mercoledì 30 novembre 2016

VARIE 16/958

1.'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ A TTUTTE CHILLE CA JASTEMMANO. Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi. 2. 'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono. 'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale 3.'O GALANTOMMO APPEZZENTÚTO, ADDEVÈNTA 'NU CHIAVECO. Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui. Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro. 4.'E FRAVECATURE, CACANO 'NU POCO PE PPARTE E NNUN PULEZZANO MAJE A NNISCIUNU PIZZO. Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio. 5.'E VRUOCCOLE SO' BBUONE DINT’Ô LIETTO. Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati. 6. STATTE BBUONO Ê SANTE: È ZUMPATA 'A VACCA 'NCUOLLO Ô VOJO! Letteralmente: buonanotte!la vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare. 7.QUANNO 'O VINO È DDOCE, SE FA CCHIÚ FFORTE ACÍTO. Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti. 8.'O DULORE È DE CHI 'O SENTE, NO 'E CHI PASSA E TÈNE MENTE. Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere. 9. A 'NU CETRANGOLO SPREMMUTO, CHIAVECE 'NU CAUCIO 'A COPPA. Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai. 10.CHI TROPPO S''O SPARAGNA, VENE 'A 'ATTA E SE LU MAGNA. Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte. 11.MÉNA MO, CH’È CCARNE ‘E PUORCO! Ad litteram: Datti da fare ora, giacché è carne di maiale! Id est: Profitta ora dell’occasione propizia(che ti si presenta) e non tralasciare di godere del bene che ti capita sottomano, qui rappresentato dalla gustosa carne di maiale. Ména voce verbale 2ª pers. sg. dell’infinito riflessivo menarse [dal lat. minare + se] = darsi da fare, prodigarsi Mo [dal lat. mox] avv.di tempo = ora, adesso, in questo momento (per l’esame del lemma rimando alibi). Ch’è[da (per)ch(è) è] = giacchè è, visto che è. Carne s.vo f.le [ dal lat. carne-m, affine al gr. κείρω «tagliare»]. . Parte muscolare del corpo dell’uomo e degli animali. Puorco s.vo m.le [lat. pŏrcu-m con dittongazione della ŏ] Nome popolare del maiale domestico Brak

VARIE 16/957

1.'A CARNE SE VENNE Â CHIANCA 'A carne se venne â chianca. Ad litteram: La carne viene venduta in macelleria. Id est: per acquistare qualcosa bisogna rivolgersi al suo commerciante o per ottenere alcunché bisogna necessariamente rivolgersi a chi ne sia esperto; insomma per ottenere qualcosa, non ci si può fidare del dilettante o di chi improvvisi, ma bisogna rivolgersi sempre al competente ed al professionista. Chianca beccheria, macelleria (dal lat. planca(m)=panca di legno perché un tempo la carne era esposta e sezionata per la vendita al minuto, su di un tavolo di legno; normale il passaggio di pl→chi (cfr. plus→cchiú – plena(m)→chiena - plumbeum→chiummo etc.). ________________________________________ 2 . CHI CAMPA STURTARIELLO CAMPA BUNARIELLO, CHI CAMPA ADDRITTO...CAMPA AFFLITTO! Chi vive di sotterfugi e di espedienti riesce sempre a sbarcare il lunario, chi vuol vivere in modo retto e corretto troverà sempre tante difficoltà sul suo cammino. ________________________________________ 3. ANCÒRA NUN È PPRENA MARIANNA E GGIÀ ÀNNO SPASO FASCIATORE E PPANNE. Letteralmente: Marianna non è ancora incinta e già ànno sciorinato fasce e pannolini Locuzione proverbiale usata a divertito commento delle azioni di chi si predispone e si prepara a qualcosa con evidente eccessivo anticipo. ________________________________________ 4. A PPAVÀ I A MMURÍ, QUANNO CCHIÚ TARDE SE PO’ Ad litteram: A pagare ed a morire, quando piú tardi sia possibile... Id est: È buona norma il tentare di rimandare sine die due cose ugualmente nocive: il pagare ed il decedere. ________________________________________ 5.'E VRUOCCOLE SO' BBUONE DINT’ Ô LIETTO. Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie"(prima di abdicare a questo nome – ceduto ai villici – per assumere quello di “mangiamaccheroni”), sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specialmente nell'intimità, moine che semanticamente sono per traslato appaiate ai broccoli perché come questi ultimi son fatte di tenerezza; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati. ________________________________________ 6. ZAPPA 'E FEMMENA E SSURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA. Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra. 7. AMICE E VVINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE! Adlitteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data. 8.'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DDENARE. Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro. 9. 'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ TUTTE CHILLE CA GGHIASTEMMANO. Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi. 10.'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono. 11.'O GALANTOMO APPEZZENTÙTO, ADDEVENTA 'NU CHIAVECO. Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui. 12. ‘E FRAVECATURE, CACANO 'NU POCO PE PPARTE E NNUN PULEZZANO MAJE A NNISCIUNU PIZZO. Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio. ________________________________________ 13. LL'UOCCHIE SO' FFATTE PE GUARDÀ, MA 'E MMANE PE TUCCÀ. Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare furtivamente o meno palpeggiamenti delle rotondità femminili. ________________________________________ 14.DICETTE ‘O PAPPICE VICINO Â NOCE: "DAMME ‘O TIEMPO CA TE SPERTOSO!" Disse il tonchio alla noce "dammi il tempo che ti foro".Anche chi non sia dotato di molta prestanza fisica può ottenere – con il tempo e l’applicazione – i risultati sperati. ________________________________________ 15.CHISTO È ‘NA GALLETTA CA NUN SE SPOGNA! Ad litteram: Costui è una galletta che non si (riesce a) spugnare. Icastica espressione partenopea usata sarcasticamente nei confronti di qualcuno che sia cosí tanto avaro o cosí tanto restio a conferire la propria opera da poter esser messo a paragone ad una galletta (dal francese galette, deriv. di galet, ant. gal 'ciottolo', per la forma e/o durezza) quel tipico pane biscottato, a forma di focaccia, conservabile per lunghissimo tempo, pane impastato con pochissimo lievito e perciò durissimo; tali gallette un tempo entrarono a far parte delle razioni alimentari dei soldati (fanti o marinai) ma pure delle delle riserve alimentari dei pescatori che le preferirono al pane giacché non ammuffivano e si conservavano per un tempo quasi indeterminato. Per potersene nutrire militari e pescatori usavano mettere a mollo in acqua di fonte o addirittura di mare...) le gallette fino a che, non se ne fossero ben bene imbibite, diventando morbidi ed edibili; tale operazione fu detta in napoletano spugnatura che come significato non corrisponde alla omofona ed omografa spugnatura della lingua italiana dove significa, quale deverbale di spugnare:(che è un denominale di spugna dal lat. spongia(m), dal gr. sponghía) il bagnarsi, lo strofinarsi per mezzo di una spugna; in partic., lo spremere spugne imbevute di acqua o di liquidi medicamentosi su parti del corpo a scopo terapeutico; la spugnatura napoletana invece, quantunque pur essa derivata di spugna dal lat. spongia(m), dal gr. sponghía indica esattamente l’operazione di mettere a mollo in acqua o altro liquido (brodo) le gallette spezzettate per modo che si imbibiscano d’acqua, brodo etc. a mo’ di una spugna, ammorbidendosi; cosa che non si può dire del protagonista della locuzione in epigrafe, protagonista che è cosí duro di cuore e/o volontà che mai lo si riuscirebbe ad ammorbidire convincendolo ad allargare i cordoni della propria borsa o convincendolo a prestar la propria opera a pro di terzi. chisto = questo, costui ( dal lat. volg. *(ec)cu(m) istu(m), propr. 'ecco questo') agg.vo e qui pronome dimostrativo; come agg. dimostr. [precede sempre il sostantivo] indica persona o cosa vicina, nel tempo o nello spazio, a chi parla o indica persona o cosa di cui si sta parlando o anche vale simile, siffatto, di questo genere ( ad es. nun ascí cu chistu tiempo! = non sortire con un tempo simile!); come pron. dimostr. indica persona o cosa vicina a chi parla, o persona o cosa della quale si sta parlando; o ciò, la cosa di cui si parla; ________________________________________ 16.NUN FÀ BBENE Ô PEZZENTE CA NCE ‘O PPIERDE! Ad litteram: Non far del bene ad un povero ché lo perdi. Id est: Il bene fatto a chi è veramente povero è irrimediabilmente perduto;infatti in caso di prestito il povero non sarà mai in grado di restituire la cosa avuta in prestito, in caso di liberalità non si otterrà nemmeno riconoscenza: chi è povero, veramente povero per il suo stesso status è purtroppo proclive all’invidia anche del proprio benefattore! 17.CHI TÈNE CCHIÚ PPORVERA SPARA E LL’ATE SÈNTENO ‘E BBOTTE. Ad litteram: Colui che à piú polvere spara e gli altri sentono i botti (prodotti dagli spari). Ancóra un’antica eloquente, icastica locuzione usata per significare (prendendo a modello l’operato dei fuochisti [cioè degli artieri che si esibivano un tempo ed ancóra talora si esibiscono durante le feste patronali con spettacoli di fuochi artificiali])che nella vita chi è dotato di migliori e numerosi mezzi rappresentati sia dal denaro che dagli aiuti quali appoggi, aderenze, raccomandazioni è colui che ottiene i piú eclatanti risultati in termini di affermazione socio/economica, mentre a tutti gli altri non resta che rassegnarsi a l’eco dei successi ottenuti da chi à piú mezzi.La locuzione à come sostrato la convinzione che nella vita per affermarsi non necessitano studio e/o capacità innata, ma servono ricchezza, aiuti, appoggi, buoni uffici,pedate, protezioni. PORVERA, ma anche il sincopato PORVA s.vo f.le polvere, qui polvere da sparo [dal lat. pŭlvĕre-m con rotacismo della L→R]. 18.’O FFRUSCIARSE FA BBENE Â SALUTA. Ad litteram: l’illudersi (vantandosi), giova alla salute.Oppure:Il divertirsi giova alla salute. Ennesima eloquente, icastica locuzione da intendersi in due significati correlativamente al significato attribuito al verbo frusciarsi che valse un tempo illudersi, pavoneggiandosi e vantandosi,e piú modernamente: divertirsi; nella prima accezione la locuzione afferma, desumendolo dalla disincantata ossevazione della realtà, che chiunque è convinto della giustezza e del buon diritto in ordine al quanto affermi o operi ed addirittura se ne vanti, anche quando giustezza e/o buon diritto non siano supportati da un riscontro palese, trae giovamento per la sua salute se non fisica, certamente mentale; uguale giovamento per la salute mentale si può ottenere da un sano divertimento; quanto al verbo frusciarse [forma riflessiva di frusciare/ fruscià che à un etimo nel basso latino frustiare usato per significare fare in pezzi, sciupare, consumare] nei significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi deve collegarsi [con un po’ di fatica in quanto la strada semantica da percorrere è impervia], al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc.reiterando l’azione e facendo mostra del proprio impegno. Raffaele Bracale

‘ONNA PÉRETA FORA Ô BARCONE

‘ONNA PÉRETA FORA Ô BARCONE Letteralmente donna Pereta fuori (affacciata) al balcone; ci troviamo dinnanzi ad una locuzione usata con divertente immagine per mettere alla berlina una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata per dileggio quasi come nome proprio di persona) è il femminile ricostruito[per indicare un peto piú duraturo e piú rumoroso] di pireto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia, manifestazione viscerale rumorosa rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda. Altrove quella donna becera, sguaiata, volgare e sfrontata è detta, volta volta:locena che nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locena; lumera = esattamente lume a gas e lume a ggiorno =lume a petrolio atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una pereta. A margine ed aggiunta alla espressione in epigrafe fin qui esaminata, ne rammento altre tre che articolate sui termini loffe e pérete fanno parte del patrimonio popolare nell’icastico linguaggio partenopeo. E sono: 1) ‘E lloffe d’ ‘e mmonache addorano ‘e ‘ncienzo! 2) ‘E ppérete d’ ‘a sié Rosa so’ tutte sceruppate! 3) ‘E ppérete d’ ‘a sié Badessa so’ tutte limungelle fresche! Mi pèrito di darne la traduzione letterale chiarendo súbito che si tratta solo di un esercizio letterale atteso che le espressioni non vanno lette ad litteram, ma nei sensi figurati che chiarirò. Ecco le traduzioni: 1) Le scorregge delle monache odorano d’incenso! 2) I péti della signora Rosa sono tutti sciroppati! 3) I péti della signora Badessa son tutti limoncini freschi! E passiamo ai significati figurati che son quelli con cui vanno intese le espressioni in esame: 1)La locuzione ‘E lloffe d’ ‘e monache addorano ‘e ‘ncienzo che è da intendersi come “le mancanze, anche gravi, delle persone consacrate vanno in ogni caso perdonate” è usata ad ammonimento ed avvertenza di quelle persone che, subíto un danno fisico o morale o un’offesa da soggetti consacrati, vorrebbero reagire vendicandosi ed invece devono cristianamente offrire l’altra guancia atteso che le offese o mancanze delle persone consacrate iperbolicamente odorano d’incenso, cioè di solito non son dovute a cattiveria ma a mero errore. 2)La locuzione ‘E ppérete d’ ‘a sié Rosa so’ tutte sceruppate!” è usata ironicamente in riferimento ai comportamenti vanaglioriosi dei vanitosi, superbi, immodesti, boriosi che pur tenendo atteggiamenti non consoni, irriguardosi o immodesti fan le viste opposte al segno di voler fare apparire dolci, graditi, gradevoli, piacevoli, soavi manifestazioni che al contrario son palesemente brutte, sgradevoli, spiacevoli quando non addirittura disgustose come sono i peti. 3) Ed infine la locuzione”‘E ppérete d’ ‘a sié Badessa so’ tutte limungelle fresche!” analoga a quella sub 1) ‘E lloffe d’ ‘e monache addorano ‘e ‘ncienzo è da intendersi come “le mancanze delle persone importanti e/o dei capi vanno in ogni caso accettate come ineludibili quali fatti cui non ci si possa opporre ”. La locuzione è usata perciò ad ammonimento ed avvertenza di quelle persone che subíto un danno fisico o morale dai superiori o siano vessati da soggetti consacrati vorrebbero reagire vendicandosi ed invece devono obtorto collo sopportare in silenzio atteso che è del tutto inutile contrastare avversare, osteggiare, contrariare, contestare, contraddire i capi o i superiori destinati in ogni caso ad aver la meglio sui sottoposti che devono rassegnarsi alla figurata iperbole che i peti dei superiori odorino di limoncini freschi! A margine di tutto faccio notare che nella locuzione sub 1 si fa riferimento a loffe laddove in quella sub 3 si parla di pérete e ciò accade perché, con ogni probabilità, nella coniazione delle due locuzioni si è intesi essere piú duri in quella sub 1 atteso che si parla di loffe che, come ò precisato, sono molto piú tremende delle pérete Alcune notazioni linguistiche. Di loffa e péreta ò già détto antea. addorano voce verbale (3ª pers. pl. ind. pr.) dell’infinito addurà = odorare, profumare, olezzare; etimologicamente addurà è un denominale del tardo lat. *adore(m) per il cl. odore(m); la a intesa come un residuo di ad favorí il raddoppiamento espressivo della occlusiva dentale sonora (d) per cui *adore(m) fu*addore(m) donde addurà. ‘ncienzo s.vo neutro = incenso: gommoresina che si ottiene praticando profonde incisioni nel tronco di varie specie di piante originarie dell'India, Arabia e Somalia, e che, bruciata, emana un intenso aroma; fin dall'antichità è stata usata durante le cerimonie religiose. 2 (estens.) il fumo e l'odore di quella gommaresina. etimologicamente è voce aferizzata dal lat. tardo, eccl. incĕnsu(m), propr. part. pass. neutro sost. di incendere 'accendere, infiammare'; da incĕnsu(m)→(i)ncĕnsu(m)→’ncienzo con il consueto passaggio ns→nz e dittongazione della ĕ. sceruppato = sciroppato voce verbale (part.pass.m.le agg.to)dell’infinito sceruppà = (come nel caso che ci occupa)sciroppare,conservare la frutta nello sciroppo: sciroppare le pesche | sciropparsi qualcuno, qualcosa, (fig.) sopportarli, sorbirseli pazientemente; etimologicamente il verbo sceruppà è un denominale di sceruppo =sciroppo dal lat. medievale sirupu(m) che fu dall’arabo sharûb= bevanda dolce; a margine di questa voce rammenterò, come ò già accennato, che il verbo denominale di sceruppo, e cioè sceruppare/sceruppà à come primo significato quello di conservare frutta o altro nello sciroppo o pure indulcare o migliorare con zucchero e/o aromi varie preparazioni, mentre nel significato figurato ed estensivo (soprattutto nella forma riflessiva scerupparse) vale sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno , sorbirseli pazientemente: scerupparse a uno (sopportare la vicinanza o la presenza di uno(non gradito); scerupparse ‘nu trascurzo (sorbirsi con pazienza un discorso (noioso) ). Rammenterò che tale accezione figurata ed estesa del napoletano scerupparse è pervenuta anche nella lingua nazionale dove il verbo sciroppare corrispondente del napoletano sceruppà è usato anche figuratamente nel medesimo senso di sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno del napoletano riflessivo scerupparse. Ed ora, quasi al termine mi piace illustrare un’ icastica frase in uso a Napoli forgiata col verbo sceruppà; essa recita sceruppà ‘nu strunzo e vale ad litteram: sciroppare uno stronzo, ma va da sé che non la si può intendere in senso letterare atteso che, per quanto sodo possa essere lo stronzo in esame, nessuno mai potrebbe o riuscirebbe a vestirlo di congrua glassa zuccherina, e che perciò l’espressione sceruppà ‘nu strunzo debba esser letta nel senso figurato di:elevare ad immeritati onori un uomo dappoco e ciò sia che lo si faccia di propria sponte, sia che avvenga su sollecitazione del diretto interessato e la cosa vale soprattutto nei confronti di chi supponente e saccente, ciuccio e presuntuoso, pretende arrogantemente di porsi o d’esser posto una spanna al di sopra degli altri facendo le viste d’essere in possesso di scienza e conoscenza conclamate ed invece in realtà è persona che poggia sul niente la sua pretesa e spesso sbandierata falsa valentía in virtú della quale s’aspetta ed addirittura esige d’essere elavato ad alti onori in campo socio-economico cosa che gli consentirebbe di muoversi con iattanza, boria e presunzione, guardando l’umanità dall’alto in basso…; tale soggetto con icastica espressività, coniugando al part. passato l’infinito sceruppà, è detto strunzo sceruppato= stronzo sciroppato, quell’escremento cioè che quand’anche (se fosse possibile, e non lo è) fosse ricoperto di uno congruo strato di giulebbe, sotto la glassa zuccherina, sarebbe pur sempre quel pezzo di fetida merda che è. Altrove tale soggetto è detto (restando pur sempre in àmbito scatologico): pireto annasprato=peto coperto di glassa zuccherina. Ed anche in tal caso, come per il precedente stronzo sciroppato, ci troviamo difronte ad un iperbolico modo di dire con il quale si vuol significare che il soggetto di cui si parla, è veramente un’infima cosa e quand’anche si riuscisse a coprirlo di glassa zuccherina (cosa che risulta tuttavia impossibile da farsi) mostrerebbe sempre, sotto la copertura zuccherina, la sua intima natura di evanescente, ma rumoroso gas intestinale! sié è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-gneuse→sié(gneuse)→sié. badessa e cioè: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre. E qui mi fermo. Satis est. R.Bracale

CRISCE SANTO, CA DIAVULO GGIÀ SÎ

CRISCE SANTO, CA DIAVULO GGIÀ SÎ Mi è stato chiesto, via e-mail, dal caro amico A. A. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) di spendere qualche parola per illustrare significato ed origine dell’ espressiuone napoletana in epigrafe. L’ò accontentato illico te immediate nel modo che segue: L’espressione di cui mi chiedi e che ad litteram vale: cresci santo, ché diavolo già lo sei è una locuzione beneaugurante che a Napoli si suole rivolgere, specie ai ragazzi,ma ironicamente anche a gli adulti, nel momento che starnutiscono, in luogo dei consueti “Salute!”o di “Dio ti benedica” in uso altrove. Essa locuzione venne ideata, formulata ed usata con intenti esorcizzanti,nella campagna napolertana dove nel maggio del 1918 si verificò, in coincidenza della famigerata influenza spagnola, una devastante epidemia di rinite allergica che si manifestava con ripetuti violenti starnuti; pronunciando le parole in epigrafe si intese dire: “Stai starnutendo, ma non temere, non diverrai preda della spagnola , anzi crescerai sano e forte e supererai questo tuo pessimo momento che (per i fastidi che comporta) ti fa (innervosire a mo’ di) un diavolo”. Giunto a questo punto penso di far cosa grata all’amico ed a chi forte mi leggesse di lumeggiare l’origine anche dei “Salute!”o di “Dio ti benedica” in uso altrove. Ebbene sia il primo che il secondo augurio sono legati ad un’antichissima credenza dei pellerossa, secondo la quale starnutendo si perde parte dell’anima, per cui con il dire “Salute!”o di “Dio ti benedica!” non si fa riferimento alla salute del corpo, bensí a quella dello spirito e si augura che l’Onnipotente conceda la salvezza eterna a chi con i ripetuti starnuti stia perdendo via via la sua anima. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A. A. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est. Raffaele Bracale

VARIE 16/956

1. 'A NAVE CAMMINA E 'A FAVA SE COCE. Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica la sopravvivenza,data dalla continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche,e fa dipendere il sostentamento dal cammino della nave per cui è piú opportuno tradurre (Quando) la nave va, la fava cuoce,id est: se gli affari progrediscono, il sostentamento è assicurato! 2. NCE VONNO QUATTO LASTE E 'O LAMPARULO. Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello della locuzione è rappresentato da una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si gloria di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente e praticamente inutilizzabile. 3. JIRSENE CU 'NA MANA ANNANZE E N'ATA ARRETO. Letteralmente: andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove aveva eseguito la cessio bonorum – in napoletano: zitabona -, aveva cioè poggiato le nude natiche su di una colonnina (posta innanzi al tribunale della Vicaria) a dimostrazione di non aver piú niente. La locuzione perciò significa e si usa per indicare chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di dichiararsi fallito o perdente e di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro. 4. A - MIETTE MANO Â TELA B - ARRICIETTE 'E FIERRE Le due locuzioni indicano l'incipit ed il termine di un'opera e vengono usate nelle precise circostanze da esse indicate, ma sempre con un valore di sprone; sub A: metti mano alla tela, ossia, prepara la tela ché è giunto il momento di cominciare il lavoro. sub B: metti a posto i ferri, è giunta l'ora di lasciare il lavoro. 5. ESSERE 'NU/’NA SECATURNESE. Letteralmente: essere un/una sega-tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo in cui circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento. 6. ESSERE 'NA MEZA PUGNETTA. Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stanti le ridottissime capacità fisiche, intellettive e morali di cui si è provvisti, essendo (per furbesca iperbole) solo il prodotto di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero. Il s.vo f.le pugnetta che indica appunto la masturbazione maschile, è una voce gergale costruita sul s.vo lat. pugnu-m addizionato di un suff. dim. f.le –etta. 7. ESSERE 'NA GALLETTA 'E CASTIELLAMMARE. Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire. 8. 'E CURALLE – oppure ‘O CURALLARO - LL'À DDA FÀ 'O TURRESE. Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese oppure il corallaio è lavoro da torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo. 9. MO T''O PPIGLIO 'A FACCIA 'O CUORNO D''A CARNACOTTA Letteralmente. adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine che a Napoli vengono vendute già atte ad essere consumate o dai macellai o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono alla locuzione di significare che ci si trovi nell'impossibilità di aderire alle richieste. 10. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO. Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello. 11. DICETTE 'O SCARRAFONE: PO’ FFÀ CCHIOVERE 'GNOSTIA COMME VO’ ISSO, MAJE CCHIÚ NIRO POZZO ADDEVENTÀ... Disse lo scarafaggio: (il Cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno. 12. ABBACCA ADDÒ VENCE. Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani. 13. DIO PERDONA, SANGIUANNE NO! Letteralmente: Dio perdona, il compare/padrino no! Ammonimento/avvertimento usato nei confronti soprattutto di minori, ma talora anche di adulti per tenerli avvisati a non comportarsi mai male con alcuno, ma in primis con il proprio compare/padrino di battesimo o cresima perché – nell’inteso popolare – il compare/padrino (sangiuanne) per solito è molto piú severo del Padreterno che, grandemente misericordioso, è aduso al perdono cosa estranea invece al compare/padrino (sangiuanne) con il quale bisogna sempre comportarsi bene. Come si evince da quanto détto, con il termine sangiuanne non si fa riferimento al san Giovanni apostolo, ma al san Giovanni Battista precursore del Cristo sia pure solo per mutuarne il nome proprio che agglutinato con l’apposizione “san” vien degradato semanticamente sino a farne un s.vo comune per indicare il compare/padrino di battesimo e/o cresima in memoria del fatto che san Giovanni Battista precursore del Cristo Lo battezzò sulle rive del Giordano.Il fatto poi che il compare/padrino (sangiuanne) venga inteso severissimo trova il suo fondamento nel reale comportamento di san Giovanni Battista precursore del Cristo che fu rigido, inclemente, duro, aspro, inflessibile, intransigente già con se stesso predicando la penitenza e vivendo in un deserto dove si cibava di locuste e miele selvatico. 14. LEVARSE ‘O SFIZZIO Ad litteram: togliersi il gusto, nel senso di raggiungere, conquistandeselo, l’appagamento di una intensa voglia di un desiderio a lungo covato e finalmente raggiunto. il termine sfizzio (correttamente scritto in napoletano con due zeta) deriva con qualche probabilità dal latino satis -facio e ne conserva il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza. Non manca però coloro (ed io mi ci accodo) che propendono non a torto per un’etimologia greca da un fuxis(evasione) con tipica prostesi della S intensiva partenopea, atteso che lo sfizio è qualcosa che eccedendo il normale si connota come un’evasione dalla quotidianeità. 15. UNO TAGLIA N’ATO ‘NCHIMA E N’ATO CÓSE Ad litteram: uno taglia, un altro imbastisce ed un altro cuce Icastica popolare, sarcastica locuzione,ispirata dal mestiere del sarto, usata a derisione di coloro [in primis impiegati governativi e/o comunali ] che, per ignavia, trincerandosi dietro al fatto che le proprie mansioni esulano da compiti estesi, si rifiutano di dare compimento all’intrapreso limitando la propria azione ad una sola parte di esso e demandandone ad altri il perfezionamento, quasi alla stregua di un sarto che, tagliata la stoffa di un abito, non sia in grado o si rifiuti di imbastirlo e di cucirlo ed affidi ad altri le relative operazioni. Come ò anticipato la locuzione è usata spesso in riferirmento a gli sportellisti degli uffici comunali e/o altri enti pubblici che usano costringere i cittadini che chiedono una documentazione a sottostare a sfibranti andirivieni tra alcuni sportelli prima di poterla ottenere, laddove un po’ di buona volontà d’un singolo addetto potrebbe risolvere la faccenda rapidamente e soddisfacentemente! Taglia voce verbale 3ª pers. sg.ind. pr. dell’infinito taglià [dal fr. (ant.) tailler, che è il lat. tardo taliare, der. di talea]= tagliare, frazionare, mozzare, radere, ritagliare, segare, smozzare, tagliuzzare, tosare, tranciare. ‘Nchima voce verbale 3ª pers. sg.ind. pr. dell’infinito ‘nchimà [da un lat. reg. inflimare→’nflimare→’nchimare] = imbastire, unire provvisoriamente i margini di due pezzi di stoffa, di pelle, ecc., con punti lunghi di filo di cotone, arrabattare, arrangiare, improvvisare, raffazzonare. Cóse voce verbale 3ª pers. sg.ind. pr. dell’infinito cósere [dal lat. *cosĕre, per il class. consuĕre,] = cucire. Brak

martedì 29 novembre 2016

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1.FA’ COMME T’ È FFATTO, CA NUNN’ È PPECCATO. Ad litteram: Rendi ciò che ti è fatto, ché non è peccato Id est: render pan per focaccia non è peccato, per cui si è autorizzati anche a vendicarsi dei torti subìti, usando i medesimi sistemi; locuzione che, stranamente per la morale popolare napoletana, adusa ad attenersi, quasi sempre, ai dettami evangelici si pone agli antipodi dell’evangelico: porgi l’altra guancia, ma in linea con l’antico principio romano: vim, vi repellere licet (è giusto respingere la forza con la forza). ________________________________________ 2.‘E SCIABBULE STANNO APPESE I ‘E FODERE CUMBATTONO. Ad litteram: le sciabole stanno inoperosamente al chiodo ed i foderi combattono Id est: chi dovrebbe combattere o - fuor di metafora - operare fattivamente, nicchia e si defila, lasciando che altri prendano il suo posto; locuzione usata nei confronti di tutti coloro che per inettitudine o negligenza non compiono il proprio dovere, delegandolo pretestuosamente ad altri. ________________________________________ 3.FOSSE ANGIULO ‘A VOCCA TOJA! Ad litteram: sia (di) angelo la tua bocca Locuzione che viene usata con un sostrato scaramantico ottativo, quando - fatti segno di un augurio - ci si augura altresí che quanto profferito si realizzi certamente e a breve tenendo la bocca di colui che ci à fatto l’augurio come bocca di veritiero messaggero ( ciò etimologicamente significa il termine angiolo) per cui - ritenuto proveniente da bocca di autentico messaggero - ciò che ci viene augurato si è certi che si realizzerà concretamente o - almeno - lo si spera . ________________________________________ 4.FRIJERE ‘O PESCE CU LL’ACQUA. Ad litteram: friggere il pesce con l’acqua; locuzione usata per significare situazioni di così marcata indigenza da non potersi permettere l’uso dell’olio per friggere il pesce e doversi accontentare dell’acqua per compiere l’operazione con risultati evidentemente miseri, non essendo chiaramente l’acqua l’elemento adatto alla frittura; per traslato la locuzione è usata per significare qualsiasi situazione in cui predomini l’indigenza se non l’inopia più marcata. ________________________________________ 5.FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE*. Ad litteram:fare [cioè:centrare] con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ più cruenta, ma decisamente più plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro... *fucetola= beccafico dal lat.ficedula(m) ________________________________________ 6.ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA. Ad litteram: essere un babà irrorato di rum Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi o adulti ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico. ________________________________________ 7.ESSERE ‘E TENTA CARMUSINA. Ad litteram: essere di tinta cremisi (rossiccia) id est: essere inaffidabile come il colore cremisi che anticamente, prodotto con metodi artigianali ed empirici, era di scarsa consistenza e poco sopportava le ingiurie del tempo; con altra valenza la locuzione sta ad indicare sia le persone di malaffare di cui diffidare e da cui tenersi alla larga, sia le persone ad esse equiparate e si ricollega al fatto che al tempo dei romani le prostitute erano aduse a vestirsi di rosso, a truccarsi con il carminio e ad indossare vistose parrucche fulve. ________________________________________ 8.ESSERE ‘NU VOCCAPIERTO ‘E SAN GIUANNE. Ad litteram: essere un bocca aperta di san Giovanni. Espressione riferita a tutti coloro che sono pettegoli e linguacciuti al segno di tener sempre la bocca aperta per riferire fatti ed avvenimenti che, per altro, non li riguardano e non sarebbero perciò tenuti a propalare. Qualcuno erroneamente pensa che la locuzione si riferisca agli abitanti di san Giovanni a Teduccio, zona periferica di Napoli, abitanti ritenuti ( però gratuitamente ), linguacciuti e pettegoli; la località invece è da considerarsi solo perché in contrada Leucapetra adiacente la detta zona esistette un tempo una sontuosa villa fatta edeficare nel 1535 da Bernardino Martirano, segretario del regno ( Cosenza 1490,† Portici (NA) 1548) villa sulle cui pareti esterne erano collocati grandissimi mascheroni apotropaici rappresentanti dei volti con occhi spiritati ed a bocca spalancata. ________________________________________ 9.ESSERE MASTO A UNU FUOGLIO. Ad litteram: esser maestro ad un solo foglio. Locuzione che si usa a mo’ di dileggio nei confronti di coloro che son ritenuti o si autoritengono maestri, ma siano di limitatissime conoscenze e di competenze molto ristrette, ai quali è inutile chiedere che vadano al di là di ciò che essi stessi propongano o facciano, come si diceva di un tal violinista, bravissimo esecutore, quasi virtuoso, ma di un unico pezzo, violinista che si scherniva davanti alla richiesta di eseguire altri brani musicali. ________________________________________ 10.ESSERE CCHIÙ FFESSO ‘E LL’ACQUA CAURA. Ad litteram: essere più sciocco dell’acqua calda. Così si dice di chi sia, per innata insipienza o acclarata stupidità, talmente sciocco e vuoto ed insignificante al punto di non aver alcun gusto e/o sapore al pari di una pentola d’caqua riscaldata cui difettino ogni aggiunta di aromi e/o condimenti e pertanto sia incolore ed insapore. Brak

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1.COPPOLA PE CCAPPIELLO E CCASA A SSANT'ANIELLO. Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salubre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi. 2. TENÉ TUTTE 'E VIZZIE D''A ROSAMARINA. Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè cosí poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato, se accesa, fa molto, fastidioso fumo... 3.SI 'O SIGNORE NUN PERDONA A 77, 78 e 79, LLA 'NCOPPA NCE APPENNE 'E PUMMAROLE. Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) e ai ladri(79), lassú (id est: in paradiso ) ci appenderà i pomodori. Id est: poiché il mondo è popolato esclusivamente da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori. 4.CHILLO SE METTE 'E DDETE 'NCULO E NE CACCIA 'ANIELLE. Ad litteram: Quello si mette le dita nel culo e ne tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili. 5.AVIMMO PERDUTO 'APARATURA I 'E CENTRELLE. Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché. 6.'A FEMMENA È CCOMME Â CAMPANA: SI NUN 'A TUCULJE, NUN SONA. Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti. 7. 'A TONACA NUN FA 'O MONACO, 'A CHIERECA NUN FA 'O PREVETO, NÈ 'A VARVA FA 'O FILOSEFO. Ad litteram: la tonaca non fa un monaco, la tonsura non fa un prete né la barba fa il filosofo; id est: l'apparenza può ingannare: infatti non sono sufficienti piccoli segni esteriori per decretare la vera essenza o personalità di un uomo. 8. ME PARENO 'E CCAPE D''A VECARIA. Ad litteram: mi sembrano le teste della Vicaria. Lo si suole dire di chi è smagrito per lunga fame, al segno di averne il volto affilato e scavato quasi come le teste dei giustiziati, teste che nel 1600 venivano esposte per ammonimento infilzate su lunghe lance e tenute per giorni e giorni all'esterno dei portoni del tribunale della Vicaria, massima corte del Reame di Napoli. 9. ARIA NETTA NUN AVE PAURA 'E TRONNELE. Ad litteram: aria pulita non teme i tuoni; infatti quando l'aria è tersa e priva di nuvole, i tuoni che si dovessero udire non sono annunzio di temporale. Per traslato: l'uomo che à la coscienza pulita non teme che possa ricevere danno dalle sue azioni, che - improntate al bene - non potranno portare conseguenze negative . 10.ASCÍ 'A VOCCA Ê CANE E FERNÍ 'MMOCCA Ê LUPE Ad litteram: scampare alla bocca dei cani e finire in quella dei lupi. Maniera un po' piú drammatica di rendere l'italiano: cader dalla padella nella brace: essere azzannati da un cane è cosa bruttissima, ma finire nella bocca ben piú vorace di un lupo, è cosa ben peggiore. 11. RROBBA 'E MANGIATORIO, NUN SE PORTA A CCUNFESSORIO. Ad litteram: faccende inerenti il cibarsi, non vanno riferite in confessione. Id est: il peccato di gola... non è da ritenersi un gran peccato, a malgrado che la gola sia uno dei vizi capitali, il popolo napoletano, atavicamente perseguitato dalla fame, non riesce a comprendere come sia possibile ritenere peccato lo sfamarsi anche lautamente... ed in maniera eccessiva. 12.CU LL'EVERA MOLLA, OGNUNO S'ANNETTA 'O CULO. Ad litteram: con l'erba tenera, ognuno si pulisce il sedere; per traslato: chi è privo di forza morale o di carattere non è tenuto in nessuna considerazione , anzi di lui ci si approfitta, delegandogli persino i compiti piú ingrati 13.T'AMMERETAVE 'A CROCE GGIÀ 'A PARICCHIO... Ad litteram: avresti meritato lo croce già da parecchio tempo. A Napoli, la locuzione in epigrafe è usata per prendersi gioco di coloro che, ottenuta la croce di cavaliere o di commendatore, montano in superbia e si gloriano eccessivamente per il traguardo raggiunto; ebbene a costoro, con la locuzione in epigrafe, si vuol rammentare che ben altra croce e già da gran tempo, avrebbero meritato intendendendo che li si ritiene malfattori, delinquenti, masnadieri tali da meritare il supplizio della crocefissione quella cui, temporibus illis, erano condannati tutti i ladroni... 14.LL'AVVOCATO À DDA ESSERE 'MBRUGLIONE. Ad litteram: l'avvocato deve essere imbroglione. A Napoli - terra per altro di eccellentissimi principi del foro, si è convinti che un buono avvocato debba esser necessariamente un imbroglione, capace cioè di trovare argomentazioni e cavilli giuridici tali da fare assolvere anche un reo confesso o - in sede civilistica - far vincere una causa anche a chi avesse palesemente torto marcio. 15. LL'AVVOCATO FESSO È CCHILLO CA VA A LLEGGERE DINT' Ô CODICE. Ad litteram: l'avvocato sciocco è quello che compulsa il codice; id est: non è affidabile colui che davanti ad una questione invece di adoprarsi a comporla pacificamente consiglia di adire rapidamente le vie legali; ad ulteriore conferma dell'enunciato in epigrafe, altrove - nella filosofia partenopea - si suole affermare che è preferibile un cattivo accordo che una causa vinta, che - certamente - sarà stata piú dispendiosa e lungamente portata avanti rispetto all'accordo. 16. Â GGATTA CA ALLICCA 'O SPITO, NUN CE LASSÀ CARNE P'ARROSTERE. Ad litteram: alla gatta che lecca lo spiedo, non lasciar carne da arrostire. Id est: non aver fiducia di chi ti à dato modo di capire di che cattiva pasta è fatto, come non sarebbe opportuno lasciare della carne buona per essere arrostita, a portata di zampe di un gatto che è solito leccare gli spiedi su cui la carne viene arrostita... 17. 'A FEMMENA BBONA SI - TENTATA - RESTA AUNESTA, NUN È STATA BUONO TENTATA. Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito... 18.TRE CCOSE NCE VONNO P''E PICCERILLE: MAZZE, CARIZZE E ZZIZZE! Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene. 19.'E PEJE JUORNE SO' CHILLE D''A VICCHIAIA. Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai... 20.DIMMÈNNE N'ATA, CA CHESTA GGIÀ 'A SAPEVO. Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato. 21.DENARO 'E STOLA, SCIOSCIA CA VOLA. Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso. 22.FATTE CAPITANO E MMAGNE GALLINE. Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, cosí vedrai migliorato il tuo tenore di vita. 23. 'E MARIUOLE CU 'A SCIAMMERIA 'NCUOLLO, SO' PPEJE 'E LL' ATE. Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità 24.DICETTE FRATE EVARISTO:"PE MMO, PIGLIATE CHISTO!" Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partí all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione iniziata pronunciò la frase in epigrafe. 25.CHI RIDE D''O MMALE 'E LL'ATE, 'O SSUJO STA ARRET' Â PORTA. Ad litteram: chi ride delle digrazie altrui, à le sue molto prossime; id est: chi o per cattiveria o per insipienza si fa beffe del male che à colpito altre persone, dovrebbe sapere che - presto o tardi - il male potrebbe colpire anche lui... Brak

VARIE 16/953

1.CHIJARSELA A LIBBRETTA. Letteralmente:piegarsela a libretto. È il modo piú comodo per consumare una pizza, quando non lo si possa fare stando comodamente seduti al tavolo servendosi di piatto e posate e si sia costretti a mangiare stando in piedi. In tal caso si procede alla piegatura in quattro parti della pietanza circolare che assume quasi la forma di un piccolo libro e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento. L’espressione in senso traslato vale accettare obtorto collo, far, per necessità, buon viso a cattivo gioco. 2.VENNERE 'A SCAFAREA PE SSICCHIETIELLO. Letteralmente:Vendere una grossa insalatiera presentandola come un secchiello.Figuratamente e sarcasticamente la locuzione viene adoperata nei confronti di chi decanti la nettezza dei costumi di una donna che invece è stata notoriamente conosciuta biblicamente da parecchi. 3.'E SÀBBATO, 'E SÚBBETO E SENZA PREVETE! Di sabato, di colpo e senza prete! E' il malevolo augurio che si lancia all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso 4.A PPESIELLE NE PARLAMMO. Letteralmente: Parliamone al tempo dei piselli -(quando cioè avremo incassato i proventi della raccolta e potremo permetterci nuove spese...) Id est: Rimandiamo tutto a tempi migliori. Messo sulla bocca di un medico, vale sempre “Rimandiamo tutto a tempi migliori,ma per me”(quando, cioè, sarei in preda ai dolori di pancia che ti procureranno i piselli e sarei costretto a chiedere il mio intervento a pagamento!) 5.JÍ CERCANNO OVA 'E LUPO E PIETTENE 'E QUINNICE. Letteralmente:Andare alla ricerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti). Id est: andare alla ricerca di cose introvabili o impossibili; nulla quaestio per le uova di lupo che è un mammifero per ciò che concerne i pettini bisogna sapere che un tempo i piú conosciuti nel popolo, oltre quelli usati per ravviarsi i capelli, erano i pettini dei cardalana e tali attrezzi non contavano mai piú di tredici denti... 6.CHI TÈNE MALI CCEREVELLE, TÈNE BBONI CCOSCE... Chi à cattivo cervello, deve avere buone gambe, per sopperire con il moto alle dimenticanze o agli sbagli conseguenti del proprio cattivo intendere. 7.METTERE 'O PPEPE 'NCULO Â ZÒCCOLA. Letteralmente:introdurre pepe nel deretano di un ratto. Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora si navigava, capitava che sui bastimenti mercantili, assieme alle merci solcassero i mari grossi topi, che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace: catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero (spezia che avevano abbondantemente a portata di mano in quanto presente tra quelle trasportate come beni da importazione) nell'ano delle bestie, poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati. L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto comportamento di chi, in luogo di metter pace in una disputa, gode ad attizzare il fuoco della discussione... 8.PURE 'E PULICE TENONO 'A TOSSE... Anche le pulci tossiscono - Id est: anche le persone insignificanti tossiscono, ossia voglione esprimere il proprio parere. 9.DICE BBUONO 'O DITTO 'E VASCIO QUANNO PARLA DELLA DONNA: UNA BBONA CE NE STEVA E 'A FACETTERO MADONNA... Ben dice il detto terrestre allorché parla della donna: ce n'era una sola che era buona ma la fecero Madonna... Id est: La donna è un essere inaffidabile e da cui guardarsi. - La quartina, violentemente misogina è tratta dal poemetto 'Mparaviso del grande poeta Ferdinando Russo 10.DICERE 'A MESSA CU 'O TEZZONE. Celebrare la messa con un tizzone ardente(in mancanza di ceri...)Id est: quando c'è un dovere da compiere, bisogna farlo quale che siano le condizioni in cui ci si trovi. 11.JAMMO, CA MO S'AIZA! Muoviamoci, ché ora si leva(il sipario)! - Era l'avviso che il servo di scena dava agli attori per avvertirli di tenersi pronti , perché lo spettacolo stava per iniziare. Oggi lo si usa per un avviso generico sull'imminenza di una qualsiasi attività. 12.CHELLO È BBELLO 'O PRUTUSINO, VA 'A GATTA E CE PISCIA A COPPA... Ad litteram: Il prezzemolo è bello, poi la gatta vi minge su; espressione ironica da intendersi:Il prezzemolo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge sopra - Amaro commento di chi si trova in una situazione precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora maggiormente...L’espressione cosí come formulata con l’aggettivo bello, parrebbe sostanziare un fatto o dote positiva, ma trattandosi di un’espressione ironica se non sarcastica essa deve essere lètta in senso antifrastico cioè negativo di talché il bello va inteso brutto 13.QUANNO VIDE 'O FFUOCO Â CASA 'E LL'ATE, CURRE CU LL'ACQUA Â CASA TOJA... Quando noti un incendio a casa d'altri, corri a spegnere quello in casa tua - Cioè: tieni per ammonimento ed avvertimento ciò che capita agli altri per non trovarti impreparato davanti alla sventura, che potrebbe colpirti nello stesso momento. 14.GIORGIO SE NE VO’ JÍ E 'O VESCOVO N' 'O VO’ CACCIÀ. Giorgio intende andar via ed il vescovo vuole cacciarlo. L'icastica espressione mutuata da una farsa pulcinellesca fotografa un rapporto nel quale due persone intendono perseguire il medesimo fine, ma nessuno à il coraggio di prendere l'iniziativa, come nel caso del prelato e del suo domestico... 15.FA MMIRIA Ô TRE 'E BASTONE. Fa invidia al tre di bastoni- Ironico riferimento ad una donna che abbia il labbro superiore provvisto di eccessiva peluria, tale da destare l'invidia del 3 di bastoni, che nel mazzo di carte napoletano è rappresentato con nell'incrocio di tre randelli un mascherone di uomo provvisto di esorbitanti baffi a manubrio. 16.LASSA CA VA A FFUNNO ‘O BBASTIMENTO, BBASTA CA MORENO ‘E ZZOCOLE ! Ad litteram : Lascia pure che la nave affondi, purché si sterminino i ratti. Espressione usata in riferimento a chi non si faccia scrupoli di sorta pur di raggiungere lo scopo che si è prefisso. Brak

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1.'O PATATERNO 'NZERRA 'NA PORTA I ARAPE 'NU PURTONE. Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un portoncino - Cioè: ti dà sempre una via di scampo 2.NUN TENÉ PILE 'NFACCIA E SFOTTERE Ô BARBIERE Ad litteram:Non aver peli in volto e infastidire il barbiere, ma piú esattamente: esser tanto presuntuosi al punto che mancando degli elementi essenziali per far alcunchè ci si erge ad ipercritico e spaccone o si infastidisca il proprio prossimo. 3.È GGHIUTO 'O CCASO 'A SOTTO I 'E MACCARUNE 'A COPPA. È finito il cacio sotto e i maccheroni al di sopra. Cioè: si è rivoltato il mondo; infatti il cacio deve guarnir dal di spra i maccheroni, non far loro da strame! 4.À FATTO MARENNA A SSARACHIELLE. À fatto merenda con piccole aringhe affumicate - Cioè: si è dovuto accontentare di ben poca cosa. 5.FÀ LL'ARTE 'E MICHELASSO: MAGNÀ, VEVERE E GGHÍ A SPASSO. Fare il mestiere di Michelaccio:mangiare, bere e andar bighellonando - cioè la quintessenza del dolce far niente... 6.SO' GGHIUTE 'E PRIEVETE 'NCOPP'Ô CAMPO Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile:i preti un tempo erano costretti a giocare a calcio indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco..., causando disordine, caos, baraonda, scompiglio. 7.NUN VULÉ NÈ TTIRÀ, NÈ SCURTECÀ... Non voler né tendere, né scorticare - Cioè: non voler assumere alcuna responsabilità, come certi operai conciatori di pelle quando non volevano né mantener tese le pelli, né procedere alla loro scuoiatura. 8.ACCUNCIARSE QUATT' OVE DINTO A 'NU PIATTO. Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...). 9.FARSE 'NU PURPETIELLO. Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua. 10.JÍ A PPÈRE 'E CHIUMMO. Andare con i piedi di piombo - Cioè: con attenzione e cautela. 11.TENÉ'A SCIORTA 'E MARIA VRENNA. Avere la sorte di Maria Di Brienne - Cioè:perder tutti propri beni ed autorità come accadde a Maria di Brienne sfortunata consorte di Ladislao di Durazzo, ridotta alla miseria alla sua morte (1414) dalla di lui sorella Giovanna II succedutagli sul trono. 12.JÍ Ô BATTESIMO, SENZA CRIATURA. Recarsi a battezzare un bimbo senza portarlo... - Cioè comportarsi in maniera decisamente errata, mettendosi nella situazione massimamente avversa all'opera che si vorrebbe intraprendere. 13.PARE CA S''O ZUCANO 'E SCARRAFUNE... Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- È detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi. 14.ABBRUSCIÀ 'O PAGLIONE... Incendiare il pagliericcio - Cioè darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, come facevano le truppe sconfitte che pur di non lasciar nulla ai vincitori incendiavano i propri accampamenti, dandosi alla fuga.(id est:procurare un danno definitivo). 15.ÒGNE SCARRAFONE È BBELLO A MMAMMA SOJA... Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ogni autore la sua opera è bella e meritevole di considerazione. 16.S’È AUNITO, ‘A FUNICELLA CORTA I ‘O STRUMMOLO A TIRITEPPE… Si sono uniti lo spago corto e la trottolina scentrata - Cioè si è verificata l'unione di elementi negativi che compromettono la riuscita di un'azione... 17.CHI SAGLIE ‘NCOPP’Ê CCORNA ‘E CHILLO, PO’ DDÀ ‘A MANO Ô PATATERNO. Chi si inerpica sulle corna di quello, può stringer la mano al Signore -(tanto sono alte...)- Espressione divertente ed iperbolica per indicare un uomo molto tradito dalla moglie. 18.QUANNO 'O DIAVULO TUOJO JEVA Â SCOLA, 'O MIO ERA MASTO. Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza e perspicacia. 19.'O CANE MOZZECA Ô STRACCIATO. Il cane assale chi veste dimesso - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato. 20.TRE SONGO 'E PUTIENTE:'O PAPA, 'O RRE E CCHI NUN TÈNE NIENTE... Tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla: il papa quale unico rappresentante di Cristo in terra, à sotto la sua autorità spirituale l’intera Comunità dei credenti; il Re in un regime monocratico è la massima autorità dispensatore di leggi ed ordini a tutti i governati; chi non è in possesso di alcun bene non può temere il furto o d’essere invitato a conferire elargizioni od aiuti. 21.Ė GGHIUTA ‘A FESSA 'MMANO Ê CCRIATURE, 'A CARTA 'E MUSICA 'MMANO Ê BBARBIERE, 'A LANTERNA 'MMANO Ê CECATE... La vulva è finita nelle mani dei/delle bambini/e, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi.La colorita espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisca in mani inesperte od inadeguate che pertanto non possono apprezzarla ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei/delle fanciulli/e od ancóra come l'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sé dovrebbe rischiarare l'oscurità. 22. LL’AMMORE NUN VO’ PENZIERE! Ad litteram: L’amore non vuol pensieri, seu preoccupazioni. Stringata, perentoria locuzione che ricamando l’amore inteso nel senso materiale del coito intende rammentare che non c’è attività, soprattutto quelle dilettevoli, che si possa principiare o esser portata a compimento se non in presenza di una mente sgombra di ansie, apprensioni, inquietudini che possono risultare deterrenti ed inibitorie. Brak

NAPOLI - SASSUOLO (28/11/16) 1 A 1 ‘A VEDETTE ACCUSSÍ

NAPOLI - SASSUOLO (28/11/16) 1 A 1 ‘A VEDETTE ACCUSSÍ Mannaggia chello can un se po’ ddicere, guagliù! Ajeressera ô san Paolo, ‘nnante a cquarantamile spettature, ‘o Napule jettaje dint’â mmunnezza n’ati dduje punte e ‘mmece ‘e vencere comme fosse stato nicessario e era pussibbile c’ êttem’ ‘accuntentà ‘e ‘nu gramu punticiello e ffove acqua ca nun leva sete, visto ca ce ne fosseno servute tre pe sfruttà a mmestiere e pp’apprufittà d’’e ccarocchie pigliate dâ vecchia zoccola p’’e mmane d’’e crifune. E cquanno ce ricapita n’ata accasiona e cheste? Quanno?! ‘O Napule êsse avuto scennere ‘ncampo cu ‘o sanco a ll’uocchie diciso e ccomme a ssutterrarla sotto a ‘na muntagna d’addaffe (addaffa (gol)) i a ffarene purpette d’’a scuatra ‘e culo-‘e-chiummo, deciso a ffarla ascì chiagnenno dô campo a cchella scuatra assineja (satellite) d’’a vecchia zoccola, ‘mmece jette a ffernì ca a cchiagnere fovemo nujaute ‘ntribbuna divano, mentre ‘e gghiastemme saglieveno ê ciele vedenno ‘e nuoste ca ggiravano a vvacante aizanno porvere, tutte cu ccosce mosce, sbandanno senza teleje (idee), nun cercanno ‘a porta e nun truvannola maje allimmeno nsi’ ô 42’ quanno finalmente Insigne se ‘nventaje ‘nu bbellu tiro a ggiro ‘a fora e ffuttette a cConsigli!Però da chillu mummento a gghì ‘nnante ‘o Napule quase s’accuntentaje e nun cercaje ‘e nchiudere ‘a mubbara (partita) comme pure fosse stato nicessario datose ca ‘o Sassuolo nun ce stette a pperderlo ‘o sibbacco ( match) e abbiaje a ccercà ‘o pareggio cu tutt’’e fforze jucanno ‘a mubbara (partita)d’’a vita, comme fanno tutt’’e scuatre ca jocano contro a nnuje e cquanno Di Francesco se rennette cunto ca Matri, Missiroli e rRagusa sotto ô Vampiro i a Koulibalý steveno facenno palla corta,ô 70’ levaje a mMissiroli [ca pure era stato ‘o cchiú ppericuluso cuglienno ll’alafachía (traversa) cu ‘na cabbesera (colpo di testa) ‘a fora]e ffacette trasí a dDefrello; nun ll’avesse maje fatto! Fove ‘a mossa justa pe lloro pecché arrivate a ll’87’ dalle e ddalle ‘o cucuzziello addiventa tallo, fove proprio Defrello a ffarece chiagnere recuglienno ‘nu iabbro (cross) da dritta e ‘nfilannose ‘nfra ‘o Vampiro [‘mpignato a ccuntrullà Matri] i a Hysaj [ca ‘mmece durmeva cu ‘a zizza ‘mmocca e nnun ‘o jette a nchiudere] mettette palla ê spalle ‘e Reina ca nun avette manco ‘o tiempo ‘e dicere: “Maronna ajuteme!” e pputette sulo recogliere ‘a palla ‘nfunno ô sacco. Tutto chesto p’’a cunzulazzione ‘e troppi cestarielle ca ce vonno male e ‘mprimmose ‘e ggiggino uocchie-stuorte e de ll’ armuillacco (telecronista) ‘e SKY ca ce tiraje ‘e piere pe tutt’’o sibbacco (match) e pp’’a cuntentezza ‘e ll’arbitro Valeri (4) e ppo ve dico. Passammo ê ppaggelle: REINA 5 Tenette poco o niente ‘a fà, fove salvato da ll’alafachía (traversa) ‘ncopp’â cabbesera (colpo di testa) ‘e Missoroli, ma nun riuscette manco a ttentà quaccosa ‘ncopp’a ll’ aristurgimmo (capolavoro) ‘e Defrello pe ll’unicu tiro arrivato dint’â murra (specchio) d’’a porta... E cche saciccio! HYSAJ 4,5 Sí nun appena accumminciato avette ‘nu paro ‘e cauciune [nun sanziunate ‘a Valeri] ca lle mettetteno paura i ‘o cundizziunajeno pe tutt’’o sibbacco (match) custringennolo a nnun appressurà (spingere) comme êsse saputo fà, ma arrivate a ll’87’ [proprio quanno avesse avuto stà cu ttante d’uocchie apierte] s’addurmette cu ‘a zizza ‘mmocca e nun nchiudette ‘ncuollo a Defrello cunzentennolo ‘e fà chello ca vuleva. E cchisto è ‘nu peccato murtale ca nun le pozzo perdunà! CHIRICHES [‘o Vampiro] 6– Nun pozzo metterle ‘o seje chino pecché si se cumpurtaje a mmestiere mettenno ‘a musarola a mMatri, ‘nnaccasiona ‘e ll’ addaffa (gol) ‘ncassato dô Napule, visto Hysaj steva durmenno, êsse avuto lassà perdere a ll’ècchese juventino pe gghí a nchiudere isso ‘nucollo ô nassía (attaccante) d'armaria (scorta) verde e nniro KOULIBALY 6,5 ‘Nu muro ‘mpussibbile ‘a surpassà: cancellaje a cchi capitaje capitaje dê pparte soje e puggiaje (rilanciò) ll’azziona. STRINIC 5,5 Se facette apprezzà quanno appressuraje (spinse) ‘ncopp’â curzia soja, ma a ll’epata diffaja (in fase difensiva) nun me piacette troppo. ALLAN 6 Uno d’’e poco a essere zéruso e mmuttano (dinamico e propositivo), tiraje ‘a carretta pe tutto ‘o siddaffo (match) e sfresaje (sfiorò) ll’ addaffa (gol) d’’o doje a uno cu ‘nu tiro-iabbro (tiro-cross) streuzo.Nun avastaje. Peccato! JORGINHO 6- Nun pozzo metterle ‘o seje chino pecché détte sulo quacche ssignale ‘e nadda (ripresa), ma nun fove ancòra ‘o pierno d’armidanno (centrocampo) ca ce serve[dô78’ DIAWARA sv] HAMSIK 6,5 Ll’êsse miso pure ‘e cchiú si se fósse fatto vedé cchiú assaje sotto porta a ccercà ‘o stuco (rete), ma nun ‘o ffacette accuntentannose ‘e jucà a ttutto campo i a ddà quacche bbona palla longa comme a cchella p’ Insigne ‘nnaccasiona ‘e ll’ addaffa (gol)! CALLEJON [Peppe ‘a ‘nguenta] 6,5 ‘Nu rilorgio sguizzero priciso e ppuntuale; se dimustraje essere sustanziale servenno ‘na cifra ‘e pallune ‘mmitante p’’e cumpagne e ffove assaje sfurtunato quanno cu ‘na granna rasulata facette cacà sotto a cConsigli superannolo, ma po êtt’’a vedé ‘o pallone sbattere contr’ô palo e schizà fora! Che peccato! GABBIADINI 4 E ll’aggiu trattato! Niente ‘a fà, nun è proprio ‘a tempurata (stagione) soja. Aizaje porvere pe tutt’’o sibbacco (macth), nun cupuliaje (dialogò) maje cu ‘e cumpagne estrajannose dô juoco comme si ‘o fatto nun fósse d’’o suojo,i ‘a primma vota ca cercaje ‘a porta fove addirittura ô cinquantunesimo e ‘int’a cchell’unica accasiona se nn’ascette cu ‘na cosa ca nun se po’ chiammà tiro, ma ca fove ‘na telefonata a cConsigli ca ‘a fermaje senza prubbleme.Seh, seh marcazzo (centravanti)! ‘E suocce se venneno a pporta Capuana a sseje sorde ô mazzo! [ dô 65’ MERTENS [Ciro] 5,5 Miezu zifo (voto) mancante pecché fove fesso. Trasette e ssí cagnaje quase subbeto ‘a museca, ma po smarrunaje quanno facette ‘nu carí (fallo) ca si nun fove fetente, fove inutile e lle custaje d’essere nutizziato (ammonito) ‘a Valeri ca chello steva aspettanno, pe ffarele zumpà ‘a mubbara (partita) ca vene! Ciro, Ciro ‘nu scugnizzo ‘sti ccose nun ‘e ffa!] INSIGNE 6,5 Nun lle pozzo mettere ‘e cchiú pecché è overo ca facette ‘nu bbuonu primmo ajone (tempo), cunfermannose doppo ‘a pareglia (doppietta) cunzignata a ll’Udinese, mettenno dinto ll’ addaffa (gol) ‘ e ll’illusione cu ‘na bbella ‘mmenzione a ggiro... è ttutto overo, ma po pe ttutta ll’arrancua (ripresa) lle mancajeno saffeneja ( lucidità) e ttaca (energia) pe nchiudere ‘a prattica ‘nnantepíseto (contropiede). [da ll’86' GIACCHERINI sv]. All. Maurizio SARRI 4,5 Si nun se vence soprattutto ‘ncasa, ‘a sfarma (colpa) è ‘mprimmose d’’o mutarribbo (allenatore) ca nun se sape ‘mmentà niente ‘e nuovo pure ‘ncorzo ‘e mubbara (partita) e sse ‘nfessisce cu ‘o solito juoco ca tutte ànnu sgamato e nnun serve cchiú a nniente, comme nun serve a ffà ‘o juoco spettaculare ca nun quaglia pecché nun stammo ô zirco (circo equestre); ‘mmiez’ô campo ‘e juoco s’à dda difennere bbuono, custruí ‘o juoco e ssignà, si è ppussibbile, assaje servennose d’’e ppedine juste e ssi nun ce stanno ‘nu bbuonu mutarribbo (allenatore) à dda trasfurmà a cchelle ca tene sfruttannone ‘e caratteristiche d’armaddia (fisico)d’ognuno: te manca ‘nu marcazzo (centravanti), ma tiene cchiú ‘e ‘nu centromediano auto pussente e fforte ‘e cabbesera (testa)? E spuostane uno annante e mmiettolo a ffà spazzio a cchella bbanda ‘e bbassotti senza saluta ca tiene lla ‘nnante! Tutto chesto Sarri nun ‘o ffacette ajere e fforze nun ‘o ssape fà fissato cumm’è cu ‘e ttaleje (idee) soje! Arbitro VALERI 4 E nun va cchiú ‘e tanto! Durante ô primmo ajone lassaje correre troppi carí (falli)’e ll’emiliane nun cecanno a vvedé tutte ‘e ffetenzie ca facevano i ‘e mmazzate ca menaveno tenennose dint’â sacca cchiú ‘e ‘nu cartellino jalizzo (giallo), caputiaje paricchi carí (falli) siscanno a ccapocchia contro ê cuane (azzurri) e ddànno ‘a ‘mpressione d’essere stato mannato, romano de Roma a rromperce ‘o pasticciotto i ‘o ttentaje ‘e fà cu ttutte ‘e mezze, peffino mettennose pe ‘mmiez’ê piede d’’e nuoste a ‘mpicciarle e cumpletaje ll’opera cu ‘na tuffa (capolavoro) chillo ‘e nutizzià (ammonire) ô primmo carí íardo (veniale) ‘e Ciro sapenno ch’era ggià íattico (diffidato) pe ffarelo zumpà ‘a mubbara (partita) ca vene cu ll’Intèrre! Ca ll’ànn’accidere e nnun ll’ànn’ ‘a pavà a isso i a cchi ‘o mannaje cca! E fermammoce cca ddannoce appuntamento, si dDi’ vo’ a sàpato ca vene doppo d’’o scontro casalinco contro a ll’interiste ca certamente viernarí veneno cca a ffà ‘a mubbara (partita) d’’a vita! E speranno ca ve pozzo cuntà bboni ccose! Staveti bbe’. R.Bracale Brak

lunedì 28 novembre 2016

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1 Dà zizza 'e vacca pe tarantiello. Letteralmente: dar mammella di mucca per tarantello. La locuzione à una doppia valenza a seconda del significato che si dà al termine tarantello. In una prima accezione tarantIello è un pezzo di carne dato come aggiunta vicino a della carne piú pregiata, al fine di sistemarne il giusto peso. Usandola con tale accezione, figuratamente, la locuzione significa che colui contro cui è rivolta, non si è impegnato molto nel dare il giusto dovuto, ma à rabberciato la prestazione portandola a compimento con l'uso di materiali di scarto. Nel caso che con la voce tarantello si voglia indicare la pregiata pancetta di tonno, figuratamente vuol significare che colui contro cui la locuzione è diretta, si è comportato da gran mistificatore ed imbroglione come chi abbia conferito vilissima mammella di mucca in luogo della dovuta, costosa pancetta di tonno. 2 Mantenímmoce pulite, ca ce stanno 'e ccarte janche! Letteralmente: manteniamoci netti perché son presenti le carte bianche! Id est: Non affrontiamo argomenti scabrosi; teniamo a mente che ci son presenti dei bambini che ci ascoltano ed in loro presenza è sconveniente toccare argomenti che potrebbero provocare domande a cui sarebbe difficile rispondere. 3 Facimmo ammuina! Letteralmente: facciamo confusione. È l'invito a creare il disordine nel quale si possa mestare al fine di conseguire dei vantaggi. La locuzione in epigrafe, sia pure nella forma Facite ammuina dai soliti disinformati e bugiardi storici postunitari si ritiene essere addirittura il titolo di un articolo di un preteso regolamento della marina borbonica del 1841, articolo nel quale si sarebbero indicati i vari modi di fare ammuina; si tratta chiaramente di una voluta sciocchezza tesa a denigrare l'organizzazione e la valentía della marineria di Francesco II Borbone... Per amor di completezza ricorderò che il predetto fantasioso articolo recitava: All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora: chilli che stann' a destra vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a destra: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso: chi nun tiene nient' a ffà, s' aremeni a ccà e a llà. Ò trascritto l’articolo così come l’ò travato in rete,(con tutti gli orrori di ortografia etc.) stampato su di un evidentemente falso proclama reale recante lo stemma borbonico. Non voglio soffermarmi piú di tanto sull’evidente falsità dell’articolo; mi limiterò ad osservare che essa si ricava già dal modo raffazzonato in cui è scritto; è evidente che il capo scarico che lo à vergato, mancava delle piú elementari cognizioni della lingua napoletana: basti osservare in che modo errato sono scritti tutti i verbi, terminanti tutti con un assurdo segno d’apocope (‘) o di una ancora piú assurda elisione, in luogo della corretta vocale finale semimuta. A ciò si deve aggiungere l’incongruo, fantasioso congiuntivo esortativo che conclude l’articolo: s’aremeni, congiuntivo che è chiaramente preso a modello dal toscano, ma non appartiene alla lingua napoletana che usa ed avrebbe usato anche per il congiuntivo la voce s’aremena cosí come l’indicativo; infine non è ipotizzabile un monarca che, volendo codificare un regolamento in lingua napoletana, affinché fosse facilmente comprensibile alle proprie truppe incolte, si rivolgesse o fosse rivolto per farlo vergare a persona incapace o ignorante della lingua napoletana; ciò per dire che tutto l’evidentemente falso articolo fu pensato e vergato dal suo fantasioso autore, con ogni probabilità filosavoiardo in lingua italiana e poi, per cosí dire, tradotto seppure in modo sciatto ed approssimativo in lingua napoletana, cosa che si evince oltre che da tutto ciò che fin qui ò annotato dal fatto che nell’articolo (presunto napoletano) si parla di destra e sinistra, laddove è risaputo che i napoletani, anche i colti, usavano dire dritta e mancina. Sistemata cosí la faccenda del Facite ammuina , torniamo alla parola ammuina e soffermiamoci sulla sua etimologia; a prima vista si potrebbe ipotizzare, ma erroneamente che la parola ammoina sia stata forgiata sul toscano moina con tipico raddoppiamento consonantico iniziale ed agglutinazione dell’articolo la (‘a); ma a ciò osta il fatto che mentre il termine ammoina/ammuina sta, come detto, per chiasso, confusione, vociante baccano, la parola moina (dal basso latino movina(m)) sta ad indicare gesto, atto affettuoso, vezzo infantile; comportamento lezioso, sdolcinato, tutte cose evidentemente lontane dal chiasso e/o confusione che son propri dell’ ammoina/ammuina e lontane dal fastidio che da quel chiasso ne deriva all’adulto che, al contrario, è appagato e gratificato dalle moine infantili o talvolta da quelle femminili; sgombrato così il campo dirò che per approdare ad una accettabile etimologia di ammoina/ammuina occorre risalire proprio al fastidio, all’annoiare che il chiasso, la confusione, il vociante baccano procurano; tutte cose puntualmente rappresentate dal verbo spagnolo amohinar(infastidire, annoiare, addirittura rattristare) e convincersi che l’ ammoina/ammuina altro non sono che deverbali del verbo spagnolo. 4 Tené 'a neve dint' â sacca. Letteralmente: tenere la neve in tasca. Id est: avere o mostrar d'avere grandissima fretta quale quella che dovrebbe portare chi trasportasse della neve tenendola in tasca e volesse evitare di perderla; cosa - peraltro - impossibile giacché basta il calore del corpo per portare alla liquefazione della neve trasportata tenendola in una tasca dei vestiti. Rammento però che con iltermine sacca si fa riferimento anche ai sacchi di iuta usati un tempo per trasportare dai nevai dell'avellinese a dorso di cavallo,nella città di Napoli la neve occorrente per la preparazione dei gelati, operazione che doveva ugualmente compiersi in tutta fretta. 5 A lietto astritto, cúccate 'mmiezo. Letteralmente: in un letto stretto, coricati in mezzo. Il consiglio della locuzione non è quello di sapersi adattare alle situazioni, quanto quello di ricercare in ogni occasione la soluzione migliore; in un letto stretto, perché piccolo o perché già occupato da altri, è consigliabile coricarsi al centro, il posto più sicuro, che può preservare da rovinose cadute laterali. 6 'O scarparo e 'o bancariello: nun se sape chi à fatto 'o pireto Letteralmente: il calzolaio e il deschetto: non si sa chi ha fatto il peto. Icastica espressione che viene usata allorché in una situazione che non presti il fianco a difficili interpretazioni, ci si trovi davanti a qualcuno che non voglia riconoscere la propria responsabilità e mesti nel torbido per scaricare su altri la medesima, anche su chi - per legge di natura - è chiaramente impossibilitato a compiere ciò di cui si intende accusarlo come nel caso dell'espressione in epigrafe un deschetto che manca dello strumento necessario a produrre peti, per cui sarebbe sciocco addebitarli a lui in luogo del calzolaio. 7 'Aruta ogni mmale stuta. Letteralmente: la ruta spegne ogni male. E' pur vero che l'erba ruta fu, temporibus illis usata come panacea per un gran numero di mali dalla epistassi alla verminosi etc. etc., ma posto che con il termine aruta in napoletano si intende anche il danaro, è piú probabile che la locuzione voglia significare che con il danaro si posson sanare tutti i mali, sia fisici che morali 8 'E ditte antiche nun fallisceno maje. Narcisistica espressione con la quale si vuole intendere che la saggezza popolare espressa per il tramite dei proverbi antichi trova sempre il suo riscontro nella realtà dalla osservazione della quale i proverbi(id est: pro-bata verba =parole provate)prendono il via. 9 Chi vo’ bbene ô maríto, veve 'ncopp'a ll'acíto. Letteralmente: chi vuol bene al marito beve anche in presenza di una crisi di acidità gastrica.Id est: il bene coniugale fa superare ogni avversità, anche a costo di sacrificio quale è quello di bere in presenza di una crisi di stomaco con versamento acido.L'acíto di per sé sarebbe l'aceto di vino, ma nella locuzione sta ad indicare quel succo scre che produce lo stomaco spesso a seguito di cattiva digestione(e dunque piú correttamente dovrebbe leggersi àcito= acido e non acíto= aceto, ma leggendo àcito e non acíto verrebbe meno la rima con maríto, per cui il proverbio è stato tramandato nella forma in epigrafe operando una piccola forzatura di significato della voce acíto. 10 'E cunte a lluonghe addeventano sierpe. Letteralmente: i conti che si protaggono diventano serpenti. Id est: i debiti a lunga scadenza diventano velenosi come i serpenti. La locuzione stigmatizza in modo conciso la piaga dell'usura 11 Ddio nce libbera dê signalate. Letteralmente: Dio ci liberi dai segnati. Id est: Il Cielo ci liberi dalle persone segnate da un difetto fisico ché son coloro che, magari per acrimonia o per un senso di rivalsa verso il mondo, son pronti a commettere, in danno del prossimo, azioni riprovevoli. La locuzione partenopea ripiglia ad un dipresso l'antico motto latino: Cave a signatis!(attenti ai segnati). brak

GIORNALISTA

GIORNALISTA Questa volta è stato il caro amico N. B. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a chiedermi via e-mail di chiarire a suo benificio e d’altri amici, come si rende in napoletano il termini italiano in epigrafe. Gli ò cosí testualmente risposto: a Napoli, per connaturato umorismo nel linguaggio popolare della città bassa, il termine GIURNALISTE [denominale di giurnale] è usato per riferirsi a gli edicolanti, cioè a coloro che in un'edicola vendono i quotidiani ed altre riviste; quelli che li vendono per istrada e di porta in porta, cioè gli strilloni sono indicati con il termine STRELLAZZARE [deverbale del lat. med. stridulactiare addizionato del suff.pl. are che continua nel sg. aro il lat. arius→aro/ero suff. di competenza per sostantivi o aggettivi derivati dal latino o formati in napoletano, che indicano oggetti,ma soprattutto mestieri]; infine i redattori dei giornali sono detti ironicamente 'e PENNARULE pl. del sg. pennarulo[dal lat. pennariŏlum] che di per sé è l'astuccio ligneo contenitore di penne; il motivo di riferire il nome dell'astuccio a chi, per professione, scrive per i giornali, e chi collabora, come redattore, alla loro compilazione, ai giornalisti cioè sta nel fatto che sin dai tempi di Ferdinando II,che li riteneva imbrattacarte e scribacchini ed a lui si deve l’icastico traslato,i giornalisti solevano girare armati di un congruo numero di penne, tali quali gli astucci in cui le penne son riposte e conservate. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico N.B. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est. Raffaele Bracale

‘O SEJE E VVINTIDOJE

‘O SEJE E VVINTIDOJE Ad litteram: Il sei e ventidue. Fu la testata di un settimanale inviso al fascismo,giornale umoristico, fondato a Napoli nel 1913 da Francesco Bufi, capostipite di una famiglia di giornalisti il quale intendeva accomunare nella testata i due numeri che nella morfia napoletana indicano rispettivamente l’organo riproduttivo femminile [6] e quello maschile [29], ma per non incorrere negli strali della censura optò per 6 e 22 rispettivamente [6] l’organo riproduttivo femminile e [22] ‘o pazzo lasciando alla pronta fantasia del popolo napoletano di operare l’originario divertente collegamento evitato servendosi della rima tra il termine ‘o pazzo e quello, taciuto,ma ben noto al popolo tutto dell’organo riproduttivo maschile. Il successo ottenuto dal settimanale fu enorme e si acuí maggiormente allorché, come riportato anche da Matilde Serao ne “Il Ventre di Napoli” non ci fu popolano che non giocasse al lotto l’ambo 6 e 22 che una volta che sortí dall’urna delle estrazioni procurò un ennorme danno al governo costretto all’esborso di circa due milioni di numerosissime piccole vincite di cinque e dieci lire e forse fu per questo e non tanto per la satira di cui era oggetto che Mussolini vendicandosi, ordinò la chiusura del settimanale. Brak

INQIETARE, IMPORTUNARE, INFASTIDIRE & dintorni

INQIETARE, IMPORTUNARE, INFASTIDIRE & dintorni Questa volta prendo spunto da una richiesta fattami da un caro amico,P.G.(motivi di riservatezza mi impongono le sole iniziali delle generalità) facente parte della Ass.ne Ex Alunni del Liceo classico G.Garibaldi di Napoli, per parlare delle voci italiane in epigrafe ed illustrare a seguire quelle che le rendono in napoletano. Entriamo súbito in medias res e troviamo: inquietare v. tr. 1 rendere inquieto; turbare, preoccupare: pensieri che inquietano l'animo 2 (ant.) vessare, perseguitare, irritare, spazientire inquietarsi v. intr. pron. 1 (non comune) mettersi in ansia per qualcosa; preoccuparsi 2 irritarsi, spazientirsi: si inquieta con tutti per un nonnulla. Quanto all’etimo è un verbo derivato dal lat. inquietare, deriv. di inquietus 'inquieto'; importunare v. tr. dar fastidio, disturbare, recare molestia: specialmente con richieste ripetute: importunare una donna, infastidirla con un eccesso di galanteria o con apprezzamenti sconvenienti | in formule di cortesia: scusi se la importuno; non vorrei importunarla. Quanto all’etimo è un verbo derivato dall’aggettivo importuno che è dal lat. importunu(m), comp. di in- 'non' e (op)portunus 'opportuno'; infastidire v. tr. dar fastidio, disturbare, recare molestia: 1 recare noia a qualcuno: infastidire gli altri con le proprie lamentele 2 (ant.) provare ripugnanza per qualcosa; avere a noia ||| infastidirsi v. intr. pron. seccarsi, perdere la pazienza: s'infastidisce per cose da nulla. Etimologicamente è verbo derivato dal sostantivo fastidio con il prefisso di un in illativo; fastidio è dal lat. fastidiu(m) 'ripugnanza, disdegno', probibile contaminazione di fastus 'orgoglio' e taedium 'noia, disgusto'. I limitati verbi dell’italiano or ora illustrati trovano nel napoletano numerosissimi e forse piú precisi alleati che sono: abbafà v. intr. che in primis vale: inaridire, alidire, insecchire, riardere per effetto dell’eccessivo calore; per traslato vale: tediare, seccare, importunare che è del comportamento tipico delle persone fastidiose che si appiccicano addosso tal quale un’aria greve e calda; quanto all’etimo si tratta d’un denominale del sostantivo d’àmbito laziale e romano bafa collaterale di afa = calore eccessivo, alidore fastidioso; fruscià v. intr. e trans. che in primis vale fluire, scorrere copiosamente; per traslato vale: molestare, contristare, importunare (che è del comportamento tipico delle persone fastidiose) ed ancóra dissipare, sciupare; nella forma riflessiva frusciarse vale: affannarsi, affaccendarsi, pavoneggiarsi, darsi importanza (che è del comportamento tipico delle persone che affaccendate a fare alcunché, non ànno voglia e tempo di accorgersi degli altri ritenuti inferiori;) quanto all’etimo si tratta d’un derivato del lat. frustiare; ‘ncuità v. trans. in primis vale: Inquietare, dar fastidio a ql.cn, e poi anche: beffeggiare, fare, giocare una beffa a qualcuno, canzonare, deridere; la forma riflessiva ‘ncuitarse vale adirarsi, irritarsi; quanto all’etimo si tratta d’un verbo denominale formato partendo da un in→’n distrattivo + il lat. quietus=quieto, tranquillo e cioè incuitare/’ncuità sta per toglier la quiete, la tranquillità; adafarse v.bo intrans. desueto, usato quasi esclusivamente nella forma riflessiva a margine nel significato primo di sbuffare,smaniare e poi in quelli traslati di infastidirsi, infuriarsi,spazientirsi; il significato primo fa riferimento all’atteggiamento tenuto da chi in preda ad un attacco di eccessivo calore, soffi, ansi, ansimi finendo per seccarsi, spazientirsi, irritarsi; etimologicamente è voce denominale di afa =aria soffocante (dal greco aphê piú che da un non attestato latino parlato *(b)afa) sbaní v.bo intrans. desueto, usato in primis nel senso di 1 svanire, venir meno; e poi 2 vaneggiare, farneticare, sragionare, sconnettere, delirare, dare i numeri; ed infine nel senso traslato che ci occupa di innervosire, stizzire, indispettire, seccare, scocciare che è ciò che fa chi sragioni, sconnetta, deliri. etimologicamente è voce denominale del lat. vanum con protesi di una s intensiva ed alternanza v→b (cfr. varca→barca - vaso→bacio, botte→votta etc.) crucifiggere v.bo trans. desueto nell’accezione figurata, usato in primis nel senso di 1 sottoporre al supplizio della croce 2 (fig.) tormentare, assillare seccare, infastidire, irritare etimologicamente è voce dal lat. crucifigere, da cruci+ figere 'affiggere alla croce' ‘nfanfarí v. trans. che in primis vale: Inquietare, dar fastidio a ql.cn, e poi anche: frastornare,stordire, intontire; quanto all’etimo si tratta d’un verbo denominale formato partendo da un in→’n illativo + il s.vo fanfaro/’nfanfaro = fanfarone, smargiasso, millantatore etc. che è a sua volta dallo spagnolo fanfarrón con tipica riduzione della erre come càpita ad es. nell’italiano caricare che è dal lat. *carricare (da carrus): il napoletano carrecà conserva invece la doppia di *carricare; ‘nfardà v. trans. che in primis vale:Insozzare,sporcare e poi anche ripiegare e cioè dare luogo all’operazione detta infaldatura, operazione finale nella produzione dei tessuti, consistente nel piegare in falde sovrapposte la pezza del tessuto; quest’ultima accezione che compendia un’azione lunga, noiosa e fastidiosa, spiega semanticamente il passaggio del verbo a margine al significato di infastidire, dar fastidio; il verbo ‘nfardà deve il suo significato primo di insozzare, sporcare al fatto che etimologicamente è verbo ricavato da un in (illativo) + il s.vo farda che in napoletano con etimo dall’ ant. francone fard vale escremento, sterco; il passaggio ad infaldatura è dovuto invece alla confusione popolare del s.vo farda←fard con farda (falda) che è dal gotico falda= piega ‘nfettà v. trans. che in primis vale:Infettare, contaminare; e poi annoiare, infastidire; etimologicamente è verbo dal lat. infectare 'avvelenare, turbare', deriv. di infectus; il passaggio semantico tra primo e successivi significati si spiega intuitivamente: ogni contaminazione, ogni infezione procura noia e fastidio…; scuccià v. trans. e riflessivo che vale: dar noia, fastidio ed esattamente rompere, sia pure figuratamente, la testa; scocciarsi v. intr. pron. seccarsi, annoiarsi; etimologicamente è verbo da un ex + coccia (cranio, testa) derivato da un lat. reg. cocia→coccia per cochlea= guscio della conchiglia concavo come il capo; sfastedià v. trans. e riflessivo che vale: infastidire, disturbare, importunare sfastediarse v. intr. pron. annoiarsi; etimologicamente è un denominale del lat. fastidiu(m)= noia, tedio addizionato in posizione protetica di una s intensiva; sfruculià verbo trans. infastidire, stuzzicare, punzecchiare tediosamente. Si tratta di un verbo della parlata napoletana, pervenuto poi nell’italiano,stranamente senza alcun adattamento (di solito i napoletanismi (cfr. ad es. scustumato→scostumato)mutano le chiuse u nelle piú aperte o ) nel significato di tediare, infastidire, punzecchiare, stuzzicare e simili. Illustro qui di seguito la piú famosa locuzione partenopea costruita con il verbo a margine: Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante, quasi sbreccandone dei pezzetti. La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un attento e severo servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto, durante un suo soggiorno veneziano da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi ( 1700 ca), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque il bastone in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare a l’infastidire; stunà v. trans. e riflessivo che vale in primis:stordire con logorrea e/o eccessivo volume di voce, poi turbare, sconcertare ed infine rintronare,tramortire colpendo alla testa con un colpo;va da sé che lo stordire o il turbare comportino l’annoiare, il seccare, l’infastidire; stunarse v. intr. pron. seccarsi, annoiarsi;con altra valenza piú restrittiva il verbo stunà vale stonare, fare stecche (nella musica o nel canto).Etimologicamente il verbo a margine è un derivato del fr. étonner 'stupire', dal lat. volg. *extonare; mentre per la valenza relativa al canto si può accettare una derivazione dal s.vo tono con la protesi di una esse distrattiva: perdere il tono; stuzzecà v.tr. 1 toccare, frugare qua e là, spec. con un oggetto sottile e appuntito; toccare insistentemente, provocando irritazione, dolore; 2 (fig.) eccitare, stimolare; 3(fig.ed è il caso che ci occupa) molestare, irritare, punzecchiare; 3 (fig.) eccitare, stimolare; Per nulla tranquilla la questione etimologica del verbo a margine: per alcuni sbrigativamente si tratta di una voce onomatopeica, ma nessuno si perita di chiarire donde deriverebbe tale gratuita,supposta onomatopea, per cui mi pare che questa che parla d’onomatopea, sia idea da scartare; come pure mi pare da scartare l’idea che chiama in causa un non attestato lat. *tudiare (da tudes= martello) con una sovrapposizione di un longobardo stuzzian (=?): troppo arzigogolata e poco dimostrabile!...Come arzigogolata o troppo fantasiosa e poco dimostrabile o significativa è una ipotizzata derivazione dall’ a.a. tedesco stôzen(=?); ugualmente è – a mio avviso – da dirsi troppo arzigogolata e poco dimostrabile, oltre che molto fantasiosa quella che propose il Caix che pensò a non attestati *stoccicare/*stozzicare che ipotizzò derivati da stocco=arma bianca piú corta della spada, con lama piú stretta e a sezione triangolare, per ferire di punta. Tutto sommato, a mio avviso, se si vuole evitare di arrendersi ad un etimo sconosciuto lavandosene le mani, meglio mettersi sulle orme del D.E.I. e pensare a questo stuzzecà come ad un iterativo di tuzzà = urtare, sbattere contro etc.(derivato da un *tuccjare→tuzzà con cj→zz come alibi per allazzà – curazza etc.) iterativo rafforzato da una esse durativa in posizione protetica: da tuzzà→tuzzecà e poi stuzzecà nel significato di urtare ripetutamente e dunque molestare, irritare, punzecchiare; zucà v. trans. in primis vale: succhiare, suggere, poppare per traslato sta per seccare, infastidire, tediare; quanto all’etimo di questo verbo (per il quale è facilmente intuibile il collegamento semantico tra i primi significati e quelli traslati,) tutti concordemente parlano di una derivazione da un *sucare (denominale di sucus che diede anche un suculare donde succhiare). Giunto a questo punto e prima di porre un punto fermo voglio rammentare un’usatissima, icastica quantunque becera – se non volgare - espressione partenopea che vale incollerire, stizzire, indispettire, innervosire, spazientire, sdegnare, infastidire, tediare lungamente e ripetutamente; essa suona: rompere/scassà ‘o cazzo espressione usata quasi del tutto nella forma esclamatoria: Me/ce staje rumpenno/scassanno ‘o cazzo! o in quella intimidatoria: Nun mme rompere/scassà ‘o cazzo! ambedue espressioni da intendersi ovviamente in senso figurato atteso che chi stizzisca, indispettisca, innervosisca,o spazientisca il suo prossimo non gli rompe e/o lesiona materialmente l’appendice anatomica; tuttavia la locuzione semanticamente si comprende se si penza che colui/colei che importuna qualcuno con un atteggiamento fastidioso e/o tediante possa indurre o induca il tediato ad usare nei suoi confronti la piú oltraggiosa punizione ipotizzabile, quella cioè di sodomizzarlo/a per modo che la vittima dell’ipotizzata pratica sodomitica finisca per arrecar ulteriore molestia al sodomizzatore procurandogli una reale lesione dell’asta! Ma che si tratti di espressione figurata lo si ricava anche dal fatto che la locuzione si può cogliere non solo sulle labbra di uomini, ma anche di donne scurrili che sono ovviamente sprovviste dell’appendice de qua! Espressione analoga a rompere/scassà ‘o cazzo ancorché piú becera è quella dittante cacà ‘o cazzo espressione anche essa usata quasi del tutto nella forma esclamatoria: Me/ce staje cacanno ‘o cazzo! o in quella intimidatoria: Nun mme/ce cacà ‘o cazzo! Anche questa locuzione è da intendersi ovviamente in senso figurato in riferimento a chi stizzisce, indispettisce, innervosisce,o spazientisce il suo prossimo al segno che il tediato è spinto ad usare nei suoi confronti la piú oltraggiosa punizione ipotizzabile, quella cioè di sodomizzarlo/a per modo che la vittima dell’ipotizzata pratica sodomitica per liberasi dell’appendice anatomica che lo vilipende debba figuratamente evacuarlo a mo’ di feci rompere v.bo trans. 1 fare a pezzi, mandare in frantumi, sbreccare; 2spezzare, spaccare sfasciare, rovinare, distruggere; voce dal lat. rumpere; scassàv.bo trans. 1 fare a pezzi, mandare in frantumi, sbreccare; voce dal latino ex-quassare=scuotere fino alla rottura 2 (fam.come nel caso che ci occupa ) rompere, rendere inutilizzabile: cacà v.bo intr. e tr. [ dal lat. cacare] – Espellere le feci, defecare; cacarse sotto (cacarsi sotto), anche fig., avere gran paura;cacà sanco (cacar sangue), per dissenteria (fig., faticare duramente, ottenere qualche cosa con grande sforzo). 3 (agr.) lavorare, dissodare il terreno in profondità voce dal latino ex-quassare=scuotere fino alla rottura; cazzo s.vo m.le1(in primis ) membro virile, pene 2 (fig.) persona sciocca, minchiona; testa di cazzo, (fig.) imbecille, minchione 3 (fig.) nulla, niente: voce del gergo marinaresco dal greco (a)kàtion = albero della nave); è ovvio l’accostamento semantico tra l’albero della nave ed il pene in erezione. E qui penso proprio di poter mettere un punto fermo: satis est. Raffaele Bracale