si incorre nella colpevole confusione tra i menzionati zio/a e signore/a. con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di si(gnore) con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottenengono gli scorretti zi’(zio o zia) in luogo dei corretti si’ (signore)o sié dove il si’ - come ò detto- è l’apocope di si-(gnore) (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre il sié è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur cioè da seigneuse→sie-(gneuse). Ricordo altre espressioni improprie come: 1)dicette ‘o zi’ prevete â zi’ badessa:”Senza denare nun se cantano messe”! usata invece della corretta dicette ‘o si’ prevete â sié badessa:”Senza denare nun se cantano messe”! Ad litteram: Il signor prete disse alla signora abadessa: Senza denari, non si celebrano messe cantate!;l’espressione impropria sarebbe tradotta: Lo zio prete disse alla zia abadessa: “Senza denari, non si celebrano messe!”, ma ognuno vede che è una forzatura semantica ritenere zii e non signori i protagonisti dell’espressione! 2)Essere ‘o zi’ nisciuno espressione impropria al posto della corretta Essere ‘o si’ nisciuno id est: essere una nullità, un autentico signor nessuno! Rammento che in tale confusione tra zi’ nisciuno e si’ nisciuno incorse perfino un grandissimo scrittore napoletano, don Peppino Marotta (Napoli 5 aprile 1902. -† ivi 12 ottobre 1963) che in un suo volume tradusse appunto scorrettamente essere lo zio nessuno piuttosto che correttamente essere il signor nessuno ed anche in questo caso abbiamo una forzatura semantica. Andiamo oltre e trattiamo il sostantivo nacca s.vo f.le = anca, fianco (soprattutto femminile) Premesso che l’erronea nacchera talvolta scioccamente usata da qualcuno, è solo una patente corruzione, per bisticcio ed assonanza, di questa nacca dirò che in corretto napoletano la voce nacca o il pl. nacche se vengono usate precedute da una e esigono il raddoppiamento consonantico della enne e dunque si dovrà scrivere ‘a sié nnacca e non ‘a sié nacca ed ovviamente ‘e nnacche e non ‘e nacche (che altrimenti, oltre tutto, suonerebbero maschili!). Etimologicamente la voce nacca è una lettura metatetica del tedesco (h)anka→naka→nacca con raddoppiamento espressivo dell’occlusiva velare sorda k→cc. Completiamo l’esame dell’espressione di partenza trattando dello specificativo locativo d’’o Pennino= del Pendino Il Pendino è un antico quartiere di Napoli, adiacente al centro storico, che attualmente è compreso nella seconda municipalità del capoluogo campano insieme ai quartieri Avvocata, Montecalvario, Mercato, San Giuseppe e Porto. Questo antico quartiere comprensivo di una zona in leggero pendio (donde il nome) verso il mare à molte strade tra cui spiccano: Corso Umberto I (noto con il nome di Rettifilo strada aperta, come la successiva, al tempo (1888 – 1889) dello sventramento e risanamento della città operata consule il sindaco Nicola Amore,(Roccamonfina 18 aprile 1828 –† Napoli, 10 ottobre 1894) ), Via Duomo (che prende questo nome appunto per la presenza della Chiesa cattedrale (Duomo) della metropoli partenopea), Via Soprammuro (in dialetto 'Ncopp ê Mmure sopra le mura dove quotidianamente si tiene mercato al minuto di pesce ed ortaggi/erbaggi.), Via Forcella (nota per essere uno delle piú antiche strade napoletane, strada dal fiorente contrabbando di tabacchi ed apparecchiature audio-visive e fotografiche oltre che di elettrodomestici , Corso Garibaldi(improvvidamente dedicato al masnadiero,truffaldino ladro di cavalli, pluripregiudicato Garibaldi Giuseppe ((Nizza, 4 luglio 1807 –† Isola di Caprera, 2 giugno 1882)) córso che congiunge la zona portuale con la piazza Carlo III sede del monumentale Albergo dei Poveri (détto anche Reclusorio) opera voluta dal re Carlo di Borbone ed edificato su progetto di Ferdinando Fuga , Via Bartolomeo Capasso (illustre scrittore, poeta ed archeologo napoletano (Napoli 22/02/1815 - † ivi 3/03/1900)) ecc.; rammento inoltre che questo vasto importante quartiere napoletano à origini antiche, già in ètà romana era compreso nelle mura, come testimoniato dal Complesso termale in Vico dei Mannesi( per ciò che riguarda la voce mannesi, pl. di mannese dirò che nell’ idioma napoletano essa voce mannése non à nulla a che dividere con l’omografa ed omofona della lingua italiana; in italiano mannése è un aggettivo che viene riferito agli abitanti dell’isola di Man e connota in particolare una lingua che è appunto la lingua mannese o manx (chiamata anche Gaelg) che è una lingua gaelica o goidelica parlata sull'Isola di Man,che è un’isola conosciuta anche come Mann o Manx (Isle of Man in inglese, Ellan Vannin o Mannin in mannese) ed è situata nel Mar d'Irlanda; sul piano politico, essa non fa parte del Regno Unito né dell'Unione Europea, ma è una dipendenza della Corona britannica. La lingua che vi si parla è risalente al V secolo ed è derivante dall'antico irlandese; infatti non di rado viene chiamata gaelico mannese. Tutt’altra cosa è il mannése della parlata napoletana dove è un sostantivo, non aggettivo masch. e vale carpentiere,falegname ma piú ancóra carradore,fabbricante di carri e carretti, artigiano che fabbrica o ripara carri e barocci; carraio con derivazione da un acc.vo lat. manuense(m) che diede il lat. volg. *manuese donde *mann(u)ese; per il raddoppiamento della nasale cfr. alibi crebui→ crebbi, venui→venni, stetui→stetti etc.) Il quartiere conserva altresí resti di mura greche in Piazza Calenda a Forcella che testimoniano un'ulteriore antichissima epoca,appunto quella greca. Nel medioevo questo quartiere e precisamente la piazza del Mercato,fu teatro della decapitazione di Corradino di Svevia (Corrado V di Svevia, detto Corradino (Landshut, 25 marzo 1252 –† Napoli, 29 ottobre 1268) figlio di Corrado IV re dei Romani e di Elisabetta di Wittelsbach; fu Re di Sicilia (1254-1268) e di Gerusalemme (1254-1268). Fu l'ultimo degli Hohenstaufen regnanti), ed inoltre dal XIV secolo in poi nel quartiere vennero erette numerose chiese; nel seicento fu il luogo da dove partí la rivolta di Masaniello(Tommaso Aniello d'Amalfi,(rammento che d’Amalfi era il suo cognome e non indicava la provenienza o nascita, in quanto il personaggio era di nascita napoletana) meglio conosciuto come Masaniello (Napoli, 29 giugno 1620 –† Napoli, 16 luglio 1647, fu il principale protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647, la popolazione civile della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo); continuando nel ns excursus ricordo che nel XX secolo il quartiere fu gravemente danneggiato ma venne súbito ricostruito tranne alcuni edifici come la Chiesa del Carminiello ai Mannesi.Oltre le arterie ricordate il quartiere è composto da un fitto dedalo di numerosi vicoli che le intersecano; ricordo: Vico Zuroli (che prende il nome da un’antichissima(1300) famiglia : gli Zurlo o Zuroli che vi fecero elevare il loro palazzo nei pressi della chiesa del Monte della Misericordia (Il Pio Monte della Misericordia è un'istituzione benefica, tra le più antiche (1602), della città di Napoli. La sua sede attuale è nell'edificio (palazzo e chiesa) situato nel centro antico della città, lungo uno degli antichi decumani (decumano maggiore, oggi via dei Tribunali). L'edificio ospita le Sette opere di Misericordia (1607), celebre dipinto del Caravaggio), Via Arte della Lana (sede della potente corporazione dei Lanaioli, fiore all’occhiello della città dove l’artigianato tessile à avuto da sempre notevole importanza, tanto che gli Arabi dissero la città: Napoli del lino; la corporazione era cosí importante e potente da godere di legislazione propria, un proprio tribunale, di chiesa e carcere privati), Vico del Lavinaio( che deve il suo nome agli scoli d’acqua piovana che – prima dell’ampliamento aragonese (1484)delle mura di cinta della città - rendevano fangose e malsane le strade di quella zona popolare; esistono altresí molte piazze monumentali: 1 -piazza del Mercato,(quella teatro della rivolta di Masaniello, sede delle esecuzioni capitali È una delle maggiori piazze della città, ma in origine non era altro che uno spiazzo irregolare esterno al perimetro urbano, chiamato Campo del moricino (o muricino) "perché «attaccato» a mura divisorie della cinta muraria cittadina". Gli Angioini, poi, ne fecero un grande centro commerciale cittadino, ribattezzandolo Mercato di Sant'Eligio (con riferimento ad un’imponente basilica di stile gotico adiacente alla piazza dedicata appunto a sant’ Eligio) e, quindi, Piazza Mercato, snodo fondamentale dei traffici provenienti da tutto il Mediterraneo. Ivi si svolgevano le esecuzioni capitali, a partire dalla decapitazione di Corradino di Svevia, fino a quelle dei giacobini dopo la soppressione della Repubblica Partenopea del 1799. La piazza, poi, è particolarmente celebre per essere stata il luogo dove ebbe inizio la rivoluzione di Masaniello) 2 -Piazza Nicola Amore (conosciuta come 'e Quatte Palazze = quattro palazzi che son quelli che limitano la piazza ai quattro punti cardinali ), 3 - Piazza del Carmine (non quella summenzionata della rivolta di Masaniello,ma quella adiacente che un tempo fu tutt’uno con la piazza del Mercato; questa piazza in esame su uno dei quattro lati vanta la presenza, prendendo da essa il nome di piazza del Carmine, della Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore (una delle piú grandi e belle basiliche di Napoli, dedicata al culto della Vergine (nera) del Carmelo. Risalente al XIII secolo,la basilica è oggi ormai l’ unico splendido esempio del Barocco napoletano; si erge in piazza Carmine a Napoli, piazza che un tempo formava un tutt'uno con la piazza del Mercato, teatro, come ò ricordato, dei piú importanti avvenimenti della storia napoletana.) con l’adiacente campanile che quantunque costruito contemporaneamente alla chiesa, di esso si parla la prima volta non prima del 1439, durante la guerra tra Angioini e Aragonesi. Piú volte danneggiato e ricostruito assume l'aspetto attuale nella prima metà del XVII secolo. I primi tre piani sono costruiti (partendo dal basso) nello stile ionico, dorico e corinzio, e si devono all'architetto Giovan Giacomo Di Conforto. Questa parte, iniziata nel 1615 con la offerta di 150 ducati, venne completata nel 1620. Nel 1622 fu innalzato il primo piano ottagonale sotto la cui cornice si legge un'iscrizione; nel 1627 fu portato a termine il secondo piano ottagonale e nel 1631, il domenicano Giuseppe Donzelli détto fra’ Nuvolo, costruí la cuspide ricoperta di maioliche dipinte, per cui il campanile è ricordato come quello di fra’ Nuvolo In cima vi troneggia la croce, su di un globo di rame del diametro di 110 centimetri. L'intera struttura è alta 75 metri e risulta essere il campanile piú alto di Napoli ed ogni anni per la ricorrenza della festività della Madonna del Carmine (16/07), il détto campanile viene incendiato cioè è teatro di un imponente spettacolo di fuochi artificiali esplosi lungo tutta la struttura del campanile; 4 - Piazza del Grande Archivio (che prende il nome dall’ Archivio di Stato, ubicato nei locali dell’antichissimo monastero dei Ss. Severino e Sossio; La chiesa e l'annesso ampio monastero vennero fondati nel IX secolo dai Benedettini, che nel 902 vi trasferirono le spoglie di San Severino, e due anni dopo anche quelle di San Sossio. Il complesso venne poi ristrutturato intorno alla metà del 1400 dagli angioini e ne restano alcune tracce nella chiesa inferiore, nuovamente rifatta nel XVI secolo. Nel 1494 venne affidata a Giovanni Donadio la ricostruzione della chiesa superiore. I lavori, interrotti per un breve periodo, furono ripresi nel 1537 da Giovan Francesco di Palma. I danni prodotti dal terremoto del 1731 resero necessaria una nuova ristrutturazione, affidata a Giovanni Del Gaizo. A Giovanni Battista Nauclerio si deve invece il rifacimento della facciata. L'interno della chiesa , a croce latina, è a navata unica con sette cappelle laterali. L' opera conserva un altare maggiore e una balaustra realizzati su disegno di Cosimo Fanzago, nonché un'ancona marmorea di Giovanni Domenico D'Auria ed una tavola di Marco Pino, (Calvario, 1577)poste nella cappella Gesualdo; nella cappella Sanseverino invece sono visibili i Monumenti funebri di Ascanio, Iacopo e Sigismondo Sanseverino, eseguiti nel 1539-40 su disegno di Giovanni da Nola.L’annesso monastero, oggi sede dell’Archivio, è famoso per i suoi tre chiostri riccamente affrescati (chiostro dei platani,chiostro del noviziato e chiostro di marmo o chiostro quadrato, destinato a giardino, con ingresso sulla via.). Il quartiere confina con altri popolari e popolosi quartieri: Porto, Vicaria, Mercato, San Lorenzo e San Giuseppe. A margine di questa lunga, ma forse necessaria e m’auguro interessante descrizione del quartiere Pendino richiamato dall’espressione in esame: ‘a sié nnacca d’’o Pennino rammento qui di sèguito un’ altra espressione in cui è presente il quartiere Pendino: arricurdarse ‘o cippo a furcella, ‘a lava d’’e virgene, ‘o catafarco ô pennino, ‘o mare ô cerriglio. Ad litteram: Rammentarsi del pioppo a Forcella, della lava dei Vergini, del catafalco al Pendino e del mare al Cerriglio. È un’ espressione pronunciata a caustico commento delle parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi quali, nella fattispecie, i pioppi esistenti alla fine di via Forcella; per il vero la parola originaria dell’espressione era chiuppo ( id est: pioppo; chiuppo etimologicamente è da un lat. volg. *ploppu(m), per il class. populu(m); tipico il passaggio in napoletano PL→CHI). La parola chiuppo fu poi corrotta in cippo e cosí mantenuta nella tradizione orale della locuzione;in essa poi sono ricordati vari altri accadimenti , quali 1)- ‘a lava d’’e Virgene(la lava nella parlata napoletana, etimologicamente dal lat. labe(m)→laba(m)→lava(m) è'caduta, rovina', deriv. di labi 'scivolare' non indica solamente la massa fluida e incandescente costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di lava., ma indica anche estensivamente una copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua; ed è a quest’ultima che qui si fa riferimento; (con l’espressione ‘a lava d’’e Virgene si intende infatti quel tumultuoso torrente di acqua piovana che a Napoli fino agli inizi degli anni ’60 del 1900, quando furono finalmente adeguatamente sistemate le fogne cittadine, si precipitava dalla collina di Capodimonte sulla sottostante via dei Vergini (cosí chiamata perché nella zona esisteva un monastero di Verginisti antica congregazione religiosa di predicatori) e percorrendo di gran carriera la via Foria si adagiava, placandosi, in piazza Carlo III, trasportando seco masserizie,ceste di frutta e verdura e tutto ciò che capitasse lungo il suo precipitoso percorso),2) - ‘o catafarco ô Pennino = il catafalco al Pennino (id est: il grosso altare che veniva eretto nella centrale zona del Pendino, altare eretto per le celebrazioni della festa, ormai desueta, del Corpus Domini; in primis la parola catafarco (di etimo incerto, ma con molta probabilità da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra+ l’arabo falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( anche cosí nel napoletano, con derivazione forse da un antico castellame (voce del XIV sec. con cui si indicava la torretta lignea posta sulla groppa degli elefanti e nella quale si acquattavano i soldati; la voce, derivata probabilmente da castello, subí nel napoletano un adattamento corruttivo del suffisso me che divenne na con sostituzione della vocale finale e della nasale bilabiale con la corrispondente nasale dentale, per render chiaramente femminile la parola originariamente maschile, nella convinzione, che già alibi illustrai, che gli oggetti femminili fossero piú grandi o grossi o imponenti dei relativi maschili; l’adattamento corruttivo di me in na si rese necessario, atteso che per errore non si muta la desinenza nel volgere al femminile un nome terminante in me ed invece di farlo diventare terminante nell’ovvio ma, si continua a mantenere il suffisso me ; fu necessario perciò cambiar questo me in na (desinenza che, quanto al genere non produce confusione)!) dicevo che la voce catafalco che di per sé indica il tronetto ligneo su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara durante i funerali solenni, qui è usato per traslato ad indicare un altare molto imponente), infine: 3) - ‘o mare ô Cerriglio = il mare al Cerriglio (cioè al tempo di quando il mare lambiva la zona del Cerriglio, zona prossima al porto, nella quale era ubicato il Sedile di Porto, uno dei tanti comprensorî amministrativi in cui, in periodo viceregnale, era divisa la città di Napoli; nella medesima zona del Cerriglio esistette (1600 circa) una antica bettola o osteria , peraltro frequentata da ogni tipo di avventori: dai nobili (che vi venivano a provare l’ebrezza dell’ incontro con il popolino), ai plebei (che per pochi soldi vi si sfamavano), agli artisti (in cerca di ispirazione) alle prostitute (in cerca di clienti); abituale frequentatore di questa bettola pare fosse, durante il suo soggiorno partenopeo, il Caravaggio(Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio Caravaggio o Milano, 1571 † Porto Ercole (Monte Argentario), 18 luglio 1610) . sulla porta di detta bettola erano riportati i seguenti popolareschi versi epicurei se non edonistici: Magnammo, amice mieje, e ppo vevimmo nfino ca stace ll'uoglio a la lucerna: Chi sa’ si all'auto munno nce vedimmo! Chi sa’ si all'auto munno nc'è taverna! stace = ci sta; il ce dal lat. volg. *hicce, per il class. hic 'qui'in posizione enclitica corrisponde, svolgendone le medesime funzioni, all’italiano ci che è pron. pers. di prima pers. pl. [atono; in presenza delle particelle pron. atone lo, la, li, le e della particella ne, viene sostituito da ce: ce lo disse, mandatecelo; che ce ne importa?; in gruppo con altri pron. pers., si prepone a si e se: ci si ragiona bene; non ci se ne accorge (pop. la posposizione: si ci mette); si pospone a mi, ti, gli, le, vi: ti ci affidiamo (piú com.: ci affidiamo a te)]; vale pure noi ( e si usa come compl. ogg., in posizione sia proclitica sia enclitica); lucerna = lampada portatile ad olio o petrolio e qui, per traslato vita etimologicamente derivata da un tardo latino lucerna(m), forse deriv. di lux lucis 'luce', o piú probabilmente deverbale di luceo con il suffisso di appartenenza ernus/a; taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B/V, nella parlata napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse puteca. Sistemato cosí m’auguro esaurientemente il Pendino e le locuzioni che lo richiamano, chiarisco che – come si puó facilmente arguire la protagonista dell’espressione ‘a sié nnacca d’’o Pennino non è, né fu una ben identificata e/o codificata persona, ma semplicemente una tipica popolana del tardo ‘800, che vestita alla consueta vistosa maniera delle popolane con ampie gonne e sottogonne e/o guardinfanti, divenne famosa dapprima nel suo quartiere e poi in quelli limitrofi ed infine in tutta la città fino a divenire proverbiale, per un suo tipico dondolante e provocatorio incedere mettendo in vista anche e/o natiche gonfie o pingui. Esiste altresí, oltre quella or ora rammentata, un’altra simpatica, icastica espressione che è poi un intercalare di estemporaneo canto popolare su ritmo di tarantella, canto in uso tra i contadini della provincia napoletana o dell’area sorrentina, intercalare in cui è presente la voce nacca, anzi il suo plurale nacche tale intercalare/espressione nella sua interezza suona:’Nfra nacche, pacche e nievero ‘e vacca e tradotta vale: Tra anche, natiche e nerbo di vacca con riferimento al comportamento tenuto durante la danza da ballerine e ballerini: le prime che dimenano ed agitano provocatoriamente anche e natiche ed i secondi che proditoriamente strofinano o tentano di strofinare contro le medesime il loro nerbo (di vacca); va da sé che il nerbo di vacca (nievero ‘e vacca) che sta ad indicare il membro maschile è solo un gustoso adattamento furbesco per questioni di rima per assonanza, atteso che morfologicamente non è la mucca (vacca), ma il bue ( ‘o vojo) ad essere armato di nerbo (nievero).Esaminiamo le singole voci dell’intercalare: ‘Nfra = tra, fra, in mezzo preposizione 1 indica posizione intermedia entro due termini collocati a una certa distanza nello spazio (anche in usi fig.) ‘na strata ‘nfra ddoje file d’ arbere(una strada tra due filari d’alberi); ‘a casa nosta casa è ‘nfra ô parco e â chiazza (la nostra casa è tra il parco e la piazza); stà ‘nfra dduje fuoche(essere tra due fuochi), stà ‘nfra â ‘ncunia e ô martiello (stare fra l'incudine e il martello) 2 in dipendenza da verbi di movimento introduce un moto per luogo: passaje ‘nfra ‘nu sacco ‘e gente (passò fra molte persone); 3 indica il tempo che deve trascorrere prima del verificarsi di un evento: nce vedimmo ‘nfra ddoje ore(ci vedremo fra due ore); turnarrà ‘nfra ‘na semmana(tornerà fra una settimana); | indica l'arco di tempo entro cui l'evento si è verificato o dovrà verificarsi: ‘a fatica s’ à dda fa ‘nfra fevraro e abbrile (il lavoro deve essere svolto fra febbraio ed aprile; starrà cca ‘nfra ê ccinche e ê ssaje ( sarà qui tra le cinque e le sei) | con il valore di durante, nel corso, nel mezzo di: parlà ‘nfra sé e ssé(parlare tra sé e sé) 4 introduce una distanza, una lunghezza:’nfra ciento metre truvammo ‘na chiazza( tra cento metri incontreremo una piazza) | con valore spazio-temporale: ‘o paese è ‘nfra mez'ora ‘e cammino (il paese è fra mezz'ora di cammino) 5 indica i soggetti, i termini entro i quali o rispetto ai quali si verifica una certa condizione (anche in usi fig.):’nfra nuje e vvuje nce sta n’abbisso (tra noi e voi c'è un abisso); ‘nfra loro s’’a ‘ntennono bbuono!( fra loro si intendono bene!); 6 con valore distributivo: l’eredità sarrà spartuta ‘nfra paricchie ‘e lloro(l'eredità sarà spartita fra molti); 7 in funzione partitiva: chi ‘nfra nuje va cu isso?( chi tra noi andrà con lui?). Etimologicamente è dal lat. infra→’nfra Nacche = s.vo f.le pl. di nacca= anca, fianco; dell’etimo ò già détto; pacche s.vo f.le pl. di pacca= natica e per traslato ognuna delle piú parti in cui si può dividere longitudinalmente una mela o una pera; etimologicamente la voce è dal lat. med. pacca marcato sul long. pakka. nievero s.vo m.le = nervo, nerbo e per estensione il membro maschile d’uomini o animali; etimologicamente la voce è dal lat.nervum con dittongazione della e intesa breve(ĕ→ie),metatesi (rv→vr) ed anaptissi di una e eufonica tra v ed erre secondo il percorso morfologico nervum→niervum→nievrum→nieverum→nievero. vacca s.vo f.le = mucca, femmina adulta dei bovini che à già figliato, figuratamente donna molto grassa, sformata | prostituta, sgualdrina, ma qui usato, solo per comodità di rima per assonanza, impropriamente in luogo di bue; l’etimo è dal lat. vacca(m) . E qui penso proprio di poter far punto. Satis est. Raffaele Bracale

TORINO – NAPOLI (30/03/13) 3 A 5!‘A VEDETTE ACCUSSÍ

TORINO – NAPOLI (30/03/13) 3 A 5! ‘A VEDETTE ACCUSSÍ Alleluja, alleluja guagliú! E che fullé ‘ncredibbile ajeressera ô Cumunale ‘e Turino! Fenette ‘ngrolia sissignore, ma stettemo ‘mpreoccupazzione nsi’ a ll’urdemo e ce facettemo tutt’ ‘a Divina cummedia cu ll’inferno ‘e vederce superate ‘ncopp’ô tre a ddoje, ‘o purgatorio d’ ‘o pareggio cu ‘a terza rredda ‘e Dezmaili primma ‘e arrivà ô Paraviso d’ ‘e ddoje rredde finale ‘e Cavani ca ce facetteno tuccà ‘o Cielo cu ‘nu dito rijalannoce n’uovo ‘e Pasca cu ‘na surpresa pulitelica (preziosa) ‘e tre ppunte ‘mpurtante pe difennere ‘o siconno posto piazzannoce a 59 punte dduje ‘a cuollo ô Milàn(no), surpresa pulitelica ca nce cunzentette ‘e nun ce ‘ntussecà fellata, casatiello, tòrtano e crapetto. Ma ‘ntribbuna divano se sufferette e cquanto e cchiú d’uno dicette ca pe ‘nu fullé ‘e pallone uno nun se po’ arruvinà ‘e stefaniose (le coronarie) e e mmeglio ca a ggiugno De Chiacchiaroniis & socie ce fanno ‘nu scuatrone ca nun ce fa sufferí oppure fullé ‘e pallone nun ce ne vedimmo cchiú e turnammo a ffarce ‘o scupone scientifico futtennoce d’ ‘o Ciuccio e de tutte ‘e preoccupazzione ca nce dà! Passammo ê ppaggelle. ROSATI 5 Quanno ‘nu purtiere scenne ‘ncampo sempe preoccupato ca à dda dimustrà si e cquanto vale è cchiaro ca va ‘mpaura e ppo’ smarrunà o nun rennere pe cchello ca putesse. Cumminfatte ajere pure nun essenno chiammato a ffà cape d’angelo, nun dètte nisciuna sicurezza, dimustranno ‘e nun starce cu ‘a capa e de nun crederce manco isso ‘e valé quaccosa:’ncopp’â rredda ‘e Barreto, ca nun signava dâ lava d’ ‘o seje, se facette ‘nfilà comme a ‘na quaglia doppo d’essere stato a gguardà, senza fà niente, comme ‘e suoje se ‘ncasinavano senza riuscí amenà ‘ntribbuna ‘o pallone; ô finale ascette periculosamente dê pale senza nisciunu mutivo... Spisso po fuje assaje ‘mpriciso pure quanno êtt’ ‘a puggià ( rilanciare).Se vede ca s’allena cu De Sanctis e sse sape ca chi s’ ‘a fa cu ‘o zuoppo... ‘ncap’ ‘e ll’anno ceca e zoppeca! GAMBERINI 5,5 Nun facette gruosse sfregazze (sbavature), anze spisso risulvette situazzione bastantamente periculose. Partecipaje , però, ô festivàl(lo) d’ ‘e fessarie disastrose ‘ncopp’â primma rredda turinista. CANNAVARO 4 ‘O pallone nun è mestiere suĵo, soprattutto quanno penza ‘e fà ‘o Krol!‘O Napule sufferette assaje centralmente. Santana ô pprincipio d’ ‘o fullé poco mancaje ca nun lassasse ‘o signo;pure isso partecipaje [‘a prutacunista] ô festivàl(lo) d’ ‘e fessarie disastrose ‘ncopp’â primma rredda turinista, rummanenno nchiummato ‘nterra senza zumpà e facennose superà ‘e capa ‘a ‘nu si’ pochiello ca mo nun m’arricordo comme se chiammava. Jette a ddà ‘mpiccio annante e lle riuscette ‘e ‘ncarrà ‘na bella rovesciata, ma senza frutto cosa ca però nun avasta a salvarne ll’atalossa (prova).scadente. BRITOS 3,5 Serata no ‘e ll’ècchese bolognese. Overo ca rientraje ‘a n’ accidente (infortunio), ma chesto nun ‘o ggiustifica. Cumbinaje cchiú ‘e ‘nu pasticcio sia ‘ncopp’â primma rredda turinista ca cca e lla doppo e soprattutto s’addurmette cu ‘a zizza ‘mmocca ‘ncopp’a ll'inzerimento ‘e Meggiorini ca jette a vvedé ‘e che panne vestesse Rosati e ‘o truvaje annuro, signanno ‘na rredda ch’êsse pututo custarce caro. Faticaje a ttené ‘o passo ‘e Cerci ca spisso ‘o facette abballà ‘ncopp’ô tammurro e spisso se facette ncuccià fora pusizziona. (da ll’80° ARMERO 6,5 Chisto è ‘nu granne jucatore! Partette subbeto assaje forte sfunnanno quanno vulette ‘ncopp’â curzia ‘e mancina;reclamaje giustamente ‘nu ricore ca però ‘o zappatore Giannoccaro nun lle dètte. Cuntinuaje a ffà ‘a differenza nfi’ a ll’ajuda (all’assist) pennellata p’ ‘o 5-3 ‘e Cavani.) MAGGIO 6,5 Ajere turnaje a ffà ‘o treno e nno ‘o papunciello, dimustranno ca forze Mazzarri pe cchello ca rummane d’ ‘o campiunato po’ cuntà ‘ncopp’ a ‘stu jucatore turnato ê nivelle (livelli) ‘e ‘na vota appressuranno (spingendo) cu cuntinuità e assicuranno pure applicazzione difenziva. Ajere ‘e forza e de prepotenza se prucuraje pure ‘nu ricore ca êsse vuluto tirà Pandev(vo), ma ca Marekiaro pretennette ‘e tirà e pperò s’ ‘o facette parà. BEHRAMI 6,5 Solito luttatore tuosto e faticatore ‘mmiezo ô campo. Nun dètte rispiro ô centrocampo avverzario e ‘nzieme ô cunnazionale Dzemaili crinazzaje (ringhiò) diplastanno (raddoppiando) ‘ncopp’ê purtature ‘e palla turiniste. Peccato ca quacche vvota fuje troppo nervuso! HAMSIK 6,5 ‘Nu punto mancante pe bbia d’ ‘a puttanata fatta cu ‘o ricore ca nun vulette fà tirà a Pandev(vo),ma ca tiraje senza cegna (grinta) e ddicisione; rrobba ‘a pigliarlo a ppacchere, pecché ‘a fessaria fatta êsse pututo custarce cara…, ma p’ ‘o riesto ll’atalossa soja fuje assaje pusitiva p’ ‘o sviluppo d’ ‘a manovra e p’ ‘e ttante repartite (ripartenze) d’ ‘e cuane. Troppo bbella ll’ajuda cu ‘a coda ‘e ll’uocchio pe Dzemaili. DZEMAILI 9 ‘O prutacunista ca nun t’aspiette! Atalossa ‘ncredibbile d’ ‘o giuvinotto ècchese turinista; ‘nzieme a Bherami facette ‘o cane ‘e presa e se pigliaje tanti respunzabbilità ‘nfase ‘e reclaggia (impostazione) e ccomme si nun avastasse ce mettette ‘a jonta ‘e tre ttire ca fujeno tre rredde una meglio ‘e n’ata. Jucasse sempe accussí p’Inlèr(ro) fósse overamente tosta truvà posto ‘int’ô centrocampo ‘e Mazzarri. (da ll’86° ROLANDO sv) ZUNIGA 5,5 Nun riuscette a sfunnà maje ‘ncopp’â curzia mancina e s’êtte ‘a accuntentà d’accentrarse pe dialucà cu Insigne e Marekiaro. ‘A cosa cchiú bbella ll’ajuda a gghí arreto p’ ‘o 3 a 3 ‘e Dzemaili. PANDEV 7 Pronti via e se capette subbeto ca steva ‘nserata e soprattutto ‘o primmo aione, s’avasciaje a cullecà ‘e sezzione riuscenno a ghirsene ‘e capa dint’ô stritto,spiccecannose (districandosi) cu mestiere ‘nfra ll’ avverzarie. INSIGNE 5 Nun po’ fà ‘o centravanti! Facette sí tantu muvimento, ma nun riuscette maje a appiccià ‘na trezziola e spisso fuje custretto a accentrarse nun pruvanno maje a zzumpà ll’ommo e perdenno cchiú ‘e ‘nu pallone ‘ncopp’â trecquarte. (dô 65° CAVANI 8 Venette trattato malamente ‘a Giannoccaro ca nun se rennette cunto ca, pe comme jettono ‘e ccose, ‘o zencariello tuccaje ‘e vraccio ‘nvuluntariamente, ma – ‘a campione qual’è – purtaje pacienza e ‘nchiudette ‘o fullé e ‘a pratica turinista ripurtanno ‘e suoje annante cu ‘na cagliosa pricisa e putente‘ncopp’a ‘na punizzione e cu ‘na ‘ncurnata justo ô 90° doppo d’avé mannato ô manicomio ‘e difenzure cercanno ‘a pusizziona cu nfente e controfente.) MAZZARRI 6+ ‘O Napule jucaje ‘nu granne fullé e cu tutto ‘e pputtanate d’ ‘a difesa, ‘nu ricore a ffavore sballato, n’ato nun avuto e uno contro ca nun ce steva, riuscette ‘o stesso a ppurtà â casa tre ppunte d’oro. ‘Nduvinata ll’idea ‘e tenerse ‘nfrisco pe ll’arranqua a cCavani,p’ ‘o mumento culminante; sballata chella ‘e fà jucà a bBritòs(so) e nno a rRolando mancanno Campagnaro. Azzeccata assaje ll’idea ‘e cuncedere fianza (fiducia) a Dzemaili ca rispunnette cu n’atalossa eccezziunale. Sperammo ca p’ ‘a difesa contro ô gGenoa se ‘mmenta quaccosa ‘e meglio ‘e chello visto a tTurino! l’arbitro GIANNOCCARO 5 Nun è nu granché e nun ‘o levo stima: dinto a 10 anne nun è riuscito a ddeventà ‘nternazziunale;putite figurarve ch’arbitr’è! Zappatore dint’â vita e zzappatore ‘mmiez’ô campo vedette sempe a utile suĵo, ma cchiú spisso ‘mmece ‘e vedé cecaje comme a cquanno mnun se rennette cunto ca Cavani êva tuccato ‘e vraccio ‘nvuluntariamente e lle siscaje ‘o ricore contro, comme pure nun cecaje a vvedé ca Zuzú era stato arrunzato a uno dint’â camma ‘e ricore e facette signo ‘e cuntinuà! Pe nun ddicere d’ ‘o ricore sballato ‘a Marekiaro ca s’êss’ avuto ‘a ripetere pe bbia ca ‘o purtiere turinista s’era muoppeto ‘na mez’ora primma d’ ‘o tiro e dduje o tre turiniste èrano trasute dint’â camma ‘e ricore. Cunchiudenno che putimmo dicere? Putimmo dicere ca chillo d’ajere ô Comunale ‘e Turino, comme spettaculo, fuje veramente ‘nu bbellu spettaculo ‘a ricurdà cu rimonte, surpasse, controsurpasse, ‘nu fullé cuntinuamente emuzziunante nfi’ ô finale ‘e 3 a 5 firmato ‘a ‘nu Cavani ca pure riturnato ‘a ‘nu stancante viaggio ‘ntercuntinentale nun deludette ‘e tifuse dimustrannose ancòra e ssempe ‘nu cannibbale d’ ‘a camma ‘e ricore. E sperammo ca ‘o Cielo ce ‘o mantesse sempe accussí! E cu cchesto ve saluto. Ve faccio tanti avuguri e ‘na Pasca santa, ggiujosa, suddisfatta, cu ‘na bbona saluta e... ssapurita e ca ‘o Cielo ce perdunasse e benedicesse a ttutte quante! E mmo jammo a festeggià cu ‘na pastiera àuta morbida, zucosa e ca nun fósse scarza ‘e zuccaro! Staveti bbe’ e si dDi’ vo’ ce sentimmo ‘a vota ca vene doppo d’ ‘o fullé cu ‘o gGenoa! R.Bracale Brak

sabato 30 marzo 2013

CIUCCIO E PROSUNTUOSO

CIUCCIO E PROSUNTUOSO Lo si dice causticamente di chi borioso/a, arrogante, supponente, saccente pur in presenza di manifesta ignoranza perserveri nel tenere un atteggiamento spocchioso e tronfio comportandosi fatidiosamente da saputo/a, saputello/a, sapientone/a, sputasentenze, cacasentenze,quando non da altezzoso/a e superbo/a, mostrando in ogni caso di appoggiare sul nulla il suo contegno il cui sostrato è appunto la piú marchiana insipienza, incompetenza, disinformazione condita, a maggior disdoro, di ampia incultura e somaraggine palese. ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante;ancóra piú strano e non comprensibile il collegamento semantico che se ne fa a stupido, sciocco e credulone; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo! In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: sciach→ (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare. prosuntuoso/a agg.vo e s.vo m.le o f.le = che presume troppo di sé, che crede di poter fare cose superiori alle proprie capacità: una persona presuntuosa | che rivela presunzione: un discorso presuntuoso, da presuntuoso; voce dal lat. tardo praesumptuosu(m), deriv. di praesumíre 'presumere'; borioso/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le che, chi mostra atteggiamento di superiorità, di altezzosità di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o presunti, voce denominale di boria che è dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)' addizionata del suffisso oso/a suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m)/-osa(m); indica presenza, caratteristica, qualità ecc. arrogante, agg.vo e s.vo m.le e f.le che chi dimostra atteggiamento insolente e presuntuoso; voce dal lat. arrogante(m), propr. part. pres. di arrogare; supponente, agg.vo e s.vo m.le e f.le che, chi manifesta un contegno di di sdegnosa superiorità, di arroganza, presunzione. voce propr. part. pres. di supporre dal lat. supponere, comp. di sub- 'sub-' e ponere 'porre' saccente agg.vo e s.vo m.le e f.le che, chi presume di sapere e in realtà non sa; che, chi ostenta presuntuosamente conoscenze di ciò che non sa voce dal lat. sapiente(m), part. pres. di sapere 'essere saggio',per il tramite degli idiomi meridionali nei quali il nesso pi si risolve in cci (cfr. apium→accio)ed analogamente bi/bj si risolve in ggi (cfr. habeo→babjo→aggio). R.Bracale

VARIE 2334

1. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE oppure MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe. Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità! Nota: 1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3. 2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dalle vocali o oppure u esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o ppepe e non ‘o pepe come ‘o ppane e non ‘o pane, ‘o zzuccaro e non ‘o zuccaro, ‘o ccafé e non ‘o cafè. Rammento che c’è un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del diminutivo ‘o zuccariello usato però non in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero. Rammento altresí che per la voce caffè ci si può imbattere nella morfologia ‘o cafè (con la l'occlusiva velare sorda (c) scempia), ma in tal caso non ci si riferisce all’ alimento, alla polvere o alla bevanda con essa approntata, ma ci si riferisce al cafè s.vo m.le che è il locale pubblico, l’esercizio, la rivendita,lo spaccio in cui quella bevanda viene approntata e servita all’avventore 2.ACCATTARSE ‘O CCASO. Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe bisogna intenderlo nel suo primo significato etimologico di portar via dal latino: adcaptare iterativo di capere (prendere). La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente o una metaforica esca approntatagli, ma se ne riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso. 3. FÀ ACQUA 'A PIPPA. Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente, il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.Del resto nell’icastico parlar napoletano il gesto onanistico maschile corrisponde alla moderna espressione: farse ‘na pippa! che negli anni ’50 del 1900 sostituí le piú antiche: farse ‘na sega! o anche farse ‘na pugnetta! 4. TENÉ ‘E PECUNE Letteralmente si può rendere con: avere, mostrar di avere i piconi (sorta di punte presenti sulla pelle dei volatili; non esiste un termine corrispondente nell’italiano); ma vale: essere ormai o finalmente cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma di accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué= punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo dei volatili, punta prodromica dello spuntar delle piume/penne; l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo implume, ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per similitudine degli adolescenti che siano già o ormai maturi e si dimostrino scafati e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di pecone), quantunque realmente sulla pella degli adolescenti non si riscontrino punte simili a quelle dei volatili. A margine rammento che il termine pecune è usato anche nell’espressione tené ‘e ccarne pecune pecune che rende l’italiano rabbrividire. 5. (FARSE Fà) ‘NA SPAGNOLA Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un agg.vo qui però sostantivato indica una sorta masturbazione intermammaria): piú esattamente occorrerebbe perciò dire sega spagnola in quanto che spagnola è soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat. seca(re) indica quale s.vo f.le 1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica; sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim. 2 macchina che à impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per metalli azionato da un motore elettrico 3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino, violoncello o contrabbasso 4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano 5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco o anche persona piccola, minuta quasi frutto di un gesto onanistico però non portato a compimento per intero ; ovviamente la masturbazione maschile è semanticamente definita sega in considerazione dell’analogo movimento che si fa usando l’attrezzo per tagliare o compiendo l’atto onanistico. 6 fare sega, (centr.) nel gergo degli studenti, marinare la scuola 7 pesce sega, grosso pesce marino con un lungo prolungamento della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi). Ad ogni buon conto preciso qui che la masturbazione maschile (sega) intermammaria prende il nome di (sega) spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato ed attuato dalle prostitute partenopee che prestavano la loro opera nei bassi e fondaci attigui a quelli che sarebbero stati gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati francesi di Carlo VIII (Amboise, 30 giugno 1470 – † Amboise, 7 aprile 1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois dal 1483 al 1498. Salí alla ribalta cominciando la lunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo VIII, campione di disordine, disorganizzazione, dissesto, eccesso, intemperanza, sfrenatezza,sperpero etc. entrò in Italia nel 1494 con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata caotica e disordinata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola. Incontrò, nel viaggio di andata, timorosi regnanti, che gli spalancarono le porte delle città pur di non aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola, raggiungendo Napoli il 22 febbraio 1495. Durante questo viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700 abitanti, e assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli, fu oggetto di una coalizione avversa che comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria, il Papato e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel luglio 1495, fuggí in Francia al costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un banale incidente, sbattendo la testa contro l’architrave d’ un portone; trasmise una ben misera eredità e lasciò la Francia nei debiti e nel disordine come risultato di una sconsiderata ambizione che venne definita, nella forma piú benevola, come utopica o irrealistica; la sola nota positiva, la sua sconsiderata, dispendiosa ed improduttiva spedizione fu di promuvere contatti tra gli umanisti italiani e francesi, dando cosí vigore alle arti e alle lettere francesi nel tardo Rinascimento.) ; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, presero questo nome (che però non indicò come s.vo m.le ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú si suddividevano le città ed oggi, zona circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche, topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città; quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite, agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma non amministrativamente, ma indicò il (mil.) complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di una grande unità mobilitata; il luogo dove esso à sede | lotta senza quartiere, (fig.) senza esclusione di colpi, spietata | chiedere, dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero, dicevo, questo nome intorno alla metà del XVI secolo (1532 e ss.) per la vasta presenza delle guarnigioni militari spagnole, volute dal viceré don Pedro di Toledo, destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana. All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali quartieri siti a Napoli a monte della strada di Toledo erano un luogo malfamato come tutti i luoghi dove siano di stanza i militari, un luogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, con malgrado del viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo da cui il nome della strada (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca, 1484 –† Firenze, 22 febbraio 1553) che marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , , emanò alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo dunque alla cosiddetta sega spagnola che fu un ingenuo accorgimento adottato dalle meretrici allorché si diffuse nella città un pericoloso morbo: la lue o sifilide (détto comunemente: mal francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato portato e propagato ( nel 1495 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fósse francese o napoletano le prostitute invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad un contatto superficiale con quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti spagnoli. 6 ‘A FESSA ‘E MÀMMETA, DINT’Ê FASULE! Ad litteram: La vulva di tua madre nei fagioli! Colorita, icastica seppur becera invettiva esclamatoria rivolta da uno spazientito individuo che si senta disturbato, seccato, annoiato o piú semplicemente importunato dall’inopportuno comportamento di qualcuno che lo stia infastidendo oltremodo con parole e/o azioni, le une e le altre mai costruttive e frutto di proterva arroganza miranti solo a porre il bastone tra le ruote dell’altrui operato o dell’altrui pensiero, nell’intento di cercar di affermare in modo aggressivo le proprie vuote idee. A tale arrogante individuo che agisca con protervia,spocchiosa presunzione ed irruenza prevaricante si tenta di mettere un freno e magari zittirlo offendendolo e chiamando in causa sua mamma accreditata con malizia d’essere una donnaccia assimilata ad una scrofa o piú esattamente ad una troia quella i cui genitali salati, seccati e variamente aromatizzati (verrinia/ventricina) veniva un tempo usata in luogo o assieme alle cotiche di maiale nell’approntare una gustosa zuppa di fagioli o minestra di pasta e fagioli. Va da sé che per traslato ed accostamento semantico la verrinia/ventricina della scrofa nell’icastica, colorita ma becera espressione partenopea à preso il piú comune nome di fessa con cui si indica l’organo genitale della donna.Per ulteriori nomi rimando alibi. Il s.vo f.le verrinia = genitale o mammella della scrofa e genericamente carne di scrofa, etimologicamente è da un lat. *uberigine(m)→(u)berigine(m)→veri(gi)ne(m)→verrinia con tipica alternanza partenopea b→v (cfr. barca→varca, bocca→vocca etc.) e raddoppiamento espressivo della consonante liquida vibrante (r) 7. PORTA CU TTICO E MMAGNA CU MMICO Ad litteram: Porta (qualcosa) con te e mangia con me L’espressione cela il perentorio invito a presentarsi, se invitati, per una qualsiasi ragione, a desinare, a presentarsi non a mani vuote, ma muniti di un dono da offrire a mo’ di ringraziamento per l’invito ricevuto. Piú ampiamente la locuzione può essere usata in qualsiasi occasione per significare che nulla può essere ottenuto gratuitamente e che invece ogni cosa va meritata a fronte di un corrispettivo.Preciso infine che la locuzione non à il significato, come impropriamente pensa qualche sprovveduto, e come ad una frettolosa lettura potrebbe intendersi, non à il significato di un invito a portar seco delle cibarie da condividere, ma – come ò détto - à il significato di un invito a portar seco uno o piú doni da offrire all’anfitrione. Linguisticamente faccio notare che nell’espressione in esame è presente un doppio uso pleonastico, ma rafforzativo del cu (= con che è dal lat. cu(m)) già presente in posizione enclitica nei successivi ttico (= con te che ripete dritto per dritto il lat. tícu(m), comp. di tí (abl. di tu) e cum 'con') e mmico (= con me che ripete dritto per dritto il lat. mícu(m), comp. di me e cum 'con'). Rammento in chiusura che il cu = con va correttamente scritto senza alcun segno diacritico e ciò rispondendo alla regoletta del napoletano per la quale i termini apocopati di consonante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu= con da cum – pe=per da per – mo=ora da mox – po= poi da post ). 8. MARONNA MIA AVÓTTALO E SAN FRANCISCO AVÓNNALO! Ad litteram: Madonna mia sospingilo (via), San Francesco lascialo travolgere dalle onde! Malevola, ma icastica implorazione/richiesta rivolta verso due importanti componenti la famiglia celeste e cioè la santa Vergine e san Francesco di Paola, perché ci liberino, con il loro fattivo intervento, di un fastidioso importuno individuo, la cui presenza sia tanto seccante, noiosa, irritante, sgradevole da suggerire addirittura pensieri omicidi. Ci si rivolge alla Madonna (che alibi per solito è invocata (‘a Maronna t’accumpagna! = la Madonna ti accompagni!) perché sia di buona compagnia al viandante evitandogli i pericoli del percorso,) perché questa volta in luogo di semplicemente accompagnare, sospinga, lungo l’ipotetico percorso, il fastidioso importuno individuo e ne acceleri l’allontanamento; ci si rivolge ugualmente invocandolo a san Francesco di Paola affinché lui notoriamente protettore dei naviganti questa volta in luogo di semplicemente traghettare il fastidioso importuno individuo,trasportandolo sul suo mantello, (come secondo una leggenda occorse al santo di Paola che dovendo attraversare il braccio di mare tra le Calabrie e la Sicilia, avendo ricevuto il rifiuto di un trasbordo su di un naviglio, distese sullo specchio d’acqua il suo mantello, vi montò e raggiunse la Sicilia), in luogo di semplicemente traghettare il fastidioso importuno individuo, lungo un ipotetico percorso, questa volta lo faccia travolgere dalle onde affogandolo ed accelerandone in tal modo l’allontanamento, addirittura definitivo. Linguisticamente nella locuzione in esame c’è da soffermarsi sulla voce verbale avónna-lo che vale:travolgilo con le onde e non è da confondere con aónna-lo che à un significato positivo e sta per rendi-lo abbondante; infatti avónna-lo è la 2ª pers. sg. dell’imperativo di avunnà (dal lat. volg. *ab-undare rafforzativo di *undare =inondare, mentre aónna-lo è la 2ª pers. sg. dell’imperativo di aunnà (dal lat. abundare→a(b)undare→aunnare = traboccare): nel verbo avunnà si è avuta la tipica alternanza b→v del napoletano (cfr.bocca/voccavarca/barca,vitru(m)→vritu(m)→britu(m)→brito etc.) e l’assimilazione progressiva nd→nn, mentre per aunnà si è avuta la sincope della b e la consueta assimilazione progressiva nd→nn ottenendo dal medesimo verbo latino di partenza due verbi affatto diversi. 9. QUANNO 'A GALLINA SCACATEA, È SSIGNO CA À FATTO LL'UOVO. Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.È il modo napoletano di render quasi (in maniera piú icastica) il brocardo latino excusatio non petita etc. 10. QUANNO SÎ 'NCUNIA STATTE E QUANNO SÎ MARTIELLO VATTE Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole. 11. MIETTELE NOMME PENNA! détto che letteralmente vale : Chiamala penna!; La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito. miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc. Rammento che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi. 12. ACQUA CA NUN CAMMINA, FA PANTANO E FFÈTE. Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno! 13.'NFILA 'NU SPRUOCCOLO DINTO A 'NU PURTUSO! Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia. 14.ASTIPATE 'O MILO PE QUANNO TE VÈNE SETE. Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità. 15.PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE! Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso. 16. NU'CAGNÀ MAJ À VIA VECCHIA P'À NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE. Non cambiare mai la strada vecchia per la nuova perché conosci ciò che lasci, mna non quello che troverai.. Id est: Continua ad utilizzare i vecchi metodi già validi e sperimentati invece che quelli nuovi dubbi ed incerti. 17.SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE. Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altrove si dice: ‘a morte nun tène crianza... (la morte non à educazione), per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi. 18. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO. Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa/kuffa) 19. 'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA. Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime. 20. FÀ 'E CCOSE A CCAPA 'E 'MBRELLO. Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona. 21. FÀ 'O FARENELLA. Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli, (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia, ma prende le mosse dall'àmbito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo, non era piú tanto giovane ed allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla piú economica farina, diventando per i colleghi ‘o farenella. Raffaele Bracale

QUANNO CHIOVONO PASSE E FICUSECCHE

QUANNO CHIOVONO PASSE E FICUSECCHE Ad litteram: quando pioveranno uva passita e fichi secchi Id est: mai; La locuzione è usata, per dileggio, a sarcastico commento di avvenimenti che si pensa non potranno mai verificarsi, o di situazioni che vengono ritenute non suscettibili di miglioramento alcuno, che potrebbe verificarsi solo nel caso di una fortuita ipotetica pioggia(novella manna) di uva passita e fichi secchi, evento - peraltro – ritenuto chiaramente impossibile da verificarsi. quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd→nn; chiovono= letteralmente piovono voce verbale (3ª pers. plur. ind. presente) dell’infinito chiovere che è dal latino pluere con tipico passaggio di pl→chi (vedi alibi: plaga→chiaia etc.) ed epentesi eufonica della v (vedi alibi:ruina→rovina, vidua→vedova etc.).Da notare che il verbo a margine, pur essendo indicativo presente è reso in italiano con il tempo futuro che acconciamente avrebbe dovuto essere: chiuvarranno che è il futuro, tempo che pur essendo previsto nell’ idioma napoletano è pochissimo usato, sostituito quasi sempre dall’indicativo presente o dalla costruzione verbale: devo da= aggi’’a etc. Ad es.: Domani mi taglierò i capelli si rende con: Dimane me taglio ‘e capille oppure Dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille. passe = uva passita o passa; trattasi di un aggettivo sostantivato, plurale di passo: appassito, secco: uva passa e come tale derivato dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'aprire, stendere'; propr. 'steso a seccare, ad appassire'; ficusecche = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile. A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che il passaggio al femminile dal maschile fico è determinato dal fatto che con la voce fica si intende un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un termine maschile quando si voglia indicare una cosa intesa piú grande della corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di tavulo, tammorra piú grande di tammurro, carretta piú grande di carretto etc.Fanno eccezione tiana piú piccola di tiano e caccavella piú piccola del caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco, in napoletano si identifica anche la vulva e segnatamente quella avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che, furbescamente, la vulva. RaffaeleBracale

QUANNO CURRETTE ‘A LAVA D’ ‘O SEJE

QUANNO CURRETTE ‘A LAVA D’ ‘O SEJE Ad litteram: Quando corse la lava del sei. Id est: quando si verificò l’eruzione del Vesuvio datata 4 - 21 aprile 1906. Anche con questa espressione ci si intende riferire ad avvenimenti molto remoti, a tempi lontani ed essa è usata a caustico commento delle parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi e probabilmente irripetibili. L’espressione è alternativa di quella che recita Arricurdarse ‘o cippo a Furcella, ‘a lava d’’e Virgene, ‘o catafarco ô Pennino, ‘o mare ô Cerriglio. ma – come ò anticipato – nell’espressione in epigrafe non si fa riferimento ad una copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua, quale quella [cfr. alibi] che interessava la via Vergini bensí ci si riferisce ad un’autentica colata lavica, quella che dalle ore 5.30 circa del 4 e sino a tutto il 21 aprile 1906 interessò il versante meridionale del Vesuvio risultando la maggiore eruzione del Vesuvio nel 20° secolo, eruzione che nel quarto giorno con caduta di cenere e lapilli, oltre ad interessare sensibilmente i paesi vesuviani ad est del vulcano tra cui Ottaviano e S.Giuseppe Vesuviano e Napoli, raggiunse anche la Puglia. Il s.vo f.le lava nell’idioma napoletano, etimologicamente dal lat. labe(m) 'caduta, rovina', deriv. di labi 'scivolare', nel caso che ci occupa indica la massa fluida e incandescente costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di lava., ma alibi,come ripeto, anche una copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua. quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd→nn; currette = córse voce verbale (3ª p. sg. pass. rem. dell’inf. correre dal lat. currere) seje = sei numero naturale connotante sei unità usato come risultato dell’aferesi della cifra 1906→’6 connotante il sesto anno del 20° secolo; 1906 è un numero naturale corrispondente a diciannove centinaia piú sei unità. Brak

ARRICURDARSE ‘O CIPPO A FURCELLA, ‘A LAVA D’’E VIRGENE, ‘O CATAFARCO Ô PENNINO, ‘O MARE Ô CERRIGLIO

ARRICURDARSE ‘O CIPPO A FURCELLA, ‘A LAVA D’’E VIRGENE, ‘O CATAFARCO Ô PENNINO, ‘O MARE Ô CERRIGLIO. Ad litteram: Rammentarsi del pioppo a Forcella, della lava dei Vergini, del catafalco al Pendino e del mare al Cerriglio. L’espressione viene pronunciata a caustico commento delle parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi quali, nella fattispecie, i pioppi esistenti alla fine di via Forcella; per il vero la parola originaria dell’espressione era chiuppo ( id est: pioppo; chiuppo etimologicamente è da un lat. volg. *ploppu(m), per il class. populu(m); tipico il passaggio in napoletano PL→CHI). La parola chiuppo fu poi corrotta in cippo e cosí mantenuta nella tradizione orale della locuzione;in essa poi sono ricordati vari altri accadimenti , quali 1)- ‘a lava d’’e Virgene(la lava nella parlata napoletana, etimologicamente dal lat. labe(m)→laba(m)→lava(m) è'caduta, rovina', deriv. di labi 'scivolare' non indica solamente la massa fluida e incandescente costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di lava., ma indica anche estensivamente una copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua; ed è a quest’ultima che qui si fa riferimento; (con l’espressione ‘a lava d’’e Virgene si intende infatti quel tumultuoso torrente di acqua piovana che a Napoli fino agli inizi degli anni ’60 del 1900, quando furono finalmente adeguatamente sistemate le fogne cittadine, si precipitava dalla collina di Capodimonte sulla sottostante via dei Vergini (cosí chiamata perché nella zona esisteva un monastero di Verginisti antica congregazione religiosa di predicatori) e percorrendo di gran carriera la via Foria si adagiava, placandosi, in piazza Carlo III, trasportando seco masserizie,ceste di frutta e verdura e tutto ciò che capitasse lungo il suo precipitoso percorso) ,2) - ‘O CATAFARCO AL PENDINO (id est: il grosso altare che veniva eretto nella centrale zona del Pendino, altare eretto per le celebrazioni della festa, ormai desueta, del Corpus Domini; in primis la parola catafarco (di etimo incerto, ma con molta probabilità da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra+ l’arabo falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( anche cosí nel napoletano, con derivazione forse da un antico castellame (voce del XIV SEC. con cui si indicava la torretta lignea posta sulla groppa degli elefanti e nella quale si acquattavano i soldati; la voce, derivata probabilmente da castello, subí nel napoletano un adattamento corruttivo del suffisso me che divenne na per render chiaramente femminile la parola originariamente maschile, nella convinzione, che già alibi illustrai, che gli oggetti femminili fossero piú grandi o grossi o imponenti dei relativi maschili; l’adattamento corruttivo di me in na si rese necessario, atteso che per errore non si muta la desinenza nel volgere al femminile un nome terminante in me ed invece di farlo diventare terminante nell’ovvio ma, si continua a mantenere il suffisso me ; fu nessario perciò cambiar questo me in na (desinenza che, quanto al genere non produce confusione)!) dicevo che la voce catafalco che di per sé indica il tronetto ligneo su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara durante i funerali solenni, qui è usato per traslato ad indicare un altare molto imponente), infine: 3) - ‘O MARE AL CERRIGLIO (cioè al tempo di quando il mare lambiva la zona del Cerriglio, zona prossima al porto, nella quale era ubicato il Sedile di Porto, uno dei tanti comprensorî amministrativi in cui, in periodo viceregnale, era divisa la città di Napoli; nella medesima zona del Cerriglio esistette (1600 circa) una antica bettola o osteria , peraltro frequentata da ogni tipo di avventori dai nobili (che vi venivano a provare l’ebrezza dell’ incontro con il popolino), ai plebei (che per pochi soldi vi si sfamavano), agli artisti (in cerca di ispirazione) alle prostitute (in cerca di clienti); abituale frequentatore di questa bettola pare fosse, durante il suo soggiorno partenopeo, il Caravaggio(Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio Caravaggio o Milano, 1571 † Porto Ercole (Monte Argentario), 18 luglio 1610) . sulla porta di detta bettola erano riportati i seguenti popolareschi versi epicurei se non edonistici: Magnammo, amice mieje, e ppo vevimmo nfino ca stace ll'uoglio a la lucerna: Chi sa’ si all'auto munno nce vedimmo! Chi sa’ si all'auto munno nc'è taverna! stace = ci sta; il ce dal lat. volg. *hicce, per il class. hic 'qui'in posizione enclitica corrisponde, svolgendone le medesime funzioni, all’italiano ci che è pron. pers. di prima pers. pl. [atono; in presenza delle particelle pron. atone lo, la, li, le e della particella ne, viene sostituito da ce: ce lo disse, mandatecelo; che ce ne importa?; in gruppo con altri pron. pers., si prepone a si e se: ci si ragiona bene; non ci se ne accorge (pop. la posposizione: si ci mette); si pospone a mi, ti, gli, le, vi: ti ci affidiamo (piú com.: ci affidiamo a te)]; vale pure noi ( e si usa come compl. ogg., in posizione sia proclitica sia enclitica); lucerna = lampada portatile ad olio o petrolio e qui, per traslato vita etimologicamente derivata da un tardo latino lucerna(m), forse deriv. di lux lucis 'luce', o piú probabilmente deverbale di luceo con il suffisso di appartenenza ernus/a; taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B/V, nella parlata napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse puteca. A margine e completamanto dell’espressione in epigrafe rammento che talora per commentare icasticamente le parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi, s’usa dire: “Eh, quanno currette ‘a lava d’ ‘o seje!” con riferimento però non alla torrentizia caduta d’acqua di cui antea,ma alla rovinosa, perniciosa colata lavica dell’ eruzione del Vesuvio risalente al 29 aprile del lontano 1906. Raffaele Bracale