venerdì 30 giugno 2017

MERETRICIO E VOCI COLLEGATE



MERETRICIO e voci collegate

 Questa volta per rispondere  alla cortese  richiesta  del mio carissimo amico P.G. ( del quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che  mi invoglia  a parlarne, qui di sèguito ci addentreremo nel campo pericoloso del meretricio e delle voci toscane e napoletane ad esso collegate. 
  Comincerò col dire che con la parola meretricio etimologicamente  dal latino meretricium  che è da merere= guadagnare, si intende la prostituzione, il prostituire, il prostituirsi; in partic., l’attività di chi fa commercio abituale del proprio corpo al fine procurarsi immediato e facile guadagno; s’usa dire che tale attività, che è innanzi tutto femminile, ma talora pure maschile, sia stato il mestiere (quale attività individuale o organizzata) piú antico del mondo; non stento a crederlo: come commercio individuale è l’unico commercio che non abbisogna di ingenti capitali o di  avviamento,non è neppure vero che sia richiesta una particolare avvenenza fisica,  si può svolgere all’aperto ed al chiuso indifferentemente, gli strumenti di lavoro  son forniti gratis da madre natura e non necessitano di particolare manutenzione e, adottando piccole precauzioni, è mestiere che  può svolgersi per lungo tempo assicurando lauti guadagni oggi  esenti da tassazione statale, quantunque non da quella del cosidddetto protettore  o magnaccia ( voce d’origine romanesca etimologicamente forgiata sul verbo magnà=mangiare addizionato del suffisso dispregiativo accia)   e cioè lo sfruttatore di prostitute ed estensivamente  l’ uomo che vive alle spalle di una donna.Ricorderò súbito che in napoletano tale sfruttatore è detto ricuttaro; la parola napoletana  fu ricavata verso la fine del 1800 per adattamento corruttivo della parola recoveta  che diede recotta donde il derivato recuttaro o ricuttaro; ‘a recoveta era quella raccolta  di fondi, raccolta vessatoria operata (tra i piccoli bottegai ed il popolino di taluni rioni popolari della città bassa) ad opera   di taluni malavitosi  dediti altresí al lenocinio (dal latino lenocinium che è da lenone(m)=in origine mercante di schiave, poi  protettore),  raccolta necessaria per sostenere le spese di difesa di camorristi e piccoli furfanti  finiti nelle maglie della giustizia e sottoposti a giudizio per il quale si rendeva necessaria l’opera di avvocati difensori che quando non fossero affiliati alla camorra, occorreva pagare. 
La donna che esercita il meretricio è ovviamente la meretrice (etimologicamente  dall’acc. latino meretrice(m)  che è come meretricium  da merere= guadagnare);ma è voce eccessivamente dotta e di àmbito forense; altra voce toscana usata per indicare la donna che faccia commercio del proprio corpo è ovviamente prostituta  che è dal lat. prostituta(m),  s.vo f.le  da prostitutus, part. pass. di prostituere =prostituire e piú esattamente mettere in vendita o a disposizione  da pro (a favore) e statuere (porre); ma la voce piú tipica, usata fin dal 14° sec. (accanto a voci –poi vedremo - regionali,per indicare chi eserciti il mestiere di cui dico,  fu ed ancora è -  nel gergo ed in talune espressioni artistiche (cinema, teatro e t.v.) – mignotta; i piú recenti calepini la ritengono di derivazione francese da mignotte= favorita  da un antico mignon, ma penso – tenendo presente che prima che divenisse (1400) toscana, la voce fu essenzialmente laziale  - che non sia peregrina l’idea che mignotta sia la  corruzione dell’espressione  m[ater] ignota abbreviato in m. ignota corrotta in mignota  e poi mignotta; mater ignota fu  l’annotazione apposta a margine di taluni nomi di trovatelli  in antichi elenchi dell’anagrafe capitolina.
Altra voce dell’italiano per indicare sia pure in senso estensivo  chi esercita il meretricio è sgualdrina che come s.vo f.le (spreg.) in primis indica solo una  donna di facili costumi e per  estensione la prostituta vera e propria; non tranquillissima l’etimologia della voce in esame:si cominciò con il pensarla  derivazione  di sgualdracca, variante ant. di baldracca, con suff. diminutivo, ma la voce sgualdracca non l’ò trovata attestata se non nel Baldus poemetto scritto in versi di un latino maccheronico da Teofilo Folengo (Mantova, 8 novembre 1491 – † Bassano del Grappa, 9 dicembre 1544), sotto lo pseudonimo di Merlin Cocaio.  ; penso perciò che sia piú perseguibile, con il glottologo Louis  Delâtre, l’idea di una derivazione dal tedesco gualdana= donna da gualdo(=selva) secondo un percorso che prevede i seguenti    passaggi morfologici:gualdana→gualdrana→gualdrina→sgualdrina = donna pubblica, per i cacciatori,   per la truppa, per i soldati: gualdana è un derivato di gualdo← wald=selva; sempre che invece sgualdrina  non derivi, come io reputo,  direttamente dal tedesco  schwellendrine = donna che sta sulla soglia (in attesa di clienti), meretrice, donna da trivio: la voce tedesca schwellendrine è formata da schwelle= soglia e dirne→drine = ragazza di facili costumi.
Prima di sconfinare nel napoletano, segnalo l’ultima voce usata in toscano per indicare la meretrice; essa è puttana ma è voce essenzialmente pluriregionale trasmigrata nel lessico toscano; questa parola etimologicamente è  d’origine latina-barbarica: putana   è da puta= fanciulla, ma à avuto  l’aggiunta di  una desinenza (na) rispondente alla declinazione debole dei tedeschi; è parola che   oggi à un senso dispregiativo che però  in origine non ebbe (infatti puttana valse  dapprima ragazza e poi per traslato malevolo meretrice),ed  è pervenuta nelle lingue regionali italiane e da queste al toscano illustre per il tramite del francese putain  e l’antico spagnolo putaña.
E veniamo finalmente al napoletano dove è viva e vegeta (accanto a molte altre che ora qui dirò) la voce pluriregionale –
-  puttana voce sulla quale si sono forgiate: puttanizio/a che è il meretricio in genere  e
puttaniere usato per indicare chi sia solito avere rapporti sessuali con meretrici  ed estensivamente ed iperbolicamente colui  che ami circuire o correr dietro le sottane di  donne avvenenti e non;
-      malafemmena  altra voce molto conosciuta (anche per merito di una fortunata canzonetta del principe A. de Curtis Totò nome d'arte di Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, piú noto come Antonio De Curtis (Napoli, 15 febbraio 1898Roma, 15 aprile 1967), fortunata canzonetta  che si intitola appunto Malafemmena, quantunque la donna adombrata nella canzone non faccia il mestiere piú antico, ma si sia  limitata forse ad occasionali tradimenti in danno del suo innamorato); la parola è formata dall’unione di mala  (dal latino malus/a = cattivo/a) + femmena (dall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo popolare della postonica m in parole sdrucciole;
-      ffemmena ‘e Casanova =ad litteram  donna di Casanova ma da leggersi come:  sacerdotessa d’amore è locuzione nominale usata in luogo di uno dei tanti sinonimi napoletani di prostitute, meretrici,sin qui esaminati:
 femmena s.vo. f.le1 nome generico di ogni individuo umano o animale portatore di gameti femminili atti a essere fecondati da quelli maschili, e quindi caratterizzato dalla capacità di partorire figli o deporre uova;2 essere umano di sesso femminile; donna, bambina ( voce dall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo  della postonica m in parole sdrucciole); Casanova Giovanni Giacomo. – Dissoluto avventuriero, donnaiolo, gran tombeur de femmes  (Venezia 1725 -† Dux, Boemia, 1798); figlio di attori, presto orfano di padre ed affidato dalla madre (Giovanna Maria C., detta Zanetta) alla nonna materna, fu studente a Padova, chierico a Venezia ed in Calabria, segretario del cardinale P. Acquaviva a Roma, soldato dell'armata veneta in Oriente, violinista dal 1746 nel teatro S. Samuele a Venezia. Accolto come figlio dal senatore M. G. Bragadin, nel 1750 riprese la sua vita errabonda attraverso la Francia, Dresda, Praga e Vienna, finché, tornato a Venezia nel luglio 1755, fu rinchiuso nei Piombi sotto l'accusa d'aver tentato di diffondere la massoneria. Evaso, tornò in Francia, ove introdusse il gioco del lotto nel 1757, e, sotto il nome di cavaliere di Seingalt, fu in Olanda, Germania, Svizzera, Italia, Polonia, Russia, seducendo donne, giocando, battendosi a duello, esercitando la magia, speculando sui valori pubblici e facendo perfino il confidente degli inquisitori di stato di Venezia. Finí la sua vita come segretario e bibliotecario del conte C. G. di Waldstein. Attivo, energico, intraprendente, il Casanova  fu un avventuriero anche della penna e scrisse, tra l'altro, la Confutazione della storia del governo veneto di A. de la Houssaie (1769), la Storia delle turbolenze della Polonia (1774), una traduzione, incompleta, in ottava rima dell'Iliade (1775), l'opuscolo Scrutinio del libro: Eloges de M. de Voltaire par differens auteurs (1779), il romanzo Icosameron (1788); ma la sua notorietà è dovuta soprattutto alla drammatica narrazione dell'evasione dai Piombi (Histoire de ma fuite, 1788) e ai fantasiosi e licenziosi Mémoires, sostanzialmente veridici quanto alla rappresentazione della società di gaudenti e intriganti del Settecento. Stucchevole, ma forse veritiera, invece, la rappresentazione di sé stesso quale genio della seduzione.
-cecciuvettola/ciucciuvettola s.vo f.le dalla doppia morfologia con il quale si indica1. Uccello della famiglia strigidi (Athene noctua), comune e stazionario in Italia, che vive non lontano dalle abitazioni, sui tetti, nei tronchi cavi, nelle buche dei muri, ecc.; di medie dimensioni e di color grigio-bruno, dalla testa grande con occhi sviluppatissimi, frontali, circondati da penne disposte in cerchi concentrici piú o meno evidenti; à abitudini generalmente notturne, si ciba di piccole prede, soprattutto roditori ed insettivori, rendendosi in tal modo utile all’agricoltura. Ammirata per la grazia dei movimenti che sembrano riverenze, viene perciò addomesticata dai cacciatori che se ne servono per attirare gli uccelli nella caccia; la superstizione popolare invece la vuole apportatrice di disgrazie per il suo grido monotono.
2. (fig.come nel caso che ci occupa) Donna vanitosa e frivola che cerca di mettersi in mostra e di attirare l’attenzione e l’interesse degli uomini (allo stesso modo che le civette attraggono gli uccelli nella caccia); e segnatamente almeno tra la fine del 1800 ed i princípi del 1900, meretrice non molto giovane, ma vestita elegantemente. Etimologicamente si tratta di voce onomatopeica forgiata sul grido dell’animale. Rammento tuttavia qui che i napoletani d’antan usano di preferenza la voce in esame  nel significato figurato
 sub 2., mentre
per quanto riguarda il signficato sub 1.adoperano il termine
- cuccuvaja s.vo f.le = 1.civetta e talora nottola, ed anche 2. donna brutta e sgraziata che incute timore; etimologicamente  voce dal greco kikkabâu→cuccavau→cuccuvaja.
-culumbrina s.vo f.le =1.in primis fraschetta,giovane donna leggera, incostante, civetta proclive ai facili amori; 2. per estensione giovane fantesca  leggera, frivola; etimologicamente  voce degradazione semantica del nome proprio Colombina  che nella commedia dell’arte fu il nome di una fantesca dedita ai facili amori.
- sciuscitta s.vo f.le =1 giovanissima prostituta esibizionista adusa ad indossare abiti tanto succinti da mettere spudoratamente  in mostra i... ferri del mestiere;   anche 2  giovane donna di origini ignote e perciò  inaffidabile. Etimologicamente  è voce derivata dall’espressione latina (filia) suscepta→sciuscepta→sciuscetta→sciuscitta = figlia adottata; morfologicamente è normale nel napoletano che la sibilante s anche scempia, seguíta    da vocale, evolva - come altrove anche la  doppia ss -  nel gruppo  palatale sci, per cui su-scepta divenne sciuscepta, sciuscetta  e poi sciuscitta;  semanticamente poi è facile cogliere il collegamento tra le origini ignote di una donna  con il fatto che sia spudorata ed  inaffidabile atteso che non è dato sapere che tipo di edecazione abbia ricevuto.
troja  s.vo f.le =1.in primis femmina del porco scrofa gravida; 2. per estensione come nel caso che ci occupa anziana e lercia prostituta che non curi l’igiene e spesso abbia abortito;semanticamente è facile cogliere il collegamento tra l’animale uso a rotololarsi nel fango del porcile e spesso gravida ed il comportamento analogo  di tale tipo di prostituta;  etimologicamente trattasi di  voce  dal latino barbarico tròia.
 zoccola s.vo f.le che – come illustrai sub TOPO etc – è in primis il grosso topo di fogna ed estensivamente la prostituta che come quel topo  frequenta nottetempo i marciapiedi;
etimologicamente zoccola  è da sorcula  diminutivo latino femm. di sorex-ricis;
-     le ultime seguenti voci sono tutte usate figuratamente per indicare la prostituta o meretrice e di tutte già alibi dissi; per cui qui le elenco solo per amore di completezza; esse sono: saittella, lòcena, lumèra,péreta dette voci  possono essere usate sí per indicare la prostituta, ma piú spesso servono ad  indicare una donna solo volgare o chiassosa o lercia;analiticamente si à:
1) lòcena la locena pur essendo un taglio di carne gustosissimo, è un taglio che, ricavato dal quarto anteriore della bestia, il meno pregiato e meno costoso, è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto, e di tutti i vari nomi con cui è connotato in Italia, quello che piú si attaglia a simili minime qualità, è proprio il napoletano lòcena.
Etimologicamente infatti la parola lòcena nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio/a ed i successivi locio/locia (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locina→locena.
Chiarito il concetto di partenza, passiamo al significato traslato: fu quasi normale in un’epoca: fine ‘500, principio ‘600 in cui la donna non era tenuta in gran conto (a quell’epoca risalgono, a ben pensare, quasi tutti i proverbi misogini della tradizionale cultura partenopea …), trasferire il termine lòcena da un taglio di carne di scarto, ad una donna… di scarto, quale poteva esser ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale..
2) saittella La saittella  è quella sorta  di feritoia  che si trova  alla base dei marciapiedi, feritoia il cui compito è quello di favorire il deflusso delle acque piovane ed incanalarle  nei condotti  da fogna che si trovano appena sotto il piano stradale; normalmente i ratti che stazionano nelle fogne usano queste feritoie, che non sono assolutamente protette, ma aperte e libere  per sortire ed invadere l’abitato.
Etimologicamente la parola  saittella  è corruzione del termine toscano saiettera o saettiera che era nelle antiche mura, lo spazio tra i merli, spazio da cui i difensori potevano tirare con l'arco, la balestra e sim., rimanendo al coperto; tale spazio e la parola che lo indicava è preso a riferimento per la forma di tronco di piramide  che è sia della saiettiera (orizzontata in senso verticale) che della saittella(che invece è aperta orizzontalmente).
Rammenterò appena, per amor di completezza, che con linguaggio triviale, la parola  saittella è usata anche per indicare, estensivamente, una donna di facili costumi, la stessa che come ò segnalato altrove è pure detta alternativamente: péreta  o lòcena.
3) lumèra è esattamente il  lume a gas ma viene per traslato riferito a donna becera e volgare ed a maggior ragione ad una prostituta che  abbia nel suo quotidiano costume  l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a ggiorno) ambedue altresí maleolenti tali  quale una pereta. Faccio notare – come ò già detto – che péreta è il femm. riscostruito del masch. pírito  e deve perciò intendersi che la  péreta  è un gran peto, una grande scorreggia maggiormente rumorosa e forse fastidiosa del corrispondente pírito= peto, scorreggia; e ciò perché in napoletano – come passim ò molte volte rammentato -  i nomi femminili si intendono riferiti a cose, oggetti etc. intesi maggiori dei corrispondenti maschili: cfr. cucchiara piú grande di cucchiaro, tammora  piú grande di tammurro carretta piú  grande di carretto    etc. l’etimo di lumera= lume a gas   è dal fr. ant. lumière,ricavato  dal lat. luminaria, neutro pl. di luminare 'lampada, fiaccola';

4)péreta  donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare,  sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto  péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi  e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili  laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata  per dileggio quasi come nome proprio di persona) è come ò già détto,  il femminile ricostruito  di píreto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia  che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda.

Abbiamo infine le ultime due voci che sono:
5)sittantotto  in riferimento al numero 78  che nella smorfia napoletana o cabala indica appunto la prostituta;
6)quatturana che sta esattamente per quattro grana  corrispondente all’importo della  tassa che su ogni prestazione,  sotto il regno di Ferdinando I (di Aragona e di Sicilia), detto Il Giusto (circa 1380-†1416), re di Aragona e di Sicilia (1412-†1416)le meretrici dovevano pagare allo stato; detto termine passò poi  ad indicare la prostituta in genere e con valenza piú triviale, l’organo sessuale delle meretrici.
Aggiungo a mo’ di completezza
 altre antiche (tardo ‘800) desuete voci:
7)-caccavella s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale pentolina ,piccolo paiolo di creta o talora di rame usato per la cottura di alimenti; per traslato e figuratamente valse anche grosso cappello da donna sempre per traslato come (alibi) buatta indicò l’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per esser come quello un contenitore;partendo da tale accostamento con la voce a margine si indicò anche per metonimia la prostituta, soprattutto se non particolarmente avvenente e  di forme sgraziate, che quel contenitore usasse; infine con la voce a margine (etimologicamente dal lat. tardo caccabella succedaneo di  caccabulusdiminutivo di  caccabus = paiolo,pentolone, dal greco  kàkabos) per traslato sarcastico si indicò una donna che fosse grossa,grassa e bassa; piú precisamente tale donna fu détta caccavella ‘e Sessa: Sessa Aurunca (comune della provincia di Caserta, noto con il solo nome di Sessa,in origine Suessa, città appartenete alla Pentapoli Aurunca; il nome di Sessa  derivò dalla felice posizione (sessio = sedile - dolce collina dal clima mite)fu una località dove  veniva prodotto  vasellame in terracotta, d’uso quotidiano;
8)pontonèra/puntunèra doppia morfologia alternativa di cui la prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana  d’un'unica voce che   sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò fatto, furono  usate sia in letteratura (cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra )  che nel parlato della città bassa  quale epiteto offensivo; il significato fu univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce etimologicamente è un denominale di pontone/puntone (angolo di strada,  spigolo di muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.); pontone/puntone s.vo m.le = angolo di strada, spigolo di muro, cantonata;  voce ricavata dal s.vo puncta(m) con riferimento allo spigolo del muro,   addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima valenza e significato  della voce in esame  fu usato sebbene piú in letteratura che nel parlato un analogo
9)cantonèra/cantunèra  (marcato sul s.vo - che non è della parlata napoletana cantone) voce mutuata dal siciliano;
10)puppeca  prostituta, malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne; di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo il seguente percorso morfologico  publĭca→pubbica→pubbeca→puppeca;
Rammento comunque che le ultime tre voci furono usate quali epititi (cfr. alibi) e poco nella letteratura. A margine ed a completamento di tutto quanto fin qui scritto, rammento che nel gergo dei protettori/camorristi le prostitute venivano indicate con termini diversi a seconda della loro età o condizione; si usavano i termini pullanca (dallo spagnolo pullancòn/a) riferito a prostituta giovane ed ancóra illibata, gallenella (diminutivo di gallina nome che è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo') riferito a prostituta giovane ma non piú illibata, ed infine voccola (che etimologicamente piú che da un greco del Ponto kloka (che è invece  affine a chioccia), ritengo derivato da un lat. volg. *vòcca deverbale di vocare=chiamare che è tipico della chioccia con i suoi pulcini) riferito a prostituta ancóra giovane, ma che già sia madre. E termino l’elencazione rammentando un’icastica antica espressione Essere ‘na bbona pella p’’o Lietto, espressione che ad litteram vale : Essere una buona pelle (utile) a letto;usata per  riferirsi ad  un’ottima meretrice. Si tratta di antichissima espressione risalente all’antichità latina allorché con il termine scortum ci si riferiva sia alla pelle propriamente detta che alla meretrice semanticamente raccostati probabilmente perché la meretrice fa ampia  esposizione della propria pelle.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento e soddisfatto l’amico P.G., interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
 Raffaele Bracale

GLI AVVERBI DI TEMPO NEL NAPOLETANO



GLI AVVERBI DI TEMPO NEL NAPOLETANO
Per praticità e comodità didattica tratto in avvio  le voci dell’italiano aggiungendo in coda ad ognuna di esse la corrispondente nel napoletano; preciso súbito che molte di queste voci sono usate in italiano non solo come avverbio, ma pure come aggettivo e talora come sostantivo, ma io qui mi limiterò a parlare dell’uso avverbiale;
presto,avv. di tempo  1 entro breve tempo, tra poco; súbito: ritornerò presto; ti scriverò assai presto; piú presto che puoi; ben presto lo saprai; presto o tardi se ne accorgerà; arrivederci presto, a presto, formule di commiato | al piú presto, quanto prima, nel piú breve tempo possibile: te lo farò avere al piú presto; fra un anno al piú presto, non prima
2 in fretta, rapidamente (anche come comando, esortazione): cercate di far presto; vieni presto al dunque; à fatto presto a cambiar idea; presto, aiutatemi!; presto, presto, venite!; si fa presto a dire, a fare, ci vuol poco, è facile | piú presto, (ant.) piú volentieri, piuttosto | proverbio : presto e bene raro avviene, fare le cose richiede tempo
3 di buon'ora: al mattino presto; alzarsi presto; dormi, è ancora presto | in anticipo, prima del tempo stabilito, di un termine fissato: arrivai presto e i negozi erano ancora chiusi; te ne vai cosí presto?; è ancora troppo presto per decidere.
Etimologicamente è voce dal lat. praesto, avv., 'alla mano, a disposizione; al cospetto'.
In napoletano la voce in esame si rende con AMBRESSA/AMPRESSA = presto, rapidamente; doppia morfologia (una volta con la consonante occlusiva bilabiale sonora  (B), una volta con la consonante occlusiva bilabiale sorda (P) usata piú spesso;  qualche volta anche reiterata per farne al solito una sorta di superlativo: ampressa ampressa (prestissimo) es.: facimmo ambressa/ampressa (facciamo presto!)  arrivaje  ampressa ampressa (giunse prestissimo). Talvolta questo avverbio in esame è reso icasticamente con la locuzione ‘na cosa ‘e juorno es.: facimmo ‘na cosa ‘e juorno (facciamo presto!; id est che la cosa si esaurisca nel lasso del giorno, senza protrarne l’azione fino a notte.)  Etimologicamente la  voce napoletana è dal lat. in + pressē= a stretto giro con doppia preposizione nel tempo: in + presse→’mpresse, ad + ‘mpresse→am-mpressaampressa per assimilazione regressiva.
talora, avv. di tempo  qualche volta, alle  volte, non sempre, talvolta (davanti a consonante, si tronca spesso, spec. nel verso, in talór): è un’erba usata talora come farmaco;come talora è accaduto. Etimologicamente questa   voce è l’agglutinazione di tale→tal (lat. tale(m))+ ora (s.vo f.le dal lat. hŏra, dal gr. ὥρα).
Nel napoletano tale avverbio non è usato e gli si preferisce le locuzioni QUACCHE VVOTA (qualche volta),Ê VVOTE (alle  volte).
finora/fin ora/sinora avv. di tempo  1. Fino a questo momento, fino ad ora: le notizie giunte finora; i progressi compiuti fin ora dalla scienza. Si preferisce scrivere staccato, ed à  la variante fino a(d) ora, quando indica esattamente l’ora o il momento presente: ò aspettato fin ora; dove sei stato fino ad ora?
2. ant. e raro: Sin da ora  Finor t’assolvo (Dante); Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido (Leopardi). Etimologicamente questa   voce è l’agglutinazione di fino→fin (preposizione dal lat. fine, abl. di finis 'limite', col significato preposizionale di 'fino a')+ ora ( s.vo f.le dal lat. hŏra, dal gr. ὥρα).
Nel napoletano tale avverbio è reso sempre con morfologia staccata NFI’ A MMO = sino ad adesso;  nfi’ è l’apocope del lat. fine→fi’ con protesi di una n eufonica che pertanto non necessita di segni diacritici (cfr. nc’è= c’è); per il mo vedi ultra.
allora avv. di tempo  in quel momento, in quel tempo (riferito al passato o al futuro): allora non me ne resi conto; devi vederlo, solo allora capirai | con valore enfatico: allora sí che si viveva felici! | allora allora, proprio in quel momento, da pochissimo tempo: era arrivato allora allora | allora come allora, in quella contingenza, sul momento: allora come allora non seppi dargli una risposta | d'allora, di allora, di quel tempo: dove sono andati gli amici d'allora? | da allora, da allora in poi, da quel momento | fino ad allora, fino allora, sin allora, fino a quel momento, fino a quel tempo | fin da allora, fin da quel momento, fin da quel tempo | per allora, per quel giorno; per quei tempi. Etimologicamente questa   voce è dal lat. ad illa(m) (h)ora(m)→ a(d) (i)lla(m) (h)ora(m)→allora  'a quell'ora'.
     Nel napoletano tale avverbio è reso con la voce  TANNO =allora, in quel tempo,a quel punto; tale voce è usata anche per indicare una celerità d’azione o d’avvenimento nella locuzione Tanno Pe Ttanno  che rappresenta un sinonimo di SÚBBETO = súbito  e  cfr. ultra.Tuttavia anche nel napoletano si usa allora quando s’usa come   congiunzione; ess: si ‘e ccose stanno accussí, allora è inutile ‘nzistere(se le cose stanno così, allora è inutile insistere) allora?; allora addó jammo?; e allora dillo, fatte ascí ‘o sciato!
(allora?; allora dove andiamo?; e allora dillo, parla!).
Etimologicamente   la voce napoletana tanno  è dal lat. tande(m)→tande→tanne→tanno = finalmente con normale esito nd→ nn per assimilazione progressiva.
prima avv. di tempo  
1 antecedentemente a  quel/questo momento, nel tempo anteriore, in precedenza: questo palazzo prima non c'era; avresti dovuto pensarci prima; prima finisci il tuo lavoro, poi andiamo al cinema; due giorni prima; l'anno, un'ora prima; un po', immediatamente prima; ne so quanto prima; ci capisco meno di prima; sono stanco come prima; non è piú quello di prima | le usanze di prima, di un tempo, di una volta ' prima o poi, una volta o l'altra ' quanto prima, il piú presto possibile: ci vedremo quanto prima; quanto prima potrò | far prima, far piú presto degli altri ' arrivare prima, per primo | da prima, dapprima
2 in un luogo, in uno spazio precedente; avanti, davanti: prima c'è un giardino, poi la casa; un paragrafo prima
3 in primo luogo: non vengo, prima perché sono stanco e poi perché non ò tempo; prima lo studio, poi il divertimento
4 (ant.) per la prima volta: ricorro al tempo ch'io vi vidi prima / tal che null'altra fia mai che mi piaccia (PETRARCA Canz. XX, 3-4). Etimologicamente questa   voce   è dal  tardo lat. prima  dall’agg.vo (lat. class.) prīmus «primo».
     Nel napoletano tale avverbio è reso con PRIMMA che à il medesimo etimo del prima dell’italiano, ma con il raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale  (m) cosí come in comme per come, nomme per nome, tremmo per tremo, fremmo per fermo etc.Accanto alla forma  primma il napoletano ne contempla anche una allungata e rafforzata: APPRIMMA←ad+prima = molto prima, per prima cosa.[es.: apprimma mettimmo ‘e ccose ‘nchiaro e ppo se vede (per prima cosa, facciamo chiarezza e poi vi vedrà)]
 poi, ant. o poet. po', avv. di tempo  
1 in seguito, dopo, appresso: poi verrò a casa vostra; poi sarà troppo tardi; poi poi, adesso ò da fare! | unito pleonasticamente a un altro avv. di tempo: poi dopo  si vedrà | usato per indicare successione: prima entrò il padre poi la madre; per ora facciamo cosí, poi studieremo meglio la cosa | prima o poi, un giorno o l'altro | a poi, a piú tardi: arrivederci a poi | in poi, in avanti: d'ora in poi; da domani in poi | per poi, per dopo: lo lascio per poi
2 inoltre, in secondo luogo: non sarebbe onesto, e poi non ne vedo la necessità
3 usato in posposizione, serve a riprendere il discorso o a introdurre un altro argomento: quando poi videro che non c'era nulla da fare... ; quanto poi all'argomento di cui si trattava... ' con valore conclusivo: che à detto poi di male?; partirai domani, poi? | con valore avversativo (anche unito a ma): lui poi che colpa ne à?; questo è il mio consiglio, tu poi fa’ come credi; ma poi non so se sia vero | in espressioni enfatiche: questa poi!; questo poi no!; e poi ài il coraggio di fare la predica a me!; no e poi no! Etimologicamente è voce dal lat. postea→po(st)ea→poi, e non da post come spesso ritenuto: infatti morfologicamente se poi derivasse da post non ci si spiegherebbe donde sortirebbe fuori  la i finale di poi.
     Nel napoletano la voce  a margine è resa con l’avverbio  PO = poi voce, questa sí dal lat. post→po(st)→po, avverbio che in napoletano non esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua’ ed invece mo (ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)). Accanto alla forma  po  il napoletano ne contempla anche una allungata e rafforzata: AROPPO con etimo dal lat. ad +de post→adepo(st)→adopo→aropo→aroppo con rotacizzazione osco-mediterranea dell’occlusiva dentale sonora  (D) e raddoppiamento espressivo della consonante occlusiva bilabiale sorda (P).
domani, pop. o lett. dimani, avv. di tempo  
1 nel giorno immediatamente seguente all'oggi: domani mattina, pomeriggio; partiremo domani | dopo domani, domani l'altro, il giorno dopo di domani, fra due giorni | domani (a otto), fra otto giorni a partire da domani | a domani, formula di commiato con cui ci si ripromette di incontrarsi di nuovo il giorno seguente
2 con senso piú generico indica un tempo futuro, spec. in contrapposizione con oggi: oggi qui, domani là | oggi o domani, una volta o l'altra, un giorno o l'altro, fra non molto | dàgli oggi e dàgli domani, a lungo andare | da oggi a domani, súbito, su due piedi | rimandare qualcosa dall'oggi al domani, continuare a differirla
3 (iron. , scherz.) mai, in nessun tempo: «Mi regali questo anello?» «Sí, domani!» Etimologicamente è voce derivata dal lat. tardo de + mane, propr. 'di mattina'.
     Dal medesimo lat. tardo demane→dimane deriva la voce napoletana DIMANE che rende il domani dell’italiano; rammento che soprattutto nel parlato dimane è attestato  anche nella morfologia RIMANE con la frequente rotacizzazione osco-mediterranea dell’ occlusiva  dentale  sonora (d) morfologia che sconsiglio vivamente di adoperare atteso che è omografa ed omofona della 2ª pers. sg.ind. pr. dell’infinito rimané(dal lat. remanēre, che è da   manēre, col pref. re) ; preciso altresí che nel napoletano accanto a dimane /rimane il domani dell’italiano è reso (o meglio si rendeva)  con l’avverbio CRAJE dal lat. cras.
dopodomani avv. di tempo  fra due giorni,  la giornata immediatamente successiva al domani, cioè due giornate dopo l’oggi: ritornerò dopodomani; ci rivediamo dopodomani Etimologicamente è voce derivata dall’agglutinazione di dopo (dal lat. de+po(st))+ domani.
     Nel napoletano l’avverbio a margine è reso (o meglio si rendeva)  con l’avverbio PISCRAJE dal lat. bis +cras.
A questo punto ricordo che nel napoletano d’antan oltre i termini già esaminati (craje e piscraje) esistevano avverbi ad hoc per indicare una particolare successione di giorni, avverbi che non trovavano e non trovano corrispondenti nell’italiano (al solito meno preciso e circostanziato del napoletano); gli avverbi che voglio ricordare erano e sono, ancorché pochissimo usati
 PESCRILLE/ PESCRIGNO = tra tre giorni; pescrillo  è  dal latino post tres ille=dopo tre di quei(giorni);pescrigno = tra tre giorni o meglio: dopo quel domani piú lontano  è da un acc.vo  lat. volg. post crineu(m)←cras+ineu(m) questo ineu(m) fu un suffisso di valore diminutivo con riferimento a tempo piú lontano;
 PESCRUOZZO=tra quattro giorni   da un acc.  lat. volg. post croceu(m)←cras+oceu(m) questo oceu(m) fu un suffisso di valore diminutivo con riferimento a tempo molto lontano;
oggi avv. di tempo  
1 nel giorno in corso: arriverà oggi; oggi non sto bene; oggi ne abbiamo 3; oggi è il 3 del mese | in espressioni rafforzate: oggi stesso; quest'oggi | oggi a otto, a quindici, a un mese ecc. , esattamente fra una settimana, quindici giorni, un mese ecc. | oggi è un mese, un anno ecc. , esattamente un mese, un anno fa | da oggi, d'oggi in poi, a partire da questo momento | oggi come oggi, al presente, per il momento
2 contrapposto a ieri o domani, con valore piú generico: oggi vuole una cosa domani un'altra, un giorno vuole una cosa un altro un'altra; ieri non voleva, oggi sí, in un primo tempo non voleva, adesso vuole; ieri era ricco, oggi è povero, in passato era ricco, attualmente è povero | proverbio : oggi a me domani a te, ciò che è capitato a uno può capitare anche a un altro
3 nel tempo presente, nell'epoca attuale: oggi i giovani sono piú indipendenti; un taglio d'abito che oggi non usa piú
4 (region.) nel pomeriggio: stamani non ò tempo, ne parleremo oggi. Etimologicamente è voce derivata dal
lat. hodie, da hoc die 'in questo giorno'.
     Dal medesimo lat. hodie il napoletano d’antan trasse OJE usato per rendere l’oggi dell’italiano. Rammento qui ciò che dissi alibi e cioè che oggi, purtroppo, nell’imbastardito napoletano corrente si usano   termini italianizzati come ogge invece di oje, dimane invece di cras, doppodimane in luogo di piscraje,e cosí via  e non facendo piú progetti a lunga scadenza, non si parla proprio del terzo giorno dopo, né ovviamente del quarto giorno dopo! Mi corre l’obbligo di rammentare altresí che taluni sprovveduti scrittori partenopei che non ànno frequentazione con i classici, né con antichi lessici ed ignorano l’esistenza del s.vo oje (oggi) lo  usano impropriamente  al posto del vocativo oj (ehi!)generando la stortura ad es. di un errato  Oje Marí, in luogo del corretto Oj Marí! Proseguiamo
ieri avv. di tempo  
il giorno che precede immediatamente l'oggi: ieri mattina (o iermattina); ieri sera (o iersera); ieri notte (o iernotte); non lo vedo da ieri ' ieri l'altro (o ier l'altro), l'altro ieri (o rar. l'altrieri), il giorno prima di ieri, due giorni fa | ieri a otto, una settimana fa a partire da ieri ' da ieri a oggi, nel giro di ventiquattr'ore; (fig.) in pochissimo tempo ' nato ieri, (fig.) si dice di persona ingenua e priva di esperienza; voce dal lat. heri.
Nel napoletano l’avverbio a margine è reso con la voce AJERE che è dal lat. ad+heri→a(dh)eri→ajere con caduta della dentale sonora (d) e aggiunta di un suono di transizione (J)   come in ajutare ←a(d)iutare.
avantieri o avant'ieri, avv. di tempo  
il giorno prima di ieri; ieri l'altro. Etimologicamente è voce che piú che agglutinazione di avanti ed ieri, è stata marcata spudoratamente comp. di avanti e ieri, sul modello del fr. avant’hier. Nel napoletano l’avverbio a margine è reso con la voce agglutinata AUTRJERE = l’altro ieri, ieri l’altro; ò parlato di voce agglutinata e ne preciso i termini che ànno concorso a formarla: autro (altro) e ajere (ieri); questo il percorso morfologico autro + ajere→autr(o)(a)jere→ autrjere; di ajere ò détto antea, autro (altro) è dal lat.alteru(m)→alt(e)rum→autro  con consueto passaggio di al  ad au con dissimilazione totale della consonante laterale alveolare (L).
adesso
avv. di tempo  
1 in questo momento, al presente, ora: adesso vengo; l'ò visto adesso; e adesso che facciamo? | per adesso, per il momento | da adesso in poi, d'ora in poi, per il futuro | fino adesso, finora | adesso adesso, proprio in questo momento
2 poco fa, or ora: ò mangiato proprio adesso; sono stato adesso da loro
3 fra poco: parto adesso
4 adesso che, ora che (introduce prop. temporali-causali, con verbo all'indic.): adesso che lo sai, règolati!.
Etimologicamente è voce dalla prima parte della locuzione latina ad ipsu(m) (tempus) 'al (momento) stesso'; questo il percorso morfologico: ad ipsu(m) (tempus) → ad epsu(m)→adessu→adesso  con assimilazione regressiva ps→ss.

ora avv. di tempo  
[la forma tronca or è propria dell'uso letterario; nell'uso parlato ricorre solo in talune loc.]
1 in questo momento, adesso; attualmente, al presente: ora non posso uscire; ora le cose vanno meglio; cose che ora non si usano piú, al giorno d'oggi, nel tempo presente ' alcuni mesi, giorni, anni or sono, alcuni mesi, giorni, anni fa (con soggetto al sing. è di uso lett.: or è un anno) ' per ora, ora come ora, per il momento, in queste circostanze (con allusione alla possibilità che in futuro si presentino condizioni diverse): grazie, per ora; per ora non mi serve; ora come ora non saprei rispondere | d'ora in poi, d'ora in avanti, da questo momento in poi, per tutto il tempo futuro ' fin (o sin) d'ora, a partire da súbito e cosí nel futuro | prima d'ora, nel passato, prima di questo momento ' fin ora, finora
2 nell'immediato passato; poco fa: se ne è andato ora (o or ora)
3 nell'immediato futuro; tra poco, súbito: arriverà ora; ora lo chiamo
etimologicamente è voce dal lat. hora, abl. di hora.
     Per ciò che riguarda il napoletano sia l’avverbio ora che l’avverbio adesso che di ora è sinonimo vengon resi con l’avverbio MO interessantissima voce sulla quale occorre ch’io mi dilunghi.
     Nel napoletano vuoi  nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in esame usato per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata  con timbro aperto () mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente  definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta  connota il cittadino e  se è pronunciato con la  o chiusa connota il provinciale.
 Quanto alla morfologia rammento che il mo in esame è possibile trovarlo, ma erroneamente  anche come  mo' o ancóra) avv. - Ora, adesso; poco fa  Concorrente di ora e adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi  mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
nel napoletano  esiste anche nella forma iterata MMO MMO  con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito,immantinente, immediatamente, senza por tempo in mezzo
Detto ciò passiamo ad un altro problema; qual è l’esatta morfologia della parola mo e conseguentemente  come  scriverla?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che  non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada   da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi  scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato  dall’apposizione di un segno diacritico ().
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox =  ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice  e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine,  per motivi etimologici, perde una sola o piú  consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale),  non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che  ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum   per  pe (per), per po (poi) che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia  consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope () ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è  là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono   ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là  dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.le. C’è invece un napoletano po’  che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)-(st)  comporta non solo  la caduta delle consonati finali [st], ma anche  della  sillaba [te], caduta da indicarsi con l’apostrofo cosí da fare distinzione tra  gli omofoni po = poi e po’ = può. Rammento infine che nel napoletano non esiste un po’ apocope di poco ( apocope che invece esiste nell’italiano) poi che nel napoletano poco è sempre usato in forma intera poco (cfr. ‘nu poco ‘e…(un po’ di…) - a ppoco â vota (un po’ alla volta);
nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (): sto parlando della negazione NUN= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però  NU’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno () d’aferesi  e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso scorrettamente con un  na  privo di  segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno () comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
 E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.) e però non so se la sciatteria è da addebitarsi a gli scrittori o ai loro editori.  
Qualcuno mi fece  notare che, a suo dire,  il termine mo non potrebbe derivare  da mox in quanto, pare, che una doppia consonante  come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica  come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale  re = monarca   che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della caduta x ,  anche ammettendo  che il napoletano mo discenda da modo e non da mox  non si capisce perché  esso mo  andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato () atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di  un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare, se lo si usasse  il (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’) dell’espressione a mo’ d’esempio, ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiungere qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso). Prosegiamo con altri avverbi di tempo.
già avv. di tempo  
1a. Riferito a un verbo o ad una locuz. in funzione di predicato, indica che nel momento in cui si parla, o di cui si parla, un fatto è ormai compiuto o sta compiendosi o è accaduto da poco: è già tutto fatto: quando arrivai alla stazione, il treno era già partito; Già era accaduto tutto, quando giunsi sul posto; io a quell’ora sarò già lontano. Altre volte sottolinea una situazione in atto o rafforza l’idea del tempo trascorso: andiamo, è già tardi; sono già stufo di stare qui; sono già due ore che aspetto; erano passati già tanti anni. Spesso, in frasi esclamative o interrogative, esprime la meraviglia, la contentezza o il rammarico che un fatto avvenga, sia avvenuto o stia per avvenire prima di quanto ci si aspettasse: è già l’ora?; sei già qui?; vuoi già lasciarci?; pensare che siamo già a Natale!; non mi pareva vero di avere già un impiego; peccato che lo spettacolo sia già terminato. E con piú forza, di già: sei di già tornato?; spec. in risposte: «È l’ora d’andar via» «Di già?»; anche in grafia unita: un uomo ancora giovane, ma digià tutto calvo.

b. Prima d’ora (volendo dire che non è la prima volta che si fa, si vede o si dice qualche cosa): t’ò già avvertito piú volte; eppure quella faccia l’ò già vista in qualche luogo.

c. Per l’addietro, in tempi passati: in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo (Boccaccio). Davanti a un sostantivo, e sottintendendo i verbi essere o chiamarsi, indica che la persona o la cosa nominata non esercita piú quell’ufficio, non à piú quella funzione o quel nome: il ministro della Difesa, già sottosegretario agli Interni; il castello, già residenza della famiglia reale; l’albergo delle Chiavi d’oro, già «Locanda della Posta».

d. Sin da ora: prevedo già come andrà a finire; già me lo sento, già me l’immagino; comincio già ad averne abbastanza.
2. Isolato, esprime assenso o conferma: «Ci sarai anche tu?» «Già»; anche ripetuto: già, già, è proprio vero. Con la stessa funzione s’intercala spesso a quanto altri sta dicendo, anche per semplice cerimonia o per invitare a continuare il discorso. Talora l’assenso è solo formale e, secondo il tono con cui la parola si pronuncia, può esprimere concessione forzata («Come vedi, ti ò vinto» «Già»), dubbio (già, potrebbe anche darsi), ironia («Mi porti a cinema?» «Già, ci andiamo di corsa»), equivalendo in quest’ultimo caso anche a negazione («Devi fare ciò che voglio io» «Già!»).

3. Con valore puramente rafforzativo: Io non ci devo pensare piú a quel poverino. Già si vede che non era destinato (Manzoni); eh, già, dovevo immaginarmelo!; spec. se preceduto da non: ò detto cosí per dire, non già per offenderti; e in correlazione con ma: ti consiglio non già come tuo direttore, ma come amico.
Voce derivata dal lat. iam. Con medesimo etimo la voce è presente ugualmente nel napoletano, tuttavia preciso che spesso nel napoletano già è attestato con la geminazione dell'affricata palatale sonora (G) e si à GGIÀ in ogni caso con i medesimi significati ed usi dell’italiano già.
dopo
avv. di tempo  
1 poi, in seguito, piú tardi: prima o dopo è lo stesso; te lo dirò dopo; me ne accorsi súbito dopo; se ne andò poco (tempo) dopo; talvolta con valore pleonastico: poi dopo si vedrà | a dopo, a piú tardi, ci rivedremo poi
2 oltre, appresso, piú avanti (riferito a luogo): la casa che viene dopo; prendi la strada súbito dopo
3 (ant.) dietro: Taciti, soli, senza compagnia / n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo (DANTE Inf. XXIII, 1-2)
Etimologicamente  è voce dal lat. de post→depo(st)→dopo.
nel napoletano l’avverbio  è attestato nella morfologia di DOPPO con medesimo etimo dal lat. de post→depo(st)→dopo→doppo  con raddoppiamento espressivo della consonante occlusiva bilabiale sorda (P); accanto a doppo nel napoletano soprattutto parlato della città bassa è presente,come ò già détto, altresí la voce rafforzata  aroppo con etimo dal lat. ad +de post→adepo(st)→adopo→aropo→aroppo con rotacizzazione osco-mediterranea dell’occlusiva dentale sonora  (D) e raddoppiamento espressivo della consonante occlusiva bilabiale sorda (P);
tardi
avv. di tempo  

1 oltre il tempo debito, stabilito o conveniente: arrivare tardi; se non mi sbrigo faccio tardi; me ne accorsi troppo tardi; è tardi per iscriversi; potevi pensarci prima, ora è troppo tardi | proverbio : chi tardi arriva male alloggia
2 ad ora avanzata: mi alzo tardi; stasera andrò a letto piú tardi | al superl.: ieri sera sono rientrato tardissimo | sul tardi, nelle ore avanzate del pomeriggio o della mattina: vediamoci sul tardi | a piú tardi!, come formula di saluto, in vista di un nuovo incontro molto prossimo | al piú tardi, al massimo, non dopo un certo limite di tempo: al piú tardi, sarò di ritorno per le otto | presto o tardi, prima o poi: presto o tardi se ne pentirà.
Etimologicamente  è voce dal lat.  tarde, avv. di tardus 'lento'.
La voce è presente anche nel napoletano nei medesimi significati e  con il medesimo etimo, ma  nella morfologia di TARDE in modo piú aderente al lat.tarde.


súbito avv. di tempo  
1 immediatamente, senza indugio: lo avverto súbito; se ne andò súbito; vieni qui súbito, fallo súbito, (con maggior forza: vieni qui, e súbito!, fallo, e súbito!) | usato assol. come risposta a una chiamata o a un ordine: "Vieni qui un momento" "Súbito" ' raddoppiato con valore enfatico: fallo súbito súbito | súbito prima, immediatamente prima: è arrivato súbito prima che tu uscissi | súbito dopo, immediatamente dopo: à telefonato súbito dopo che eri uscito | súbito che, súbito come, súbito sí come, (ant. o pop.) appena che, tosto che: mandatelo da me súbito come torna; Súbito sí com'io di loro m'accorsi, /... /... li occhi torsi (DANTE Par. III, 19-21)
2 in brevissimo tempo: asciugare, cuocere súbito
3 (lett.) all'improvviso (spesso preceduto da di): Di súbito drizzato gridò: / "Come? dicesti "elli ebbe"...?" (DANTE Inf. X, 67-68
 Etimologicamente  è voce dal lat. sŭbĭtō, avv. dall'agg. subitus 'subíto'. Nel napoletano nei medesimi significati e  con medesimo etimo la voce è attestata come SÚBBETO con tipico raddoppiamento espressivo dell’occlusiva bilabiale sonora  (b);

immantinente avv.di tempo e di modo  (lett.)
súbito, senza indugio, nel momento stesso: obbedire immantinente.
Etimologicamente questa voce che  come ò accennato è quasi esclusivamente  d’uso letterario è marcata sul francese ant. maintenant 'súbito', deriv. di maintenir.
     Nel napoletano nei medesimi significati la voce in esame è resa con MMO MMO iterativo di mo (cfr. antea) oppure con la locuzione SOTT’Ô COLPO ( sotto il colpo id est: di colpo, prontamente, tempestivamente).


mai  avv. di tempo
1 nessuna volta, in nessun tempo, in nessun caso; normalmente rafforza una negazione, posponendosi al verbo: non l'ò mai letto; non à mai telefonato né à mai scritto; nessuno l'à mai visto; non verrà mai | rafforzato da piú: non accadrà mai piú, nessun'altra volta in futuro | senza un'altra negazione, in frasi ellittiche: tu l'ài fatto qualche volta, io mai; tutto, ma questo mai; mai un po' di pace | proverbio : meglio tardi che mai
2 usato assolutamente nelle risposte, à valore di negazione molto forte: «Ti scrive qualche volta?» «Mai»; «Lo faresti?» «Mai» | rafforzato: mai piú!, mai e poi mai! | premesso al verbo, e perciò non accompagnato da altra negazione, à valore enfatico: mai gli ò parlato; mai mi è stato possibile; anche in proposizioni esclamative dell'uso fam.: mai dicesse la verità!; mai che arrivi puntuale!
3 in espressioni comparative, in nessun altro tempo, nessun'altra volta: oggi, piúú che mai, mi accorgo di aver sbagliato; nonostante le cure, deperiva piú che mai; è stato piú gentile che mai; meno che mai si è pentito di ciò che à fatto; ci fu caro quanto altro (o quanto altri, quant'altri) mai; si è dimostrato quanto mai ostinato | nell'uso fam. assume spesso valore intensivo: quante mai volte te l'ò detto!; le vuole un bene che mai; ò una fame che mai
4 in proposizioni interrogative dirette e indirette, condizionali e dubitative, una volta, qualche volta, in qualsiasi tempo: l'ài mai incontrato?; non so se sia mai stato a Roma; chi mai l'à visto?; quando mai ò detto questo?; come mai non era in casa?; che cosa mai ti sei messo in mente?; se avessi mai pensato una cosa simile, non sarei partito; se mai lo vedi, diglielo; se mai un giorno, se mai una volta... ' caso mai, nel caso, eventualmente
5 (ant. , lett.) rafforzativo di sempre: per far sempre mai verdi i miei desiri (PETRARCA Canz. CLVIII, 4) | rafforzativo di o no: mai sí che lo conosco (BOCCACCIO Dec. III, 3)
Etimologicamente è voce dal lat. magis→ma(g)i(s)→mai.
     La voce è presente anche nel napoletano  nei medesimi significati e con medesimo etimo ancorché con morfologia diversa che nel napoletano è MAJE con paragoge della semimuta finale (E) e sostituzione della(i)  con il suono di transizione (J) atteso che il napoletano non tollera la presenza di tre vocali consecutive (che nel caso in esame sarebbero state a i e; cfr. ad es. l’italiano aiuto/aiutare resi in napoletano con ajuto/ajutà, daje – saje – vaje per dai – vai – sai  etc.).
sempre avv. di tempo
1 senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo): è sempre stato cosí e sarà sempre cosí; l'amerò ora e sempre; non pensarci sempre; ne avrò sempre un buon ricordo | per sempre, senza limiti di tempo, per l'eternità | da sempre, fin dalle lontane origini, dall'inizio: è cosí da sempre | di sempre, di ogni tempo, di ogni occasione: non è cambiato, è quello di sempre | sempre tuo, vostro ecc. , come formula di chiusa nelle lettere
2 seguito da comparativo, lo rafforza, dando all'espressione un valore di continuità: spero che le cose andranno sempre meglio; ci capisco sempre meno; devi applicarti con sempre maggiore impegno | talvolta anche con il piú sottinteso, quando il verbo esprima già diminuzione o aumento: La bestia ad ogne passo va piú ratto, / crescendo sempre, fin ch'ella il percuote (DANTE Purg. XXIV, 85-86)
3 può indicare semplicemente il perdurare o il ripetersi di un fatto o di una situazione: le sue condizioni sono sempre gravi | in frasi enfatiche: sei sempre il solito sfacciato!; sempre complicazioni!
4 con valore simile ad ancóra: sei sempre in collera con me?; abita sempre in via Roma
5 con funzione restrittiva: questo si può fare, sempre però con l'aiuto di qualcuno; può cominciare a uscire un po', ma sempre nelle ore piú calde
6 con valore di tuttavia, nondimeno (in unione con una cong. avversativa): è vecchio, sempre però in ottime condizioni; è un po' bizzarro, ma è pur sempre una persona di valore || Nella loc. cong. sempre che (rar. sempreché), purché, ammesso che (con valore condizionale e con il verbo al congiuntivo): è possibile, sempre che tu lo voglia; la situazione è rimediabile, sempre che tu non insista nello stesso comportamento | (ant. , lett.) anche col valore di ogni qual volta che (con il verbo all'indic.): sempre che presso gli veniva, quanto potea con mano,... la lontanava (BOCCACCIO Dec. II, 4)
Etimologicamente è una voce lettura metatetica  del lat. semper→sempre.
     La voce è presente anche nel napoletano  nei medesimi significati e con medesimo etimo ancorché con morfologia diversa che nel napoletano è sempe  con semplificazione del lemma attraverso la caduta della fastidiosa consonante liquida vibrante (R).

spesso avv. di tempo
di frequente, molte volte: incontrarsi spesso; fare qualcosa molto spesso, piú spesso, meno spesso di prima; Ripetutamente, molte volte: Quanto in femmina foco d’amor dura, Se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende (Dante); E spesso tremo e spesso impallidisco (Petrarca); lo incontro spesso; ci vediamo molto spesso; sono cose che accadono s., molto s., troppo s.; è un controllo che va ripetuto s.; al cinema, a causa della mia vista, ci vado ormai sempre meno spesso. Rafforzato con l’iterazione: si trova spesso spesso nei guai; o con l’aggiunta di volentieri, per lo piú ironicamente: fissa gli appuntamenti, ma spesso e volentieri dimentica di andarci. talvolta raddoppiato: spesso spesso se ne dimentica | spesso e volentieri, assai frequentemente.
Etimologicamente si tratta d’ un uso avverbiale dell’agg. spesso(lat. spissus), uso sviluppatosi già alle origini dell’italiano.  
     La voce è presente anche nel napoletano  nei medesimi significati e con medesimo etimo ancorché con morfologia diversa che nel napoletano è SPISSO con maggior fedeltà al modello latino.
 E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento.
Brak