domenica 31 luglio 2011

VARIE 1337

1'A VIPERA CA MUZZECAJE A CCHELLA MURETTE 'E TUOSSECO.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2 E SSEMPE CARULINA, E SSEMPE CARULINA...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che però si dice che lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3 TRE CCOSE STANNO MALE A 'STU MUNNO: N'AUCIELLO 'MMANO A 'NU PICCERILLO, 'NU FIASCO 'MMANO A 'NU TERISCO, 'NA ZITA 'MMANO A 'NU VIECCHIO.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato; il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, che per definizione è lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4 UOVO 'E N'ORA, PANE 'E 'NU JUORNO, VINO 'E N'ANNO E GUAGLIONA 'E VINT'ANNE.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino (invecchiato almeno) di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino che non sia piú giovane quando sarebbe troppo dolce e meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5 A CHI PIACE LU SPITO, NUN PIACE LA SPATA.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6 ADDÓ NUN MIETTE LL'ACO, NCE MIETTE 'A CAPA.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre súbito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7 ZITTO CHI SAPE 'O JUOCO!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8 VUÓ CAMPÀ LIBBERO E BBIATO? MEGLIO SULO CA MALE ACCUMPAGNATO.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
9 QUANNO 'NA FEMMENA S'ACCONCIA 'O QUARTO 'E COPPA, VO' AFFITTÀ CHILLO 'E SOTTO.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 QUANNO QUACCHE AMICO TE VENE A TRUVÀ, QUACCHE CAZZO LE MANCARRÀ.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.





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11.LL'UOCCHIE SO' FFATTE PE GGUARDÀ, MA 'E MMANE PE TUCCÀ.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare piú o meno furtivi palpeggiamenti delle rotondità femminili.
12 ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA LL'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
13 'AMICE E VINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
14. 'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DDENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
15 'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ TUTTE CHILLE CA GHIASTEMMANO.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
16 'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lì invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
17 'O GALANTOMO APPEZZENTÚTO, ADDIVENTA 'NU CHIAVECO.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
18 'E FRAVECATURE, CACANO 'NU POCO PE PARTE E NUN PULEZZANO MAJE A NISCIUNU PIZZO.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
19 'E VRUOCCOLE SO' BBUONE DINT’ Ô LIETTO.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specialmente nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
20 STATTE BBUONO Ê SANTE: È ZUMPATA 'A VACCA 'NCUOLL’ Ô VOJO!
Letteralmente: buonanotte!La vacca à montato il bue (toro). Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
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21Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acìto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
22 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni e/o motivi del proprio dolere.
23 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, cosí malamente dialogarono: Il primo: “Scusate simmo arrivate a Napule?” (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: “Nonzignore, cca è Napule!”(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: “I' me penzavo ca stevamo a Napule” (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: “Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate?” (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
24 A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
25 Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
26 Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono cosí eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
27 'Mparate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro. Proverbio da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
28 Chi troppo s''o sparagna, vene 'a gatta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo (magari erede) profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte dal suo dante causa.
29'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ).



































30 Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
31 Essere aurio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
32 Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando.
Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
33 Ammèsurate 'a palla!
Letteralmente: Misùrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare così eviterai di incorrere in grossolani errori; renditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te delle tue azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misuràte!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
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TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE: ETC

TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE: TANTA GLIUOMMERE 'A DO' T''E CCACCE?


Tu nun cuse, nun file e nun tiesse: tanta gliuommere 'a do' t''e ccacce?
Ad litteram: Tu non cuci, non fili, né tessi, tanti gomitili da dove li tiri fuori?
È questa l'ironica e chiaramente retorica domanda che si suole rivolgere a chi, notoriamente non occupato a fare oneste attività produttive, sia improvvisamente ed inspiegabilmente pervenuto ad accumulare ingenti quantità di danaro; lo gliummero della locuzione, normalmente significa come vedremo, gomitolo , ma per traslato, questa volta sta per peculio, ed in particolare una somma pari a ca. cento ducati d'argento somma che poteva esser messa insieme, senza lavorare , solo truffaldinamente.
cuse = cuci voce verbale (2ª pers. sing. ind. presente) dell’infinito cósere = cucire; etimologicamente cósere è da un tardo latino * cósere per il classico consuere comp. di cum 'con' e suere 'cucire';
file = fili voce verbale (2ª pers. sing. ind. presente) dell’infinito filà = filare; etimologicamente filà è da un tardo lat. filare, deriv. di filum 'filo';
tiesse= tessi voce verbale (2ª pers. sing. ind. presente) dell’infinito tessí= tessire; tessí etimologicamente è dal latino texere; da notare la dittongazione popolare ie in luogo della semplice e nella 2ª persona tiesse, laddove tutte le altre persone conservono la semplice e etimologica;
gliuommere/i plurale metafonetico di gliommero che di per sé è il gomitolo con etimo dall’acc. latino glomere(m) con probabile metaplasmo nel passaggio da un originario neutro glomus al maschile glomere(m); il significato originario di gomitolo si è poi esteso ed è traslato a quello di peculio, come di ricchezze accumulate; in chiave letteraria la voce gliommero fu usata per indicare alcuni endecasillabi non particolarmente fluidi e/o scorrevoli con complesse rime al mezzo; sempre in chiave letteraria, la voce venne pure usata per intitolare alcuni suoi componimenti poetici, non aulici, ma popolareschi da Jacopo Sannazaro ( nacque a Napoli nel 1456 e, tranne una breve parentesi in cui seguí nell'esilio l'amico Federico III d'Aragona, lí visse fino alla morte, avvenuta nei 1530.
Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la fanciullezza e l’adolescenza a San Cipriano Piacentino, portando poi a lungo in sé la suggestione bucolica ed agreste di quell’ambiente. Entrato nell’Accademia pontaniana, dove assunse lo pseudonimo diActius Syncerus, si legò d’amicizia col Pontano (Cerreto di Spoleto [Perugia] 1429 † Napoli 1503), che a lui intitolò il dialogo Actius, sulla poesia.
Il Sannazaro fu colto umanista e poeta raffinato. Ci à lasciato numerose opere in lingua latina ed in volgare. Fra le prime ricorderò le "Bucoliche", di ispirazione virgiliana, le "Eclogae piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le "Elegie" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis"; fra quelle in volgare ricordo, appunto, gli "Gliommeri" (= "gomitoli",componimenti poetici di origine popolare in napoletano e destinato alla recitazione in forma di monologo; costituito di endecasillabi a rima interna, intrecciava motti, frizzi e argomenti vari tra cui filastrocche di proverbi napoletani ed altri varî argomenti popolari), le "Farse" e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca));
cacce = tiri fuori; voce verbale (2ª pers. sing. ind. presente) dell’infinito caccià = cacciare il verbo napoletano rispetto all’omonimo italiano, quantunque abbia il medesimo etimo da un lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere'non è usato nel senso di dare la caccia a un animale selvatico per ucciderlo o catturarlo o nel senso di introdurre, ficcare; spinger dentro con violenza, ma esclusivamente nel senso di tirar fuori, , cavare, estrarre, emettere; ò trovato perseguibile ed ò adottata l’ipotesi propostami dall’amico Dario Cafazzo (che – sebbene originario dell’alta Irpinia, apprezza e frequenta con attenzione e competenza stabilmente la lingua napoletana) che il verbo caccià nella sua accezione venatoria, si possa rendere graficamente con un utile caccïà nel quale la dieresi posta sulla i, aumentandone le sillabe e modificando la lettura dell’originario caccià, può indurre ad intendere il verbo in altro significato: nel senso cioè non di trar fuori, ma in quello di dar la caccia.Del resto già il buon D’Ambra nel suo insostituibile vocabolario, quantunque non adottasse la grafia caccïà avvertiva che in napoletano esistevano due verbi cacciare: l’uno trisillabo = metter fuori, cavare, estrarre etc. ed uno quadrisillabo = andare a caccia
Va da sé che qualora fosse accettata palam l’ipotesi proposta di usare l’infinito caccïà, per indicare l’andare a caccia, lasciando il caccià solo per indicare il mettere fuori, occorrerebbe modificare l’intera coniugazione del verbo che ad es. all’indicativo presente non potrebbe piú coniugarsi
io caccio
tu cacce
isso caccia
nuje cacciàmmo
vuje cacciàte
lloro càcciano
ma dovrebbe diventare:
io caccéjo
tu caccíje
isso caccéja
nuje caccíjammo
vuje caccíjate
lloro caccéjano
ricalcando ad un dipresso la coniugazione del verbo ‘mmezzïà ( che è il sobillare, lo spingere ad azioni malevole, l’istigare con etimo da un lat. volgare in +*vitiare che all’indicativo presente à:
io ‘mmezzéjo
tu ‘mmezzíje
isso ‘mmezzéja
etc.
Quanto ò espresso à trovato riscontro in ciò che un vecchio cacciatore mi à riferito; e cioè che un tempo la battuta di caccia fu detta caccïata/caccíata (che risulta essere il part. pass. femminile sostantivato dell’infinito caccïà, laddove il part. pass. femminile sostantivato di caccià è cacciàta e vale messa fuori.
Raffaele Bracale

LA NEGAZIONE NUN/’UN/NU’/NUNN ETC.

LA NEGAZIONE NUN/’UN/NU’/NUNN E LA RELATIVA PIÚ USATA FRASEOLOGIA
Questa volta nell’intento di interessare i miei consueti ventiquattro lettori e chiunque si soffermasse a leggere queste mie paginette tenterò di illustrare delle tipiche espressioni della parlata napoletana costruite con la negazione NUN. Ne faccio dapprima l’elenco e poi esaminerò frase per frase le espressioni:
1) Nun accucchià niente
2) Nun accusà e nun cuntà
3) Nun avé niente a cche spàrtere
4) Nun capirce dint’ê panne
5) Nun ce stanno sante
6) Nun c’è prereca senza sant’Austino
7) Nun è ccosa!
8) Nun è ppietto tuĵo
9) Nun essere doce ‘e sale
10) Nun ce stanno fose ‘a appennere
11) Nun vulé fà carte
12) Nun fa/fà ascí ‘o ggrasso fora d’ ‘a pignata.
Prima di affrontare le singole espressione mette conto chiarire uso e morfologia dell’avverbio di negazione.
nun/’un/nu’/nunn avv.di negazione = non
1 serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette; nun parlaje pe tutt’ ‘o juorno(non venne; non parlò per tutto il giorno); nun ce sta nisciuno irre e òrre(non c'è alcun dubbio);nun c’è prubblema (non c'è problema);nun ce sta nisciuno(non c'è nessuno), | ch’è che nunn è(che è, che non è), (fam.) tutto a un tratto, senza una ragione evidente:ch’è, che nunn è, fernette ‘e parlà e se ne jette (cosa è, cosa non è, smise di parlare e se ne andò) | in espressioni ellittiche: no ca nun ce crero, ma(non che io non ci creda, ma...), non intendo dire di non crederci, ma...;

2 (ant.) col valore di no: nun servarrà po dicere’e no, si hê ditto ‘e sí pure ‘na vota sola!(non varrà poi dire di non, se avrai détto di sì anche una volta sola)
3 nelle contrapposizioni, anche col verbo sottinteso: nunn è bbello, ma ‘ntelliggente(non è bello, ma intelligente); isso fuje pe mme nun sulo ‘nu pate, ma pure n’amico(egli fu per me non solo un padre, ma un amico) | in espressioni ellittiche: vène o nun vène;prufessore o nun prufessore(venga o non venga; professore o non professore) (ma non quando non è ripetuto il primo elemento:vène o no, prufessore o no( venga o no, professore o no))
4 nelle interrogative dirette e indirette che attendono una risposta affermativa e nelle interrogative retoriche: nun avive ‘a partí stasera?(non avresti dovuto partire stasera?); nunn è overo?( non è vero?); m’addimanno si nun fosse stato meglio a lassà perdere; comme facevo a nun crerelo?(mi chiedo se non sarebbe stato meglio rinunciare; come potevo non credergli?)
5 si usa pleonasticamente in alcune locuzioni: è cchiú facile ‘e chello ca tu nun cride(è più facile di quel che tu non creda);nunn appena( non appena), appena che; | in talune frasi esclamative ed in senso antifrastico: ‘e buscie ca nun m’à ditto!(le bugie che non mi à detto!); ‘e fessarie ca nun hê fatto(le sciocchezze che non ài fatto!) | quando il verbo a cui si riferisce è retto da congiunzioni o locuzioni come fino a cche, pe ppoco, a meno che, salvo che, ‘a fora ‘e che e sim.: t’aspettofino a cche nunn arrive( ti attenderò finché non arriverai); pe ppoco nun è caduto(per poco non è caduto
6 in litote, preposto a un aggettivo, un sostantivo o un avverbio: è stata ‘na facenna nun facile (è stata un'impresa non facile), difficile; nun poche ‘a penzano comme a nnuje(non pochi la pensano come noi), parecchi; aggiu faticato nun poco…(ò lavorato non poco), molto; nun sempe(non sempre), raramente; nun senza fatica(non senza fatica), con notevole fatica;
rammento che il medesimo, originario avv. di negazione nun può esser reso secondo le occorrenze con altre morfologie:aferizzato, di solito in principio di frase, ‘un: ‘un me faccio capace(non me ne convinco) ‘un ‘o ssaccio!(non lo so)’un me dicere niente(non dirmi nulla),apocopato nu’ che però (secondo il principio che la caduta finale di una o piú consonanti non necessita di una indicazione diacritica) si potrebbe anche rendere semplicemente nu Tuttavia è preferibile adottare la morfologia nu’ poi che nel napoletano scritto si potrebbe ingenerare confusione tra l’art. indeterminativo ‘nu/’no e la negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi perciò nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti, (Galiani, Oliva, Serio) peraltro spesso in contrasto sulle soluzioni proposte furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano un’ adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere,e valga una volta per sempre, a mio avviso nel napoletano scritto gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! Esempio di questo nun→nu’usato per solito davanti a consonante e/o in frasi esclamative: e nu’ sta bene!(non sta fatto bene!), statte zitto, nu’ pparlà sempe tu!(taci, non parlar sempre tu!);
si à infine la forma nunn usata davanti a parole comincianti per o,e ed alla voce verbale hê: nunn ‘o ddicere! (non dirlo!)nunn ‘e ssiente? (non le senti?) nunn hê capito niente! (non ài compreso nulla!).
Qui giunti cominciamo ad esaminare le frasi elencate antea:
1.Nun accucchià niente
Letteralmente Non accoppiare nulla, id est non sapere o non riuscire mai a concludere nulla di positivo, non essere mai in grado di far collimare pensiero ed azione giungendo a risultati concreti. L’espressione è usata appunto nei confronti di chi impreparato, inetto ed incapace non possa mai addivenire concretamente ad un risultato frutto dell’unione di una esatta teoria con la operosa pratica.Il verbo accucchià = accoppiare, unire mettere insieme è un denominale del s.vo cocchia(da un lat. volg. cop(u)la(m)→copla(m)→cocchia con il tipico passaggio del gruppo pl a chi, come in pluere→chiovere, plaga→chiaja, platea→chiazza, plumbeum→chiummo etc. ) = coppia attraverso un ipotizzato *adcopulare→accoplare→accucchiare.
2.Nun accusà e nun cuntà
Letteralmente Non accusare e non contare da intendersi non essere all’altezza di dichiarare (il proprio giuoco,o le proprie idee), né essere all’altezza di trarre partito dal proprio operato (conteggiando il proprio punteggio totalizzato nel gioco o dando conto, elencandolo, di ciò che si sia stati capaci di produrre con la propria azione).
Locuzione mutuata dal giuoco delle carte détto tressette. Apro un parentesi per dire che nel tressette è previsto che ad inizio di gioco i componenti possano a turno dichiarare l’ eventuale possesso di un certo numero di carte favorevoli, dichiarazione che comporta il vantaggio di avere dei punti aggiuntivi da sommare a quelli totalizzati con le prese;questo dichiarare è détto nel gergo del gioco: accusare. Ciò mi à indotto a ritenere il gioco del tressette (che molti reputano un gioco interessante e difficoltoso ed invece non è nè l’uno, nè l’altro fondato com’è sulla fortuna che ti elargisce carte che se giocate decentemente e non proprio sconsideratamente ti assicurano la vittoria indipendentemente dalla bravura o capacità gestionale che se ne abbia...) ciò mi à indotto, dicevo, a ritenere piuttosto stupido, se confrontato ad es. allo scopone scientifico, un gioco nel quale un giocatore non solo sia favorito dalla sorte ricevendo carte favorevoli, ma ne tragga anche partito con un punteggio aggiuntivo! Chiudo la parentesi e torno alla locuzione che è riferita in primis ad un giocatore non solo incapace di aprire il gioco dichiarando valide carte in suo possesso, ma tanto inesperto da addirittura confondersi nella sommatoria del punteggio realizzato; la locuzione è altresí usata sarcasticamente nei confronti di chiunque che inetto, incapace, incompetente, inesperto e maldestro sia del tutto privo di capacità operative risultando in ògni occasione un soggetto che non valga nulla o non sia stimato o non abbia alcuna autorità.
il verbo accusà vale 1)incolpare, imputare, rimproverare, biasimare, colpevolizzare, tacciare; ma anche 2) come nel caso che ci occupa manifestare, dichiarare, mostrare; è voce dal lat. accusare, comp. di ad e causari 'addurre come pretesto';
il verbo cuntà/cuntare vale 1) numerare progressivamente una serie di cose o persone per calcolarne la quantità: cuntà ‘e ccarte, ‘e punte(contare le carte, i punti) | cuntà ‘ncopp’ê ddete(contare sulle dita), (fig.) si dice quando ciò che si conta è in numero molto scarso | cuntà ‘e juorne, ll’ ore, ‘e minute, (contare i giorni, le ore, i minuti), (fig.) aspettare con impazienza qualcosa e desiderare quindi ardentemente che passi il tempo che manca al suo raggiungimento o compimento
2 (assol.) dire i numeri in ordine progressivo; per estens., fare le più semplici operazioni aritmetiche: cuntà nfi’ a ddiece(contare fino a dieci); nun sapé manco cuntà(non saper neppure contare) | cuntà ‘nu bocserro(contare un pugile), (sport) contare i secondi durante i quali egli è a terra
3 (fig.) limitare, lesinare: cuntà ‘e sorde â mugliera (contare il denaro alla moglie)
4 mettere nel conto, considerare: mia figlia s’è spusata: sulo p’ ‘a festa âmmu spiso vinte meliune, senza cuntà ‘o riesto! (mia figlia è sposata: solo per la festa abbiamo speso venti milioni, senza contare il riesto!)
5 avere, annoverare, vantare: conta quinnece anne ‘e servizzio (conta quindici anni di servizio)
6 (fam.) dire, raccontare: cóntace chello ch’è ssuccieso(contaci quel che è successo) | cuntarla grossa(contarla grossa), raccontare una bugia molto grossa
7 proporsi, ripromettersi: conto ‘e partí dimane(conto/penso di partire domani)
8 (ant.) stimare, valutare |||
v. intr. [aus. avere]
1 valere, avere autorità, stimare, valutare: nun cuntà niente(non valere niente)
2 confidare, fare assegnamento: ‘ncuollo a cchillo nun se po’ cuntà(non si può contare su di lui).
voce dal lat. computare→com(pu)tare→contare, comp. di cum 'insieme' e putare 'calcolare'
3.Nun avé niente a cche spàrtere
Letteralmente Non avere alcunché da dividere (con altri). Locuzione da intendersi sia nel senso materiale: Non avere nulla da suddividere (con nessuno)atteso che si è del tutto padroni del proprio, ma piú spesso in quello morale Non avere nulla in comune (con chicchessia)atteso che il soggetto di cui si parla è molto diverso (sia in senso positivo che in quello negativo) da tutti gli altri, da non potersi confondere con chicchessia.
il verbo spàrtere vale distribuire, ripartire, suddividere, dividere, separare. voce dal lat. partire e partiri, deriv. di pars partis 'parte' con protesi di una s intensiva, cambio di coniugazione e ritrazione della tonica.
4.Nun ce capí dint’ê panne
Letteralmente Non entrar nei propri panni
Espressione iperbolica da intendersi figurativamente e da riferirsi a chi sia cosí gioioso o soddisfatto d’alcunché al segno d’apparire di non esser contenuto nei propri abiti essendo quasi lievitato per una gioia o una soddisfazione impreviste ed improvvise che abbiano determinato iperbolicamente una crescita, un aumento della sua massa corporea che finisce per debordare dagli abiti.
il verbo capí/càpere vale 1 comprendere, afferrare con la mente;
2 giustificare o perdonare almeno in parte;
3 come nel caso che ci occupa penetrare, esserci spazio d’accoglienza;
voce dal Lat. capere, con cambio di coniugazione nella morfologia capí;
dint’ê preposizione articolata = nei ma anche alibi nelle;
per una compiuta esposizione rimando alibi al mio articolo Le preposizioni articolate nel napoletano.
5.Nun ce stanno nè ssante, nè Mmaronna
Letteralmente Non ci son né santi, né Madonna (bastevoli a...) Icastica espressione che in maniera direi piú contenuta (in quanto rispettosamente chiama in causa solo i santi e/o la Vergine )richiama quella della lingua nazionale Non c’è barba di Padreterno di analogo senso per significare, riferita ad un pervicace, caparbio, testardo che nessuno, neppure se si trattasse dei santi o della Madonna e di un loro intervento, potrebbe far recedere il testardo da un incaponimento, un’ostinazione,una cocciutaggine, un puntiglio, un capriccio, una fisima quasi mai razionali.
sante pl. dell’agg.vo sostantivato santo
1 (teol.come nel caso che ci occupa) che è degno di venerazione religiosa; che è dotato di santità;
2 giusto, onesto, buono, pio,
3 si dice di cose universalmente rispettate, verso cui si à grandissimo ossequio
4 si usa in alcune locuzioni con valore puramente rafforzativo: faticà tutt’ ‘o santu juorno(lavorare tutto il santo giorno);
5(fam.) usato in esclamazioni di disappunto, inquietudine, sorpresa: santa pacienza!; santu dDio quant’ è tardi!(santa pazienza!; santo Dio, quant'è tardi!)
voce dal lat. sanctu(m)→san(c)tu(m), propr. part. pass. di sancire 'sancire'.
mmaronna/maronna = LaMadonna (etimologicamente dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) si è vista! Il termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia con l’originaria D etimologica: ‘a Madonna che con la tipica rotacizzazione osco-mediterranea D→R: ‘a Maronna; segnalo qui che, essendo il napoletano (se si eccettuano le vocali finali (sempre) o pretoniche (spesso) semimute…) essendo il napoletano linguaggio che si legge cosí come si scrive, non v’à ragione per legger Maronna quando vi sia scritto Madonna, né ad. es. rinto se vi è scritto dinto – piere se vi è scritto piede etc. ; purtroppo spesso i miei conterranei (forse per sciatteria ed impreparazione…) incorrono in questo errore… e transeat per gli incolti e gli sprovveduti, ma è imperdonabile per molti addetti ai lavori o sedicenti tali chi si dicono colti, preparati e versati nel napoletano ed incorrono nel medesimo strafalcione.
6.Nun c’è prereca senza sant’Austino.
Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino Come si sa, sant'Agostino(Tagaste, 13 novembre 354 –† Ippona, 28 agosto 430), filosofo, teologo e vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare i dottissimi scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
prereca s.vo f.le = 1predica, omelia, sermone, quaresimale, orazione sacra (spec. in occasioni solenni), panegirico (per la glorificazione di un santo) ma anche
2 paternale, ramanzina, filippica, fervorino, predicozzo (scherz.), rimprovero, richiamo, ammonizione, ammonimento, sgridata; (gen.come nel caso che ci occupa)chiamata in causa, addebito; voce deverbale del lat. praedicare →praericare
7.Nun è ccosa!
Letteralmente Non è cosa, gesto, azione, lavoro, opera (da praticare, perseguire etc.) Icastica espressione che si usa in tutte quelle occasioni in cui non si ritenga opportuno non dar corso ad azioni, operazioni quali che siano in quanto stimate non convenienti, inopportune, inappropriate, incongrue, svantaggiose per chi le dovesse mettere in opera laddove si tratta di azioni/operazioni da lasciar perdere in quanto il gioco non vale la candela. In italiano s’usa l’analogo Non è il caso!
cosa
s.vo f.le
1 termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve determinazione dal contesto del discorso o dello scritto;
2 in senso più ristretto, oggetto materiale;
3 fatto, avvenimento, situazione;
4 ciò che si vede, si pensa, si ascolta,si dice;
5 come nel caso che ci occupa gesto, azione, lavoro, opera.
voce dal lat.volg. causa «causa», che sostituí il lat. class. res.
8.Nun è ppietto tuĵo!
Letteralmente: Non è (per il) petto tuo! Icastica espressione, analoga alla precedente ma con un marcato carattere quasi di dileggio e/o d’offesa in quanto è espressione che si usa rivolgere sarcasticamente ad un idividuo che, ritenuto incapace di poter mai concludere alcunché di positivo,né di giungere a risultati concreti in quanto impreparato, inetto ed incapace dimostri di non possedere né la prestanza fisica, né le capacità mentali (adombrate l’una e le altre sotto il termine petto) per poter addivenire concretamente ad un risultato; per il soggetto destinatario dell’espressione ògni situazione, avvenimento,questione o problema, gesto, azione, lavoro, opera son ritenuti superiori alle sue capacità e dunque tutto esula dalle sue possibilità operative.
pietto s.vo m.le
1 la parte anteriore del tronco umano, compresa tra il collo e l'addome;
2 le mammelle della donna, il seno;
3 (fig.come nel caso che ci occupa) cuore, animo, capacità; 4 la parte del corpo degli animali corrispondente al petto umano;
5 parte di un vestito che copre il petto: giacca a unu pietto; giacca a doppio pietto, giacca pietto e bavaro(giacca a un petto; giacca a doppio petto, giacca petto e bavero); voce
lat. pĕctu(s)→piettu(s)→pietto 'petto, animo'.
9.Nun essere doce ‘e sale
Letteralmente: Non è dolce di sale! Incisiva espressione usata soprattutto rivolgendola a professori, genitori eccessivamente severi o piú in generale a tutti coloro che si dimostrino scostanti, scorbutici, scontrosi, intrattabili pur senza giungere ad esser maleducati, villani o sgarbati; di costori s’usa dire che siano tanto aspri o pungenti o piccanti tal quali una pietanza che troppo salata risulti sgradevole, spiacevole, disgustosa, laddove una contenuta salatura l’avrebbe resa piú dolce al palato e quindi gradita, gradevole, piacevole.
10.Nun ce stanno fose ‘a appennere
Letteralmente: Non ci sono fusi (tanto difettosi ) da (poter) appendere (al vestito).Antichissima locuzione (già presente nel D’Ambra) incisiva efficace, chiara, viva mordace, graffiante di esclusiva pertinenza femminile. Di per sé l’espressione in generale vale non ci sono difetti ma in senso piú circoscritto ed esatto è espressione con la quale si fa riferimento all’onestà dei costumi di un donna ed alla totale assenza in lei di colpe, manchevolezze , mancanze,sia fisiche che morali, insomma una donna tanto priva di difetti da essere accreditata di essere cosí sana, pudica, virtuosa, irreprensibile, integerrima, costumata, morigerata da non concedere neppure figurati appigli sul proprio vestito cui attaccare fallici fusi, cioè di non dare ad alcun uomo modo o maniera di circuirla per poterne attinger le grazie. Normalmente un fuso ben costrutto è un arnese di legno, panciuto al centro e assottigliato alle estremità, che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola, arnese privo di asperità, sporgenze o ganci con cui poterlo appuntare o sospendere ed è perciò un arnese privo di difetti, come priva di difetti è una donna che non conceda appigli sulle sue vesti a figurati fusi maschili.
fosa s.vo pl. f.le del m.le fuso s.vo m.le [dal lat. fūsus] (pl. fose e fosa). – 1.in sé ed in primis Arnese di legno dalla caratteristica forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate (dette cocche), usato nella filatura per produrre mediante rotazione la torsione del filo e intorno al quale il filo stesso si avvolge;
2 per traslato furbesco membro maschile, verga, asta
11.Nun vulé fà carte
Cominciamo con il dire che l’espressione è mutuata ovviamente dal giuoco delle carte e che l’espressione è da tradursi con Non voler distribuire le carte e non con un inconferente Non voler fabbricare le carte come – inorridendo – mi occorse di cogliere sulle labbra di uno spocchioso, ma sprovveduto sedicente cultore esperto a sentir lui di proverbi e/o locuzioni partenopee. In effetti l’espressione fare le carte è usata anche fuor dell’àmbito napoletano e vale distribuire le carte o talora, se riferito ad un/una cartomante, sta per leggere le carte, ma in nessun caso fabbricare le carte Tanto premesso partendo come détto dall’esatta traduzione Non voler distribuire le carte è facile cogliere che con l’espressione ci si riferisce ad un soggetto che prepotente ed arrogante non intende mai assumersi il còmpito di cartaro,sia cioè restio a farsi carico di svolgere il còmpito che invece in ògni giuoco di carte deve essere svolto per avvicendamento da tutti i giocatori,; il soggetto di cui dico invece pretenderebbe di esser sempre servito di carte, piuttosto che farle, per poter aprire il giuoco a suo piacimento e non esser costretto (da cartaro) a chiuderlo accodandosi al giuoco altrui. In tal senso colui che non vuol far carte è il soggetto che in ogni occasione non intende addivenire ad alcuna proposta e si dimostra riottoso ad accodarsi alle altrui idee o iniziative,recalcitrante persino a discuterne; è il soggetto che presuntuoso e supponente si pone davanti la realtà contigente con la boria di avere lui le soluzioni adatte ad ògni tipo di problema mostrandosi indocile all’accoglimento di proposte che abbiano fatto altre persone e senza distinguere se si tratti di cattive o di buone, di perseguibili o campate in aria; vengono da altri? Ed allora per il saccente che non vuol far carte, non sono accettabili e non mette conto neppure discuterne!
In senso esteso infine l’espressione in epigrafe si attaglia a qualsiasi persona sia restia ad addivenire ad alcunché; per cui ad es. nun vo’ fà carte una ragazza che rifiuti le avances di un corteggiatore, nun vo’ fà carte un genitore che rifiuti di soddisfare le richieste pecuniare d’un figliolo, nun vo’ fà carte una mamma che opponga un rifiuto al desiderio d’ una figliola che vorrebbe un abito nuovo, nun vo’ fà carte una moglie che respinga l’istanza di preparare un’elaborata pasta al forno o che opponga alle richieste del coniuge, un improvviso mal di capo e cosí via.
12.Nun fa/fà ascí ‘o ggrasso fora d’ ‘a pignata. Letteralmente l’espressione si traduce con : Non fa/fare uscire il grasso fuori della pignatta. Passando al campo applicativo preciso che la locuzione à un doppio significato:
1) in primis essa vale una sorta di constatazione osservando l’atteggiamento di qualcuno/a che sia molto misurato/a nei consumi, tanto accorto/a e/o parsimonioso/a da evitare qualsiasi spreco al segno di non permettere che il condimento in cottura trabocchi per eccessivo bollore dalla pentola e tale accezione è quella esatta allorché il fa dell’espressione è la 3ª pers. sg. indicativo presente dell’infinito fà.
2)Tutt’altro significato prende l’espressione allorché il fa’ dell’espressione è la 2ª pers. sg. imperativo dell’infinito fà. In tal caso la locuzione diventa non una costatazione, ma quasi un ordine perentorio a non far traboccare il condimento dalla pentola di pertinenza. Tuttavia mentre nel caso sub 1) la locuzione può essere tranquillamente intesa nel senso letterale con riferimento alla avvedutezza e/o parsimonia di chi si adopera per evitare che si cada nell’eccesso facendo traboccare il condimento o conferito in maniera sovrabbondante,o non tenuto sotto controllo durante la sua cottura, nel caso sub 2) con l’uso dell’imperativo l’espressione non si deve intendere come un consiglio/ordine a non far traboccare il condimento o conferito in maniera sovrabbondante,o non tenuto sotto controllo durante la sua cottura,ma deve intendersi in senso traslato come consiglio/ordine dato ad un familiare di non lasciar trapelare all’esterno dando in pasto ai terzi i fatti e/o i problemi di famiglia che vanno rigorosamente tenuti segreti e sotto il controllo di chi compone la famiglia.Ed ancóra l’espressione sub 2) in un suo sotteso significato metaforico vale: adoperarsi per non permettere che le risorse familiari travalichino i sacrosanti confini della famiglia per essere destinate ad estranei e/o a parenti non molto prossimi.
Giunti qui , prendiamone in esame alcune parole:
‘o ggrasso letteralmente il grasso= condimento ricavato dalla sottocute del maiale; ovviamente qui è usato nel senso traslato ed estensivo di risorsa economica; la voce a margine è un sost. neutro (la gran parte degli alimenti in napoletano è di genere neutro) derivato dal lat. volg. grassu(m), da crassus 'grasso', forse per incrocio con grossus 'grosso';
ascí = uscire, venir fuori, debordare voce verb. infinito dal lat. volg. parlato *axire marcato su exire, comp. di ex- 'fuori' e ire 'andare';
fora avv. di luogo= fuori, all'esterno di qualcosa, non in esso; anche, lontano da esso; voce derivato dal lat. fora(s) collaterale di fŏri(s) donde l’italiano fuori.
la voce pignata/pignato s.vo f.le/m.le nell’unico significato di pentola di coccio bassa, ma capace riprende forse per adattamento la voce toscana pignatta→pignata
s. f. , che anticamente fu anche: pignatto→pignato s. m. nei significati di
1) pentola molto capace, per lo piú di terracotta | (fam.) qualunque tipo di pentola. dim. pignattella, pignattina, pignattino (m.)
2) sorta di mattone forato impiegato nella costruzione dei solai. Tutto ciò sempre che non sia vero il contrario e cioè che un/una originario/a pignato/a partenopei non siano diventati pignatto e pignatto nell’italiano;
L’etimo è incerto; forse da un deriv. del lat. pinguis 'grasso', col sign. di 'recipiente per conservare il grasso, la sugna;con una lettura metatetica di pinguis→pignuis addizionato di apta→atta donde *pignatta (adatta a contenere il grasso).
Tuttavia un'altra scuola di pensiero ( alla quale mi piace aderire!) pensa ch'essa voce pignata possa derivare dal latino pineata(olla)in quanto il coperchio della pignata termina e terminava quasi sempre a mo' di pigna (in latino pinea donde pineata→pignata).
E cosí penso d’aver convenientemente interessato i miei consueti ventiquattro lettori e chiunque si soffermasse a leggere queste mie paginette e d’esser riuscito ad illustrare alcune tipiche espressioni della parlata napoletana costruite con la negazione NUNper cui reputo di poter mettere il punto fermo con il consueto satis est rinviando alibi per altre espressioni con la voce pignata.
Satis est.
Raffaele Bracale

SCARPARO – CALZOLAIO etc.

SCARPARO – CALZOLAIO etc.

Questa volta per qualche mia ricerca linguistica, prenderò l’avvio da una poesia di Ferdinando Russo (Napoli 1866- ivi †1927) a mio avviso il piú grande poeta napoletano, oltre che drammaturgo, narratore e ricercatore, poeta il cui espressivo linguaggio aveva le sue profonde radici nel piú autentico humus popolare,oltre che storico(Reame delle Due Sicilie) al contrario di Salvatore Di Giacomo(Napoli, 12 marzo 1860 – ivi †, 4 aprile 1934), poeta e letterato, traditore delle sue origini storiche, d’estrazione ed ispirazione borghese assurto però a vate della poesia napoletana per il merito di un paio di canzoni ben musicate,ma sorattutto per buoni uffici di don Benedetto Croce, che si incaricò di fargli da mentore e sostenitore nonché del critico letterario Francesco Flora che ne curò la pubblicazione dell’opera omnia presso l’editore milanese Mondadori; torniamo a Ferdinando Russo ed alla poesia donde trarrò materia di indagine; la poesia è intitolata :SAN CRISPINO e fa parte di un surreale poemetto ‘Mparaviso, scritto giovanissimo (25 anni) nel 1891 di getto dal Russo in una sola notte nella redazione de’ IL PUNGOLO (quotidiano napoletano diretto da tal Jacopo Comin, quotidiano che era destinato a lettori un po’ piú raffinati di quelli del ROMA che era il quotidiano letto dal popolino), al ritorno da una sua ascensione con il pallone areostatico Urania, ascensione che lo aveva portato a volare su Napoli ad una altezza di circa 3600 metri. I lettori de IL PUNGOLO, a malgrado fossero piú colti e preparati di quelli de IL ROMA apprezzavano molto il corposo, rapido e popolaresco verseggiare di F. Russo e la sua prosa scorrevole e di gran presa. Una prima notazione linguistica che mi occorre di fare è che il Russo usò per titolare il suo poemetto la grafia scorretta ‘NPARAVISO in luogo della piú corretta ‘MPARAVISO, tenendo in non cale la norma che vuole che quando la preposizione in diventa proclitica di un sostantivo che inizia con una consonamte labiale esplosiva: p o b, perde la i d’avvio sostituita dal segno (‘) dell’aferesi e muta la enne che diventa emme,spingendo talvolta all’assimilazione la consonante d’avvio come ad es. nel caso di in bocca → ‘mbocca →‘mmocca. Ma ad un giovane poeta si può perdonare qualche piccolo errore!
Ciò detto leggiamo la graziosa poesia:
San Crispino
San Crispino 'o ntussecuso
tu già saje ca fa 'o scarparo!
È nu piezzo 'artigliaria
ca nun c'è chi le sta a pparo!

Ogne ghiuorno fa ‘na storia
mo pe cchesto e mmo pe cchello,
e, ‘nfuscato, afferra 'a suglia,
'o bisecolo, 'o martiello...

‘Na matina, 'o Pat'Eterno
le mannaje, pe' 'e ffà accuncià,
’na pareglia 'e meze-cape.
Corre n'angiulo, e lle fa:

- San Crispí, dice 'o Signore
ca lle miette 'e mmeze sòle !
Vo' ‘na cosa acconcia acconcia... -
- Ma che songo, ‘sti pparole?

Saje ca parle cu n'artista
e nun già cu ‘nu schiappino?
Ma comm'è, te sî scurdato ,
ca me chiammo san Crispino?

Posa 'e scarpe e va’ vattenne,
pecché, ô riesto nce penz'io! -
- No, serveva pe te dicere
ca ‘sti scarpe songo 'e dDio... -

-N'ata vota mo?! Vattenne,
ca t'avvío ‘na forma appriesso!
Síano 'e scarpe 'e chi se sia,
ca pe mme so' tutte 'e stesse !

Doppo n'ora l'angiulillo
torna tutto appaurato.
- Viene 'a cca, pòrtale 'e scarpe!
Tanto 'e pressa t'à mannato?

E dincelle: - Vo' tre llire!
Ve l 'à fatte quase nove !
Nce à mettuto 'e guardiuncielle,
'e ppuntette, tacche e chiuove! -

L 'angiulillo, aizanno vuolo,
va addu dDio. -Quante ne vo'? -
- Vo' tre llire...- - Ma ch'è pazzo? -
- Che ne saccio, neh Signó?

Chillo sta accussí arraggiato!
N'atu ppoco me magnava! ...
Si ll'avisseve sentuto
comme ddiece jastemmava!

- Lassa sta'! Mo nce vach'io...
E scennette. - San Crispí?
- Gnò! - Ched'è ‘sta jacuvella?
Sti denare 'e vvuó accussí? ... -

- Accussí? Mannaggia â morte!
Vi' che capa gluriosa!...
O pavate, o, n'ata vota,
mo ve scoso tutte cosa!

Tu capisce? lo nun t' 'o spieco!
Cammurristo, chistu cca!
N' 'a fa bbona manco a dDio!
Miette a bbevere, paisà!

Cominciamo a coglierne le parole e/o le espressioni interessanti;
- ‘ntussecuso : letteralmente è chi è facilmente irascibile, aspro nei modi e nelle maniere, sdegnoso, quando non velenoso; etimologicamente deverbale di ‘ntussecà che dal latino in-toxicare che è formato da un in (illativo) + il sostantivo toxicum (normale la evoluzione della x in ss; il basso latino toxicum(forgiato su un greco toxikòn)= veleno, ma pure rabbia, sdegno divenne in napoletano tuosseco, ma pur partendo da quel basso latino, vi pervenne attraverso lo spagnolo tosigo.
- Scarparo: letteralmente non è il ciabattino, colui che accomoda le scarpe rotte (costui, e lo vediamo, in corretto napoletano è ‘o solachianiello ), ma è il fabbricante di scarpe,in linea con l’etimologia del termine scarparo che è dal portoghese-spagnolo escarpa con l’aggiunta di un suffisso di attinenza arius→ aro di reminescenza latina; come si evince dalla lettura della poesia il san Crispino protagonista non è un autentico scarparo id est: fabbricante di scarpe, ma solo un irascibile ciabattino, che accomoda scarpe rotte o consunte: un semplice solachianiello etimologicamente derivante dall’addizione del verbo sola (ind. pres. 3° p. sg. di suolare (derivato del sostantivo suola) con il sostantivo chianiello maschile ricostruito d’una originaria chianella = pantofola, da un latino planus diminutivo femminilizzato attraverso il suffisso: ella; come vedemmo alibi, normale la mutazione di pl in chi; il Russo accreditò san Crispino d’essere uno scarparo e non un solachianiello perché nella devozione popolare napoletana, ma non solo, san Crispino e suo fratello Crispiniano ( che erano di nobili origini romane, ma – convertitisi al cristianesimo – si trasferirono in Francia a diffondere il Vangelo,si adattarono,per sopravvivere, a lavorare di notte facendo i calzolai, ed in Francia, durante la persecuzione di Diocleziano, trovarono il martirio a fil di spada) sono ritenuti santi protettori dei calzolai e solo estensivamente dei ciabattini;rammenterò qui una curiosità e cioè che una tradizione veneta,contrariamente a quella partenopea, non menziona San Crispiniano mentre lega la figura di Crispino al vino ed ai bevitori di vino, (ottobre – la festa dei due santi cade il 25 ottobre - è il periodo in cui si fa l’operazione della svinatura) ed inoltre si storpia il nome in Graspin (affine a graspo = grappolo) facendolo diventare il patrono degli ubriachi.
- piezzo ‘artigliaria: ad litteram starebbe per pezzo di artiglieria, ma estensivamente e per enfasi sta per: uomo cosí grosso e prestante da poter addirittura trasportar da solo un pesante pezzo (bocca da fuoco) di artiglieria (etimologicamente dal fr. artillerie quale complesso delle armi da fuoco montate su affusto: obice, mortaio,mitragliatrice etc.)nell’immaginario di F. Russo san Crispino è pensato corpulento e prestante…;
- ‘nfuscato: letteralmente infoscato, rannuvolato, annebbiato e quindi accigliato,nervoso, adontato; etimologicamente part.pass. del verbo ‘nfuscarse= infoscarsi etc. che è dal solito in (illativo) + fosco dal latino: fuscu(m)= affuscato, cupo, minaccioso;
- Suglia, bisecolo, martiello: sono tre tipici strumenti di lavoro del ciabattino e precisamente nell’ordine: subbia o lesina, lisciatoio, martello; suglia è esattamente la lesina strumento appuntito atto a forare il cuoio e a farvi passare con l’ausilio di un’ asola presente quasi sulla punta, lo spago impeciato usato per cucire la suola della scarpa; etimologicamente la parola suglia è dal latino subula(m)→subla(m) con la tipica mutazione di bl in gli che dà altrove ad es. neglia da nebula(m)→nebla(m) = nebbia etc.
- Bisecolo: è propriamente il lisciapiante arnese da calzolaio, di legno di bosso o di metallo, che serve a levigare e lucidare le suole e i tacchi; in toscano è reso con il termine bussetto forse perché – come détto – in origine di bosso, mentre il napoletano bisecolo etimologicamente dal fr. besaigue, comp. di bes-'bi-' e aigue'acuto' in quanto arnese provviso di un doppio taglio laterale, atto a togliere eventuali asperità al cuoio e renderlo levigato e lucido;
- Martiello : è ovviamente il martello etimologicamente da un tardo latino martellu(m), variante del class. martulus o marculus, dim. di marcus 'martello'
quello dei ciabattini e scarpai si differenzia da tutti gli altri martelli per aver la testa battente rotonda e poco ampia e non a forma di parallelepipedo, mentre il cuneo opposto alla testa è liscio e senza incavi (come invece càpita nei martelli da fabbro e falegname dove serve a cavar i chiodi) inadatto a tirar via i chiodi ;
- Accuncià: propriamente aggiustare, ripristinare, ma alibi anche acconciare, condire; va da sé che nella poesia il verbo va inteso nelle prime due accezioni, sebbene etimologicamente esso derivi da un latino ad+conciare denominale di un basso latino comptium = preparazione da riportare al comere= cum- emereprendere con, assumere;
- ‘na pareglia ‘e meze cape: letteralmente un paio di scarpe basse piuttosto consunte e logore; pareglia = coppia, paio etimologicamente dallo spagnolo pareja da far risalire al latino par/paris; meze cape= come ò detto si tratta di scarpe basse, ma è voce ironica da riallacciare al termine capezza= cavezza dal latino capitía,briglia della testa; essendo la scarpa una sorta di briglia del piede, ironicamente è una mezza cape(zza) e quindi meza capa;
- Acconcia acconcia letteralmente aggiustatissima, fatta molto bene, ad arte; rammenterò che in napoletano la reiterazione dell’aggettivo qualificativo di grado positivo quasi sempre serve a formare il superlativo dell’aggettivo medesimo o ad espanderne la qualità. Ad es. chiatto chiatto sta per grassissimo, luongo luongo per lunghissimo o altissimo come il curto curto vale bassissimo e cosí via; quanto all’etimologia mette conto risalire a quanto détto per il precedente accuncià;
- Schiappino: letteralmente starebbe per piccola scheggia in quanto diminutivo reso maschile di schiappa etimologicamente deverbale. dell'ant. schiappare 'spaccare legna', forse di origine onom.; poi taglialegna', ed anche'uomo rozzo, inetto, incapace che è l’accezione di cui nella poesia;
- abbío: voce verbale (ind. pres. 1ª pers. sg.) del verbo abbià=avviare, porre in moto e, nell’accezione della poesia: lanciare contro; etimologicamente forma verbalizzata, attraverso un latino ad-viare del sostantivo via;
- forma: ecco un altro tipico strumento di lavoro del calzolaio, ciabattino etc; è quel rigido modello di legno usato per montare e sostenere il tomaio e la suola di una scarpa in fabbricazione o riparazione; etimo che attraverso un latino forma, da for, far = reggere, sostenere, viene da un’ antica radice sanscrita dahr;
- appriesso: avverbio dai moltepici significati: dopo, in seguito e qui: dietro; etimologicamente da un latino ad + pressum = vicino a con dittongazione della sillaba implicata (seguita da due consonanti).
- appaurato : letteralmente: impaurito, preso dal timore etimologicamente denominale da ad + paura
- pressa: notoriamente si tratta della fretta, dell’ urgenza, dell’ impellenza; etimologicamente attraverso lo spagnolo priesa ed il portoghese pressa deverbale di un latino pressare forma intensiva e frequentativa di premere = incalzare;
- guardiuncielle: s.vo m.le dim. pl. di guardiunciello una delle parti del tomaio (o tomaia che è la parte superiore della calzatura, in pelle o tessuto, che cucita alla sottostante suola forma la scarpa; etimologicamente la parola tomaio/a è dal greco tomaíos= tagliato o da un tomàri= pezzo di cuoio) della scarpa e precisamente i tramezzi laterali che chiudono il tomaio intorno al piede, tramezzi cuciti tra suola e tomaio a sostegno e messo quasi a guardia (donde il nome) della consistenza laterale della scarpa; rammenterò che anche in veneziano il medesimo tramezzo è chiamato guàrdolo o guardióne e non fa meraviglia il fatto che sia napoletani che veneziani abbiano potuto forgiare i loro termini su di un portoghese guardia o uno spagnolo guarda; in fondo sia napoletani che veneziani furono gran marinai e naviganti ed entrarono in contatto con numerose nazioni rivierasche; l’unica differenza da notare è che mentre il veneziano usa o un termine diminutivo: guàrdolo o uno accrescitivo guardióne mentre il napoletano solo un termine diminutivo guardiunciello ;
- puntette : precisamente piccole punte; infatti un tempo ‘a puntetta fu un piccolo rinforzo metallico a forma di mezza luna inchiodato alla punta della suola e dunque della scarpa per proteggere la punta medesima da eccessive sollecitazioni durante la deambulazione e perciò da probabile veloce logoramento di quella parte della suola. Va da sé che la puntetta, etimologicamente diminutivo di punta che è da un tardo latino puncta(m) deverbale di pungere, non è applicata a scarpa nuova, ma a quella già consunta e logora, nel tentativo di ripristinarne la saldezza iniziale;
- tacche: si tratta ovviamente dei tacchi i rialzi posteriori delle scarpe attaccati sotto i calcagni; etimologicamente con ogni probabilità dallo spagnolo taco da una radice tac = appiglio, aggancio;
- chiuove: che sono ovviamente i chiodi, barrette metalliche di varie forme e dimensioni, generalmente appuntite ad un'estremità e con una testa piú o meno larga all'altra, che serve a unire fra loro parti di metallo, legno o altro materiale; etimologia latina da clavu(m).
E penso di poter far punto qui avendo già alibi et passim illustrato ad abundantiam altri termini quali jacuvella e cammurista.
RaffaeleBracale

‘A SOCCIA MANA STEVA APPESA ‘INT’Ê GUANTARE

‘A SOCCIA MANA STEVA APPESA ‘INT’Ê GUANTARE
Questa volta sollecitato dalla richiesta dell’amico L. P. (i soliti problemi di riservatezza m’impongono l’indicazione delle sole iniziali…) parlo qui di sèguito dell’antica icastica espressione in epigrafe, illustrandone significato ed uso e fornendo un rapido esame delle parole che la formano, augurandomi di contentare l’amico L.P. ed interessare qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Ciò détto scendo in medias res, dando la traduzione della locuzione antica, ma ancóra in uso soprattutto tra i napoletani d’ antan. Letteralmente essa vale: L’identica mano stava (cioè era) sospesa nei (negozi della strada dei) guantai.
Va da sé che la mano di cui si parla non è, né potrebbe mai essere una reale mano; si tratta infatti d’una mano in effigie, di un simulacro costruito in legno, stoppa e cuoio, rappresentante una mano guantata aperta e con le cinque dita ben distese da usarsi quale insegna sospesa al centro delle architravi delle numerose botteghe di fabbricanti e venditori al minuto di guanti lí nella strada napoletana dei Guantai un tempo (fine ‘700) Vecchi e poi (dopo l’abbattimento e ricostruzione operati nel dopoguerra) Guantai Nuovi strada sita a Napoli tra via San Tommaso d’Aquino e via Armando Diaz, strada che come ricordano i napoletani di vecchio conio odorava o putiva (a seconda dei gusti) per le esalazioni di quella famosa (un tempo!) colla ‘e retaglie (colla di ritagli, usatissima da mobilieri e doratori) fabbricata sull’uscio delle botteghe per bollitura servendosi appunto degli scarti (fodere o pellami) residui della lavorazione dei guanti. Faccio notare che abbenché siano quasi del tutto sparite botteghe e negozi di fabbricanti e venditori al minuto di guanti la strada continua ad esser détta dei Guantai Nuovi . Tanto premesso passiamo demum ad illustrare il significato sotteso e l’uso dell’espressione in epigrafe che viene còlta in senso ironico e perciò antifrastico sulle labbra di chi intenda rivolgersi a o voglia parlare irrisoriamente, canzonatoriamente di una persona taccagna, avara, incapace di qualsiasi elargizione, restia a mostrarsi generosa, prodiga, munifica, insomma un soggetto inidoneo ad allargar la propria mano alla maniera di quella sospesa nei guantai preferendo tenerla ben rinserrata come gli dètta la sua natura tirchia, spilorcia, avida, esosa ed ingorda. Da tanto si evice tutta la portata sardonica, sarcastica, beffarda, oltre che pungente, graffiante, mordace, caustica dell’espressione in esame.
Passiamo all’esame delle parole:
soccia= stessa, uguale, pari agg.vo f.le del m.le suoccio = stesso, uguale, pari; etimologicamente la voce di partenza è quella m.le che è derivata dal lat. sŏciu(m)→ sŏcciu(m)→suoccio con raddoppiamento espressivo della l'occlusiva velare sorda (c) e normale dittongazione della ŏ→uo; la voce femminile fu ricostruita su di una sŏcia(m) ma in questo caso, per questione di metafonesi (cambiamento di timbro di una vocale tonica per influenza di un'altra vocale appartenente alla sillaba finale della parola) non si ebbe la dittongazione della ŏ pur mantenendosi il raddoppiamento espressivo della l'occlusiva velare sorda (c).
steva appesa letteralmente stava appesa che in napoletano corrisponde ad era appesa voce verbale (3ª pers. sg. imperfetto ind. passivo) dell’infinito appennere = sospendere, attaccare, agganciare, appiccare; voce dal
lat. appendere→appennere (con assimilazione progressiva nd→nn) 'pesare', poi 'appendere', comp. di ad e pendere 'sospendere';

‘int’ê/ dint’ê néi/negli altrove anche nelle prep. art. qui m.le, ma alibi, come ò détto anche f.le formata da dinto a e dall’ articolo pl. ‘e (i/gli/le); rammento che con dinto a e gli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) si ànno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,néi/negli/nelle; dinto/’into avv./preposizione impropria =dentro, in è dal lat. dí intro→dint(r)o→dinto 'da dentro');
guantare = guantai,fabbricanti e/o venditori di guanti s.vo m.le pl. di guantaro guantaio,fabbricante e/o venditore di guanti con etimo, quale denominale da un francone want addizionato del suff. di pertinenza arius→aro.
E qui penso di poter chiudere queste paginette, augurandomi d’essere riuscito ad accontentare l’amico L.P. ed aver interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori.
Satis est.
Raffaele Bracale

sabato 30 luglio 2011

IL VERBO JÍ (andare) E LE SUE LOCUZIONI.

IL VERBO JÍ (andare) E LE SUE LOCUZIONI.
Il verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da *aditare frequentativo di adire è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare') è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito. Prima di esaminarne qui di sèguito qualcuna, preciso che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso ghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª pers. pl che è lloro vanno. E veniamo alle locuzioni:


1.Jirsene carreco ‘e meraviglie
Ad litteram: andarsene carico di meraviglia. id est: allontanarsi stupefatto, in preda alla massima meraviglia, da un luogo dove si è assistito o dove si è partecipato - magari involontariamente -ad avvenimenti sconvolgenti o grandemente allibenti; per traslato si usa dire di chi si allontani da un luogo o da una persona dopo d’aver subíto una dura reprimenda o rampogna.
Carreco/a agg.vo m.le o f.le = letteralmente carico, caricato(estens.) sovraccarico, traboccante, (fig.) oppresso; etimologicamente la voce napoletana è connessa a carrus (cfr. la doppia liquida rispetto alle scempia dell’italiano carico) addizionato del suffisso di pertinenza icus/ica.
2. Jirsene muro - muro
Ad litteram: andarsene rasentando il muro; id est: allontanarsi alla chetichella, quasi sfiorando un muro allo scopo di non farsi notare, non dando nell’occhio.
3. Jirsene oppure venirsene tinco - tinco
Ad litteram: allontanarsi come un tincone oppure avvicinarsi sollecitamente (come un tincone); id est: sparire da un luogo rapidamente e con una buona dose di faccia tosta, quasi dando ad intendendere che l’avvenimento cui si è partecipato e da cui ci si allontani non ci riguardi, né chiami in causa, oppure (nel secondo caso) accostarsi ad un luogo rapidamente e con una buona dose di faccia tosta, quasi dando ad intendendere che l’avvenimento cui si intende partecipare sia di nostra competenza o ci chiami in causa, quantunque nessuno ci abbia invitati o sollecitati in quel senso; in questo secondo caso lo si usa con icastico riferimento a tuti quegli inoportuni comportamenti di saccenti e supponenti adusi ad intromettersi nelle altrui faccende per esprimere pareri o dispensare importuni consigli non sollecitati.
A margine rammento altre tipiche espressioni modali che si ricollegano al verbo andare; abbiamo:
venirsene oppure jrsene ruglio ruglio (id est: venir mogio mogio, piano piano,ovvero accostarsi lentamente, quasi contando i passi, come chi sia pieno, zeppo, stipato di cibo e dunque sia costretto a muoversi lentamente, mogio mogio. Vale la pena di ricordare che l’espressione ruglio ruglio, nella sua reiterazione dell’aggettivo di grado positivo ne sostanzia il superlativo che, al solito, in napoletano non à la forma del suffisso in issimo, ma si forma reiterando l’aggettivo di grado positivo come avviene p. es. con chiatto chiatto o luongo luongo o ancora curto curto che rispettivamente stanno per grassissimo,altissimo (o lunghissimo), bassissimo e dunque ruglio ruglio sta per pienissimo.
Rammenterò appena che l’espressione venirsene ruglio ruglio non va confusa con quella che recita:
venirsene tinco tinco or ora illustrata, di significato diametralmente opposto: venirsene sollecitamente, né va confusa con l’espressione usata dal famosissimo Totò: venirsene tomo, tomo, cacchio cacchio, espressione che come ebbi modo di chiarire altrove sta per: agire con improntitudine, faccia tosta.
Un’ ultima notazione; etimologicamente la parola ruglio è un chiaro deverbale forgiato sul verbo latino: turgulare frequentativo di turgere: inturgidire;
E, a mo’ di completamento rammenterò che sia in calabrese che in napoletano d’antan esiste il verbo ‘ntrugliare = ingrossare forgiato ugualmente sui verbi latini di cui sopra. Ancóra l’espressione napoletana
jí cuonce cuonce è un’espressione avverbiale che vale: andare, agire piano, piano – senza fretta – accortamente – con cautela,precisione e circospezione – lentamente; l’espressione si sostanzia nell’iterazione del sostantivo cuonce (plurale di cuoncio), ma nel caso in esame l’iterazione non mira a formare un superlativo come nel napoletano avviene normalmente, ed ò già déto, alibi sia con sostantivi, ma soprattutto con aggettivi (cfr. sicco sicco (=magrissimo), chiatto chiatto (=grassissimo), luongo luongo (=altissimo o lunghissimo) tinco tinco (=rapidissimo come una tinca)etc. Nel caso in esame ci si ricollega al sostantivo cuonce (plurale di cuoncio) per richiamarne, con l’iterazione, la cautela lenta e circospetta usata nel portare a compimento un’opera muraria (quella che gli antichi romani dissero opus quadratum o opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali di piccole piramidi di tufo o altra pietra, e tenendone la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.
Chiarisco: in napoletano il sostantivo cuoncio (di cui cuonce è il plurale), con etimo quale deverbale da conciare (che è dal lat. volg. *comptiare, deriv. di comptus 'ornato, adorno', da comere 'mettere insieme'), à molti significati: concime, letame (per concimare), belletto, condimento (cfr. ‘o cuoncio acconcia= il belletto, il condimento rende migliore la persona o il cibo), ma indica pure (concio) ognuna di quelle piccole piramidi di tufo o altra pietra di cui sopra; per cui con la locuzione avverbiale cuonce cuonce si intende richiamare la lentezza, la cautela, la precisione maniacale e circospetta da usarsi (procedendo un concio per volta) nel porre in essere l’ opus quadratum o opus reticulatum; allo stesso modo con medesima studiata lentezza, cautela, e precisione deve comportarsi nel suo agire chi sia invitato ad operare cuonce cuonce. E passiamo all’espressione jrsene o venirsene cacchio cacchio che è andarsene o venirsene in maniera strana; infatti cacchio, cacchio ad litteram sta per: strano, strano (nell’espressione in esame: avvicinarsi o allontanarsi strano, strano)Espressione usata per significare l’atteggiamento di chi, facendo finta di nulla, mogio mogio, con indifferenza ed ostentata tranquillità, si prepara invece ad agire proditoriamente in danno di terzi, quasi che si accostasse al luogo dove agirà, con studiata noncuranza, o se ne allontanasse dopo d’avere agito con proditoria e dannosa indifferenza.
Da rammentare che l’espressione a margine era usata da Totò, il principe del sorriso, sommandola con la pleonastica espressione
- tomo tomo espressione inutile in quanto di uguale portata e/o significato, ma di minor presa; ò detto pleonastica perché, mi pare che non ci fosse stato il bisogno di chiarire o aumentare la portata del cacchio cacchio napoletano, espressione - al contrario - molto piú corposa e pregnante, per il vocabolo usato, dell’algido tomo tomo, espressione che pur napoletana è costruita con un vocabolo italiano presente altresí nella esprespessione dell’italiano essere un bel tomo nel senso di essere un tipo strano, bizzarro di grande improntitudine . L’espressione jrsene o venirsene cacchio cacchio non va confusa con quella jrsene o venirsene tinco tinco precedentemente illustrata, di significato molto diverso: venirsene sollecitamente.



4. Jammo, ca mo s’aiza
Ad litteram: andiamo, ché adesso si alza; id est: muoviamoci ché il sipario sta per andar su; locuzione usata un tempo dai servi di scena per avvertire gli attori di tenersi pronti, essendo prossimo l’inizio dello spettacolo, ed usata oggi per sollecitare chiunque in vista dell’inizio di qualcosa cui debba partecipare.
5. Jirsene ‘nzogna ‘nzogna
Ad litteram: andarsene sugna sugna locuzione che non attiene alla sfera culinaria, ma che è usata per commentare il lento consumarsi o deperirsi di una persona che si sciolga quasi a mo’ di sugna
‘nzogna s.vo f.le = sugna, strutto;
preciso súbito che la voce napoletana a margine che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.

6. Jettà ll’uosso ô cane
Ad litteram: buttare l’osso al cane id est: fare o far le viste di fare gratuite concessioni; locuzione che si usa a commento delle azioni di chi sembra quasi si conceda magnanimamente, laddove invece è tenuto a quel comportamento; altrove essa è usata a caustico commento dei comportamento di chi ottenuto un chiaro tornaconto da un’azione altrui, mostra di non apprezzarla quanto dovuto .
7. Jirsene a cascetta nell’espressione te ne vaje a cascetta!
Letteralmente: Andarsene a cassetta.nell’espressionete ne vai a cassetta! La cassetta in questione è quella del cocchiere di carrozza padronale o del vespillone : il posto piú alto, ma anche il piú scomodo e il piú faticoso da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri vivi o morti che fossero. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la eccessiva dispendiosità o fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano; infatti l’espressione viene usata a salace consiglio verso chi si accinga a cominciare qualcosa gravosa e probabilmente inutile; spesso la locuzione è preceduta da un imperioso siente a mme, lassa perdere (ascoltami, lascia perdere).
8. Jí a ffranco.
Letteralmente: andare esente/libero id est: comportarsi in modo da essere esente dal rimetterci o danaro o altro, agire in maniera da venir fuori indenni da talune situazioni, senza rimetterci; locuzione usata specialmente in forma di imperativo esortativo quale è: Jammo a ffranco (andiamo esenti!/liberi (da condizionamenti))
9. Jí allicchetto oppure a llicchetto o anche a cciammiello
Letteralmente: andare alla perfezione; locuzione riferita a tutte quelle cose che evolvono positivamente, quasi perfettamente con riferimento al loro stato di tenuta richiamante quello di un valido lucchetto, oppure con riferimento al riuscito stato di forma che richiama una ben costrutta ciambella.Da notare come l’espressione a licchetto si sia fusa in allicchetto trasformandosi in un avverbio modale.
10. Jí a mmare cu tutte ‘e panne
Letteralmente: finire in mare completamente vestito id est: subire un tracollo economico di grandissima portata con tutti i danni relativi, come chi sia finito in mare completamente vestito e corra il rischio di esser trascinato in fondo dal peso dei vestiti imbevuti d’acqua.
11. Jí â perimma
Ad litteram: marcire locuzione usata con riferimento alle merci, in ispecie alle vettovaglie, che stanno per ammuffire o che già siano diventate ammuffite o marce; per traslato la locuzione è usata anche con riferimento alle persone che invecchino male, deperendo nel fisico ed intellettualmente perdendo colpi.
12. Jí ascianno coccosa7
Ad litteram: andare alla ricerca di qualcosa, ma farlo con intensa applicazione comportandosi quasi come un cane che annusi per trovare la traccia cercata; il termine asciare della locuzione deriva infatti dal latino adflare (annusare) con il tipico mutamento partenopeo FL in SCI come per il latino flos diventato sciore in napoletano.
13. Jí cu ‘a faccia dint’ô panecuotto variante Jí cu ‘o musso dint’â mmerda.
Ad litteram: Finire con la faccia nel pan cotto variante finire con il muso nello sterco
La locuzione in epigrafe e la sua variante è usata per significare il comportamento di tutti coloro che per propria ingenuità o insipienza finiscono per fare meschine figure al pari di un bimbo che si sia imbrattato il volto mangiando pan cotto; la variante, molto piú dura ed icastica prende a modello il comportamento del maiale che frugando nel porcile alla ricerca di cibo, spesso affonda il muso nei suoi stessi escrementi, e viene riferita ai presuntuosi atteggiamenti di coloro che abituati a fare i saccenti ed i supponenti spesso vedono le loro affermazioni, se non le loro azioni vanificate queste, contraddette quelle dalla chiara realtà e finiscono per fare figure cosí meschine da esserne quasi insozzati come un porco dal suo sterco.
14. Jí cu ‘o sibbemolle
Ad litteram: procedere con il si bemolle; id est: andare con estrema calma, lentamente, senza porre eccessiva forza nella propria azione, come un musicista che non usasse, nel comporre che semitoni e mai note piene di forza adeguata.
15. Jí cu ‘o siddivò e cu ‘o senza pressa
Ad litteram: andare con il se-dio-vuole e con il senza-fretta Locuzione di portata simile alla precedente, ma con una piú marcata sottolineatura della lentezza usata nell’agire; locuzione che è usata soprattutto per indicare la neghittosità di chi si dispone ad agire, che lo fa senza quasi porvi volontà, ma fidando esclusivamente nella spinta ed aiuto del Cielo.
16. Jí cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso.
Ad litteram: andare con il piombo ed il compasso id est: agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e precisione alla stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed altri strumenti consimili.
17. oppure jí stocco e turnà baccalà
Ad litteram: Jí cascia e turnà bauglio Andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornar baccalà id est: non approdare a nulla, detto soprattutto con riferimento al mancato impegno di studenti o apprendisti che non ricavano nulla dal loro lavoro o studio che sia al punto che: a) se fossero partiti essendo delle casse tornerebbero dal loro impegno quali baúli cioè sostanzialmente immutati nella loro povera condizione di semplice contenitore, b) se fossero partiti essendo degli stoccafissi ne sarebbero tornati come baccalà, pur sempre cioè misero merluzzo: non facendo grossa differenza l’essere affumicato o l’esser salato .
18. Jí ‘e pressa
Ad litteram: andar di fretta; id est: aver premura, procedere con assoluta rapidità, quasi sollecitato dalla necessità di non perdere tempo. dall’iberico: de prisa di uguale significato.
19. Jí sotto e ‘ncoppa
Ad litteram: andare sottosopra; id est veder ribaltato il proprio status socio-economico; locuzione riferita innanzitutto per significare il fallimento di attività commerciali, ma - per traslato - anche ogni altro rivolgimento che occorra nella vita.
20. Jí ‘e renza , gghí ‘e sguincio e gghí ‘e razzaviello
Le locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la medesima cosa riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è cosí. C’è una differenza sostanziale tra le tree locuzioni;infatti jí ‘e renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghí/jí ‘e sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo, non lineare, in una parola: sleale; con la terza locuzione gghí ‘e razzaviello si ritorna nell’àmbito della deambulazione e solo in quello; la locuzione infatti (indicando precisamente il solo reale procedere a sghimbescio, in maniera ballonzolante a mo’ di trottola per di piú scentrata) non è mai usata in senso traslato come succede invece per gghí ‘e sguincio; non semplicissima l’etimologia del termine razzaviello peraltro assente nella gran parte dei calepini della parlata napoletana; il D’Ascoli che con il D’Ambra fu l’unico a trattare il termine, non lo indicó né come s.vo. né come agg.vo, né lo definí con chiarezza e fantasiosamente lo collegò all’agg.vo razzapelluso= ruvido a sua volta fatto derivare (sempre piú fantasiosamente) da raspulento= ruvido, rugoso, grinzoso; non si capisce proprio quale possa essere la strada semantica seguíta dal D’Ascoli per collegare qualcosa di ruvido, rugoso, grinzoso con qualcosa che proceda di sghimbescio o in maniera ballonzolante. No, non ci siamo! A mio avviso, restio come sono a trincerarmi dietro un pilatesco etimo incerto o sconosciuto, ipotizzo che razzaviello sia un s.vo (usato peraltro solo nella locuzione avv.le indicata) formato attraverso l’agglutinazione del sostantivo razza (variante locale di razzo=raggio di ruota) con un derivato della voce verbale *avellere collaterale di *e(x)vellere= strappare nel significato di raggio (di ruota)allentato o divelto e dunque scentrato e ballonzolante cosa che rimetterebbe a posto la questione semantica e metterebbe fine alle fantasie del D’Ascoli;proseguiamo: sguincio viene dal francese guenchir (procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa; il termine renza viene dal participio presente del verbo latino àerere= aderire; in napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo di fare.In coda rammento che delle tre espressioni solo quella che recita gghí/jí ‘e sguincio (andare di sguincio) è stata accolta nella lingua nazionale, quantunque assegnando al s.vo sguincio il significato di linea, struttura obliqua.di talché in italiano andare di sguincio vale procedere obliquamente e non (come esattamente è nel napoletano) procedere di sghimbescio, tortuosamente. Ma non è da meravigliarsi: è antico vizio di chi fa la lingua italiana, pescare nell’idioma partenopeo spesso però snaturando significato o morfologia delle voci accolte: ‘nu poco ‘e pacienza e ppeggio pe lloro!
21. Jí ‘mparaviso pe scagno
Ad litteram:giungere o meglio conquistare il paradiso per ventura, per puro caso id est: assicurarsi un vantaggio per mera fortuna;, senza alcun merito conseguire rilevanti benefici o grosse utilità.
22. Jí pe sotto
Ad litteram: finire di sotto; id est: essere accusato ingiustamente, esser inopinatamente chiamato in causa e magari pagare il fio di colpe non commesse.
23. Jí giurgiulianno. oppure jí ‘nzunzulianno
Ad litteram: andar bighellonando; id est: andare girozolando, ma farlo alla maniera del giurgio* cioé dell’ebbro, ciondolando, magari a rischio di cadere, andar senza meta e senza scopo; l’alternativa proposta in epigrafe esprime i medesimi concetti, ma è voce piú moderna coniata partendo dal termine zonzo.*etimologicamente giurgio risulta forse essere la corruzione del nomeGiorgio inteso, partendo dalla figura del Santo guerriero, come un gradasso, uno spaccone dall’andatura presuntuosa ed altalenante, tal quale l’ ubriaco.
24. Jí ‘ncasanno ‘e vàsule
Ad litteram: andar calpestando il basolato che è la pavimentazione stradale fatta con blocchi di pietra lavica; locuzione di valenza simile alla precedente con una piú marcata attenzione alla maniera di sciupare il tempo usato per percorrere improduttivamente la strada, bighellonando, ciondolando a dritta e a mancina senza meta o scopo; la locuzione è usata quando ci si voglia riferire, per redarguirli di non fare il proprio dovere o a svogliati studenti o ad accidiosi operai accusati di andar calpestando il basolato, invece di applicarsi alle loro incombenze.
Rammenterò che un tempo le strade erano appena appena sterrate e battute, poi furono pavimentate alla bell’ e meglio con i breccioni di fiume dando vita alle c.d. imbrecciate di cui Napoli fu ricca, si passò poi alla pavimentazione fatta con i grossi parallelepipedi di basalto, periodicamente scalpellato, per impedire che con la consunzione i blocchi risultassero lisci e pericolosamente scivolosi ; si pervenne infine alla pavimentazione con cubetti di basalto o pietra lavica detti in italiano sampietrini ed in napoletano cazzimbocchi ; detti cubetti sono affiancati l’un l’altro su di un letto di sabbia e negli interstizi che ne risultano vien fatta colare della pece bollente che raffreddandosi e rapprendendosi oltre a tener uniti i cubetti assicura una impermeabilità alla pavimentazione stradale.
25. Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
26. Jí p’aiuto e truvà sgarrupo.
Letteralmente: andare (in cerca) d’aiuto e trovare danno; locuzione usata per sottolineare tutte quelle strane situazioni nelle quali , in luogo dell’aiuto richiesto ed atteso si trova danno che naturalmente non fa che peggiorare la situazione per quale s’era chiesto un aiuto.
27. Jí pe cculo e truvà cazzo
Letteralmente: andare (in cerca) di un culo (da sodomizzare) ed imbattersi in un membro maschile (che ti sodomizzi) locuzione di significato simile alla precedente, ma di portata piú furbesca e becera usata per sottolineare una di quelle strane situazioni nelle quali , in luogo del cercato, richiesto ed atteso ci si imbatta in qualcosa che stravolga completamente la faccenda, peggiorandola irrimediabilmente.
28. Jí pe rrazia e truvà justizzia
Letteralmente: andare (in cerca) di una grazia, di un perdono o un’assoluzione(delle proprie cattive azioni) ed imbattersi invece nella giustizia (cioè in qualcosa o qualcuno che facendo giustizia,faccia pagare il malfatto o ne chieda ragione). Anche questa locuzione è di significato simile alle precedenti, ma è di portata piú seria e raffinata ed usata per sottolineare una di quelle sgradite situazioni nelle quali , in luogo dell’auspicato cercato, richiesto ed atteso perdono ci si imbatta in qualcuno che nelle vesti di giusto giudice ci commini una pena rifiutandoci la desiderata grazia.


29. Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine o meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
30. Jí truvanno chi ll’accide nell’espressione: va truvanno chi ll’accide
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
31. Jí truvanno guaje cu ‘a lanternella
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
32. Jí pe fiche e truvà cetrule
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quelle ricordate ai n.ri 26, 27 e 28 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.
33. Jí ô bbattesemo senza ‘o criaturo
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
34. Jí a ppuorto (o a pPuortece) pe ‘na rapesta.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato del porto o addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
35. Jí dinto a ll’ossa.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin nelle ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche e forse soprattutto con riferimento morale.
36. Jí ‘nfreva
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare un’agitazione tale da esser foriera di febbre.
37. Jí mettenno ‘a fune ‘e notte
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale !
38. Jí truvanno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
39. Jí truvanno scescé
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
E qui faccio punto.
Raffaele Bracale